Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-01-10, n. 201400046

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-01-10, n. 201400046
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201400046
Data del deposito : 10 gennaio 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 01808/2013 REG.RIC.

N. 00046/2014REG.PROV.COLL.

N. 01808/2013 REG.RIC.

N. 01886/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1808 del 2013, proposto da:
A Spain persona del legale rappresentante in carica in proprio e quale Mandataria Ati, Ati-Icla-Impregilo e Costruire Spa, rappresentati e difesi dagli avv. E M, G R C, con domicilio eletto presso E M in Roma, via Guido D'Arezzo 18;

contro

N B, rappresentato e difeso dagli avv. O A, G A, Giuseppe D'Acunto, con domicilio eletto presso G A in Roma, via Terenzio, 7 c/o R. Titomanlio;

nei confronti di

S Spa;
E-Ente Autonomo Volturno Srl, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Della Corte, con domicilio eletto presso Salvatore Della Corte in Roma, via Vittorio Veneto 169;
U.T.G. - Prefettura di Napoli -Ministero degli Interni, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge,;



sul ricorso numero di registro generale 1886 del 2013, proposto da:
N B, rappresentato e difeso dagli avv. G A, Giuseppe D'Acunto, con domicilio eletto presso G A in Roma, via Terenzio N.7;

contro

U.T.G. - Prefettura di Napoli, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
A Spa Capogruppo Ati, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. G R C, Ennio Mri', con domicilio eletto presso Ennio Mri' in Roma, via Guido D'Arezzo N.18;
Ati - Icla Impregilo e Costruire Spa, S Spa;

nei confronti di

Ente Autonomo Volturno, , in persona del legale rappresentante rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Della Corte, con domicilio eletto presso Salvatore Della Corte in Roma, via Vittorio Veneto 169;

per la riforma

quanto al ricorso n. 1808 del 2013:

della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli: Sezione V n. 00570/2013, resa tra le parti, concernente restituzione aree di proprietà - risarcimento danni - mcp

quanto al ricorso n. 1886 del 2013:

della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli: Sezione V n. 00570/2013, resa tra le parti, concernente restituzione aree di proprietà - ris. danni


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di N B e di E-Ente Autonomo Volturno Srl e di U.T.G. - Prefettura di Napoli -Ministero degli Interni e di U.T.G. - Prefettura di Napoli e di A Spa Capogruppo Ati e di Ente Autonomo Volturno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 dicembre 2013 il Consigliere F T e uditi per le parti gli Avvocati A, per delega dell'Avv. Mrì, R C, A, Della Corte e l'Avvocato dello Stato G;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale della Campania – sede di Napoli – ha in parte accolto il ricorso di primo grado in riassunzione notificato il 30 ottobre 2008 e depositato il 5 novembre successivo proposto da B N, odierna parte appellante nell’ambito del ricorso n. 1886/2013 volto ad ottenere la restituzione delle aree di sua proprietà di cui alle particelle catastali nn.1349 e 1352 quartiere Pianura Napoli ed il risarcimento del danno patito a causa dell’illegittima occupazione delle stesse.

Il primo giudice ha, nella parte in fatto della gravata decisione n. 570/2013, ricostruito la complessa vicenda giuziaria per cui è causa.

Ha in proposito evidenziato che - il B era proprietario di un complesso immobiliare sito in Napoli, quartiere Pianura, composto da terreni, fabbricati e capannoni riportati nel Catasto Urbano F.10 mapp. da 108 a 117, nonché 125,401, 402 e riportati nel Catasto Terreni dello stesso Comune al F. 91, part.lle 125,487, 529,631,39 e 500 con ingresso da Via Montagna Spaccata confinante con la Ferrovia Circumflegrea.

Detto complesso immobiliare era stato oggetto di due diversi provvedimenti di occupazione temporanea, (con l’ordinanza n.52 del 13.5.1989 il Presidente della Giunta Regionale della Campania quale Commissario Straordinario del Governo, ex lege n.219/81 dispose l’occupazione d’urgenza di alcune zone della proprietà sopra indicata, puntualmente ed analiticamente descritte in quell’atto;

- con decreto 18.4.1997 n.40262/2 Settore C/1^ del Prefetto di Napoli venne disposta l’occupazione di urgenza di parte degli immobili sopra-indicati, a favore della S.p.A. A in proprio e quale capogruppo di imprese associate).

In seguito, con nota del 20.9.2002, consegnata al B in data 26 settembre 2002, la S a mezzo del concessionario raggruppamento di imprese aveva proceduto all’offerta delle indennità che però non erano state accettate.

Il B insorse innanzi alla Giunta Speciale per le Espropriazioni presso la Corte d’Appello di Napoli, chiedendo la determinazione dell’indennità:la Giunta Speciale con la sentenza 27/03 del 4.12.2003 decise nel merito solo con riferimento all’ordinanza n.52/89 del Presidente della G.R.C. quale Commissario Straordinario di Governo, mentre declinò la propria competenza in favore dell’A.G.O. relativamente a quella parte di domanda tendente ad ottenere la determinazione delle indennità espropriative delle aree e dei manufatti di proprietà dell’attore, occupati in virtù del Decreto Prefettizio n.402662/2^ settore C/1 del 18.4.1997.

Con ordinanza n.449 del 9.12.1993 del Presidente della G.R.C. quale Commissario Straordinario di Governo, era stato precedentemente revocato il vincolo di espropriazione ed il vincolo di occupazione temporanea sulle particelle n.631 e 529 sottraendo così il terreno alla disponibilità dell’ATI A.

Nelle more dell’occupazione da parte della SEPSA e della ASTALDI, quest’ultima società frazionò le particelle catastali in quattro diverse particelle, a tale frazionamento seguì la “Variante” approvata dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti con cui si escludeva dal Piano di Lavoro la zona di cui alle particelle 1349 e 1352.

Con il decreto 4096/1° Sett. B del 7.10.2002 il Prefetto di Napoli pronunziaò l’espropriazione per pubblica utilità in danno del B, ma limitatamente alle particelle 1350 e 1351.

Ne conseguiva che le particelle 1349 e 1352 avrebbero dovuto essere restuite al B medesimo (il che non avvenne) e che sia la SEPSA che la A, entrambe destinatarie degli effetti del richiamato decreto di esproprio versavano in stato di illegittimità nel permanere nella occupazione di zone non espropriate (particelle 1349 e 1352)e non più necessarie ai fini del procedimento ablatorio.

Il B chiese la restituzione dei beni prima occupati e poi dismessi al Tribunale Ordinario di Napoli che dichiarò il proprio difetto di giurisdizione a favore del Giudice Amministrativo sulla restituzione delle aree (trattenendo la causa per la parte relativa alla opposizione alla stima) con decisione confermata dalla SS.UU. della Corte di Cassazione il 4.4.2008 in sede di Regolamento Preventivo di giurisdizione.

Il giudizio venne quindi riassunto innanzi al T.

Il B, aveva quindi precisato le proprie conclusioni, che consistevano nella restituzione delle aree di sua proprietà di cui alle particelle catastali nn.1349 e 1352 quartiere Pianura Napoli ed il risarcimento (da determinarsi anche a mezzo di Ctu) del danno patito a causa dell’illegittima occupazione delle stesse, facendo presente che la restituzione conseguiva alla circostanza che - in data 3 gennaio 2005 il Prefetto aveva comunicato ad A e SEPSA che, dopo il frazionamento in 4 diverse particelle con i numeri 1350,1351 e 1349 e 1352, queste ultime due avrebbero dovuto essere restituite in quanto non più necessarie, con riconsegna immediata al B N.

La mancata restituzione aveva comportato un danno gravissimo all’originario ricorrente, il quale era già titolare del “Programma Integrato in variante al P.R.G.” approvato con Decreto del Presidente della G.R. della Campania del 6 agosto 2001 n.1644 .

Il T, dopo avere disposto una articolata ed approfondita consulenza tecnica, seguita da fitto contraddittorio processuale a chiarimento, ha introitato la causa accogliendo in parte il mezzo di primo grado.

Ha in primo luogo disatteso l’eccezione di difetto di giurisdizione quanto al petitum voto ad ottenere la restituzione delle due particelle, oggi accatastate con i numeri 1349 e 1352.

V’era infatti stata spendita del potere amministrativo, in quanto le dette particelle erano state in origine interessate da una legittima procedura ablatoria e solo la successiva mancata ricomprensione di esse nel decreto di esproprio (un fatto sopravvenuto) ne ebbe a determinare l’indebita ritenzione da parte di A.

Peraltro la Corte regolatrice del conflitto di giurisdizione aveva affertato la spettanza della cognizione della causa al plesso giurisdizionale amministrativo (con ciò confermando la declinatoria del Tribunale Civile di Napoli con sentenza del 13 luglio 2006).

Affermata poi la legittimazione a ricorrere in capo al B (proprietario delle aree asseritamente trattenute indebitamente) e la legittimazione passiva sia di S.E.P.S.A. che di A, (la prima era stata la beneficiaria del procedimento espropriativo, e la seconda, quale concessionaria dei lavori, era tuttora nel possesso delle aree delle quali si era chiesta la restituzione) ha esaminato in primo luogo il petitum restitutorio.

Quest’ultimo è stato accolto, sulla scorta della considerazione per cui le aree delle quali si chiedeva la restituzione erano originariamente ricomprese nelle particelle 631 e 529.

Ben due procedimenti avevano interessato le richiamate due particelle.

Il primo di essi, rivestiva marginale rilievo nell’odierno procedimento: : esso infatto il primo iniziò con ordinanza n.52 del 13 maggio 1989 del Presidente della Giunta Regionale della Campania, Commissario Straordinario del Governo ex lege n.219/81. Se era vero che con questo provvedimento venne disposta l’occupazione di urgenza delle aree di cui al F.91 del Catasto, particelle 125,487, 529,631,39 e 500 per mq. complessivi 1.610, era altresì rimarchevole che le particelle nn.631 e 529 vennero successivamente restituite al proprietario con l’ordinanza n.449 del 9 dicembre del 1993 del Presidente della Giunta Regionale Campania che revocò il vincolo di espropriazione ed il vincolo di occupazione. Dunque, dal primo procedimento alcun effetto di danno, era scaturito tanto è vero ciò che, nel 2001, con riferimento a quelle aree il B poté persino ideare un Programma Integrato di Intervento che non sarebbe stato praticabile là ove sulle stesse, in fatto o in diritto, fossero stati pendenti vincoli connessi al detto procedimento.

Tuttavia venne incardinato un secondo procedimento che iniziò con decreto del 18 aprile 1997 del Prefetto di Napoli che dispose l’occupazione di urgenza di parte degli immobili sopra indicati a favore della S.p.a. A.

In data 14 luglio del 1997 venne redatto il verbale di consistenza e di immissione in possesso dei beni riportati in Catasto al foglio 91 particelle 631, 529,500, 487, 582,1062, 107, 108, 109 e 111 per mq. complessivi 2.921.

In costanza dell’occupazione disposta nel corso di detto procedimento A, quale concessionaria SEPSA – su sollecitazione dello stesso B che contestava l’interferenza della procedura con il già approvato Programma di Intervento Integrato - dispose il frazionamento delle particelle catastali 631 e 529 in quattro diverse particelle, destinando le nn. 1350 e 1351 all’esproprio, ed escludendo dalla procedura ablatoria le particelle nn.1349 e 1352: dopo che era stato disposto il frazionamento, venne approvata una variante con la quale si escludeva dal Piano di Lavoro la zona di cui alle particelle 1349 e 1352.

Senonchè le particelle escluse dall’esproprio non vennero restituite.

Il T ha dato atto che dalle difese della A sul punto, si evnceva una ricostruzione che, senza smentire il dato “storico” nei termini descritti, si sostiene che il frazionamento delle aree, con la suddivisione in quattro particelle e la mancata ricomprensione nell’esproprio delle particelle 1349 e 1352, fu dovuta ad un errore dei consulenti di A, indotto dalla sollecitazione del B.

Al contrario di quanto fu deciso, quelle aree, lungi dall’essere restituite, avrebbero dovuto essere definitivamente espropriate, costituendo “aree di parcheggio a sostegno della Stazione ferroviaria ‘La Trencia’ ”. A sostenne anche in corso di giudizio che quelle particelle avevano subìto, oltre tutto, nel corso del tempo, un’irreversibile trasformazione dovuta all’essere stata su di esse impressa destinazione pubblicistica con conseguente verificazione di effetto traslativo nella proprietà pubblica.

