Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-03-16, n. 201201510

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-03-16, n. 201201510
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201201510
Data del deposito : 16 marzo 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10451/2010 REG.RIC.

N. 01510/2012REG.PROV.COLL.

N. 10451/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10451 del 2010, proposto da:
S F, rappresentato e difeso dapprima dall’Avv. E B e, quindi, dall’Avv. A V, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Merulana, 141;

contro

Ministero della Difesa e Ministero dell’Economia e delle Finanze (giàià Ministero del Tesoro), in persona dei rispettivi Ministri pro tempore , costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale Militare (Persomil), Truppa in Servizio Permanente - Caserma Militare della Cecchignola (Roma);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Roma, Sez. I-bis, n. 32497 dd. 28 settembre 2010, resa tra le parti e concernente dimissioni dall’impiego militare – Risarcimento danni.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e del Ministero dell'Economia e delle Finanze (già Ministero del Tesoro);

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 ottobre 2011 il Cons. F R e uditi per l’appellante l’Avv. A V e per gli intimati Ministeri, nella sola fase preliminare dell’udienza, l’Avvocato dello Stato Angelo Vitale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1. L’attuale appellante, Fabio S, già in servizio quale Aviere capo presso il 41° Stormo Antisom dell’Aeronautica Militare con sede in Sigonella (Sr), ha rassegnato le proprie dimissioni dall’impiego militare il 16 aprile 2007, con effetto dal successivo 31 maggio.

Nondimeno, con ricorso proposto sub R.G.3345 del 2008 innanzi al T.A.R. per Il Lazio, Sede di Roma, egli ha innanzitutto chiesto:

a) di essere reintegrato in servizio, dovendosi ritenere nulle le dimissioni in quanto asseritamente determinate dal modus operandi dei superiori gerarchici mediante azione di mobbing , in ordine alla quale risponderebbero, a’ sensi dell’art. 28 Cost., i convenuti Ministero della Difesa (anche quale datore di lavoro) e Ministero dell’Economia e delle Finanze;

b) l’annullamento delle dimissioni medesime per vizio del consenso o, comunque, per incapacità naturale, in quanto presentate all’Amministrazione nel periodo in cui egli era sottoposto - proprio in dipendenza di malattia contratta a causa del rapporto di lavoro - a terapia farmacologia con Lorazepam , farmaco che rende incapaci o comunque che influenza la psiche dell’assuntore.

In subordine, il S ha chiesto:

a) che le dimissioni siano dichiarate assistite da giustificato motivo;

b) la condanna dei convenuti Ministeri al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, determinatisi anche per fatto dei dipendenti;

c) in ogni caso, anche a prescindere dalla reintegra e dall’accoglimento delle sopradescritte domande giudiziali, che le Amministrazioni convenute siano condannate al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, determinatisi anche per fatto dei dipendenti.

In punto di fatto, il S ha allegato le condizioni ambientali che, a suo dire, si sarebbero determinate nell’ambito del rapporto di lavoro a causa di comportamenti ascrivibili a mobbing e tenuti nei suoi confronti da parte di taluni colleghi e superiori, specificando che tali fatti sono stati anche denunciati alla competente Procura Militare.

1.2. Si è costituito nel giudizio di primo grado il solo Ministero della Difesa, eccependo innanzitutto in via preliminare l’irricevibilità e l’inammissibilità del ricorso.

L’irricevibilità discenderebbe, ad avviso della difesa erariale, dalla circostanza che il provvedimento recante l’accettazione delle dimissioni è stato emesso il 23 maggio 2007, nel mentre il ricorso in primo grado è stato notificato in data 13 marzo 2008, ossia a distanza di quasi un anno dal provvedimento e, quindi, in epoca ben successiva al termine decadenziale di sessanta giorni all’epoca contemplato dall’art. 21, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 come modificato dall’art. 1 della L. 21 luglio 2000 n. 205.

L’inammissibilità discenderebbe, invece, dalla circostanza che il ricorso dovrebbe ritenersi nullo per assoluta incertezza dell’oggetto.

1.3.1. Con sentenza n. 32497 dd. 28 settembre 2010 la Sez. I-bis del T.A.R. per il Lazio ha – innanzitutto – respinto le eccezioni di irricevibilità e di inammissibilità sollevate dagli intimati Ministeri.

