Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-07-20, n. 202004632

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-07-20, n. 202004632
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202004632
Data del deposito : 20 luglio 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 20/07/2020

N. 04632/2020REG.PROV.COLL.

N. 03490/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3490 del 2011, proposto da V V e N S, rappresentati e difesi dall'avvocato V C I, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Via Dora, n. 1;

contro

Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Seconda) n. 150/2011, resa tra le parti, concernente l’accertamento del diritto alle retribuzioni non percepite in conseguenza dell’instaurazione di un rapporto di lavoro di fatto.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Puglia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza del giorno 9 giugno 2020 il Cons. Italo Volpe e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, co. 5, del d.l. n. 18/2020 gli avvocati delle parti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Col ricorso in epigrafe le persone fisiche ivi pure indicate hanno impugnato la sentenza del Tar per la Puglia n. 150/2011, pubblicata il 25.1.2011, che – a spese compensate – ha dichiarato estinto, per mancata riassunzione nei termini, il giudizio da loro promosso nei riguardi della Regione Puglia (di seguito “Regione”) per:

- l’accertamento del preteso diritto alle retribuzioni non percepite in conseguenza dell’instaurazione di un rapporto di lavoro di fatto con la Regione;

- per la condanna della Regione alla corresponsione delle somme maturate a titolo di retribuzioni non corrisposte;

- per il risarcimento del mancato guadagno e del danno in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro, con i relativi interessi come per legge.

1.1. In fatto, la sentenza ha riepilogato che:

- il giudizio di primo grado s’era instaurato a seguito di riassunzione di quello inizialmente promosso dalla parte privata innanzi al Giudice del lavoro di Bari e per il quale lo stesso aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione – in favore di quella del Giudice amministrativo – con sentenza n. 6379/2007, senza tuttavia la fissazione di una data entro la quale la riassunzione dovesse essere effettuata;

- la pretesa di merito (di pagamento, a vario titolo, di somme di denaro) muoveva dall’accertata esistenza (con sentenze del Tar per la Puglia n. 860/1997, del CdS n. 4276/2003, nonché anche del Tar per la Puglia n. 857/1989) di un rapporto di lavoro di fatto con un ente pubblico (cui, poi, era subentrata la Regione), in ragione della riscontrata violazione del divieto di intermediazione di manodopera ex l.n. 1369/1960. Da qui l’affermazione giudiziale del fatto che, escluso comunque il formale riconoscimento della sussistenza di un rapporto di pubblico impiego, s’era tuttavia in presenza di un rapporto lavorativo subordinato di fatto, alle dipendenze della PA, con conseguente fondatezza della richiesta di differenze retributive e regolarizzazione della posizione previdenziale, in applicazione dell’art. 2126 c.c.;

- la Regione, costituitasi, aveva eccepito la tardività della riassunzione, e perciò l’estinzione del giudizio, e dedotto in ogni caso l’infondatezza nel merito della domanda.

1.2. In diritto, la sentenza ha motivato dicendo che:

- l’eccezione della Regione era fondata perché:

-- la sentenza n. 6379/2007 era stata notificata dalla Regione alla parte ricorrente il 24.9.2007;

-- il ricorso in riassunzione era stato notificato il 28.7.2008, quando era ormai decorso il termine semestrale per la riassunzione;

-- il termine utile per la riassunzione doveva intendersi proprio quello di sei mesi giacchè, ratione temporis , doveva applicarsi l’art. 50 c.p.c., all’epoca vigente in tema di translatio iudicii (dato che non era ancora intervenuta la novella della l.n. 69/2009, il cui art. 59 – da cui poi l’art. 11 c.p.a. – aveva fissato per la riassunzione il termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia declinatoria della giurisdizione);

- era infondata anche la tesi della parte privata secondo la quale:

-- dato che il Giudice del lavoro non aveva fissato un termine per la riassunzione, allora doveva prevalere applicativamente il principio (non della estinzione ma) della conservazione degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta innanzi al giudice privo di giurisdizione;

-- inoltre, l’art. 50 c.p.c. avrebbe riguardato solo il caso di difetto di competenza e non quello di difetto di giurisdizione.

