Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2021-03-29, n. 202102600

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2021-03-29, n. 202102600
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202102600
Data del deposito : 29 marzo 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 29/03/2021

N. 02600/2021REG.PROV.COLL.

N. 04153/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4153 del 2020, proposto dai signori avvocati V C, N C, C G, F M, P M, M N, I S, E N T e D Z, rappresentati e difesi dall’avvocato G L R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

contro

- il Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati G M, M S e G C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
- il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
- la Fondazione Scuola Superiore dell’Avvocatura – Sezione Scuola Superiore dell’Avvocatura per Cassazionisti, in persona del legale rappresentante p.t., non costituitasi in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, n. 11477/2019, resa tra le parti.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consiglio Nazionale Forense e del Ministero della Giustizia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2021 – tenutasi con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 137 del 2020 – il consigliere Silvia Martino;

Uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati G L R, G M e M S;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto innanzi al TAR per il Lazio i signori V C e consorti impugnavano il Regolamento del Consiglio Nazionale Forense n. 1 del 20 novembre 2015, adottato ai sensi dell’art. 22 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, avente ad oggetto la disciplina dei corsi per l’iscrizione all’ “ Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori ”, pubblicato sul sito istituzionale del Consiglio Nazionale Forense a decorrere dal 14 dicembre 2015.

1.1. Essi impugnavano, altresì, il bando per l’ammissione al corso propedeutico all’iscrizione nell’Albo speciale, indetto in base alle citate disposizioni, pubblicato sulla GURI, 4^ serie speciale, Concorsi ed esami, n. 4, in data 12 gennaio 2016.

1.2. Gli appellanti deducevano:

1) Disapplicazione e/o incostituzionalità dell’art. 22 della legge n. 247/2012, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 41 Cost., degli artt. 10, 11 e 117, comma 1, Cost. e, per il loro tramite, dei principi di cui all’art. 101 del TFUE, degli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in relazione al divieto di non discriminazione. Violazione del principio di parità di trattamento e non discriminazione a contrario di cui all’art. 53 della legge 24 dicembre 2012, n. 234. Illegittimità derivata e/o conseguente nullità dell’atto gravato .

2) Incostituzionalità dell’art. 22 1. 247/2012, per violazione dell’art. 3 Cost., del principio del legittimo affidamento “rafforzato” dall’esistenza di un rapporto amministrativo fondato sull’abilitazione già rilasciata. Illegittimità derivata .

3) Incostituzionalità dell’art. 22 della legge 247/2012 per violazione dell’art. 33, comma 5, e dell’art. 41 Cost., per illogicità e irragionevolezza. Illegittimità derivata .

4) Incostituzionalità per violazione e falsa applicazione dell’art. 101 del TFUE, violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., Violazione dell’art. 97 Cost. e dei sottesi principi di imparzialità e buona amministrazione. Illegittimità derivata .

5) Incostituzionalità per violazione dei principi di imparzialità e trasparenza di cui agli artt. 97 e 98 Cost., nella parte relativa alla previsione dei componenti della Commissione. Illegittimità derivata .

6) Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 21 e 22, comma 2, della legge 247/2012. Eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà nonché violazione del principio di parità di trattamento. Nullità e/o Illegittimità originaria .

7) Eccesso di potere per sviamento, illogicità e irragionevolezza, nella parte in cui si prevede che per il superamento della prova (preselettiva) è necessario rispondere correttamente ad almeno due terzi delle domande. Illegittimità originaria.

2. Con ordinanza n. 12856 del 29 dicembre 2016, il TAR per il Lazio, sede di Roma, dichiarava rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all’articolo 3, comma secondo, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 2, della legge n. 247 del 2012, prospettata con il primo motivo del ricorso introduttivo.

2.1. Con ordinanza n. 156 del 2018, depositata l’11 luglio 2018, la Corte Costituzionale rilevava che nelle more del giudizio l’art. 9, comma 2, del d.lgs, n. 96 del 2001 era stato sostituito dall’art. 1 della legge n. 167 del 2017 (Legge europea 2017), risultando, oggi, la disposizione, del seguente tenore: “ L’iscrizione nella sezione speciale dell’albo indicato al comma 1 può essere richiesta al Consiglio nazionale forense dall’avvocato stabilito che dimostri di aver esercitato la professione di avvocato per almeno otto anni in uno o più degli Stati membri, tenuto conto anche dell’attività professionale eventualmente svolta in Italia, e che successivamente abbia lodevolmente e proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal Consiglio nazionale forense, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 ”.