A tale riguardo il giudice di primo grado ha evidenziato che il S muove dal presupposto secondo il quale le proprie dimissioni sarebbero state determinate da un vizio del consenso, e ne chiede pertanto l’invalidazione nelle forme della nullità, ovvero l’annullabilità a’ sensi delle disposizioni contemplate al riguardo dal codice civile, con contestuale proposizione di una domanda di risarcimento dei danni asseritamente a lui provocati dalla condotta contra legem tenuta dall’Amministrazione-apparato nell’ambito del proprio rapporto di impiego.

Dopo aver delimitato in tal modo la causa petendi ed il petitum, i giudice di primo grado ha quindi evidenziato che le azioni fatte valere in giudizio, ossia di annullabilità del negozio giuridico per vizio del consenso e di responsabilità civile dell’Amministrazione, sono assoggettate, in ambito di giurisdizione esclusiva, ai ben diversi termini prescrizionali, nel mentre è senz’altro imprescrittibile l’azione di nullità.

Sempre secondo il giudice di primo grado, l’oggetto del ricorso è stato sufficientemente delimitato e delineato dal S, posto che esso si deve ricavare, non già dal preambolo del ricorso – come, per l’appunto, vorrebbe il Ministero della Difesa – ma dall’intero contenuto del ricorso medesimo, alla stregua dei fatti allegati, dei motivi dedotti e delle richieste articolate, ovvero in base alla stessa causa petendi .

1.3.2. Nel merito, invece, il T.A.R. ha respinto il ricorso, condannando il S al pagamento delle spese e del giudizio, complessivamente liquidate nella misura di € 2.000,00.-

2.1. Con l’appello in epigrafe il S chiede pertanto la riforma di tale sentenza, riproponendo – in buona sostanza – le medesime censure da lui formulate in primo grado ma riferendole al contenuto della stessa sentenza impugnata.

Comunque, la difesa del S ha formulato i seguenti motivi di appello:

a)Violazione falsa applicazione dell’art. 23 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, con contestuale e reiterata istanza di ammissione ai mezzi istruttori ex artt. 24 e 111 Cost., ex art. 44 del R.D. 26 giugno 1924 n. 1054 e artt. 26 e 27 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642;
mancata valutazione dell’atto di risarcimento della causa di servizio dd. 17 marzo 2009, depositato il 26 febbraio 2010;

b) Violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c. (ora art. 115 c.p.c. ed art. 64, comma 2, cod. proc. amm.);

c) Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. , agli artt. 2697, 2699 e 2700 c.c. e all’art. 23 della L. 1034 del 1971;
omessa e/o errata valutazione della documentazione probatoria in atti;
violazione della norma di cui al’art. 132, n. 4, c.p.c. e di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c.;
violazione dell’art. 111, sesto comma, Cost. nel testo modificato per effetto dell’art. 1 della L.Cost. 23 novembre 2001 n. 2;

d) Violazione ed errata applicazione delle norme di cui agli artt. 1 e ss. della L. 7 agosto 1990n. 241 e s.m.i., degli artt. 1, 2, 3, 4, 29, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 38, 41 secondo comma, 97 e 98 Cost. e delle norme di cui all’art. 21 e di tutte le altre norme del D.P.R. 18 luglio 1986 n. 545 del 18.07.1986, dell’art. 1418 e ss. c.c. e/o dell’art. 428 c.c.;
violazione e falsa applicazione delle norme di cui all’art. 2087 c.c. e del D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165;

e) Violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1218 e 1223, 1453 e 2087 c.c. e del D.Lgs. 165 del 2001 e delle norme di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c., anche in relazione alle norme di cui agli artt. 1418 e ss. c.c., agli artt. 1345, 1355, 1427 e ss. c.c., nonché di cui all’art. 428 c.c.;
violazione sotto ulteriore profilo delle norme di cui agli artt. 1, 2, 3, 4, 29, 30, 31, 32, 35, 36 37, 38, 41, secondo comma, 97 e 98 della Costituzione;
violazione – altresì – di tutte le altre norme di cui ai surriportati capi a), b), c) e d) e di cui al ricorso di primo grado;
violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.

2.2. Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Difesa e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, concludendo per la reiezione dell’appello.