2. L’appello è affidato ai seguenti temi censori:

- non applicazione, al caso di specie, dell’art. 50 c.p.c. sia in conseguenza dell’innovativo orientamento giurisprudenziale in tema di traslatio iudicii sorto con C. Cass. n. 4109/2007 e C. Cost. n. 77/2007 sia in considerazione del fatto che il Giudice del lavoro, nella specie, neppure aveva fissato un termine per la riassunzione del giudizio (in relazione alla sua dichiarazione di difetto di giurisdizione) sia ancora per l’impossibilità di ricorrere all’applicazione dell’art. 50 c.p.c. in via analogica (dato che lo stesso faceva riferimento solo al caso di dichiarazione di difetto di competenza);

- subordinatamente, riconoscibilità di un errore scusabile e, di conseguenza, persistenza dell’incardinamento del giudizio di primo grado innanzi a questa giurisdizione;

- diritto della parte privata a conseguire il pagamento di mensilità di retribuzione per corrispondenti periodi di lavoro subordinato comunque prestato (specificamente, mensilità novembre 1997-febbraio 1998, nonché pure marzo 1998 per una delle due parti private, oltre alla 13^ mensilità dell’anno 1997 e alle competenze di fine rapporto);

- comunque, risarcimento del mancato guadagno e del danno subito per la cessazione del rapporto di lavoro.

3. La Regione, costituitasi, con memoria del 5.7.2011 ha obiettato che:

- l’applicabilità, anche in via analogica, dell’art. 50 c.p.c. al caso di specie era legittima, anche in virtù di orientamento giurisprudenziale (pure del Consiglio di Stato) successivo alle sentenze del 2007 citate ex adverso e comunque operante al momento della riassunzione del giudizio, per cui è causa. Un precedente contrario invocato da controparte costituiva, invece, precedente isolato;

- conseguentemente non ricorrevano i presupposti per il riconoscimento di un errore scusabile;

- quanto alle pretese di merito:

-- le parti private erano state retribuite per il periodo di lavoro subordinato di fatto effettivamente prestato;

-- poi, “ Quanto alle retribuzioni che si assumono non percepite per gli ultimi quattro mesi di lavoro, occorre ribadire che in realtà tali mensilità si riferiscono ad un periodo nel quale la cooperativa (cui le parti private appartenevano, n.d.r.) aveva, di fatto, cessato ogni attività. ”;

-- inoltre, “ Trattandosi di un rapporto di lavoro nullo (in conseguenza di accertamento giudiziale ormai irretrattabile, n.d.r.) , pertanto, le uniche retribuzioni dovute sono quelle connesse alle prestazioni effettivamente svolte. ”.

4. Con memoria del 6.5.2020 parte appellante ha replicato sostenendo, qui in sintesi, che:

- effettivamente, nel caso di specie, non era consentito fare ricorso all’applicazione dell’art. 50 c.p.c., soprattutto attraverso lo strumento dell’analogia. Pertanto, “ non potendosi estendere alla sentenza che declina la giurisdizione il termine di cui all’art. 50 c.p.c., non può precludersi alla parte il diritto di far valere le proprie richieste innanzi al giudice munito di giurisdizione, senza alcuna preclusione o decadenza di ordine processuale. Pena la violazione sostanziale dei principi costituzionali in materia di giurisdizione e di tutela effettiva dei diritti. ”;

- inoltre, giusta CdS, V, n. 8871/2009, “ La domanda diretta al riconoscimento della sussistenza di rapporto di lavoro subordinato di fatto con l’amministrazione pubblica, con i conseguenti effetti sulla retribuzione e sulla posizione assicurativa e previdenziale ai sensi dell'art. 2126 c.c., qual è quella svolta dalle appellate, non riveste carattere impugnatorio ed è perciò proponibile in sede di giurisdizione esclusiva con azione di accertamento entro l'ordinario termine di prescrizione, indipendentemente dall’impugnazione nel termine di decadenza dei singoli atti con i quali il rapporto è stato costituito e configurato diversamente. ”;

- in ogni caso, sarebbe stato possibile concedere il rimedio dell’errore scusabile;

- erano fondate le pretese di merito.

5. La causa quindi, chiamata all’udienza del 9.6.2020, è stata ivi trattenuta in decisione.

6. L’appello è fondato.

6.1. Il tema centrale della presente controversia è quello della tempestività della riassunzione del giudizio originariamente promosso davanti al giudice civile, avendo ritenuto i Giudici di primo grado che la riassunzione dovesse avvenire, ai sensi dell’art. 50 c.p.c. nel testo vigente ratione temporis , nel termine di sei mesi dall’avvenuta comunicazione della sentenza declinatoria della giurisdizione.