Senonchè tali argomenti erano privi di valenza, in quanto con decreto del 7 ottobre del 2002 il Prefetto di Napoli pronunciò l’espropriazione per pubblica utilità in danno del B, ma soltanto limitatamente alle particelle 1350 e 1351, privando di qualunque ragione giuridica e titolo, il possesso, per contro perdurante, da parte della concessionaria, delle particelle 1349 e 1352.

Nel periodo che dal 18 aprile 1997 all’8 ottobre 2002 le particelle erano state dunque occupate legittimamente perché coperte dai decreti di occupazione ma non furono mai espropriate: ne discendeva che la domanda di reintegro era fondata e doveva essere accolta che essa vada pertanto accolta (neppure la concessionaria A, si opponeva: infatti dopo una prima difesa nella quale aveva sostenuto l’avvenuta irreversibile trasformazione con destinazione pubblicistica, nelle successive memorie aveva sostenuto la possibilità di restituire, appunto, le due particelle e rappresentando la propria disponibilità a consegnarle, tanto che in data 12 novembre 2010 il B, che però aveva rifiutato era stato formalmente invitato a rientrare nel possesso dei beni).

Anche il C.T.U., aveva confermato la praticabilità della restituzione di dette aree.

Il T ha pertanto accolto il detto petitum, sebbene dette aree non si trovino più nelle loro originarie dimensione e configurazione.

Da quest’ultima constatazione circa l’avvenuta modifica delle aree, il T ha fatto discendere pregnanti conseguenze.

Ha disatteso l’eccezione della A (secondo cui non andava risarcito il danno da illegittima occupazione, dal momento dell’offerta di restituzione, avvenuta nel novembre del 2010)ritenendo il rifiuto del B fu, in quell’occasione, motivato e legittimo proprio per l’esistenza di dannose trasformazioni subite dal bene, che l’offerente la restituzione non si era impegnato ad eliminare (sulle aree, insistevano dei capannoni che erano stati demoliti proprio in ragione dell’occupazione ed inoltre, seguito dei lavori posti in essere per realizzare la stazione della Circumflegrea, le medesime aree risultavano sbancate di guisa che la condanna alla mera restituzione, in presenza di siffatte trasformazioni subìte dal bene, non sarebbe stata satisfattoria).

In modo complementare alla restituzione, in corrispondenza di questa voce di danno, doveva quindi essere disposta la condanna al risarcimento per equivalente del danno patrimoniale subito dal B

In proposito, il T, giovandosi dell’apporto scientifico del consulente tecnico ha pertanto stabilito che ( quanto alla perdita delle volumetrie ivi edificate, consistenti in capannoni abusivi in lamiera) anche tenuto conto che i detti capannoni, in un’ottica di attuazione del Programma Integrato di Intervento sarebbero stati comunque demoliti (questo era previsto nel Programma) all’originario ricorrente spettasse la somma di euro 663.000,00.

Ha in proposito avallato i criteri determinativi del Ctu, che tenevano conto delle possibilità condonistiche dei medesimi, rigettando l’argomento della S secondo cui, trattandosi di immobili abusivi, nulla avrebbe dovuto essere corrisposto.

Il fatto illecito dell’Amministrazione obbligava al risarcimento di tutti i fatti conseguiti all’ingiusto comportamento, in essi ricomprese anche le conseguenze imprevedibili, (argomentando “a contrario” dagli artt.2056 e 1225 c.c. ).

Ha però stabilito che, su detta cifra, determinata per come si evinceva dalla perizia, all’attualità, trattandosi di debito da risarcimento del danno, e quindi di debito di “valore” -diversamente da quanto opinato dal C.T.U.- non dovevano tuttavia essere calcolati interessi e rivalutazione..

Quanto alla circostanza che sull’area erano intervenuti degli sbancamenti, anche questo integrava danno ingiusto da risarcire.

Ha in proposito richiamato l’elaborato del CTU secondo cui “la quota altimetrica attuale del piano stazione è sottoposta di -3,44 ml. rispetto alla quota prevista per la stazione ferroviaria nel Piano integrato”;
il terreno era originariamente posto ad un livello superiore di due metri e che la realizzazione della stazione La Trencia aveva comportato uno sbancamento dell’area di due metri, ed un dislivello di tre mt. e mezzo circa, rispetto all’originario progetto.

Andava condiviso il criterio estimativo adottato in sede di CTU –rapportato ai costi occorrenti (determinati in euro 112.392,56) per porre rimedio all’improvvido sbancamento cagionato all’area–.

Ad analoghe conclusioni è giunto nella determinazione del il risarcimento del danno cagionato al B dall’illegittima occupazione delle aree protrattasi dal 7 ottobre del 2002 alla data di pronuncia della sentenza (non potendosi accogliere l’eccezione che individuava un barrage temporale finale nella offerta di restituzione in data 12 novembre del 2010) condividendo la stima del terreno operata dal Ctu (euro 597.096,04) ed individuando detto importo qual parametro per calcolare l’indennità di occupazione spettante, rapportandola altresì al valore degli affitti medi del periodo in considerazione per beni di egual valore.

La cifra così ottenuta – per consentire l’integrale ristoro del danneggiato – doveva essere secondo l’opinamento del T successivamente maggiorata del 50% in ragione dell’accertata illiceità del possesso e della conseguente ingiustizia del danno subìto dal B.

Esaurito detto excursus finalizzato alla pronuncia sulla domanda di restituzione e danni accessori, tecnicamente qualificabile qual “danno emergente”, il T si è soffermato sulla ulteriore voce di danno lamentato da parte appellante, e riposante sulla incidenza della indebita occupazione delle aree sulla praticabilità e realizzabilità del Programma Integrato di Intervento.

A tal uopo il T ha dovuto ripercorrere le vicissitudini di detto Programma Integrato di Intervento ed interrogarsi sulla natura e tipologia del medesimo: ciò ha fatto nel capo IV della impugnata decisione.

Ivi ha innanzitutto rammentato che tratta vasi di un programma di cui era titolare il B, avente ad oggetto un progetto di riqualificazione urbana in corso di definizione e già approvato, in variante al P.R.G., con Decreto del Presidente della Giunta Regionale della Campania del 6 agosto 2001, n.1644.

Le contrapposte prospettazioni delle parti processuali si erano incentrate sull’estensione e, soprattutto, sul grado di concretezza del detto Programma.

Ciò in quanto, dovendosi interrogare sulla incidenza dell’occupazione abusiva delle particelle sulla mancata realizzazione del Programma medesimo, appariva necessario anzitutto chiarire in cosa quest’ultimo consistesse e la sussistenza del nesso di causalità tra illecito dell’Amministrazione discendente dalla occupazione illegittima delle particelle ed omessa realizzazione del Programma.

Le opposte tesi che si fronteggiavano potevano così essere sintetizzate: ad avviso di A, il Programma si componeva di interventi tra loro scindibili ed indipendenti;
la occupazione aveva interessato le due particelle afferenti alla realizzazione del corpo D.

L’eventuale danno pertanto doveva essere rapportato unicamente alla mancata realizzazione di quest’ultimo e non poteva trasmodare sino a stabilirsi un nesso di causalità impeditivo della realizzazione dell’intero Programma.

In ogni caso – con prospettazione che accompagnava quella prima rappresentata - l’intero Programma non era in concreto realizzabile e quindi, questa asserita voce di danno era del tutto insussistente.

Il B sosteneva invece: che l’intervento di cui al Programma Integrato di Intervento era unitario;
perfettamente realizzabile nel breve periodo;
l’occupazione illegittima per cui è causa era stato l’unico elemento impeditivo;
il danno di doveva rapportare alla mancata realizzazione dell’intero Programma Integrato di Intervento.

Il primo giudice – che ha deciso detto segmento del petitum in parte discostandosi, seppur motivatamente, dagli approdi cui era giunto il consulente tecnico – ha innanzitutto rammentato che, riguardo alla sua struttura, il Programma si componeva di quattro interventi denominati “A”, “B” “C” e “D” riguardanti rispettivamente A: Polivalente con sale cinematografiche punti di ristoro, uffici e parcheggi;
B: Studentato;
C: polifunzionale con negozi, residenze e parcheggi interrati;
D (quello interessante le particelle in questione): piazza con annessi negozi.

L’area indebitamente occupata era interessata dal progetto “D”, ma, ad avviso del T i progetti erano evidentemente fra loro coordinati e concatenati e la materiale indisponibilità del terreno aveva impedito qualsivoglia concreta progettualità in proposito.

Nell’incipit di tale segmento motivazionale, pertanto, il T ha accolto l’opzione per cui il Programma Integrato poteva dirsi “concatenato”.

Con più specifico riferimento a tale aspetto, infatti, richiamato gli atti del procedimento giurisdizionale n.12023/2004 TAR Campania, conclusosi con sentenza definitiva del 23 gennaio 2007, ed ha affermato che dal medesimo si ricavava la prova, l’unico, tra i quattro interventi programmati, che si trovava in fase procedimentale, era quello del segmento “B” (lo studentato che era anche il più importante). Ne discendeva che si trattava di un programma coordinato, ma non interdipendente, contrariamente a quanto dedotto il che doveva portare a ridurre, già sotto il profilo teorico, la pretesa risarcitoria di parte appellante.

Nel citato procedimento giurisdizionale n.12023/04 era rimasto accertato, peraltro che ostavano problemi giuridico-edilizi per la realizzazione del piano “B” e cioè lo studentato ( tant’è che per un periodo venne disposta la sospensione dell’efficacia della DIA originariamente ottenuta dal richiedente): da ciò discendeva un giudizio di fondatezza in ordine alle circostanze rappresentate da A in forma di eccezione secondo cui sussistevano ostacoli autonomi, ed indipendenti dall’illegittima attività dell’amministrazione per la concretizzazione dell’iniziativa di riqualificazione in questione.

Sotto altro profilo, il T ha rammentato un’altra circostanza: con la sentenza n. 601 del 2007 resa dal medesimo T, era stata rigettata la richiesta di risarcimento del danno per la perdita di finanziamenti a fondo perduto già approvati, formulata in modo congiunto da Campanile S.r.L. e dallo stesso B.

Il T ha quindi richiamato le conclusioni di cui alla propria ordinanza Collegiale n. 3854/2012 (con ciò discostandosi dalle valutazioni del CTU che, evidentemente ritenendo unico ed inscindibile il Programma di Intervento Integrato predetto aveva fatto riferimento al concetto di “danno comprensoriale”) ribadendone la permanente attualità, ed in sintesi affermando che era risultato processualmente smentito che le due particelle n.1349 e 1352 rientrassero o comunque fossero interessate anche dal progetto B del Piano Integrato (cd. “Studentato”), essendo esclusivamente pertinenti al lotto denominato Intervento “D” (Piazza con annessi negozi);
non era stato provato che la mancata realizzazione, neppure del solo studentato “B” (a tacer degli altri interventi), fosse esclusivamente dipesa dagli ostacoli sopravvenuti a causa ed in occasione della illegittima occupazione delle due particelle. Esclusa la sussistenza di un nesso di causalità diretto, il danno andava al più rapportato ll’oggettivo contributo negativo che l’illegittimità dell’azione amministrativa aveva arrecato al progetto.

Una concausalità, quindi, della quale si doveva tenere conto, ed attraverso la quale si “recuperava” la nozione di “danno comprensoriale” quantificata dal Ctu.

Le voci di danno come calcolate dal consulente, si rammenta innanzitutto che esse ammontavano ad euro 6.064.163,93 quale “Incremento dei costi di realizzazione degli interventi” ed ad euro 4.355.122,04 quale “Interessi sul mancato profitto imprenditoriale”.

Detta determinazione – come in larga parte anticipato dal T- non poteva essere condivisa in assoluto, in quanto muoveva dall’errato presupposto della diretta causalità “esclusiva” tra occupazione illegittima delle due particelle e mancata realizzazione dell’intero Programma tendendo ad attribuire l’integrale responsabilità della mancata attuazione del programma di intervento al comportamento illegittimo della A e della S.

Tali determinazioni quantitative, non condivisibili in via assoluta, potevano unicamente fungere da base di calcolo, sulla quale, in via equitativa, ai sensi dell’art.1226 del c.c. innestare un sub criterio che tenesse conto mercè una ricostruzione prognostica ipotetica, del valore del contributo concorsuale obiettivamente offerto dagli enti intimati all’integrazione degli ostacoli avutisi per realizzare le attività progettate che il proprietario intendeva avviare.