3. Alla pubblica udienza del 25 ottobre 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.

4.2. Giova innanzitutto riepilogare i tratti salienti delle vicende che hanno condotto alle qui contestate dimissioni dall’impiego militare da parte dell’appellante, nonché al parimenti qui impugnato giudizio di non dipendenza da causa di servizio.

Il S, dopo aver riferito che il primo periodo da lui trascorso in servizio è stato contraddistinto da corrette e del tutto soddisfacenti relazioni con i propri superiori e parigrado, ha dettagliatamente descritto taluni difficili rapporti sopravvenuti a partire dall’anno 2005, ossia nel periodo della sua permanenza presso la Scuola Sottufficiali A.M. di Caserta per frequentare ivi un corso di addestramento, con tre commilitoni e con il padre di uno di questi, a sua volta maresciallo in servizio presso l’Arma Aeronautica, segnatamente presso lo stesso comando di sua assegnazione ed espletante l’incarico della formazione delle classi degli allievi.

In particolare, il S riferisce che:

1) giunto presso la Reggia di Caserta una delle sue due borse scompariva per poi essere ritrovata al piano superiore dell’edificio;

2) durante il corso, era stato reso oggetto di dileggio da parte dei predetti tre commilitoni, nonché da parte di qualche superiore gerarchico;
in particolare un maresciallo, durante le marce, lo aveva apostrofato quale “zoppo” ;

3) circolavano voci su presunte “raccomandazioni” ;

4) sarebbero stati arbitrariamente abbassati i voti a lui attribuiti;

5) avendo chiesto il rilascio di un certificato di frequenza alla scuola sottufficiali, il documento è stato compilato erroneamente per due volte:

6) il S venne preso di mira, durante la notte del 20 novembre 2005, dai compagni di camerata che facevano intendere come egli avrebbe dovuto espiare una pena finalizzata alla rieducazione del “condannato” la cui colpa era stata quella di non essersi piegato al volere dei tre predetti commilitoni;

7) il comandante del corso, durante la cerimonia dell’alzabandiera, dopo essere appositamente sceso dalla propria automobile, lo ha duramente apostrofato mentre espletava il compito di moviere al cospetto di tutti gli altri corsisti.

Il S afferma che l’insieme di tali episodi gli avrebbero fatto accumulare una fortissima tensione psicologica, tale da determinare la necessità del ricorso alle cure di uno psichiatra.

Il S riferisce – altresì – che di seguito, e come già da lui esposto alla Procura militare, sono avvenuti i seguenti, ulteriori espisodi:

1) non è stata ritrovata una sua busta paga;

2) i rapportini giornalieri della forza che lo riguardavano risultavano sistematicamente errati, come pure risultavano errati i fogli mensa, i permessi e i giorni delle licenze a lui date;
venivano smarrite le sue note caratteristiche;
non risultavano le ore di straordinario da lui svolte e – anzi – gli è stato chiesto il recupero di 32 ore;
gli ordini di servizio “riservati” che gli giungevano erano diversi da quelli recapitati all’ufficio attiguo;
alcuni militari lo contattavano per segnalare il loro stato di malattia salvo poi accertare che erano presenti ed in ottime condizioni fisiche;

3) in violazione della prescrizione medica che gli vietava lo svolgimento di servizi armati, era invitato dal superiore diretto e capo di segreteria – verbalmente – a svolgere attività di esercitazione sul campo.

Il S afferma che tale situazione ha determinato la necessità di un nuovo intervento medico, risoltosi nella diagnosi di una “condizione disforico ansiosa in soggetto con tratti ossessivi di personalità e in condizioni di autoriferimento” , con conseguente prescrizione di riposo e di una terapia farmacologica, tra cui l’anzidetto Lorazepam , già in precedenza noto come Tavor , farmaco che notoriamente possiede proprietà ansiolitiche, anticonvulsanti, sedative e miorilassanti. E che, peraltro, secondo il medesimo S renderebbe incapaci o comunque influenzerebbe la psiche dell’assuntore.