2.2. Con la sentenza oggetto dell’odierna impugnativa, il TAR, oltre a ritenere non più sussistente il requisito della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione dedotta con il primo motivo, in ragione della intervenuta modifica normativa, ha rigettato tutti i restanti mezzi di gravame

3. La sentenza è stata appellata dall’avvocato V C e da alcuni degli altri ricorrenti in primo grado (meglio indicati in epigrafe), i quali hanno articolato le critiche che possono essere così sintetizzate:

I. Error in iudicando: sul primo motivo di ricorso, in relazione alla disapplicazione e/o incostituzionalità dell’art. 22 l. 247/2012, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 41 Cost., degli artt. 10, 11 e 117, comma 1, Cost. e, per il loro tramite, dei principi di cui all’art. 101 del TFUE, degli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in relazione al divieto di non discriminazione. - Violazione del principio di parità di trattamento e non discriminazione a contrario di cui all’art. 53 l. 24 dicembre 2012, n. 234.

A differenza di quanto sostenuto dal TAR la perdurante vigenza dell’art. 8 della l. n. 31 del 1982, determinerebbe una grave disparità di trattamento in capo agli avvocati italiani, a nulla rilevando che tale disposizione sia rivolta a soggetti che esercitano occasionalmente l’attività legale in Italia. E ciò non solo perché il concetto di esercizio occasionale non avrebbe alcuna rigida definizione nella legge - consentendo, di fatto, a un avvocato straniero di patrocinare numerose cause avanti alle giurisdizioni superiori - ma anche perché sarebbe assolutamente privo di giustificazione che a un avvocato italiano con dodici anni di esperienza (ma senza avere superato l’esame qui in contestazione) sia inibito di introdurre anche una sola causa avanti alle magistrature superiori, quando a professionisti residenti in altri Stati ciò sarebbe consentito senza rigide preclusioni numeriche.

Il TAR non avrebbe poi considerato che, in ragione di tale disposizione, l’art. 22 della l. n. 247 del 2012 avrebbe dovuto essere oggetto di disapplicazione, giusta l’art. 53 della l. 24 dicembre 2012, n. 234, secondo cui “ nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea ”.

II. Error in procedendo e in iudicando: con riferimento al secondo motivo di ricorso, erronea individuazione di un presupposto giuridico e omessa pronuncia. - Riproposizione del motivo .

Con il secondo mezzo di gravame era stata censurata, in ragione della presunta violazione dell’art. 3 Cost. e del legittimo affidamento, la portata retroattiva dell’art. 22 cit. la quale, diversamente da quanto ritenuto dal TAR, non è stata affatto espunta dall’ordinamento.

Gli appellanti hanno quindi riproposto il motivo ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a..

III. Error in iudicando e in procedendo: con riferimento al terzo motivo di ricorso, recante incostituzionalità dell’art. 22 l. 247/2012 per violazione dell’art. 33, comma 5, e dell’art. 41 Cost., per illogicità e irragionevolezza: omessa pronuncia.

Gli appellanti hanno poi contestato le statuizioni di cui al capo 4.3 della sentenza impugnata, sia nella parte in cui il primo giudice ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità prospettata con riferimento all’art. 33 Cost., sia nella parte in cui avrebbe omesso di pronunciarsi sulla questione di costituzionalità con riferimento all’art. 41 Cost..

IV. Error in iudicando: sul quarto motivo di ricorso in relazione alla incostituzionalità per violazione e falsa applicazione dell’art. 101 del TFUE, violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., Violazione dell’art. 97 Cost. e dei sottesi principi di imparzialità e buona amministrazione .

Con il quarto motivo del ricorso introduttivo era stata proposta una questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 117 e 97 Cost., nonché 101 TFUE laddove l’art. 22, comma 2, l. n. 247/2012 ha imposto che il corso di preparazione venga organizzato unicamente dalla Scuola superiore dell’avvocatura.