I valori comprensoriali determinati dal Ctu,( euro 6.064.163,93 quale “Incremento dei costi di realizzazione degli interventi” ed euro 4.355.122,04 quale “Interessi sul mancato profitto imprenditoriale”), sono stati pertanto decurtati di ¾ e rispettivamente ridotti ad euro 1.516.040,98 (¼ di euro 6.064.163,93) ed ad euro 1.088.780,51 (¼ di euro 4.355.122,04)

Nel capo V della decisione, il T ha scandagliato la ulteriore porzione del petitum risarcitorio, ed ha anzitutto escluso la possibilità di corrisponedere le voci per cc.dd. “Riduzione accessibilità studentato e “Riduzione qualità urbana ed architettonica” :laddove dovesse essere effettuato il ripristino dello status quo ante (o comunque corrisposti dalle intimate il denaro necessario al raggiungimento del predetto risultato) detti danni infatti sarebbero stati evidentemente riassorbiti.

Neppure erano dovuti i costi relativi alla riprogettazione strutturale dello Studentato, in quanto detto intervento intervento non era sia materialmente connesso con gli atti pubblici a vversati.

In ultimo, è stata esclusa la risarcibilità dei danni non patrimoniali per carenza assoluta di prova ( in disparte la considerazione che non era stata indicata la necessaria norma, in base alla quale, ex art.2059 c.c. essi sarebbero stati reclamabili).

Determinato altresì l’importo da corrispondere al Ctu, il T ha pronunciato la condanna delle parti intimate alla restituzione dei fondi “de quibus”, ed alla corresponsione della somma complessiva di euro 3.380.213,07 determinata in base alla somma aritmetica delle voci di danno riconosciute stabilendo altresì che le parti avrebbero dovuto raggiungere un accordo per determinare il quantum spettante al B a titolo di illegittima occupazione del fondo, nel periodo dal 7 ottobre 2002 ad oggi, rispettando i criteri dettati in sentenza.


Ricorso n. 1808/2013;

La Società odierna appellante, già resistente rimasta parzialmente soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso anche sotto il profilo cronologico il risalente e prolungato contenzioso intercorso ed innanzitutto prospettato alcune, distinte, questioni pregiudiziali di natura processuale.

In particolare, si è ivi sostenuto, (secondo motivo) che il ricorso in riassunzione contenesse, inammissibilmente, un petitum nuovo e comunque più ampio rispetto a quello contenuto nel mezzo introduttivo del giudizio (proposto innanzi al tribunale Ordinario, che declinò la propria giurisdizione): soltanto nell’atto di riassunzione, infatti (non solo il B aveva quantificato il danno da occupazione, poi divenuta illegittima, di mq 1166 di terreno ma, anche) aveva ipotizzato un danno da omessa realizzazione delle opere di cui al Programma Integrato di Interventi.

Il T non si era pronunciato sulla detta eccezione e pertanto, nella forma la sentenza era viziata per omessa petizione ex art. 112 cpc;
nel merito dovevano essere dichiarate inammissibili le domande rubricate dalla lett. f alla lett. k del ricorso in riassunzione (o, in subordine quantomeno quelle rubricate dalla lett. h alla lett. k che riguardavano le opere A,B,C, diverse da quelle “D” ubicate nelle particelle occupate illegittimamente ) con esclusione della corresponsione di euro 1.516.040,98 ed euro 1.088.780,51 (euro 2.604.821,49).

Inoltre (censura n. III) la sentenza era errata anche laddove aveva affermato la positiva sussistenza dell’interesse a ricorrere e della legitimatio ad causam in capo al B in riferimento agli asseriti danni arrecati alla realizzabilità/realizzazione delle opere di cui al Programma Integrato di Interventi.

La legittimazione del predetto (in quanto proprietario delle aree) era innegabile con riguardo al petitum restitutorio e risarcitorio in riferimento alle due particelle.

Ma il B non era titolare del Programma Integrato di Interventi: di esso era titolare esclusivo della Campanile Srl;
a quest’ultima era stata rilasciata la Dia per il corpo B;
il B aveva partecipato al programma unicamente in quanto titolare del compendio immobiliare e non aveva titolo a richiedere il risarcimento.

Dovevano pertanto essere dichiarate inammissibili, per difetto di interesse e legittimazione le domande rubricate dalla lett. f alla lett. k del ricorso in riassunzione (o, in subordine quantomeno quelle rubricate dalla lett. h alla lett. k che riguardavano le opere A,B,C, diverse da quelle “D” ubicate nelle particelle occupate illegittimamente )

Con il quarto motivo A ha contestato la propria legittimazione passiva e la condanna a restituire il fondo pronunciata nei propri confronti asserento che la stessa non era né nel possesso né nella detenzione del fondo.

L’unica detentrice di chiavi ed aree era la S Spa (oggi E SRL).

Con la connessa censura di cui al quinto motivo la A ha contestato la propria legittimazione passiva e la condanna inflittale con riguardo al complesso delle domande risarcitorie, facendo presente che, a far data dal luglio 2004 (data di apertura al pubblico della Stazione Trencia), S era l’unica detentrice delle particelle indebitamente occupate.

Nel merito, con la sesta censura ha contestato la voce risarcitoria positivamente riconosciuta dal T e riferita ai capannoni in lamiera demoliti.

Essi erano stati demoliti durante il periodo di legittima occupazione ed erano stati oggetto di espropriazione giusta decreto 4096/1° Sett. B del 7.10.2002 del Prefetto di Napoli comprensivo dei detti manufatti ed era stata stimata l’indennità, ed anche depositata (pendeva giudizio di opposizione alla stima).

Essi erano abusivi;
destinati ad essere demoliti giusta previsione del Programma Integrato di Interventi ove realizzato;
destinati comunque ad essere demoliti, anche in ipotesi di omessa realizzazione del Programma Integrato di Interventi in quanto non condonabili ed in contrasto con il PRG.

La settima censura è stata dedicata alla critica del IV capo della impugnata decisione nell’ambito del quale ( seppure riducendosi l’importo risarcitorio determinato dal Ctu sull’erroneo presupposto della inscindibilità del Programma Integrato di Interventi e della sua pratica realizzabilità) il T aveva liquidato una somme a titolo risarcitorio sull’erroneo presupposto che i progetti erano fra loro coordinati e concatenati e la materiale indisponibilità del terreno aveva impedito qualsivoglia concreta progettualità in proposito.

Il T nelle premesse aveva negato che potesse essere risarcito un danno derivante dalla mera coincidenza occasionale della indebita occupazione (di particelle riferibili esclusivamente all’intervento “D” Piazza ed annessi negozi) e della mancata realizzazione dell’intero Programma.

Poi, però, nei fatti, aveva contraddetto la premessa liquidando una somma a titolo equitativo che aveva quale “causale” legittimante proprio la omessa realizzazione dell’intero Programma.

Con ciò obliando che:

a)il Programma costituiva sì un complesso di opere ma esse erano realizzabili anche in maniera parcellizzata e frazionata (come dimostrava che era stata presentata in passato dalla ditta Campanile SRL una Dia per il solo corpo B);

b)quanto al corpo D nessuna Dia era stata presentata perché la Campanile non possedeva le necessarie cubature;
analogo ragionamento valeva per i corpi A e C.

c)quanto al corpo B (Studentato) esso non era in nessun modo connesso all’intervento sul corpo D, ed infatti giammai si era provato che l’omesso inizio delle opere di cui alla Dia del 2004 afferente al corpo B fosse dipeso dal protrarsi dell’occupazione sulle due particelle per cui è causa (incidenti solo, soltanto, ed esclusivamente, sull’intervento di cui al corpo D);

Quanto al lucro cessante, lo stesso CTU aveva determinato nel 2009 la data da cui partire: premesso che di esso non v’era alcuna prova, del tutto immotivatamente il T lo aveva liquidato a partire dal 2006.

La contraddizione della gravata sentenza era ancor più marcata, però, allorchè la stessa aveva liquidato il danno rapportandolo in termini “concausali” alla omessa realizzazione dell’intero Programma Integrato di Interventi, pur non aveando disconosciuto che v’erano autonomi ostacoli che ne avrebbero impedito la attuazione.

A tutto concedere, il danno da omessa realizzazione dell’intervento avrebbe dovuto afferire al solo corpo D.

La cifra dalla quale aveva preso le mosse il T (euro 6.064.163,93 quale “Incremento dei costi di realizzazione degli interventi”) era riferibile all’intero: avrebbe dovuto essere invece rapportata al solo corpo D (il Consulente la aveva quantificata in Euro 95.900,87

Quanto al rilevante danno da interessi sul mancato profitto imprenditoriale la cifra di partenza (euro 4.355.122,04)era stata parimenti calcolata sul copro B: tale statuizione era errata, in quanto, come prima chiarito, detto corpo B non era stato realizzato per cause del tutto indipendenti dalla indebita occupazione delle due particelle afferenti al solo intervento D.

Con la settima doglianza la società appellante ha criticato la reiezione della eccezione secondo cui non andava risarcito il danno da illegittima occupazione, dal momento dell’offerta di restituzione, avvenuta nel novembre del 2010: il primo giudice aveva ritenuto che il rifiuto del B a riprendersi le aree offertegli il 12.11.2012 fu, in quell’occasione, motivato e legittimo: esso, invece, doveva essere qualificato negativamente ex art. 1227 c.II del codice civile e 30 c.III del cpa.

Il Sig B, parte appellata nell’ambito del ricorso 1808/2013 ed appellante principale nel ricorso n. 1886/2013 , in vista della adunanza camerale fissata per la delibazione della istanza di sospensione della esecutività della gravata decisione si è costituita nell’ambito del ricorso 1808/2013 depositando una memoria e chiedendo la reiezione dell’appello perché infondato.

Ha in particolare evidenziato che essa non aveva aderito all’offerta di restituzione dell’area, avvenuta nel novembre del 2010, in quanto il fondo era stato del tutto trasformato e configurato, e sarebbe stato onere dell’A ridurre in pristino le trasformazioni indebite effettuate, prima di restituirlo.

Ha fatto presente che la contestazione pregiudiziale della propria legittimazione ad agire e del proprio interesse a ricorrere era errata in quanto il Programma di Intervento Integrato era stato presentato dal predetto “in proprio” e quale amministratore unico della Campanile SRL;
il ricorso in riassunzione non conteneva alcun ampliamento del petitum: si era chiesta già dall’atto introduttivo del giudizio innanzi al Tribunale Ordinario la restituzione delle particelle ed il risarcimento dei danni provocati dalla protratta mancata restituzione delle particelle 1349 ed 1352 ed aree connesse.

La A, poi, deteneva ancora le aree, delle quali aveva seppur indebitamente la disponibilità;
non si sarebbe giustificata, altrimenti, la offerta di restituzione stragiudiziale.

La responsabilità solidale della A con S – anche per il torno di tempo successivo al luglio 2004 – era innegabile, essendo S.E.P.S.A. beneficiaria del procedimento espropriativo, ed A, quale concessionaria dei lavori.

Ha poi contestato tutte le altre censure di merito, evidenziando che i fabbricati demoliti si trovavano sulle particelle indebitamente occupate e richiamando le argomentazioni già esposte nel mezzo di primo grado e, in parte, ribadite nel proprio appello principale rubricato al n. 1886/2013 quanto alla asserita non causalità dell’illecita condotta dell’amministrazione sulla omessa realizzazione degli interventi di cui al Programma di Intervento Integrato.

Al contrario, numerosi danni arrecati per tabulas al B e riconducibili direttamente alla detta illegittima condotta dell’amministrazione non erano stati risarciti dal T (perdita di finanziamenti europei a fondo per;
perdita di un rilevante credito d’imposta, etc).

L’ E srl (Ente incorporante S Spa) si è costituita in giudizio depositando un articolato appello incidentale nell’ambito del quale ha sostenuto la “novità” (e quindi inammissibilità) delle domande contenute nell’atto di riassunzione ed il difetto di legittimazione ed interesse del B in termini identici a quelli prospettati da A nel proprio appello principale.

Ha poi sostenuto (terza censura, punto 3.1.) il proprio difetto di legittimazione passiva, quanto al petitum restitutorio, (eccezione sulla quale il T non si era pronunciato, violando l’art. 112 cpc) ex art. 8 del dLgs n. 422/1997.

La Regione era divenuta proprietaria della stazione, mentre unicamente la gestione del servizio restava riservata all’impresa ferroviaria (quale era l’appellante incidentale).

Ne conseguiva che il petitum restitutorio doveva essere rivolto all’Ente proprietario (Regione Campania) in realtà mai evocato in giudizio (all’uopo richiamandosi l’ art. 42 bis del dPR n. 327/2001 in punto di legittimazione all’adozione del provvedimento acquisitivo ed una precedente sentenza del T partenopeo, n. 5083/2008).