6.2. Soccorre al riguardo quanto di recente sostenuto da questa stessa Sezione con la sentenza n. 1503/2020, pubblicata il 2.3.2020, della quale risulta opportuno riportare qui i brani salienti in argomento e dal cui approdo non si ravvisano motivi per discostarsi.

E’ stato affermato nell’occasione che, all’epoca dei fatti (quasi coevi a quelli rilevanti anche nel citato precedente), « in materia di trasmigrazione dei giudizi davanti al giudice munito della giurisdizione, la Corte costituzionale aveva già dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, riconoscendo al legislatore il compito di disciplinare, nel modo da esso ritenuto più opportuno, il meccanismo della riassunzione (forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di notifica o deposito etc.) e lasciando ai giudici, nelle more, quello di dare attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda nel processo riassunto “laddove possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici” (C. Cost. n. 77 del 2007).

Il legislatore ha risposto al richiamo intervenendo a colmare il vuoto normativo mediante il menzionato art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Nelle more, il compito dei giudici di attuare quel principio adoperando gli ordinari strumenti ermeneutici - “laddove possibile” - si era rivelato arduo, come testimoniato dal dibattito della dottrina processualcivilistica all’indomani della sentenza della Corte e dalle inevitabili incertezze determinate nella giurisprudenza dalla esigenza di giungere per via meramente pretoria all’elaborazione di un sistema coerente di disposizioni sulla translatio iudicii, nei suoi vari aspetti (esistenza, decorrenza, durata, conseguenze dell’inosservanza del termine di riassunzione etc.), semplicemente adattando l’applicazione di norme processuali che erano state pensate e dettate senza alcun riferimento alla trasmigrazione dei processi tra plessi giurisdizionali diversi.

E sebbene la giurisprudenza fosse generalmente orientata per l’applicabilità della disciplina dell’art. 50 c.p.c. (che, prima di essere modificato dalla legge n. 69/09, al primo comma prevedeva che “se la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato nella sentenza dal giudice e in mancanza in quello di sei mesi dalla comunicazione della sentenza di regolamento o della sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice adito, il processo continua davanti al nuovo giudice”), siccome considerata norma generale sulla riassunzione (ex ceteris, Cass., SS.UU., 22 novembre 2010, n. 23596, punto 4.3;
C.d.S. sez. III, 24 giugno 2014, n. 3190 ed altre), i dubbi sono perdurati fino ai nostri giorni, come dimostra la divergenza di opinioni di cui si dirà poco più avanti.

In questo contesto, prima che l’art. 59 della legge n. 69/09 delimitasse espressamente il termine ultimo per la riassunzione con riferimento al passaggio in giudicato della pronuncia declinatoria della giurisdizione, non era irragionevole credere che, quando questa fosse stata adottata da un giudice di merito, un coordinamento con l’assoggettabilità di quella pronuncia ad ordinari mezzi d’impugnazione potesse consistere, per l’esigenza di evitare che il medesimo processo pendesse, contemporaneamente, davanti a due giudici (quello ad quem e quello investito dall’impugnazione della sentenza a quo), nell’attendere ovvero nel consentire di attendere, ai fini della riassunzione della causa davanti al giudice indicato come munito della giurisdizione, il passaggio in giudicato di quella decisione (anche se non senza ricadute negative sulla durata complessiva del processo);
e ciò nonostante che - prima che si ponesse concretamente la questione della utilizzabilità delle disposizioni del codice processuale civile ai fini di una translatio iudicii davanti a diversa giurisdizione – la giurisprudenza avesse ritenuto che il termine stabilito dall’art. 50 c.p.c. per riassumere la causa davanti al giudice dichiarato competente decorresse dalla data di comunicazione della sentenza che aveva dichiarato l’incompetenza o, in mancanza, da quella della notificazione, ma non già da quello del momento del passaggio in giudicato della decisione medesima (Cass., sez. lav., 18 novembre 1982, n. 6206).

Ciò risulta tanto più vero, in quanto questo stesso Consiglio ha ancora di recente accreditato, su questo punto specifico, interpretazioni distoniche.