Il giudice di prime cure ha ritenuto il motivo infondato sull’assunto che il CNF svolge funzioni di interesse pubblico.

A tali argomentazioni i ricorrenti oppongono che tali funzioni non implicano anche che al CNF sia necessariamente riconosciuta una riserva assoluta per quanto riguarda lo svolgimento dei corsi di formazione che ben potrebbero essere svolti (a parità di requisiti di docenti) da soggetti privati.

Il CNF potrebbe infatti limitare il suo ruolo a livello di controllo e di coordinamento delle attività formative, oltre che, ovviamente, alla gestione dell’esame finale.

Il riconoscimento di una “riserva” in ordine all’ erogazione dei corsi di formazione, violerebbe l’art. 101 del TFUE, che vieta espressamente le intese restrittive della concorrenza.

Gli appellanti hanno poi criticato la pronuncia nella parte in cui ha omesso di pronunciarsi sulle deduzioni relative alla composizione della Commissione esaminatrice.

Al riguardo, essi hanno richiamato la deliberazione dell’Autorità Antitrust del 3 ottobre 1997, relativa all’esame di abilitazione alla professione forense, nella parte in cui la stessa aveva sottolineato l’esigenza che la composizione della Commissione esaminatrice fosse ispirata al principio di imparzialità.

VI. Error in iudicando: sul sesto motivo in relazione alla falsa applicazione degli artt. 1, 21 e 22, comma 2, l. 247/2012 ed eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà nonché violazione del principio di parità di trattamento.

Gli appellanti avevano censurato il Regolamento anche nella parte in cui, ai fini dell’accesso ai corsi, prescrive, tra gli altri, che gli interessati dimostrino di “ aver svolto effettivamente la professione forense ” (art. 4, comma 2, lett. d ), stabilendo criteri di effettività, tra di loro alternativi quali:

(a) aver patrocinato, negli ultimi quattro anni, almeno dieci giudizi dinanzi ad una Corte di Appello civile;

(b) aver patrocinato, negli ultimi quattro anni, almeno venti giudizi dinanzi ad una Corte di Appello penale;

(c) aver patrocinato, negli ultimi quattro anni, almeno venti giudizi dinanzi alle giurisdizioni amministrative, tributarie e contabili.

Era stata prospettata la violazione dell’art. 22 della l. 247/2012, il quale prevede quale unico requisito di accesso alla scuola l’iscrizione all’albo di otto anni, demandando al regolamento esclusivamente la facoltà di individuare i “ criteri e modalità di selezione per l’accesso ”.

Il CNF non si sarebbe infatti limitato a regolare il test preselettivo ma si sarebbe spinto ad individuare un ulteriore requisito soggettivo di accesso, in contrasto con le indicazioni legislative.

Al riguardo, sarebbe gravemente illogica l’argomentazione contenuta nel capo 4.6. della sentenza impugnata secondo cui “ la previsione di avere effettivamente esercitato la professione forense per un dato periodo di tempo per accedere ai corsi risulta coerente con il diritto di difesa ”.

I ricorrenti non avevano infatti contestato, in sé, la ragionevolezza della previsione, quanto il fatto che il regolamento non fosse autorizzato ad adottarla.

Secondo gli appellanti, è la fonte primaria a stabilire le modalità per accertare l’esercizio effettivo della professione (cfr., l’art. 21, comma 1, della l. n. 247 del 2012), e ad affidarne l’individuazione, in concreto, ad un decreto del Ministro della Giustizia.

Né, infine, sarebbe vero quanto apoditticamente argomentato dal TAR circa il fatto che non potrebbero ipotizzarsi criteri diversi da quelli stabiliti nel Regolamento impugnato.

VII. Error in iudicando: sul settimo motivo di ricorso, in relazione all’eccesso di potere per sviamento, illogicità e irragionevolezza, nella parte in cui si prevede che per il superamento della prova (preselettiva) è necessario rispondere correttamente ad almeno due terzi delle domande .