Il proprio difetto di legittimazione passiva, poi, doveva essere affermato anche quanto al petitum risarcitorio (punto 3.2.) posto che la S aveva affidato ad A quale concessionaria dei lavori le attività espropriative, di occupazione, etc.

Ciò implicava che la S dovesse restare immune dalle pretese risarcitorie, ove imputabili ad errori commessi (ed ammessi) dai tecnici della A, e parimenti non dovesse essere tenuta in solido alla corresponsione di E. 112.000 per il ripristino delle aree in quanto i lavori erano da imputarsi unicamente alla Concessionaria Ati A.

Con il quarto motivo (ultima censura di carattere pregiudiziale) si è sostenuta la violazione del principio del ne bis in idem quanto alla domanda di risarcimento per aggravamento dei costi di realizzazione e perdita dei contributi in conto capitale formulata dal B.

La sentenza del T regiudicata n. 601/2007 aveva infatti rigettato dette domande proposte anche nei confronti della S sia dalla Campanile Srl che dal B personalmente.

Il T aveva invece riconosciuto il bis in idem soltanto con riguardo alla lamentata perdita dei finanziamenti in conto capitale, ma ciò costituiva un grave errore.

Con l’articolata doglianza di cui al motivo di appello n. 5, sono state avanzate critiche di merito alla statuizione risarcitoria, nella sostanza identiche e sovrapponibili a quelle prospettate dall’Ati A con il proprio appello principale ed illustrate nella parte a quest’ultimo dedicata

Alla camera di consiglio del 9 aprile 2013 fissata per la delibazione della domanda cautelare di sospensione della esecutività della gravata decisione, la Sezione con ordinanza n. 01294/2013 ha accolto il petitum cautelare sulla scorta delle considerazioni per cui “sia pure nella sommarietà della delibazione cautelare, l’appello, con riferimento alla statuizione contenuta nell’appellata decisione e relativa alla determinazione della somma determinata in euro 112.392,56 per provvedere alle opere conseguenti allo sbancamento dell’area non appare fornito del prescritto fumus, e parimenti non si rinviene alcun decisivo fumus con riferimento alla quantificazione relativa al valore delle aree indebitamente occupate: in relazione a detti due profili l’appello va pertanto respinto

Rilevato che, invece, risulta comprovato il fumus (cfr Cass. civ. Sez. I Sent., 14-12-2007, n. 26260) con riguardo alla voce risarcitoria relativa alla determinazione del danno recato al proprietario a seguito della demolizione delle opere (euro 663.000,00) accoglie l’appello cautelare con riguardo a tale autonoma voce risarcitoria;

rilevato che, per la restante parte relativa al riconoscimento del danno in relazione alla incidenza della indebita occupazione delle due particelle del Signor B sulla praticabilità e realizzabilità del Programma Integrato di Intervento (determinato in sentenza nella misura di euro 1.516.040,98 -¼ di euro 6.064.163,93- sommati ad euro 1.088.780,51 -¼ di euro 4.355.122,04- )considerato che, in disparte ogni valutazione sulla fondatezza nel merito della questione sottoposta, il Collegio ritiene di dover dare prevalente rilievo al danno evidenziato, che si presenta rilevante in senso assoluto ;

considerato che peraltro, stante la fluidità della situazione, appare corretto subordinare la concessione del richiesto provvedimento cautelare alla prestazione, da parte degli appellanti, di adeguata garanzia a tutela delle ragioni di danno della controparte, secondo le seguenti modalità:

- la garanzia, per un importo pari alla metà della somma come in ultimo indicata (euro 1.516.040,98 sommati ad euro 1.088.780,51) sarà fornita tramite contratto autonomo di garanzia, costituito da fideiussione bancaria a prima richiesta scritta da parte dell’appellante A in favore del beneficiario, ossia della parte appellata B per un valore garantito pari ad €1.302.410 (euro unmilionetrecentomilaquattrocentodieci e con validità fino alla conclusione del procedimento giurisdizionale dinanzi al Consiglio di Stato;

- il contratto di fideiussione bancaria disporrà che l’escussione della garanzia a prima richiesta scritta da parte del beneficiario sia subordinata alla contestuale comunicazione della decisione conclusiva del procedimento giurisdizionale dinanzi al Consiglio di Stato in caso di appello e che l’escussione avvenga nei limiti della somma indicata nella detta decisione conclusiva come quella dovuta a titolo di danni e di rimborso per spese di giustizia;

- l’originale del contratto di fideiussione sarà notificato, unitamente al presente decreto, al soggetto beneficiario, mentre copia del documento stesso sarà versata agli atti di questa Sezione;”.

Tutte le parti processuali hanno depositato memorie e repliche, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Alla odierna pubblica udienza del 3 dicembre 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio


Ricorso n. 1886/2013;

L’originario ricorrente di primo grado, rimasto parzialmente soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso il risalente e prolungato contenzioso intercorso ed ha in via generale censurato la sentenza in quanto il T non aveva dato rilievo ad una circostanza fattuale rivestente portata dirimente.

Invero, l’incidenza della illegittima permanenza dell’occupazione delle due particelle n.1349 e 1352 sull’intero Piano Integrato nasceva da una circostanza: esse furono escluse dalle aree da espropriare proprio per la interferenza con detto Programma Integrato.

Il Piano integrato prevedeva che la Stazione Trencia fosse realizzata alla quota 0.00 fissata con riferimento al Piano della via Montagna Spaccata.

Inopinatamente, A realizzò la Stazione Trencia ad una quota di mt. -3,44.

A questo punto, l’area della Piazza antistante alla Stazione venne parimenti sbancata fino a raggiungere la quota di mt.- 3,44 corrispondente.

Ciò rendeva inaccessibile ed impossibile da raggiungere lo Studentato dalla Piazza, senza una scala di collegamento (non prevista, però, dal Piano regolatore che prevedeva invece la quota 0,00 sia per la Piazza di ingresso alla stazione la Trencia che per lo Studentato).

Tale abnorme sbancamento, dovuto all’abbassamento della quota della Stazione implicava la non realizzabilità dello studentato:ed implicava altresì la correttezza della condotta del B che rifiutò l’offerta di restituzione, avvenuta nel novembre del 2010.

Senonchè il T (seconda censura) da un canto aveva affermato la necessità di ripristinare lo status quo ante;
poi, però aveva disposto la restituzione delle particelle,senza ribadire che la restituzione sarebbe dovuta essere preceduta dalla eliminazione dello sbancamento

Il ripristino della quota e la eliminazione dello sbancamento doveva precedere la restituzione delle aree.

Con la terza censura è stata ribadita la tesi per cui l’omessa restituzione dei suoli era stata la causa della omessa realizzazione del Programma Integrato.

Con nota del Prefetto 3 gennaio 2003 diretta sia ad A che a S era stato a queste ingiunto di restituire le dette due particelle, non “coperte” dal decreto di esproprio, in quanto non erano servite alla realizzazione dell’opera pubblica

L’ordine impartito venne tenuto in non cale

Il T aveva obliato la circostanza che lo Studentato avrebbe dovuto essere posto alla stessa quota della Stazione (e della Piazza) per far si che attraverso detto collegamento gli studenti raggiungessero la Stazione medesima.

Il tutto a quota 0.00. Improvvidamente abbassata la quota della Stazioen era impossibile la realizzazione di tale “unicum inscindibile”.

Con la quarta censura, si è contestata la misura del risarcimento determinato dal T in relazione ai capannoni: si è dato per scontato infatti che gli stessi fossero abusivi, ma non si doveva fornire alcuna prova della loro “regolarità”, in quanto edificati prima del 1967.

Inoltre, erroneamente era stata valorizzata in senso contrario alla posizione del B la pregressa sentenza del T n. 12023/2004 incentrata soltanto sulla contestazione della quantificazione degli oneri di urbanizzazione pretesi dal Comune.

Per altro verso, la sentenza (pure richiamata dal primo giudice) n. 601/2007 non aveva mai statuito sulla questione della perdita dei finanziamenti a fondo perduto (motivo di censura, questo, che era rimasto assorbito e sul quale non si era formato alcun giudicato e che, di conseguenza, non avrebbe potuto condurre ad una declaratoria di bis in idem).

Il B, peraltro, aspirava ancora a potere realizzare le opere del Programma, previa, riconduzione della Stazione all’area 0.00 prevista.

Con il quinto motivo di censura sono state criticate alcune partite statuizioni del T in ordine alle “poste” risarcitorie.

Quanto al danno da “improvvida demolizione” dei capannoni, la quantificazione resa dal T era errata (“su detta cifra, determinata per come si evince dalla perizia, all’attualità, trattandosi di debito da risarcimento del danno, e quindi di debito di “valore” diversamente da quanto opinato dal C.T.U. non vanno tuttavia calcolati interessi e rivalutazione..”).

Il T non si era avveduto che la cifra di euro 663.000,00 era stata determinata dal CTU all’ 8.10.2002 (data di cessazione della occupazione legittima): essa doveva essere integrata da interessi e rivalutazione.

Quanto (lett. B)alla quantificazione della somma per rimediare allo sbancamento, parimenti essa doveva essere integrata da interessi e rivalutazione.

Interessi e rivalutazione erano dovuti anche per le voci “ Incremento dei costi di realizzazione degli interventi” ed “Interessi sul mancato profitto imprenditoriale”.

In ordine a queste ultime, tuttavia, nei termini riconosciuti dal T, l’appellante ha proposto una serrata critica, in quanto erroneamente era stato decurtato l’importo quantificato dal concludente tecnico, posto che il Programma era inscindibile e ne era stata resa impossibile la realizzazione unicamente a cagione della illegittima condotta di indebita occupazione delle particelle (e coevo sbancamento dell’area).

Con la sesta censura si è chiesto venisse disposto il risarcimento per l’avvenuta perdita dei finanziamenti a fondo perduto per ben tre volte erogati a parte appellante (la decadenza discendeva dal mancato avvio dei lavori del Piano Integrato di cui si era dimostrata la riconducibilità alla permanenza della illegittima occupazione delle due particelle) e (motivo n.7) per la impossibilità di giovarsi dei due crediti di imposta riconosciuti all’impugnante (pari ad E 1.700.000 ciascuno).

Il T poi (ottavo motivo di ricorso, pag 12 lett. i del mezzo di primo grado) non si era pronunciato sul danno da “mancato godimento” dell’immobile (voce di natura morale e psicologica da tenere distinta da quella patrimoniale che dava causa all’attribuzione della indennità di occupazione) e (censura n. 9) su quella del “mancato profillo dell’ imprenditore” (sul quale pure, l’elaborato del Ctu si era soffermato, a pagg. 195 e segg. punto 4.4.4.).

Tali omissioni di pronuncia, ex art. 112 cpc, dimostravano vieppiù l’erroneità del percorso logico seguito dal T, né alcuna preclusione al riconoscimento di tali voci poteva discendere dalla decisione del T n. 601/2007 che,semmai, dimostrava quanti ostacoli la A avesse frapposto alla realizzazione del Piano Integrato.

Con la undicesima censura è stato criticato il quomodo del criterio equitativo applicato dal T;
la decurtazione di tre quarti appariva immotivata, ingiustificata, e mai A aveva offerto alcun elemento di prova che potesse giustificarla.

In ultimo, (motivo n. 12) si è sostenuta la liquidabilità del danno morale, ingiustamente pretermesso dal T e si è evidenziata (censura n. 13) la erroneità della gravata decisione laddove aveva liquidato le spese in favore del B quantificandole nell’importo risibile di € 5000.

Tutte le parti processuali hanno depositato memorie e repliche, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Alla odierna pubblica udienza del 3 dicembre 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.I suindicati appelli devono essere riuniti trovandosi al cospetto di impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza.

Deve rilevarsi in via assolutamente preliminare che la documentale circostanza dell’avvenuta restituzione delle aree al B in prossimità della odierna udienza pubblica ed il versamento della somma di € 112.392,56 non hanno provocato alcuna improcedibilità delle domande prospettate nell’odierno grado di giudizio e men che meno alcuna sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dell’appello.

1.1.Ritiene il Collegio in primo luogo di esaminare – e risolvere – le questioni di carattere pregiudiziale ed in via assolutamente primaria di disporre l’estromissione dal presente giudizio del Ministero dell’Interno – siccome richiesto dalla difesa erariale- ma anche della Prefettura- Ufficio Territoriale del Governo di Napoli.

Invero nessuna domanda è stata spiegata da alcuna parte processuale nei confronti del primo o della seconda ;
la Prefettura emise soltanto il provvedimento con il quale si perimetrava l’espropriazione e si escludevano da detto procedimento le particelle per cui è causa (provvedimento rimasto incontestato da parte di alcuno): esse vanno estromesse dal presente giudizio.