Va anche rimarcato che, come risulta dalle deduzioni del Ministero della Difesa prodotte nel giudizio di primo grado e non smentite dal S, consta che:

1) Il S, durante il periodo della propria susseguente permanenza presso la scuola di perfezionamento sottufficiali AM di Loreto, è stato alloggiato in stanze diverse rispetto ai predetti tre commilitoni e ha frequentato classi diverse (con la sola eccezione per uno di loro, ma solo nella prima fase del corso;

2) il personale frequentante i corsi era sottoposto a controllo, al di fuori del normale orario di servizio e nei giorni non lavorativi, dall’ufficiale di guardia e/o dal sottufficiale di giornata;

3) gli esiti finali del corso sono stati di buon livello per tutti i militari, compreso il S;

4) durante la permanenza presso la Scuola sottufficiali e truppa AM di Caserta non sono stati segnalati da alcuno, neppure dallo stesso S, episodi vessatori o persecutori;

5) durante il periodo trascorso a Sigonella non sono riferite condotte ascrivibili a comportamenti mobbizzanti né in grado di ledere psicologicamente il medesimo S;

6) questi, dopo aver verbalmente riferito al suo superiore gerarchico i motivi della sua prima domanda di cessazione dal servizio permanente, indicandoli come derivanti da un suo stato di depressione, di disadattamento alla vita militare e di sfiducia nell’Amministrazione a seguito di dichiarati torti subiti durante la frequenza del corso per allievo sergente tenuto a Caserta, è stato dal superiore medesimo rassicurato, tanto da ritirare la domanda stessa;

7) un anno dopo, e dopo aver fruito di un lungo periodo di aspettativa, il S ha presentato una nuova domanda di cessazione dal servizio;
ma anche a seguito di un ulteriore colloquio con i propri superiori gerarchici anche questa seconda domanda è stata ritirata dall’interessato;

8) in data 16 aprile 2007 il S ha quindi presentato una terza domanda di cessazione dal servizio, e in tale evenienza i pur pressanti inviti a ritirarla non sono stati da lui accolti.

Questi fatti, seppure di circoscritta valenza, appaiono se non altro sintomatici di una condotta da parte dei superiori gerarchici del ricorrente affatto scevra da finalità espulsive dalla carriera militare;
ciò che induce ad escludere nel comportamento degli agenti e, perciò, dell’amministrazione apparato, una finalità volta a condizionare il dipendente fino al punto di privarlo o menomarlo nelle sue capacità decidenti.

4.3. Con i primi tre motivi di appello il S sostanzialmente lamenta che, a fronte del diniego di riconoscimento della dipendenza della propria malattia da causa di servizio, il giudice di primo grado non gli avrebbe accordato l’esperimento di una consulenza tecnica di ufficio dalla quale verosimilmente sarebbero emersi idonei elementi per smentire la fondatezza del diniego stesso.

Il S reputa – altresì – che la documentazione da lui prodotta agli atti di causa comunque comprovi ex se , senza tema di smentite, la dipendenza della propria malattia da causa di servizio.

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che a’ sensi dell’art. 11, comma 1, del D.P.R. 29 ottobre 2001 n. 461, entrato in vigore il 22 gennaio 2002, soltanto il Comitato di verifica per le cause di servizio può idoneamente pronunciarsi sulla riconduzione a causa di servizio delle cause produttive di infermità o lesioni insorti nel corso del servizio medesimo, fermo comunque restando che per l’accertamento e per la conseguente diagnosi delle forme morbose, nonché per la determinazione del momento di conoscibilità delle stesse e delle conseguenze sull’integrità fisica, psichica e sensoriale del paziente, vale il giudizio delle Commissioni mediche, a’ sensi dell’art. 6 del medesimo D.P.R.

Con parere n. 1401 dd. 6 maggio 2003 la Sez. III di questo Consiglio di Stato ha affermato che tale riparto di competenze va applicato anche per le pratiche pendenti al momento dell’entrata in vigore del D.P.R. predetto;
e tale conclusione è stata fatta propria anche dall’unanime giurisprudenza formatasi sul punto (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicemnre 2010 n. 8935).

Ad ogni buon conto, nel caso di specie risulta dirimente la circostanza che con il processo verbale n. A50901030 dd. 17 marzo 2009 la Commissione medica ospedaliera di Roma ha in effetti formulato nei confronti del S la diagnosi di “sindrome ansioso reattiva in attuale fase di compenso clinico” , senza peraltro esprimersi – come, per l’appunto, già all’epoca disposto dal predetto art. 11 del D.P.R. 461 del 2001 – sulla dipendenza dell’infermità medesima dal servizio: dipendenza che è stata, quindi, negata dal Comitato di verifica per le cause di servizio con proprio parere n. 31680 del 2009.