Il capo 4.7 avrebbe frainteso il reale significato del test preselettivo che non sarebbe quello di “ accertare una piena conoscenza del diritto nelle sue varie branche in capo a soggetti cui sarà affidato nelle sue espressioni definitive il diritto di difesa dei consociati ”, come asserito dal TAR, ma quello di semplice scrematura al fine “ di sfoltire le schiere dei partecipanti ” (cfr TAR Lazio, Roma, Sez. III bis , 16 marzo 2015, n. 4205;
TAR Trentino Alto-Adige, Bolzano, Sez. I, 3 febbraio 2014, n. 27).

La previsione di un test preselettivo, per il cui superamento è necessario rispondere correttamente ad almeno due terzi dei quesiti (non prevedendosi al contrario una maggioranza semplice), sarebbe pertanto illogica e irragionevole, con conseguente illegittimità della norma regolamentare gravata.

4. Si sono costituiti in giudizio, per resistere, il Consiglio nazionale forense e il Ministero della Giustizia.

5. Con memoria dell’8 gennaio 2021, il CNF, oltre a difendersi nel merito, ha articolato un’eccezione di improcedibilità dell’appello, sul rilievo della mancata impugnazione della graduatoria che ha concluso il corso indetto col bando del 2016, impugnato in prime cure.

6. Gli appellanti hanno depositato una memoria conclusionale.

7. Sono state depositate altresì memorie di replica.

8. L’appello, infine, è passato in decisione alla pubblica udienza dell’11 febbraio 2021, ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 137 del 2020.

9. L’eccezione di improcedibilità sollevata dal CNF deve essere rigettata.

Il bando del 2016 era stato impugnato dai ricorrenti solo tuzioristicamente, come reso evidente dal fatto che le censure svolte in primo grado si appuntavano unicamente sul Regolamento varato dal CNF (e, a monte, sulla stessa legittimità costituzionale, sotto più profili, dell’art. 22 del d.lgs. n. 247 del 2012) che essi considerano direttamente lesivo della loro sfera giuridica.

10. Nel merito, reputa il Collegio che il primo giudice, dopo la modifica dell’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 96/2001 e la restituzione degli atti da parte della Corte Costituzionale, abbia pressoché esaustivamente affrontato tutte le questioni residue, con statuizioni che meritano conferma anche in questa sede.

11. In primo luogo, va ricordato che l’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 96 del 2001 è stato sostituito (ad opera dell’art. 1 della legge n. 167 del 2017 -Legge europea 2017), con la disposizione per cui “ L’iscrizione nella sezione speciale dell’albo indicato al comma 1 può essere richiesta al Consiglio nazionale forense dall’avvocato stabilito che dimostri di aver esercitato la professione di avvocato per almeno otto anni in uno o più degli Stati membri, tenuto conto anche dell’attività professionale eventualmente svolta in Italia, e che successivamente abbia lodevolmente e proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal Consiglio nazionale forense, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 ”.

Come rilevato dal TAR, in tal modo il legislatore nazionale ha eliminato la disparità di trattamento precedentemente sussistente fra avvocati formatisi in Italia e avvocati stabiliti in ordine all’accesso all’Albo dei patrocinanti davanti alle giurisdizioni superiori.

Secondo gli appellanti, tale discriminazione sarebbe tuttora perdurante in ragione della vigenza dell’art. 8 della l. n. 31 del 1982, che regola le prestazioni occasionali rese in Italia da professionisti stabiliti in altri Stati membri.

Anche sotto questo profilo, le statuizioni reiettive del TAR debbono essere confermate.

La richiamata disposizione della l. n. 31 del 1982 non rappresenta infatti un idoneo tertium comparationis ai fini del test di ragionevolezza delle disposizioni sospette di incostituzionalità, poiché queste ultime regolano un requisito (l’iscrizione all’Albo speciale) che è specificamente richiesto all’avvocato c.d. stabilito, ma che non è necessario ai fini della libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione garantita dal Trattato.