1.1.1. Ciò posto si premette – quanto alle questioni pregiudiziali proposte - che in numerose di esse è stato anche denunciato il vizio di omessa petizione ex art. 112 cpc. Pur potendo il Collegio concordare con taluna di dette segnalazioni, si ritiene di evidenziare che le stesse non possono produrre effetto pratico utile per le appellanti (id est: comportare la regressione del procedimento al primo grado) in ossequio al tradizionale orientamento secondo cui l'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa.( ex aliis Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289: oggi, vedasi art. 105 del cpa)

2.Passando all’esame delle dette eccezioni, si sostiene nell’appello principale proposto dall’Ati A ed in quello incidentale proposto da E srl (Ente incorporante S Spa) la “novità” (e quindi inammissibilità) delle domande risarcitorie contenute nell’atto di riassunzione in quanto diverse e “nuove” rispetto a quelle contenute nell’atto di citazione innanzi al Tribunale Ordinario di Napoli (ove giammai si era prospettata la interferenza negativa dell’occupazione delle particelle con l’intero Programma Integrato).

Il Collegio non concorda con tale tesi: nessun allargamento rispetto alle pregresse domande può riscontrarsi quanto, invece, una più dettagliata specificazione e perimetrazione.

Si rammenta in proposito che la preclusione stabilita dall'art. 394, terzo comma, cod. proc. civ. con riguardo al procedimento in sede di rinvio, è quella di prendere conclusioni diverse da quelle prese nel processo in cui fu pronunciata la sentenza cassata.

Ciò non è certamente riscontrabile nel caso di specie, posto che innanzi al Giudice ordinario venne richiesto il risarcimento di tutti i danni cagionati dall’indebita omessa restituzione delle aree (il che implica la reiezione della censura) e di converso si evidenzia che sulla questione del possibile “allargamento” del petitum in sede di giudizio di riassunzione la giurisprudenza è lungi dall’aver raggiunto approdi tassativamente escludenti tale eventualità (ex aliis, Trib. Sup. Acque, 21-09-1989, n. 69 Cass. civ. Sez. II, 05-01-2011, n. 223 rv. 616248 Cass. civ. Sez. II, 30-08-2012, n. 14723).

2.1.L’eccezione di difetto di legittimazione ed interesse del B sempre con riferimento alle domande nelle quali si lamentava la interferenza negativa dell’occupazione delle particelle con l’intero Programma Integrato non persuade il Collegio.

Questi era proprietario delle aree occupate;
amministratore unico della società campanile Srl che del Programma Integrato era titolare;
a detto programma partecipò personalmente: la censura appare speciosa e va respinta.

2.2.Vanno disattese anche le due connesse doglianze con le quali A lamenta la propria carenza di legittimazione passiva, sia con riguardo alla domanda restitutoria delle aree che con riferimento a quella risarcitoria.

2.2.1.Esse possono essere esaminate congiuntamente alle speculari domande proposte da E srl.

Quanto alla asserita carenza di responsabilità solidale prospettata, per ragioni opposte sia dalla beneficiaria del procedimento espropriativo (E S) che dalla concessionaria dei lavori e delle espropriazioni (A) detta eccezione va disattesa recisamente, in relazione alla costante condivisibile affermazione giurisprudenziale, dalla quale non si ha ragione di discostarsi secondo cui (Cass. civ. Sez. I Sent., 09-10-2007, n. 21096) “nel caso di realizzazione di opere pubbliche cui collaborino pubbliche amministrazioni e soggetti delegati, l'obbligazione al risarcimento del danno da occupazione appropriativa ha natura solidale - fatta salva l'ipotesi in cui la solidarietà sia esclusa per espressa, eccezionale, previsione normativa, come avviene nel caso di realizzazione dei programmi di ricostruzione post - terremoto di cui alla legge 14 maggio 1981, n. 219 - ed il proprietario può rivolgersi indifferentemente contro ciascuno od alcuni soltanto dei soggetti che hanno preso parte alla vicenda appropriativa, senza che sia configurabile alcuna necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coobbligati non evocati in giudizio. Quanto al riparto di responsabilità tra delegante e delegato, anche se il contributo causale determinante alla produzione del danno è ascrivibile all'autore materiale, ovvero al soggetto incaricato dell'esecuzione dei lavori, mediante le opere che hanno cagionato l'irreversibile trasformazione del fondo, questo non comporta che, attraverso la delega alla realizzazione dell'opera, l'amministrazione debba ritenersi in ogni caso esente dalle conseguenze lesive derivanti dall'esecuzione, in quanto sussiste a suo carico un obbligo di vigilanza , di diretta derivazione dai principi costituzionali di legalità, buon andamento, e imparzialità dell'amministrazione, oltre che dalla tutela del diritto di proprietà, del quale, ferma restandone la funzione sociale, deve garantire l'effettività, specie ove, attraverso strumenti di partecipazione dei privati all'esecuzione di opere di pubblico interesse, problemi di solvibilità di questi pongano in pericolo l'effettiva corresponsione dell'indennizzo in caso di espropriazione.

A particolari condizioni, un esonero di responsabilità per il concedente potrebbe aver luogo soltanto nelle ipotesi (non ricorrenti nel caso di specie) di concessione traslativa (costituendo invece tutt’altra questione, non rilevante in questa sede, la individuazione del grado e misura di responsabilità tra i coobbligati solidali: -Cass. civ. Sez. I, 19-03-2007, n. 6518 – “affermatasi la corresponsabilità, nel danno da occupazione appropriativa, dell'impresa appaltatrice, per la mancata emanazione del decreto di esproprio, atteso il conferimento di poteri espropriativi a favore di essa, e dell'ente committente, per il mancato esercizio dei poteri di vigilanza, quest'ultimo deve tenere esente la prima, ove il capitolato contenga la clausola che sia pur genericamente obblighi il committente al rimborso delle somme inerenti alle espropriazioni, danni e indennità accessorie.”).

In particolare, il Collegio non ritiene sul punto di doversi discostare dagli approdi cui sono giunte le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la decisione n. 6769/2009, le cui complessive argomentazioni devono intendersi integralmente richiamate in questa sede.

In particolare, la Corte regolatrice della giurisdizione, dopo una approfondito excursus anche in ordine alla controversa figura della “concessione traslativa” ha fatto presente che in passato essa stessa, al fine di rafforzare la tutela spettante al proprietario espropriato, aveva specificato: “1) che il mero ricorso allo, strumento della concessione traslativa con l'attribuzione al concessionario affidatario dell'opera, della titolarità di poteri espropriativi, non può comportare indiscriminatamente l'esclusione di ogni responsabilità al riguardo del concedente. Perchè ciò avvenga è infatti necessario in osservanza al principio di legalità dell'azione amministrativa, che l'attribuzione all'affidatario di detti poteri e l'accollo da parte sua degli obblighi indennitari siano previsti da una legge che espressamente li autorizzi: non essendo altrimenti consentito alla p.a. disporne a sua discrezione onde sollevarsi dalle responsabilità che il legislatore le attribuisce;
2) che d'altra parte, ove detta legge non lo preveda o non lo consenta, l'accollo degli obblighi indennitari (e risarcitori) può essere utilmente invocato purchè non sia rimasto fatto interno tra espropriante ed affidatario, e quest'ultimo nell'attività che lo abbia portato in contatto con il soggetto passivo dell'esproprio, si sia correttamente manifestato come titolare delle relative obbligazioni, oltre che investito dell'esercizio del potere espropriativo (Cass. 6807/2007;
25544/2006;464/2006;
821/2004) che in ogni altro caso si aggiunge la responsabilità del concedente a quella dell'affidatario quale che sia il contenuto della delega conferita a quest'ultimo, nonchè delle pattuizioni tra detti soggetti intercorse.”.

La detta tesi è stata di recente ribadita (“in tema di opere pubbliche, la concessione c.d. traslativa, comporta il trasferimento al concessionario, in tutto o in parte, dell'esercizio delle funzioni oggettivamente pubbliche proprie del concedente e necessarie per la realizzazione delle opere ed in particolare il compimento in nome proprio di tutte le operazioni materiali, tecniche e giuridiche occorrenti per la realizzazione del programma edilizio, ancorché comportanti l'esercizio di poteri di carattere pubblicistico, quali quelli inerenti all'espletamento delle procedure di espropriazione, all'offerta, al pagamento o al deposito delle indennità di esproprio. Ne consegue che il concessionario, acquistando poteri e facoltà trasferitigli dall'amministrazione concedente, si sostituisce a quest'ultima nello svolgimento dell'attività organizzativa e direttiva necessaria per realizzare l'opera pubblica e diviene, in veste di soggetto attivo del rapporto attuativo della concessione, l'unico titolare di tutte le obbligazioni che ad esso si ricollegano.”Cass. Civ Sez. I, Sent. n. 26261 del 14-12-2007), e non ritiene il Collegio di doversi dalla stessa discostare

2.3.Non miglior sorte meritano le dette eccezioni laddove il difetto di legittimazione passiva è riferito specificamente al petitum restitutorio.

Le appellanti, sebbene la restituzione abbia già avuto luogo, come si è prima avvertito, hanno espressamente fatto presente di avere interesse allo scrutinio delle dette domande.

Esse sono palesemente infondate, il che esonera il Collegio dall’onere di vagliare ex officio la sussistenza –in capo alle dette società- del permanere dell’interesse ad articolare l’eccezione.

Quanto alla posizione di A, basterà sottolineare che la stessa stragiudizialmente in data 12 novembre 2010 invitò il B a rientrare in possesso delle aree per dimostrare che essa aveva il potere giuridico di disporne e la disponibilità delle medesime.

La difesa della A entra in palese contraddizione allorchè, da un canto valorizza tale evento pretendendo di essere esonerata da responsabilità per il periodo susseguente all’offerta “rifiutata” , e successivamente lo nega storicamente.

Quanto alla posizione di E S, la detta pretesa si fonda sul disposto di cui all’art. 8 del d.lgs. 19-11-1997 n. 422 (“ Servizi ferroviari di interesse regionale e locale non in concessione a F.S. S.p.a. ), il cui testoè il seguente:

1. Sono delegati alle regioni le funzioni e i compiti di programmazione e di amministrazione inerenti:

a) le ferrovie in gestione commissariale governativa, affidate per la ristrutturazione alla società Ferrovie dello Stato S.p.a. dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662;

b) le ferrovie in concessione a soggetti diversi dalle Ferrovie dello Stato S.p.a.

2. Le funzioni e i compiti di cui al comma 1 sono conferiti:

a) entro i termini di scadenza dei piani di ristrutturazione di cui all'articolo 2 della citata legge n. 662 del 1996 e comunque non oltre il 1° gennaio 2000, per le gestioni commissariali governative di cui al comma 1, lettera a);

b) a partire dal 1° gennaio 1998, e comunque entro il 1° gennaio 2000, per le ferrovie in concessione di cui al comma 1, lettera b).

3. Le regioni subentrano allo Stato, quali concedenti delle ferrovie di cui al comma 1, lettere a) e b), sulla base di accordi di programma, stipulati a norma dell'articolo 12 del presente decreto, con i quali sono definiti, tra l'altro, per le ferrovie in concessione di cui al comma 1, lettera b), i finanziamenti diretti al risanamento tecnico-economico di cui all'articolo 86 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (8).

4. Gli accordi di programma di cui al comma 3 e i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all'articolo 12 sono, rispettivamente, perfezionati ed adottati entro il 30 ottobre 1999. Detti accordi definiranno, in particolare, il trasferimento dei beni, degli impianti e dell'infrastruttura a titolo gratuito alle regioni sia per le ferrovie in ex gestione commissariale governativa, come già previsto all'articolo 2, comma 7, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sia per le ferrovie in concessione a soggetti diversi dalle Ferrovie dello Stato S.p.a. Tali beni sono trasferiti al demanio ed al patrimonio indisponibile e disponibile delle regioni, e, in relazione alla loro natura giuridica, possono essere dalle regioni dismessi, sdemanializzati o sottratti alla loro destinazione, previa intesa con il Ministero dei trasporti e della navigazione, quando si tratti di beni demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile. A partire dalla data di trasferimento, il vincolo di reversibilità a favore dello Stato gravante sui beni in questione si intende costituito a favore della regione competente. I suddetti trasferimenti sono esentati da ogni imposta e tassa fatto salvo il caso di dismissione o sdemanializzazione da parte delle regioni. I beni di cui all'articolo 3, commi 7, 8 e 9, della legge n. 385/1990 sono trasferiti alle regioni competenti che inizieranno o proseguiranno le relative procedure di alienazione o di diversa utilizzazione, destinandone i proventi a favore delle aziende ex gestioni governative. Gli accordi di programma definiscono altresì l'entità delle risorse finanziarie da trasferire alle regioni, tali da garantire, al netto dei contributi già riconosciuti da regioni ed enti locali, l'attuale livello di tutti i servizi erogati dalle aziende in regime di gestione commissariale governativa (9).