Va a questo punto rimarcato che gli accertamenti sulla dipendenza da causa di servizio delle infermità dei pubblici dipendenti da parte delle Commissioni mediche ospedaliere e del Comitato per la verifica delle le cause di servizio, di cui all’anzidetto art. 10 del D.P.R.461 del 2001, rientrano essenzialmente nella discrezionalità tecnica di tali organi, i quali pervengono alle relative conclusioni assumendo a base le cognizioni della scienza medica e specialistica, con la conseguenza che il sindacato giurisdizionale su detti giudizi è ammesso esclusivamente nelle ipotesi di evidenti vizi logici, desumibili dalla motivazione degli atti impugnati, dai quali si evidenzi l’inattendibilità metodologica delle conclusioni cui è pervenuta l’Amministrazione (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. IV, 8 giugno 2009 n. 3500);
e, in particolare, il parere segnatamente reso dal Comitato di verifica di cui all’anzidetto art. 11 del D.P.R. 461 del 2001 si impone nel suo contenuto tecnico-discrezionale all’Amministrazione, la quale - secondo quanto affermato più volte dalla giurisprudenza – nell’adottare il provvedimento finale, è tenuta esclusivamente, nell’esercizio dei poteri ad essa peculiari di amministrazione attiva, alla verifica estrinseca della completezza e della regolarità del precedente procedimento di valutazione, senza quindi attivare una nuova ed autonoma valutazione che investa il merito tecnico: e ciò in quanto l’Amministrazione medesima è tenuta ad esprimere una specifica motivazione solamente nei casi in cui, in base ad elementi di cui disponga e che non siano stati vagliati dal Comitato, ovvero in presenza di evidenti omissioni e violazioni delle regole procedimentali, ritenga di non poter aderire al parere del Comitato anzidetto (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. VI, 31 marzo 2009 n. 1889).

Da ciò discende, quindi, che il contenuto del parere del Comitato predetto non può essere ex se controvertito – salvo la sussistenza di macroscopici vizi logici, nella specie non ravvisabili - da altre pronunce di organi tecnici pubblici o privati, e men che meno dall’esito di consulenze tecniche d’ufficio.

Nel caso in esame, infatti, il parere reso dal Comitato di verifica risulta immune da vizi procedimentali e logici;
in esso è stata motivatamente esclusa la dipendenza da causa di servizio dell’infermità diagnosticata al S, non configurando i disagi da lui subiti nel corso della prestazione del servizio medesimo come fattori concausali efficienti o determinanti per l’insorgenza e per il decorso dell’infermità predetta.

Né in tal senso va sottaciuto che, in via generale, la nozione di “causa efficiente” equivale indefettibilmente a quella di “causa adeguata” , ossia produttiva dell’evento, e che non può reputarsi “adeguata” la causa non suscettiva di produrre l’evento stesso, sia pure in modo mediato o indiretto: ossia, più dettagliatamente, il principio della “causalità adeguata” , riversato nel settore medico legale delle patologie contratte in servizio, e allo stesso riconducibili sotto il profilo causativo o concausale, richiede sempre la riconoscibilità dell'esistenza di fattori riconducibili al servizio che rivestano un ruolo di adeguata efficiente incidenza nell’insorgenza e nello sviluppo del processo morboso, mentre devono ritenersi totalmente escluse tutte le altre condizioni che un tale grado di concausale ingerenza non presentino, le quali - benché parimenti verificatesi in servizio- restano tuttavia riguardabili unicamente quali mere occasioni rivelatrici di una infermità non avente alcun nesso di causalità o concausalità con le condizioni di servizio.

Per il caso di specie, va quindi evidenziato che la patologia nella specie insorta nel corso del servizio svolto dal S non è di per sé sufficiente ad integrare la prova della dipendenza della patologia medesima dal servizio, non operando in materia presunzioni legali o semplici (cfr. art. 2726 c.c. e ss.), come viceversa avviene nella disciplina delle pensioni di guerra (cfr. artt. 4 e 5 del T.U. approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978 n. 915) e che, comunque, i pur sconvenienti episodi da lui riferiti, costitutivi perlomeno di illecito disciplinare per i loro autori, non potevano – se considerati per sé stanti - ragionevolmente indurre un definitivo mutamento nella psiche del soggetto che ne è stato vittima, soprattutto se – come nel caso del S – dal suo trasferimento susseguente al corso frequentato a Caserta e, quindi, dalla sua separazione dagli invero poco raccomandabili commilitoni, è conseguito un mutamento apprezzabile del contesto in cui egli era chiamato a svolgere i propri compiti lavorativi.