Ora, infatti, ha affermato (C.d.S., Sez. V, 5 marzo 2019, n. 1535) che “il termine perentorio per la riassunzione, per le fattispecie antecedenti alla disciplina legislativa sulla "translatio iudicii" di cui all’art. 59, l. 18 giugno 2009 n. 69, deve individuarsi, facendo applicazione, in via analogica dell’art. 50 c.p.c. che, nella versione "ratione temporis" vigente, prevedeva un termine di sei mesi dalla comunicazione dell’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 24/06/2014, n. 3190)”, facendo ancora proprio l’orientamento secondo cui “l’art. 50 c.p.c., prima dell’entrata in vigore del c. proc. amm. (che all’art. 11 ha disciplinato l’istituto della "translatio judicii"), era pienamente applicabile al processo amministrativo ed in conseguenza la riassunzione del processo innanzi al giudice cui era stata riconosciuta la giurisdizione doveva avvenire, a pena d’inammissibilità, entro il temine determinato dal giudice che si era dichiarato incompetente o, in mancanza di tale fissazione, nel termine di 6 mesi ( poi modificato in 3 mesi dall’art. 45 comma 6, L. 16 giugno 2009, n. 69) decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della decisione (cfr. Consiglio di Stato , sez. IV , 07/03/2013 , n. 1402;
Consiglio di Stato , sez. III , 12/12/2014 , n. 6129, ed in precedenza Consiglio di Stato, sez. VI , 10/09/2008 , n. 4318)”.

Ora, invece, ha manifestato (C.d.S., sez. V, 8 luglio 2019, n. 4782) un diverso avviso, sostenendo che, già prima della legge n. 69/09, il termine per la riassunzione decorresse dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria della giurisdizione, con motivazione che giova riportare per esteso:

“…anche prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (disciplina sopravvenuta alla translatio iudicii del presente processo, interamente compiuta nel 2008), gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice dichiaratosi privo di giurisdizione restano fermi se il processo è riassunto (rectius, la domanda è riproposta) tempestivamente dinanzi al giudice indicato come avente giurisdizione.

3.1.1. Quanto alla decorrenza del termine per la riassunzione, si è affermata l’applicabilità per analogia dell’art. 50 cod. proc. civ., e quindi l’applicabilità del termine di sei mesi dalla comunicazione della sentenza (cfr. Cons. Stato, VI, 13 marzo 2008, n. 1059). Tuttavia, si tratta di impostazione che -pur se coerente col sistema in caso di sentenza non più soggetta ad impugnazione (apparendo peraltro più corretta l’applicazione analogica, in mancanza di norma ad hoc, di quanto previsto dall’art. 367, comma 2, cod. proc. civ.) non va condivisa nel caso di sentenza, del giudice ordinario od amministrativo, declinatoria della giurisdizione, ma soggetto ad impugnazione;
in tale eventualità, la decorrenza del termine per la riproposizione della domanda davanti al giudice del diverso plesso giurisdizionale va fissata nel momento del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione. Tale opzione interpretativa è coerente con i criteri di raccordo tra le giurisdizioni, tanto da essere fatta propria dal legislatore con l’art. 59 del legge n. 69 del 2009 (e, successivamente, con l’art. 11 Cod. proc. amm.).

Va perciò ritenuto applicabile, anche prima dell’introduzione di tali ultime norme, il principio per il quale, sebbene sia in facoltà delle parti di riproporre la domanda davanti al giudice munito di giurisdizione anche prima, il momento ultimo per la decorrenza del termine relativo va individuato nel passaggio in giudicato della sentenza che declina la giurisdizione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 16 dicembre 2011, n. 24)”). ».

6.3. Nella fattispecie il Collegio non ha motivo per divergere ulteriormente dal precedente, peraltro, recente. Piuttosto lo stesso va riconfermato, ed alla luce di ciò, il primo Giudice non avrebbe potuto dichiarare l’estinzione del giudizio di primo grado riassunto.

6.4. Piuttosto, rispetto al precedente, si reputa di dover procedere, in accoglimento dell’appello, all’annullamento della sentenza impugnata e al conseguente rinvio, visto l’art. 105, co. 1, c.p.a., della causa al Giudice di primo grado, tenendo conto che nella vicenda in esame possono essere utili accertamenti in fatto, e connesse valutazioni giuridiche, che più appropriatamente vanno delibati anche in primo grado, onde evitare una qualunque compressione del doppio grado di giudizio, e soprattutto nella constatazione che ricorre una (non condivisibile, per quanto si è prima chiarito) declaratoria di estinzione del giudizio (fattispecie, questa espressamente prevista dal citato art. 105 del c.p.a.) .

7. Ricorrono giustificati motivi per compensare integralmente fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

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