4-bis. La gestione delle reti e dell'infrastruttura ferroviaria per l'esercizio dell'attività di trasporto a mezzo ferrovia è regolata dalle norme di separazione contabile o costituzione di imprese separate di cui al regolamento recante norme di attuazione della direttiva 91/440/CEE relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 1998, n. 277. I gestori delle reti per i criteri di ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria e per gli standard e le norme di sicurezza si adeguano al regolamento recante norme di attuazione della direttiva 95/19/CEE, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 16 marzo 1999, n. 146 (10).

4-ter. Le regioni hanno la facoltà, previa intesa con il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, di trasferire alle Ferrovie dello Stato S.p.a. i beni, gli impianti e l'infrastruttura di cui al comma 4, fermo restando la natura giuridica dei singoli beni (11).

5. Successivamente al perfezionamento degli accordi di programma e alla emanazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui al comma 4, le regioni affidano, trascorso il periodo transitorio previsto dall'articolo 18, comma 3-bis, con le procedure di cui all'articolo 18, comma 2, lettera a), la gestione dei servizi ferroviari di cui al comma 1, lettere a) e b), con contratti di servizio ai sensi dell'articolo 19, alle imprese ferroviarie che abbiano i requisiti di legge. Dette imprese hanno accesso alla rete ferroviaria nazionale con le modalità fissate dal regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 1998, n. 277. I contratti di servizio assicurano che sia conseguito, a partire dal 1° gennaio 2000 il rapporto di almeno 0,35 tra ricavi da traffico e costi operativi, al netto dei costi di infrastruttura. Le regioni forniscono al Ministero dei trasporti e della navigazione - Dipartimento dei trasporti terrestri, tutte le informazioni relative all'esercizio delle funzioni a loro delegate. Il Ministro dei trasporti e della navigazione, in base alle predette informazioni e a quelle che acquisirà direttamente, relaziona annualmente alla Conferenza Stato-regioni e al Presidente del Consiglio dei Ministri sulle modalità di esercizio della delega e sulle eventuali criticità (12).

6. Con successivi provvedimenti legislativi si provvede alla copertura dei disavanzi maturati alla data del conferimento di cui al presente articolo, ivi compresi gli oneri per il trattamento di fine rapporto, al netto degli interventi già disposti ai sensi della legge 30 maggio 1995, n. 204, e delle successive analoghe disposizioni.

6-bis. Lo Stato e le regioni possono concludere, d'intesa tra loro, accordi di programma con le Ferrovie dello Stato S.p.a. per l'affidamento alle stesse della costruzione, ammodernamento, manutenzione e relativa gestione delle linee ferroviarie locali concesse e già in gestione commissariale governativa di rilevanza per il sistema ferroviario nazionale”) ed indica la (non intimata) Regione qual soggetto obbligato alla restituzione.

Senonchè appare palese che la norma è evocata del tutto a sproposito, in quanto la circostanza che la Regione sia divenuta proprietaria della Stazione non incide punto sulla questione relativa a due particelle, detenute indebitamente da E e che non servirono per la realizzazione della Stazione, (tanto che non furono oggetto di esproprio): la norma superveniens non può avere certo il significato di trasferire al subentrante anche la titolarità di quelle aree…indebitamente detenute dal gestore del servizio, che le occupò e le continuò a detenere, illegittimamente, pur quando fu definitivamente accertato che esse non sarebbero servite alla realizzazione dell’opera.

Trattasi di una eccezione confusoria e manifestamente infondata.

2.4..A questo punto il Collegio potrebbe considerare esaurita la disamina delle questioni pregiudiziali. Purtuttavia, in considerazione della circostanza che l’appellante incidentale E srl ha proposto con il quarto motivo una ulteriore ultima censura attribuendole carattere pregiudiziale, il Collegio – pur non concordando con detta definizione posto che la eccezione predetta è una vera e propria doglianza di merito – ritiene di cogliere l’occasione per esaminare prioritariamente una serie di contrapposti argomenti –taluni manifestamente infondati – dedicando la parte centrale della motivazione allo scrutinio delle questioni di merito essenziali.

2.5. A dispetto quindi di quello che dovrebbe essere l’ordine logico”canonico” ed a costo di frantumare l’esposizione del merito, può esaminarsi detta quarta doglianza incidentalmente proposta da E srl, nell’ambito della quale si è sostenuta la violazione del principio del ne bis in idem quanto alla domanda di risarcimento per aggravamento dei costi di realizzazione e perdita dei contributi in conto capitale formulata dal B in quanto la sentenza del T regiudicata n. 601/2007 (essa era stata confermata, infatti, dalla sentenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato n. 4591/08) aveva infatti rigettato dette domande proposte anche nei confronti della S sia dalla Campanile Srl che dal B personalmente.

Il T aveva invece riconosciuto il bis in idem soltanto con riguardo alla lamentata perdita dei finanziamenti in conto capitale, ma ciò ad avviso dell’appellante incidentale,costituiva un grave errore.

Dal canto suo, il B con la sesta censura del proprio atto di appello ha chiesto venisse disposto il risarcimento per l’avvenuta perdita dei finanziamenti a fondo perduto per ben tre volte erogati a parte appellante (la decadenza discendeva dal mancato avvio dei lavori del Piano Integrato di cui si era dimostrata la riconducibilità alla permanenza della illegittima occupazione delle due particelle) e (motivo n.7) per la impossibilità di giovarsi dei due crediti di imposta riconosciuti all’impugnante (pari ad E 1.700.000 ciascuno).

Il T poi (ottavo motivo di ricorso, pag 12 lett. i del mezzo di primo grado) non si era pronunciato sul danno da “mancato godimento” dell’immobile (voce di natura morale e psicologica da tenere distinta da quella patrimoniale che dava causa all’attribuzione della indennità di occupazione) e (censura n. 9) su quella del “mancato profilo dell’ imprenditore” (sul quale pure, l’elaborato del Ctu si era soffermato, a pagg. 195 e segg. punto 4.4.4.).

Aveva sostenuto a tal proposito che alcuna preclusione al riconoscimento di tali voci poteva discendere dalla decisione del T n. 601/2007.

2.6. L’analisi di tali contrapposte obiezioni e critiche deve ovviamente muovere dal contenuto della richiamata decisione.

A tal proposito la semplice lettura della decisione n. 601/2007 consente di convenire con la esattezza della tesi affermata dal primo giudice e di disattendere le censure di S.

Richiamato il consolidato principio della giurisprudenza amministrativa secondo il quale (ex aliis Cons. Giust. Amm. Sic., 29-02-2012, n. 225 “nel processo amministrativo, il giudicato può formarsi solo in relazione a capi di sentenza che si pronunciano sui motivi, e non può formarsi, invece, laddove i motivi di ricorso non vengano esaminati perché assorbiti”) è evidente che il mero raffronto tra l’epigrafe della richiamata decisione (pag. 3)“e per il risarcimento del danno da perdita di finanziamenti” e la parte motiva della stessa (pag. 15 capo 7)“ la domanda risarcitoria va rigettata non risultando provato il supposto danno in capo alla parte ricorrente e non ricorrendo il presupposto soggettivo dell’invocata responsabilità” consente di disattendere la tesi della S, ed affermare che la detta decisione non ebbe a pronunciarsi sulla questione “aggravio costi”.

L’eccezione di S va pertanto disattesa, mentre la reiterata domanda relativa a finanziamenti e “perdita da credito d’imposta” riconducibile alla medesima nozione, avanzata dal B, va dichiarata inammissibile a cagione del giudicato intervenuto sul punto.

Come ammesso dallo stesso appellante al motivo n. 10 dell’appello (che, pertanto, è infondato) esso ebbe ad articolare innanzi al T tale argomento e tale eventualità: ed all’evidenza ciò fece aspirando ad una pronuncia che avesse riconosciuto il detto danno.

Il T, per il vero, non si pronunciò espressamente sul detto petitum, che neppure assorbì espressamente.

Pertanto, delle due l’una: o si ritiene che la concisa espressione utilizzata dal T ricomprendesse detta voce ed allora in parte qua avrebbe ragione S (si rammenta che la decisione è stata confermata dal Consiglio di Stato) e quindi vi sarebbe preclusione da giudicato.

Ovvero la sentenza – che lo si ripete non ha assorbito neppure genericamente detto petitum- era viziata ex art. 112 cpc;
sarebbe stato onere del Bainao gravarla per tal motivo, ed in assenza di gravame sul punto e nella considerazione che il Consiglio di Stato ha confermato in appello la detta pronuncia non v’è spazio per la riproposizione del detto petitum.

2.7. Ulteriore –ed ultima – disamina di natura pregiudiziale, il Collegio intende riservare alla doglianza contenuta nell’appello principale del B, relativa all’asserita erroneità/carenza materiale contenuta nella gravata decisione, allorchè il T (seconda censura) da un canto aveva affermato la necessità di ripristinare lo status quo ante;
poi, però aveva disposto la restituzione delle particelle,senza ribadire che la restituzione sarebbe dovuta essere preceduta dalla eliminazione dello sbancamento.

La palese erroneità dell’argomento di critica, è evidente: il T ha sostenuto che lo sbancamento avesse arrecato un danno;
che trattavasi di danno risarcibile;
che ciò (unitamente all’avvenuta demolizione dei capannoni) rendeva il rifiuto del B a riprendersi le aree legittimo e giustificato posto che altrimenti egli sarebbe rientrato in possesso di un compendio “diverso”.

Al punto 5 della gravata decisione, poi, il T ha escluso il risarcimento degli asseriti danni relativi alle cc.dd. “Riduzione accessibilità studentato e “Riduzione qualità urbana ed architettonica”: il Tribunale ritenne che esse non spettassero perché “laddove sarà effettuato, come disposto in questa sede, il ripristino dello status quo ante (o comunque saranno corrisposti dalle intimate i soldi necessari al predetto risultato) questi danni saranno evidentemente riassorbiti”.

Orbene, trattandosi di danni da sbancamento, il T ha provveduto a liquidare i medesimi per equivalente.

Il T ha espressamente affermato che “caso il criterio estimativo adottato in sede di CTU – peraltro semplicemente rapportato ai costi occorrenti (determinati in euro 112.392,56) per porre rimedio all’improvvido sbancamento cagionato all’area– si palesa corretto e, a giudizio del Tribunale, può dunque essere condiviso.”.

E, come si è avvertito in premessa, è documentale che la detta somma sia stata corrisposta al B.

A questo punto è francamente disagevole comprendere il senso della censura: il T ha affermato il dovere del ripristino dello status quo ante;
ha constatato che ciò non era sinora avvenuto;
ha quantificato i costi (giovandosi ovviamente del rilevante apporto del Ctu);
li ha liquidati in sentenza.

Ciò copre ogni pretesa di rimessione in pristino, né si comprende altrimenti il senso della censura, salvo a volere ritenere che il B sostenga che occorrerebbe prima la rimessione in pristino a cure e spese degli obbligati, e poi (anche) la corresponsione della somma predetta, ma a questo punto vi sarebbe una indebita locupletazione tanto palese quanto impossibile da accordarsi, e pertanto la censura appare totalmente destituita di fondamento.

3.Così esaurita la disamina delle questioni preliminari di rito e di merito, possono essere esaminati i nodi centrali della causa.

Escluso che vi sia contrasto sull’onere restitutorio delle particelle non espropriate (già avvenuto, peraòtro);
esclusa la fondatezza di ogni censura con riferimento alla quantificazione della cifra necessaria per il ripristino dell’area, in ordine alla legittimità del rifiuto del B a ricevere le aree nello stato in cui erano;
ed esclusa la fondatezza di qualsivoglia obiezione (peraltro neppure decisamente avanzata, per il vero) in ordine alla necessità di eliminare lo sbancamento, le due questioni centrali sono corrispondenti alle “poste” risarcitorie liquidate in sentenza (risarcimento per la demolizione degli immobili abusivi e risarcimento da interferenza ostativa alla realizzazione del Programma Integrato).