In conseguenza di tutto ciò, quindi, a ragione il giudice di primo grado non ha disposto la consulenza tecnica d’ufficio chiesta dall’attuale appellante, né ha reputato le allegazioni probatorie di questi suscettive di controvertire il parere reso dal Comitato di vigilanza.

4.4. Con il quarto motivo di ricorso il S ribadisce, per quanto attiene alla validità delle dimissioni da lui presentate, la loro annullabilità per riconosciuta incapacità naturale, a’ sensi dell’art. 428 c.c.

Anche tale prospettazione dell’appellante va respinta.

L’art. 428, primo comma, c.c. dispone che “gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore” .

Come ha rettamente denotato il giudice di primo grado, dalla surriportata disposizione si ricava la norma per cui l’onere della prova è posta a carico di colui che allega la propria incapacità;
e, se così è, il S non ha fornito tale prova con riferimento ad uno stato di incapacità transitoria al momento delle dimissioni.

Va in tal senso evidenziato, infatti, che le perizie mediche da lui prodotte sono tutte successive alla data delle dimissioni (20 dicembre 2005), nel mentre l’unica certificazione sanitaria che le precede è datata 11 dicembre 2005 e diagnostica un “disturbo d’ansia generalizzato” con prognosi di quindici giorni di riposo e terapia farmacologica.

Né in tale documentazione si afferma che l’interessato fosse privo della capacità di intendere o di volere;
e – anzi - lo stesso medico di parte descrive l’esistenza di uno stato ansioso provocato da una situazione di particolare conflittualità nell’ambiente lavorativo legale senza comunque trarre conclusioni di sorta sulla sussistenza di un effettivo stato di incapacità naturale del soggetto al momento delle dimissioni.

Ma – soprattutto – la fattispecie astrattamente contemplata dall’art. 428, secondo comma, c.c. non può risultare conferente al caso di specie poiché, pur riconducendo il rapporto negoziale intercorso tra le parti ad una sorta di contratto, difetta per certo l’essenziale requisito della malafede in capo al datore di lavoro (cfr. ivi: “l’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente” ): se non altro perché, anche in precedenza – e ripetutamente – l’Amministrazione, per il tramite del comprensivo comportamento dei superiori del S, aveva già avuto modo di dissuadere questi dal portare ad effetto il proprio intento di congedarsi dalla Forza Armata.

Da tutto quanto testè riassunto, risulta quindi che:

1) L’incapacità di intendere o di volere non è mai presunta ma deve in ogni caso essere provata. Essa presuppone la totale incapacità di valutare l’opportunità dell’atto con riguardo alla sua importanza economica e complessità giuridica;

2) La prova che il soggetto sia stato privo, in modo assoluto, al momento della redazione delle dimissioni, della coscienza del proprio atto, ovvero della capacità di autodeterminarsi, incombe essenzialmente sul medesimo interessato, posto che lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, salvo che il sottoscrittore dell’atto non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava sulla controparte negoziale (ossia, nella specie, l’Amministrazione datrice di lavoro) l’onere di dimostrare che l’atto è stato redatto dal preteso incapace in un momento di lucido intervallo delle sue condizioni psichiche

Nel caso di specie, la pretesa incapacità non è comunque apparsa totale e perpetua, ma temporanea e circoscritta, farmacologicamente controllata e soggetta a manifestarsi in presenza di sollecitazioni emotive determinate da fattori esterni, della cui esistenza – come detto innanzi – doveva essere fornita prova adeguata al momento della presentazione delle dimissioni: prova che, come detto innanzi, non è stata data.