Come analiticamente argomentato dal TAR “ Tale disposizione, invero, è inserita nella legge che regola la “Libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini degli Stati membri delle Comunità europee”, la quale, per quanto qui interessa, prevede all’art. 1 che sono considerati avvocati i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, abilitati nello Stato membro di provenienza ad esercitare le proprie attività professionali con una delle denominazioni ivi elencate, e precisa, all’art. 2, che detti professionisti sono ammessi all’esercizio delle attività professionali dell’avvocato, in sede giudiziale e stragiudiziale, con carattere di temporaneità e secondo le modalità stabilite dalla norma medesima .

Gli stessi non possono fregiarsi del titolo di Avvocato (ma di quello conseguito nel Paese di origine), e proprio per questo “sono considerati” (e dunque non sono) Avvocati (art. 3);
sono tenuti all’osservanza delle vigenti norme legislative, professionali e deontologiche, ma non di quelle riguardanti il requisito della cittadinanza italiana, il possesso del diploma di laurea in giurisprudenza, il superamento dell’esame di Stato, l’obbligo della residenza nel territorio della Repubblica, l’iscrizione in un albo degli avvocati e l’obbligo del giuramento (art. 4): e, in particolare, proprio per l’art. 8 richiamato dai ricorrenti, per il patrocinio di fronte alle Giurisdizioni superiori non devono essere iscritti nel relativo Albo.

Tali differenze di regime inducono a ritenere che, in questo caso, la comparazione che deve essere condotta al fine di verificare la sussistenza di una eventuale disparità di trattamento avvenga tra situazioni del tutto disomogenee tra di loro;
e che, quindi, tale disparità non possa essere rinvenuta

In primo luogo, per un dato formale: i professionisti comunitari equiparati agli Avvocati non sono Avvocati e non devono (né possono) essere iscritti nei relativi Albi professionali.

In secondo luogo, per un –ben più pregnante- dato sostanziale, che spiega quello formale: secondo la legge n. 31 del 1982, infatti, tali professionisti non possono esercitare stabilmente la professione forense in Italia;
essi possono svolgere (il che è del tutto differente, e illustra la differenza di disciplina) singole ed occasionali prestazioni di patrocinio o consulenza in Italia: si deve ritenere (se si vuole dare un significato concreto alle norme in questione) senza il requisito della continuità.

Ritenendo il contrario, infatti, si tradirebbe il significato letterale dell’art. 2 della legge citata (che espressamente si appella alla temporaneità delle prestazioni).

Al contempo, ci si troverebbe al cospetto di una incoerenza sistematica, in quanto si svuoterebbero di significato e di rilevanza pratica proprio le norme che prevedono e disciplinano la figura dell’Avvocato stabilito in Italia: figura che non avrebbe ragione di essere, se per esercitare stabilmente in Italia la professione forense bastasse uno dei titoli previsti dall’art. 1 della legge n. 31 del 1982. [..] ”.

11.1. A differenza di quanto assumono gli appellanti, i concetti di temporaneità e occasionalità dell’attività professionale trovano poi una precisa definizione normativa alla stregua dei criteri enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 30 novembre 1995, in causa C-55/94, pure richiamata dal TAR.

Secondo la Corte di Giustizia, la temporaneità (o non) dell’attività forense svolta in altro Stato membro si deve valutare tenendo conto della durata, della frequenza, della periodicità e della continuità della prestazione stessa.

Anche per il giudice comunitario sussiste pertanto una rilevante differenza di disciplina fra professionisti che possono esercitare stabilmente in un dato Paese dell’Unione e professionisti che possono farlo solo occasionalmente, in quanto secondo la Corte, un cittadino di uno Stato membro che, in maniera stabile e continua, esercita un’attività professionale in un altro Stato membro in cui, da un domicilio professionale, offre i propri servizi, tra l’altro, ai cittadini di questo Stato, è soggetto alle disposizioni del capo del Trattato relativo al diritto di stabilimento e non a quelle del capo relativo ai servizi.

Inoltre, allorché l’accesso a un’attività specifica, o il suo esercizio, è subordinato, nello Stato membro ospitante, a determinate condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle.

Va ricordato, altresì, che le statuizioni della Corte di Giustizia assumono portata precettiva nel nostro ordinamento, ricevendo puntuale declinazione negli obblighi di comunicazione e nei controlli disciplinati dalla stessa legge n. 31 del 1982, la cui violazione può assumere anche rilevanza penale (cfr. Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 1999, n. 715, in ordine alla configurabilità del delitto di cui all’articolo 348 c.p.).