3.1. Il Collegio – come già segnalato in sede cautelare- quanto alla prima, condivide pienamente le critiche appellatorie, il che induce alla riforma della sentenza nella parte in cui ha ritenuto configurarsi danno risarcibile la demolizione dei capannoni.

Il detto capo della gravata decisione è errato, e va integralmente e senza riserve riformato.

Va in proposito premesso che sono certamente inaccoglibili (non solo perché tardivi, ma anche perché del tutto sforniti di prova)gli argomenti del B volti a revocare in dubbio la circostanza pacifica, acquisita, sulla quale si è fondata anche la Ctu, relativa alla non regolarità dei capannoni in lamiera ivi esistenti e demoliti.

Ciò posto, il Collegio richiama, in proposito, il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. I Sent., 14-12-2007, n. 26260) di recente ribadito dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. I, 18-07-2013, n. 17604) secondo il quale

“in tema di espropriazione per p.u., gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria. Per essi, quindi, la liquidazione non può avvenire sulla scorta del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste ma sulla sola area, per evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere (anche in via indiretta) ad accrescere il valore del fondo. La medesima regola vale anche per le ipotesi di cd. " espropriazione larvata" previste dall'art. 46 della L. n. 2359/1865, atteso il necessario raccordo tra indennizzo previsto da tale norma e indennità di espropriazione (anche se regolata da leggi speciali): questo, anche se il danno lamentato consiste proprio nella diminuzione di godimento dell' immobile abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa - sia urbanistica, che espropriativa (cfr. art. 16, comma 9, L. n. 865/1971) - quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua attività illecita (Cass. nn. 17881/2004;
26260/ 2009;
4206/2011;
Sez. Un. n. 9341/2003).

Due sono gli argomenti sui quali si è fondata la decisione gravata per disattendere detto orientamento.

Il primo, è quello per cui esso sarebbe predicabile soltanto in ipotesi di espropriazione legittima, mentre invece nel caso de quo - in cui si è in presenza di un fatto illecito ex art. 2043 cc- si dovrebbe rispondere anche dei danni imprevedibili ex artt. 1225 e 2056 cc;
secondariamente, quello per cui il Ctu aveva calcolato le possibilità condonistiche, ed in relazione alla circostanza che i volumi erano parte della superficie da riconvertire secondo le previsioni di cui al Programma integrato.

Premesso, quanto a quest’ultimo punto, che i volumi predetti, in ipotesi di effettiva realizzazione del programma integrato sarebbero stati demoliti, di guisa che accordare il risarcimento per la illegittima anticipata demolizione dei capannoni abusivi ed anche per la impedita realizzazione del programma appare integrare duplicazione di poste risarcitorie ed errore palese sotto il profilo della verificata della causalità della condotta occupativa sulla “sorte dei capannoni”, (e già tale constatazione sarebbe sufficiente ad accogliere l’appello)il Collegio non ritiene di condividere neppure il primo passaggio motivazionale.

Il T è stato costretto a forzare la classificazione concettuale dell’evento occorso, riportandolo al concetto di “danno imprevedibile” del quale si dovrebbe rispondere nel caso di procedura espropriativa/occupativa che concreti un illecito ex art. 2043 cc.

Senonchè appare evidente che la detta tesi muove da un presupposto esatto ed approda ad una conseguenza errata.

Il presupposto esatto è quello per cui – più che mai oggi, a seguito delle decisioni della Corte Edu, (ex aliis Corte europea diritti dell’uomo Sez. III, 06-03-2007) non è possibile assimilazione alcuna tra procedimento espropriativo legittimo ed illegittimo.

Ma ciò incide sui diritti spettanti al destinatario che, ex art. 2043 cc, coprono un ventaglio di fattispecie maggiore e distinto rispetto al semplice indennizzo del bene.

Tale ineliminabile differenza, ontologica, tuttavia, non può valere a rendere risarcibile un pregiudizio che, giammai sarebbe risarcibile e che, semplicemente, per l’ordinamento giuridico “non esiste”.

Il manufatto edificato illegittimamente, per l’ordinamento giuridico, non può essere fonte alcuna di locupletazione, in nessun caso, almeno sino a quando non sia stato sanato, secondo il consolidato principio (questo sì obliato dal T) che qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu .

Il manufatto abusivo è nella sostanza incommerciabile (ex aliis, arg. Cass. civ. Sez. II, 05-10-2012, n. 17028:“la nullità prevista dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47, di cui all'art. 40, comma 2, per omessa dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell' immobile oggetto della compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria , assolve la sua funzione di tutela dell'affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere lo stato del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria . Da ciò consegue che, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.”);

la eventuale alienazione a terzi di esso non incide sulla oggettiva abusività del bene medesimo e sulla necessità che sia demolito ( ex aliis ancora di recente Cass. pen. Sez. III Sent., 29-03-2007, n. 22853);

esso non dovrebbe esistere: ove vi sia, ciò significa che si versa in stato di irregolarità, posto che invece, il manufatto avrebbe già dovuto essere abbattuto.

Non è azzardato ritenere che, quanto alla possibilità che il proprietario del medesimo se ne avvantaggi in qualsiasi modo, essa è radicalmente esclusa dall’ordinamento, tanto da potere assimilare il manufatto abusivo, a tali limitati, fini, ad una res nullius (arg. ex art. 17 della legge n. 47/1985: oggi: art. 46 del dPR n. 380/2001).

Detta situazione di illecito ( di natura permanente: si veda ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 18-09-2013, n. 4651 “il carattere permanente degli abusi edilizi -d.P.R. n. 380 del 2001 - T.U. Edilizia- comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi”, ma si veda anche tutta la costante elaborazione giurisprudenziale penalistica) preesisteva al fatto occupativo/ espropriativo illegittimo, e detta sopravvenienza non può integrare una inammissibile “interversione” tale da far considerare risarcibile ciò che certamente non lo era.

L’illecito sopravvenuto, in altre parole, non vale a trasformare in diritto necessitante riparazione ciò che tale non era;
che tale non era sotto il profilo oggettivo;
che non rilevava in nessun senso per l’ordinamento giuridico.

A maggiore chiarificazione, si ricorrerà ad un esempio: la eventualità di accordare il risarcimento del danno per la (illegittima, certamente, ciò non può negarsi) demolizione di immobili abusivamente edificati e non ancora sanati, equivarrebbe ad ipotizzare la possibilità che colui il quale si sia indebitamente impossessato di un portafogli altrui (art. 624 cp) ove a propria volta derubato, possa chiedere il risarcimento del danno al (secondo) ladro.

Così certamente non è.

Alla stregua dei superiori convincimenti appare evidente che non possono indurre ad un contrario opinamento le considerazioni in ultimo esposte dal B nella propria memoria fondate sulla circostanza che ad un tale approdo potrebbe giungersi soltanto nella ipotesi – non sussistente nel caso di specie- in cui venisse provata la assoluta non condonabilità dell’immobile(è questo il senso dell’argomentazione svolta nella memoria, laddove si sottolinea che la sentenza della Corte di Cassazione Sez. I Sent., 14-12-2007, n. 26260 citata nella ordinanza cautelare resa dal Collegio e richiamata anche nella presente decisione concerneva un bene insistente su fascia di rispetto autostradale e quindi giammai in assoluto sanabile ).

Lo si ripete: il Collegio non ritiene che rilevi l’astratta sanabilità dell’opus, demandata peraltro alla lata discrezionalità dell’Amministrazione ed alla iniziativa del responsabile dell’abuso, ovviamente (che potrebbe decidersi ad avanzare domanda di condono proprio per lucrare non dovuti risarcimenti): sino a che l’immobile non sia stato sanato esso non riceve alcuna considerazione dell’ordinamento giuridico;
integra condotta illecita permanente;
per il principio di non contraddizione da tale illecito non può ricavarsi beneficio alcuno, neppure ove sul manufatto abbia inciso l’altrui azione non iure.

Alla stregua delle superiori argomentazioni, e disattesa ogni eccezione sul punto, vanno accolti gli appelli proposti da A e S e va esclusa la detta “posta risarcitoria” riconosciuta dal primo giudice: ne consegue che vanno ovviamente disattese le speculari doglianze del B incentrate sulla quantificazione di detta voce risarcitoria (e la supposta - asseritamente necessaria - previsione di interessi e rivalutazione) che invece, per le già chiarite ragioni, non è concedibile per due connesse ragioni illustrate: difetto di causalità e duplicazione della posta risarcitoria con riferimento alla realizzazione del Programma integrato e oggettiva ed assoluta irrisarcibilità del danno arrecato ad immobile abusivo

4. Venendo adesso alla questione relativa alla relazione interferenziale della occupazione sulla praticabilità e realizzabilità del Programma Integrato, ritiene invece il Collegio che la sentenza meriti piena conferma (anche con riferimento al dato temporale, in ordine al quale nessun argomento è in grado di incidere sella determinazione resa dal primo giudice, armonicamente con gli esiti della CTU) e che vadano disattese le contrapposte obiezioni delle parti appellanti.

La tesi dell’A e della S, secondo cui l’occupazione arbitraria protattasi illegittimamente sulle due particelle non avrebbe avuto alcun effetto sulla impossibilità di realizzare alcuna parte del Programma integrato appare infondata sino alla temerarietà;
la tesi dell’appellante privato secondo cui dalla unitarietà giuridica del Programma discendeva che un intervento impeditivo che avesse direttamente inciso (sotto il profilo materiale) con una sola (la D, piazza e negozi) articolazione di cui esso si componeva doveva immediatamente traslarsi sull’intero, non solo appare indimostrata ed indimostrabile, ma soprattutto non poggia su riferimenti eziologici certi.

Il vero è che, in parte qua, il T, giovandosi del proprio potere di liquidazione equitativa (muovendo dal dato certo, contenuto nella consulenza tecnica relativo alla partita determinazione della cifra ascrivibile all’incremento dei costi di realizzazione per ciascuno dei quattro singoli interventi di cui si componeva il Programma) ha compiuto una operazione determinativa encomiabile (la riduzione sino al 25% rapportata all’importo globale, comprensivo anche della voce “interessi sul mancato profitto imprenditoriale”) che ha ponderato più elementi.

Essi sono: la considerazione giuridica unitaria del Programma, che è innegabile e non è stata recisamente contestata neppure dalle ditte appellanti e, al contrario, è stata positivamente dimostrata dal B;
il contrastante elemento secondo il quale in via teorica e pratica i detti interventi sarebbero stati realizzabili anche separatamente (prova ne sia che la Dia era stata presentata soltanto per il corpo B, che costituiva la parte più importante ed onerosa del Programma);
la circostanza, a torto sistematicamente obliata dalle ditte appellanti secondo le quali l’imprenditore che ottiene un atto ampliativo per un intervento complessivo non può essere considerato censurabile laddove, nell’ipotesi di illegittimi ostacoli frapposti alla realizzabilità ex ante dell’intero complesso di opere a cagione della impossibilità (certa, posto che le particelle indebitamente occupate non avrebbero consentito di realizzare l’intero complesso di opere, impedendo la realizzazione del corpo D, Piazza e negozi) di realizzarne una parte si astenga dal porre mano all’intero, nella incertezza circa la possibilità di erigerlo siccome preordinato;
al contempo, la pratica possibilità di realizzazione parcellizzata, dato questo, che va valutato oggettivamente anche ex art. 1227 cc, affinchè dall’ostacolo frapposto non si ottenga locupletazione (il principio è analogo a quello che contiene il risarcimento del danno in ipotesi di ingiusta esclusione da una gara, laddove l’aspirante, pur potendo adibire il personale ad opere diverse, abbia ritenuto di tenerlo bloccato, in vista della esecuzione dell’appalto dal quale era stato escluso: scelta legittima, ma non indifferente sotto il profilo delle conseguenze risarcitorie);
infine, la circostanza che la protrazione occupazione sulle dette due più volte richiamate particelle comportava le seguenti conseguenze: impediva la realizzazione dell’intero;
ciò in quanto impediva materialmente la realizzazione di una parte dell’intero (corpo D) ma non precludeva la realizzazione parcellizzata.

Dalla combinazione di tali elementi, taluno di segno e valenza contrastante rispetto all’altro, è evidente che la valutazione del giudice (impossibile sotto un profilo rigidamente causalistico, a meno di volere svolgere indagini – non si vede improntate su quali canoni e criteri- sull’intento psicologico del B volto a chiarire perché ed in base a quali considerazioni questi si astenne dall’intraprendere la parcellizzata realizzazione possibile di una parte del Programma) non poteva che essere resa su base equitativa, ed essa, in tali limiti, appare corretta ed immune da mende laddove ha svolto un giudizio ponderale e , tutto sommato, probabilistico che tenesse conto di tutti i detti fattori.