Va comunque pienamente condivisa la costruzione ermeneutica del giudice di primo grado secondo la quale le dimissioni del dipendente pubblico non contrattualizzato si sostanziano in un negozio unilaterale recettizio la cui fattispecie si perfeziona con l’accettazione di esse da parte dell’amministrazione (argomentando pure, in tal senso, ex art. 124 del T.U. approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, laddove si attribuisce al dipendente la facoltà di presentare le dimissioni, ma con l’obbligo di continuare a prestare la propria opera fino a che non gli venga comunicata l’accettazione da parte dell’Amministrazione competente, che potrebbe, invece, venire procrastinata per motivi di servizio).

In conseguenza di ciò, pertanto, in via altrettanto corretta il giudice di primo grado ha riconosciuto all’atto di accettazione delle dimissioni natura eminentemente costitutiva, con la conseguenza che la recettizietà dell’atto di dimissioni da un lato e la natura costitutiva della sua accettazione dall’altro inducono ad applicare al caso di specie la disciplina contenuta nel surriportato secondo comma dell’art. 428 c.c., in forza della quale, per l’annullabilità del negozio, deve concorrere, con l’incapacità di intendere o di volere, la malafede del datore di lavoro, ovvero la conoscenza certa e provata, da parte di costui, dello stato di incapacità del soggetto dimissionario e la volontà di volerne approfittare: circostanza, queste, che – per tutto quanto sopra – non risultano comprovate.

Va anche evidenziato che il giudice di primo grado ha altrettanto correttamente tratto dalla non comprovata incapacità naturale del S la conseguenza dell’infondatezza della domanda di annullamento delle sue dimissioni per giustificato motivo, non ravvisandosi nella specie alcuna delle ipotesi disciplinate dall’art. 1427 e ss. c.c.

4.5. Anche il quinto ordine di censure, globalmente riassuntivo delle ulteriori censure già formulate in primo grado, va respinto.

Va in tal senso innanzitutto evidenziato che – diversamente da quanto sostenuto dall’attuale appellante - le dimissioni da lui presentate e da ultimo accolte dall’Amministrazione della Difesa non sono nulle per vizio della sua volontà, posto che – come puntualmente evidenziato dal giudice di primo grado - le cause di nullità sono soltanto quelle tassativamente indicate nell’art. 1418 c.c. (ossia violazione di una norma imperativa di legge, mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 c.c., illiceità della causa, illiceità dei comuni motivi nel caso indicato nell’art. 1345 c.c., ovvero mancanza dell’oggetto: ipotesi che nella specie assodatamente non sono presenti) e che l’interessato fa viceversa valere (oltretutto, infondatamente, come visto al § 4.4 della presente sentenza) un vizio del consenso.

E, comunque, risulta in tal senso assorbente che le dimissioni sono state nella specie rese con dichiarazione datata, recante una chiara manifestazione di volontà di interrompere il rapporto di lavoro ed in assoluta assenza di una totale incapacità di pronunciarsi sul piano giuridico.

Va anche evidenziato che a’ sensi dell’art. 1434 c.c. le dimissioni del lavoratore sono annullabili se la volontà del dipendente dimissionario sia stata coartata dal complessivo comportamento intimidatorio posto in essere dal datore ai danni del lavoratore, il quale ultimo è comunque onerato della prova al riguardo.

Nel caso di specie, il S invero lamenta nei suoi confronti, l’esercizio di una vis compulsiva o di una violenza morale quale vizio invalidante il consenso.

Il giudice di primo grado ha puntualmente rilevato che i requisiti previsti dall’art. 1435 c.c., ossia i caratteri della violenza possono variamente atteggiarsi, a seconda che la coazione si eserciti in modo esplicito, manifesto e diretto, o – viceversa - mediante un comportamento intimidatorio, oggettivamente ingiusto, anche ad opera di un terzo;
e che, in ogni caso, è necessario che la minaccia sia stata specificamente diretta al fine di estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l’annullabilità e risulti di tale natura da incidere, con efficacia causale concreta, sulla libertà di autodeterminazione dell’autore di essa.

Tutto ciò non emerge dagli atti di causa, e anche dalla stessa, intrinseca natura dei fatti dianzi esposti;
ossia, non è nella specie ravvisabile, con carattere di immediatezza e profilo di causalità adeguata, alcuna modalità fattuale nel comportamento dell’Amministrazione datrice di lavoro tale da poter essere valutata come di obiettiva natura intimidatoria e suscettibile, quindi, di poter coartare la volontà del S nel senso di dimettersi dal proprio impiego.