La disomogeneità delle situazioni poste a raffronto – per le quali vige una disciplina differente, a seconda della occasionalità o stabilità dell’attività – consente, in definitiva, di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale riproposta in sede di appello.

12. Anche il secondo motivo ripropone una questione di costituzionalità, incentrata su una pretesa “ retroattività ” dell’art. 22 della l. n. 247 del 2012, la quale avrebbe leso il canone del “legittimo affidamento”.

Al riguardo, è sufficiente ricordare che, secondo la Corte Costituzionale, il legislatore gode di ampia discrezionalità nel collocare nel tempo le innovazioni normative con l’unico limite che le disposizioni legislative retroattive non possono trasmodare in un regolamento irrazionale di interessi e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti.

Se è vero infatti che nella giurisprudenza della Corte Costituzionale “ il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost .”, tuttavia, in base ai princìpi da essa costantemente ribaditi, tale valore non riveste valenza assoluta e inderogabile. Da un lato, infatti, “ la fiducia nella permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio dev’essere consolidata, dall’altro, l’intervento normativo incidente su di esso deve risultare sproporzionato. Con la conseguenza che «non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti», unica condizione essendo «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto (sentenze n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009» (ordinanza n. 31 del 2011) ” (Corte Cost., sentenza n. 166 del 27 giugno 2012).

Nella fattispecie, deve peraltro convenirsi con la difesa del CNF che la riforma dell’accesso al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori non ha inciso su “diritti acquisiti”, bensì su mere aspettative dei ricorrenti, non potendo ricollegarsi alcun affidamento giuridicamente tutelabile per effetto del mero conseguimento dell’abilitazione “ordinaria” in epoca anteriore all’entrata in vigore delle nuove disposizioni.

E’ peraltro importante sottolineare che il legislatore della riforma ha comunque introdotto anche una articolata disciplina transitoria che salvaguarda la possibilità di conseguire l’abilitazione secondo la previgente normativa, per chi maturi i requisiti nei nove anni dall’entrata in vigore della riforma (cfr. il testo attuale dell’art. 22, comma 4, l. n. 247 del 2012, come da ultimo modificato dal d.l. n. 183 del 2020).

13. E’ manifestamente infondata anche la questione di costituzionalità relativa al preteso contrasto tra l’art. 22 della legge professionale e l’art. 33, comma 5, della Costituzione.

La norma disciplina infatti non l’accesso alla professione forense bensì – più limitatamente - il suo esercizio davanti ai massimi gradi della giurisdizione.

In ogni caso, la richiamata disposizione della Costituzione, nel prescrivere l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni regolamentate, non ha correlativamente garantito un diritto pieno ed assoluto all’esercizio della professione, ben potendo lo Stato prevedere che in alcuni casi ciò avvenga attraverso il bilanciamento con altri valori costituzionali di rango almeno pari o superiore (cfr. Corte Cost., sentenza n. 216 del 18 luglio 2014, relativa all’esercizio della professione di farmacista;
id., n. 166 del 27 giugno 2012, cit. in materia di incompatibilità tra l’esercizio della professione forense e il rapporto di lavoro pubblico a tempo parziale).

13.1. Relativamente alla riproposizione del terzo motivo articolato in primo grado (contrasto della disciplina in esame con l’art. 41 Cost.) non è rinvenibile il vizio di omessa pronuncia di cui i ricorrenti si dolgono. Al riguardo, si rinvia alle argomentazioni attraverso cui il TAR ha sottolineato (capo 3 della parte in diritto) la “ imprescindibile e fondamentale funzione sociale dell’avvocato, che la legge di riforma [...] ha voluto sottolineare come orientata all’attuazione di principi costituzionali [...]”.

Nello stesso senso la Corte Costituzionale, ancora da ultimo, ha rimarcato che la disciplina dell’ordinamento forense ha diretta inerenza all’amministrazione della giustizia e al diritto di difesa (Corte Cost., sentenza n. 179 del 2013).