Nella non provata assoluta impossibilità di realizzare alcuno dei singoli interventi del predetto Programma (sulla cui oggettiva unitarietà “ di partenza” non si dubita) l’approdo del primo giudice appare corretto e condiviso dal Collegio: la pretesa di rapportare il danno alla sola omessa realizzazione del Corpo D è inaccoglibile, tanto quanto lo è quella del B di considerare provato l’ostacolo dirimente alla realizzazione dell’intero e la non frazionabilità del pregiudizio risarcibile per quattro (tanti quanti erano i corpi realizzabili dal complessivo intervento) .

Inaccoglibile, tanto quanto l’affermazione di A con la quale si ritiene di qualificare il detto danno riconosciuto dal T “indiretto”: esso (mancata realizzazione dell’intero ventaglio delle opere ricadenti nel Programma Integrato) è invece certamente diretto, soltanto che non è “provato” (né provabile) con assoluta certezza, come risulta priva di comprova l’opposta tesi (anche prospettata da E) secondo la quale nulla di quanto il B si proponeva di realizzare sarebbe stato in realtà edificabile per problematiche endemiche e prescindenti dalla abusiva occupazione delle particelle (vedasi Dia afferente al corpo “B” Studentato) .

Tali contrapposte censure, pertanto, vanno complessivamente disattese alla stregua delle considerazioni che precedono: la sentenza, in parte qua va certamente confermata, come non soltanto non appare censurabile, ma è stata invece l’unica percorribile, la scelta del T di utilizzare il metodo equitativo per la determinazione del danno e corretto ed immune da mende l’approdo quantitativo cui esso è giunto, che va in parte qua confermato.

L’appello proposto da A, e gli appelli incidentali sullo stesso incardinati quindi, vanno soltanto parzialmente accolti, nei termini di cui alla motivazione che precede, e nella restante parte vanno disattesi.

5. Quanto ai numerosi motivi di censura proposti dal B nel proprio atto di appello, (taluni peraltro costituiscono vere e proprie “eccezioni preventive” rispetto al contenuto dell’appello proposto da A) va rilevato che, sul primo e sull’undicesimo (laddove si contesta l’an del ricorso alla valutazione equitativa) ci si è pronunciati nel capo superiore della presente decisione (riconoscendo, in particolare, la necessità del ricorso ai poteri ex art. 1226 cc da parte del primo giudice, quanto all’an, ed alla condivisibilità sul quomodo, in assenza di prova certa in ordine agli aventi di contrario segno oggetto di ponderazione e la non aderenza al dato di causa della possibilità di riconoscere un danno comprensoriale tout court e per intero nei termini pretesi dal B).

Quanto a tale ultimo profilo (undicesimo motivo) è appena il caso di evidenziare che neppure coglie nel segno l’ultima parte della censura, volta ad ipotizzare un “obbligo” per il Giudice di discostarsi dagli accertamenti svolti dal Ctu soltanto in base ad eventuali “errori” contenuti nell’elaborato da questo redatto –e non riscontrati nel caso di specie.

Sotto tal profilo è bene essere chiari: il detto preteso obbligo non sussiste e non è rispondente ad alcun principio processuale;
esso, a tutto concedere, potrebbe concernere il discostamento da dati certi e matematici di natura tecnica dal Ctu esposti, ma giammai potrebbe investire (come è avvenuto nel caso di specie) valutazioni di natura giuridica o probatoria (chè tali sono state quelle rese dal T in punto di “danno comprensoriale” che peraltro, come si è prima chiarito, il Collegio condivide pienamente ).

Il secondo, il quinto ed il decimo motivo sono stati disattesi in precedenza, il terzo (nella parte in cui esso si discosta da quanto illustrato nel primo motivo) è inammissibile in quanto l’appellante (come dallo stesso rilevato laddove ammette che, in parte qua, la sentenza è satisfattoria) non ha interesse a sollevarlo.

Il quarto motivo è stato disatteso in quanto collidente con le statuizioni regiudicate di cui alla decisione n. 601/2007 del T, ed analoga statuizione investe il sesto motivo ed il settimo (i contributi in conto capitale doppiano i “finanziamenti a fondo perduto” e rientrano nella detta pronuncia del T confermata in appello, come del resto i supposti crediti di imposta per i quali valgono le considerazioni reiettive del decimo motivo di gravame).

Con l’ottavo motivo di ricorso, invece, l’appellante B censura (in verità anche ex art. 112 cpc) la decisione del T laddove quest’ultimo non ha accordato il c.d. danno da mancato godimento del bene.

Del profilo ex art. 112 cpc si è già detto nell’incipit della presente decisione: nel merito, questi quantifica il danno nella misura pari alla indennità di occupazione nei termini quantificati dal giudice e lo rapporta all’evento riposante nella mancata attuazione del Programma di intervento.

In disparte ogni considerazione sulla formulazione meramente assertiva della censura, è evidente che si tratta di una mera duplicazione di posta risarcitoria, già prevista ed accordata dal primo giudice che –allorchè ha riconosciuto il risarcimento per l’incremento dei costi del realizzando programma- vi ha ricompreso il detto petitum.

In sostanza lo stesso appellante sostiene che, ove avesse avuto la disponibilità del compendio, avrebbe realizzato l’intervento: se questo è il petitum, è evidente che il danno patrimoniale riposa nell’omessa immediata realizzazione dell’ intervento (non si ripeteranno considerazioni già rese in ordine alla possibilità teorica di un inizio parcellizzato, sulla effettiva sussistenza di difficoltà, comunque correttamente non considerate dirimenti dal T): ma se così è la voce patrimoniale di danno coincide con gli ulteriori costi che questi non avrebbe sostenuto ove avesse edificato tempestivamente.

Essa è già stata liquidata – con statuizione confermata dal T- e pertanto il petitum è inammissibile e comunque infondato laddove gli si volesse riconoscere autonomia.

Analoghe considerazioni vanno articolate con riguardo alla nona censura: anche qui ciò che si richiede è una voce non autonoma, ma coincidente e neppure costituente specificazione di quella –positivamente riconosciuta- “interessi sul mancato profitto imprenditoriale”.

Resta da vagliare l’argomento (motivo n. 12) relativo al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale e quello (13) relativo alla liquidazione delle spese del procedimento.

Quanto al primo, il T ha evidenziato l’assoluto difetto di prova ed allegazione da parte del ricorrente in chiave applicativa dell’art. 2059 cc.

Il quadro dal quale il Collegio non intende discostarsi è quello scolpito nella recente, condivisibile, decisione della Sezione (Cons. Stato Sez. IV, 05-09-2013, n. 4464) secondo la quale “nel nostro ordinamento, non è ammissibile l'autonoma categoria di danno esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione. Pertanto, la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria. Ove nel danno esistenziale si intenda includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art. 2059 c.c.”.

Rammenta in proposito il Collegio che condivisibile recente giurisprudenza ha affermato che Cass. civ. Sez. VI - 3 Ordinanza, 14-05-2013, n. 11514 (rv. 626652) “i l danno non patrimoniale è una categoria unitaria, non suscettibile di divisioni in ulteriori sottocategorie. Pertanto, in presenza di una lesione di diritti inviolabili, come quello alla salute, il risarcimento dovrà essere commisurato al peggioramento della qualità della vita effettivamente dimostrato dalla vittima, mentre non trova più spazio la risarcibilità del c.d. danno morale "puro" o sofferenza d'animo, il quale perciò non rientra tra le conseguenze dannose che possano formare oggetto di prova.”.

Non si nega che anche un evento non incidente su un bene personalissimo quale la salute possa provocare un pregiudizio non patrimoniale nei termini sopra intesi.

Ciò che si nega è invece, in armonia alla consolidata giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. Stato Sez. III, 19-07-2013, n. 3943 “nel giudizio amministrativo spetta al ricorrente, che assume di aver subito un danno dall'adozione di un provvedimento illegittimo o anche da un comportamento della P.A., l' onere della prova, secondo il principio generale fissato dall'art. 2697 c.c. non potendo a tanto supplire il soccorso istruttorio del giudice, trattandosi di prove che sono nella piena disponibilità della parte” ) e civile (ex aliis Cass. civ. Sez. lavoro, 18-07-2013, n. 17585) che detto danno sfugga all’ordinario criterio di riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 cc e possa integralmente desumersi da presunzioni a loro volta soltanto labialmente affermate.

Di ciò non pare rendersi conto l’appellante che neppure in grado d’appello ha colmato l’assoluto deficit probatorio riscontrato in primo grado (nei limiti in cui ciò sarebbe stato possibile ex art. 345 cpc) e continua a far riferimento a dati “categoriali “ (il coraggio di imprenditore dimostrato dal B, etc) senza punto fornire prova dell’asserito peggioramento della qualità della vita di questi, del pretium doloris asseritamente patito, etc.

Il principio, quanto alle posizioni di diritto soggettivo non è nuovo, né recente (ex aliis T.A.R. Basilicata Potenza Sez. I, 10-09-2010, n. 616: “nel giudizio amministrativo, vige il generale principio processualistico di cui all’art. 2697 c.c. in base al quale incombe sulla parte attrice l’onere di indicare e dimostrare specificamente i fatti posti a fondamento della pretesa azionata. Tale principio- che subisce un’attenuazione nell’ipotesi in cui il giudizio verta su interessi legittimi, per effetto dell’intermediazione del provvedimento amministrativo- trova piena applicazione in sede di giurisdizione esclusiva in cui si verte di diritti soggettivi”;
-Cons. Stato Sez. III, 14-12-2011, n. 6573 - “nel processo amministrativo, nei casi di giurisdizione esclusiva, ove si facciano valere pretese patrimoniali, il principio dell’onere della prova si applica nella sua pienezza, non essendo consentito al Giudice di supplire all’attività istruttoria delle parti, per lo meno quando, come appunto accade nel caso all’esame, nessuna situazione di inferiorità sia dedotta dal ricorrente, né sia in concreto ravvisabile, in ordine alla disponibilità del materiale documentale necessario per provare i fatti allegati) esso però è stato ignorato da parte appellante che non ha assolto all’onere probatorio a se spettante.

Anche tale doglianza va quindi disattesa.

Quanto alle spese, rammenta il Collegio il condivisibile orientamento che costituisce jus receptum secondo cui “la decisione del giudice di merito in materia di spese processuali è censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione di legge, soltanto quando le spese siano state poste, totalmente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa;
non è invece sindacabile, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito sull'opportunità di compensare, in tutto o in parte le spese medesime. Tali principi trovano applicazione non soltanto quando il giudice abbia emesso una pronuncia di merito, ma anche quando egli si sia limitato a dichiarare l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'atto introduttivo del giudizio. Infatti, pure in tali ultimi casi sussiste pur sempre una soccombenza, sia pure virtuale, di colui che ha agito con un atto dichiarato inammissibile o improcedibile che consente al giudice di compensare parzialmente o totalmente le spese, esercitando un suo potere discrezionale che, nel caso specifico considerato, ha come suo unico limite il divieto di condanna della parte vittoriosa e che si traduce in un provvedimento che rimane incensurabile in cassazione purché non illogicamente motivato. (Cassazione civile , sez. lav., 27 dicembre 1999, n. 14576)

Detto principio è stato più volte predicato dalla giurisprudenza amministrativa, che ha avuto modo di affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate.” (Cons. Stato, sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7581).

Ciò non si è verificato nella fattispecie per cui è causa, laddove semmai il giudice ha modulato nel quantum la condanna inflitta a controparte nella evidente considerazione che v’era stata reciproca soccombenza in relazione a numerosi profili processuali, dal che discende la reiezione anche di questa censura e la conferma in parte qua dell’appellata decisione

Conclusivamente, definitivamente pronunciando sui riuniti appelli, essi vanno accolti soltanto parzialmente, nei termini di cui alla motivazione che precede, e la sentenza va confermata parzialmente, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso (ed è appena il caso di avvertire che le insistite argomentazioni contenute nelle memorie in ultimo depositate dal B relativamente ad un giudizio di permanente incidenza negativa dei lavori di realizzazione della Stazione -in quanto “errati”- sul Programma integrato, oltre ad essere –ove intese come argomento autonomo e non ad colorandum rispetto alle censure già proposte- “nuove” e pertanto inammissibili ex art. 345 cpc, esulerebbero del tutto dalla giurisdizione di questo Giudice).

6. La complessità molteplicità e particolarità delle questioni esaminate, e la reciproca soccombenza, impone la integrale compensazione tra le parti delle spese del grado di giudizio sostenute.

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