Il S si è, in buona sostanza, limitato a genericamente elencare una serie di episodi che lo avrebbero visto soggetto passivo di alcuni comportamenti tenuti da suoi commilitoni e – in un solo caso – da parte del Comandante del corso da lui frequentato, ma non ha fornito prove idonee a comprovare la sussistenza di un comportamento vessatorio intrapreso dalla Forza Armata nei suoi confronti, anche perché i comportamenti scorretti sono comunque cessati dopo la fine del corso stesso e – soprattutto – in quanto i suoi superiori gerarchici hanno esperito ogni utile tentativo per farlo recedere dall’intenzione di cessare dal servizio.

Non può quindi che concludersi nel senso che gli episodi predetti non possono rilevare ai fini dell’asserita invalidità delle dimissioni, posto che l’interessato ha espresso in modo spontaneo la propria volontà, in un contesto divenuto da tempo privo di contrasti con i propri parigrado e superiori, e senza quindi che il medesimo S abbia potuto, a’ sensi del generale principio enunciato dall’art. 2697 c.c., fornire la prova della volontà persecutoria e ritorsiva dell’Amministrazione datrice di lavoro nei suoi confronti.

Del resto, come denotato dal giudice di primo grado, lo stesso incedere dei fatti, per come rappresentati e documentati nel fascicolo processuale, non è espressione sintomatica di una sistematica condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e che si è sostanziata nel compimento di una pluralità di atti, giuridici o meramente materiali, diretti alla persecuzione, ovvero all’emarginazione del dipendente.

Questi, pertanto, nel caso di specie non può affermare che è stata lesa la propria sfera professionale o personale in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore di lavoro dal disposto ex art. 2087 c.c., con conseguente insussistenza di una responsabilità civile al riguardo da parte dell’Amministrazione della Difesa.

Se è vero che i requisiti della fattispecie illecita, comunemente definita quale mobbing , si realizzano per il tramite di una condotta libera, unicamente connotabile in base ai suoi effetti, quali la coartazione, diretta o indiretta, della libertà psichica del lavoratore, tale da costringerlo a una certa azione, tolleranza od omissione (cfr. al riguardo, ex plurimis , Cons. Stato , Sez. IV, 21 aprile 2010 n. 2272), nel caso in esame i fatti descritti dal S – che, beninteso, non si intendono negare nel loro oggettivo accadimento – non sono riguardabili, in termini di stretta causalità adeguata e sufficiente tra condotta ed evento, come costitutivi di un attacco continuato, ripetuto, e – soprattutto - duraturo per isolare o espellere il ricorrente dalla Forza Armata mediante un comportamento datoriale lesivo della personalità morale del dipendente.

Semmai - come rettamente rilevato dal T.A.R. - non può nella specie escludersi, in considerazione della consistenza dei fatti descritti e tenuto conto della peculiarità dell’ambiente militare, che abbia potuto incidere in modo determinate sulla vicenda, quanto meno a livello di concausa, la stessa personalità, ovvero lo stesso carattere, del S.

Depone in tal senso un suo inquietante episodio personale, non attinente al servizio ma scaturito da vicende familiari, segnatamente avvenuto il 21 novembre 2005: episodio che, se valutato congiuntamente al complesso fattuale sopra descritto, contribuisce a delineare una personalità se non disturbata quanto meno immatura, condizionata da problemi personali e poco lineare che potrebbe allora giustificare anche l’uso che dei medicinali l’interessato faceva, nonché i ricoveri ospedalieri cui era costretto a sottoporsi.

Tali circostanze, se ponderate attentamente dalla Forza Armata avrebbero potuto ragionevolmente indurre la stessa ad avviare il procedimento di dispensare dal servizio il dipendente per inabilità psico-fisica: e se ciò non è avvenuto, risulta pure ulteriormente comprovata, anche sotto questo profilo, la mancanza di qualsivoglia intento persecutorio dell’Amministrazione della Difesa nei confronti dell’attuale appellante.

Anche in considerazione di ciò, pertanto, nessuna responsabilità per fatto illecito può essere ascritta all’Amministrazione della Difesa, e le domande risarcitorie proposte in tal senso dal S non possono che essere respinte.

5. La particolarità del caso umano trattato induce il Collegio a compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

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