In tale ottica, le speciali ragioni di rilevanza pubblicistica che giustificano una disciplina ad hoc per l’esercizio dell’attività forense dinanzi alle giurisdizioni superiori rientrano certamente fra le ragioni di utilità sociale che consentono la limitazione per via legislativa della libertà di iniziativa economica.

14. Gli appellanti hanno criticato anche il capo di sentenza con cui il TAR ha respinto il quarto ordine di censure articolato in primo grado.

Secondo il primo giudice, la “ fondamentale funzione della professione forense nella tutela del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione ”, giustifica “ pienamente che a presidio della professione forense vi sia un sistema pubblicistico associativo costituito dal CNF e dagli Ordini forensi territoriali [...] non essendo comparabile lo svolgimento di funzioni pubbliche, con la semplice prestazione di servizi da parte di organismi privati ”.

A tali argomentazioni va solo aggiunto che il richiamo da parte dei ricorrenti alle norme interne ed europee che vietano le intese restrittive della concorrenza nell’esercizio di attività economiche (in particolare l’art. 101 del TFUE e la l .n. 287 del 1990) è inconferente perché le disposizioni in esame, da un lato, non riguardano la disciplina di un’attività imprenditoriale, dall’altro non sono di alcun ostacolo all’eventuale offerta formativa posta in essere da enti e organismi privati finalizzata alla preparazione degli avvocati che aspirino, ad esempio, a superare il test di ingresso previsto dal Regolamento impugnato.

In tal senso, depone peraltro lo stesso precedente richiamato dagli appellanti (Tar Lazio Roma, Sez. I, 25 febbraio 2011, n. 1757).

Tale pronuncia ha infatti ritenuto applicabile l’art. 101 del TFUE ad una fattispecie in cui il Consiglio nazionale di un Ordine professionale non aveva agito nell’esercizio delle “ prerogative tipiche dei pubblici poteri ”, bensì aveva elaborato regole deontologiche dirette agli iscritti, nella sola e specifica veste di associazione di imprese (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238, resa in sede di appello avverso la medesima pronuncia)

L’art. 22, comma 2, della l. n. 147 del 2012, qui in esame, non regola un’attività economica bensì un peculiare percorso di formazione interno alla professione finalizzato (unitamente all’esame finale) ad abilitare gli aspiranti allo svolgimento di specifiche attività, tipiche della professione medesima.

Per quanto riguarda il diverso sistema suggerito da ricorrenti - incentrato su una sorta di “omologazione” e controllo da parte del CNF sullo svolgimento dei corsi di preparazione da parte di organismi privati, con successivo superamento di un esame “pubblico” – è poi evidente che si tratta soltanto di una delle possibili opzioni, al pari di quella effettivamente prescelta, nella sua insindacabile discrezionalità, dal legislatore.

15. Le norme relative alla composizione della Commissione esaminatrice hanno già formato oggetto di scrutinio da parte della Sezione (cfr., tra le altre, la sentenza n. 8283 del 2019).

In tali pronunce si è messo in luce che - a differenza di quanto oggi prescritto per l’accesso alla professione dall’art. 47 della l. n. 247 del 2012 – relativamente alle prove d’esame organizzate dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura per l’iscrizione all’Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, deve ritenersi tuttora vigente, nonché legittimo, il criterio della fungibilità tra le categorie indicate dal legislatore (avvocati, professori universitari e magistrati addetti alla Corte di cassazione);
ciò proprio in quanto la legge ha attribuito al CNF un ampio margine di discrezionalità regolamentare, che incontra il solo limite del reperimento dei commissari tra le categorie indicate, senza alcun specificazione circa il numero complessivo dei componenti stessi ovvero della proporzione relativa fra le varie categorie.

Né, invero, la norma si presta alle censure di incostituzionalità per violazione del principio di imparzialità, riproposte dagli appellanti.

Al riguardo, possono richiamarsi argomentazioni analoghe a quelle spese dalla Corte di Giustizia per escludere che il previgente art. 22 del R.D.L. n. 1578 del 1933, in materia di accesso alla professione, fosse in contrasto con gli artt. 81 CE, 82 CE e 43 CE (Corte di giustizia UE, Sez. II, 17 febbraio 2005, in causa C-250/2003).

In primo luogo, gli avvocati partecipino alle Commissioni d’esame nello svolgimento di una pubblica funzione e non come “ operatori privati ”.

Essi sono nominati dal CNF, cui oggi compete la qualifica di ente pubblico non economico a carattere associativo istituito “ per garantire il rispetto dei principi previsti dalla presente legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela della utenza e degli interessi pubblici connessi all'esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale ” (art. 24, comma 3, della l. n. 247 del 2012).

In secondo luogo, il Ministero della Giustizia dispone di poteri di vigilanza nei confronti dello stesso CNF, e conseguentemente, anche sul corretto funzionamento della Scuola Superiore dell’Avvocatura, dallo stesso istituita (cfr. l’art. 24, comma 3, ultima parte, della l. n. 247 del 2012).

Infine, pure rilevante è la circostanza che “ una decisione negativa della commissione di esame può essere impugnata con ricorso dinanzi al giudice amministrativo ” (par. 35 della cit. decisione del 17 febbraio 2005).

A ciò si aggiunga che, anche in sede europea, è stato riconosciuto che la partecipazione degli avvocati alle Commissione di esame è idonea a garantire l’obiettivo “ di valutare al meglio le attitudini e le capacità dei soggetti chiamati ad esercitare la professione forense ”;
gli avvocati possiedono infatti “ un’esperienza professionale che li rende particolarmente idonei a valutare i candidati rispetto alle esigenze specifiche della loro professione ”;
il che vale a maggior ragione per le competenze richieste ai fini dell’esercizio del patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori.

16. Relativamente al sesto motivo articolato in primo grado e riproposto in questa sede, gli appellanti imputano al TAR di non avere correttamente compreso la portata dei loro rilievi, relativi alla violazione di legge che sarebbe stata perpetrata dal Regolamento impugnato nella parte in cui stabilisce requisiti di ammissione alla Scuola ulteriori rispetto a quello dell’anzianità di iscrizione all’Albo professionale di almeno otto anni.

E’ tuttavia agevole rilevare che la formulazione della disposizione della fonte primaria è di ampiezza tale (“ Il regolamento può prevedere specifici criteri e modalità di selezione per l’accesso e per la verifica finale di idoneità ”) da consentire anche la declinazione datane, in concreto, dal Regolamento in esame.

In tale senso il TAR ha sottolineato che “ la previsione di avere effettivamente esercitato la professione forense per un dato periodo di tempo per accedere ai corsi risulta coerente con il diritto di difesa ” ed in particolare con la “ necessità che l’avvocato sia dotato di solide basi di tutte le principali discipline giuridiche ”, anche in considerazione del fatto che “ a nessun avvocato è precluso di patrocinare davanti a tutte le Corti cause afferenti all’una o all’altra disciplina giuridica: è infatti lasciata unicamente alla responsabilità del singolo professionista la scelta (connotata da profili deontologici) se assumere o non una causa in una materia in cui egli sia più o meno versato ”.

Né è ravvisabile il vizio di incompetenza che gli appellanti ricollegano al fatto che l’art. 21, comma 1, della l. n. 247/2012 conferisce ad un regolamento del Ministro della Giustizia il compito di individuare “ Le modalità di accertamento dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione ” all’Albo professionale.

Tale attribuzione riguarda infatti la disciplina dei requisiti per il mantenimento dell’iscrizione all’Albo professionale e non già, specificamente, quelli richiesti per accedere alla Scuola Superiore dell’Avvocatura.

17. L’ultimo ordine di doglianze riguarda la previsione di un test di ingresso altamente selettivo.

Anche in questo caso la scelta adottata con il Regolamento impugnato non risulta né sproporzionata né irragionevole. Essa va infatti messa in rapporto alla preparazione e alla competenza professionale che è logico esigere ai fini dell’esercizio della funzione difensiva davanti alle giurisdizioni superiori e quindi, come rilevato dal TAR, nell’espressione tendenzialmente definitiva delle istanze di tutela dei consociati.

18. In definitiva, per quanto appena argomentato, l’appello deve essere respinto.

La natura della controversia induce peraltro, anche in questo grado, a compensare tra le parti le spese di giudizio.

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