Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-03-03, n. 202101825
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Pubblicato il 03/03/2021
N. 01825/2021REG.PROV.COLL.
N. 07430/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOE DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7430 del 2020, proposto da -O- in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato (antistatario) G M B, e con questi elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato C R in Roma, via Nizza, n.59,
contro
la Prefettura di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato in Roma, e con questa elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
il Ministro dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato in Roma, e con questa elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tar Campania, sede di Napoli, sez. I, -O-, che ha respinto il ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento del 12 marzo 2019 della Prefettura di Napoli con il quale, in sede di rinnovo di iscrizione nella white list della -O-è stata resa l’informativa antimafia ostativa nonché del provvedimento, di pari data, del Direttore della Struttura di Missione Prevenzione e Contrasto Antimafia Sisma, che ha disposto la revoca della iscrizione della società dall'Anagrafe Autonoma degli esecutori, istituita ai sensi dell'art. 70, d.lgs. n. 189 del 2016.
Visti il ricorso in appello e i rispettivi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Ufficio Territoriale del Governo di Napoli e del Ministro dell’Interno;
Viste le memorie depositate da -O- in date 16 gennaio 2021, 27 gennaio 2021 e 17 febbraio 2021;
Viste le memorie depositate dall’Ufficio territoriale del Governo di Napoli e dal Ministro dell’Interno in data 18 gennaio 2021;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore dell’udienza del giorno 18 febbraio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’articolo 25, d.l. 28 ottobre 2020 n. 137, il Consigliere Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;
FATTO
1. La -O-società operante nel settore della impiantistica, civile ed industriale, in data 13 dicembre 2018 ha riproposto la richiesta di iscrizione nella white list (alla quale era iscritta dal 7 luglio 2017) presso la Prefettura di Napoli essendone scaduta la relativa validità. In sede di rinnovo la Prefettura di Napoliha adottato l’informativa antimafia ostativa.
Alla base della interdittiva sono una serie di elementi, quali: l’assunzione, come dipendente part-time della società, di -O-, gravato da precedenti di polizia per reato tipico (art. 416 bis c.p.) e destinatario nel giugno del 1990 di misura coercitiva personale;la vicinanza di -O-, socio e amministratore della società, ad alcune famiglie camorristiche-O- e il suo presunto ruolo di intermediazione tra i due clan, desunto da un’ordinanza custodiale del 7 gennaio 2015 e dalla relazione istruttoria sul monitoraggio del Comune di -O- sulla base di quanto evidenziato dalle informativa di P.G. e da tre intercettazioni ambientali risalenti al 2012.
2. Con ricorso proposto dinanzi al Tar Napoli la società ha impugnato l’informativa ostativa antimafia e la revoca dell'iscrizione all'anagrafe antimafia degli esecutori, contestandone la legittimità per violazione di legge (in particolare degli artt. 84 e 91, d.lgs. n. 159 del 2011, in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c.) ed eccesso di potere per plurimi profili. Con atto di motivi aggiunti sono state poi impugnate le note informative prodotte dagli organi di Polizia Giudiziaria.
3. Con la sentenza n. -O- la sez. I del Tar Napoli ha respinto il ricorso.
Il Tar, in applicazione del principio del “più probabile che non”, ha ritenuto che gli elementi individuati dal Prefetto di Napoli fossero, visti nel loro insieme, sufficienti a fondare l’interdittiva.
Le circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, che la ricorrente stigmatizza come generiche e risalenti nel tempo, farebbero in realtà emergere un quadro di influenza camorristica in relazione alla società ricorrente, idoneo a giustificare i provvedimenti impugnati.
4. La sentenza del Tar Napoli n. 294 del 2020 è stata impugnata con appello notificato il 24 settembre 2020 e depositato il successivo 25 settembre 2020.
La società appellante rileva l’erroneità della sentenza impugnata deducendo un unico articolato motivo di gravame, con il quale rappresenta la violazione degli artt. 84 e 91 del Codice antimafia, dell’art. 2729 c.c. e dell’art. 3, l. n. 241 del 1990 nonché l’eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione e travisamento dei fatti.
La decisione del primo giudice si sarebbe fondata solo sugli elementi indicati dalla Prefettura di Napoli, che non sarebbero connotati da alcuno spessore indiziario e comunque non corrisponderebbero alla verità dei fatti. Il Tar non avrebbe proceduto ad un’analisi delle acquisizioni istruttorie e, in particolare, dei rapporti e delle note informative della Dia, dei Carabinieri e della Guarda di Finanza, che avevano sottoposto a monitoraggio la società ricorrente e l’amministratore unico per un quinquennio senza riscontrare alcun elemento idoneo a sostenere la veridicità del contenuto delle intercettazioni ambientali disposte sul finire del 2012.
Per quanto attiene alla circostanza dell’assunzione del pluripregiudicato -O-, l’appellante osserva che lo stesso è stato licenziato dopo appena due mesi, il che consentirebbe di escludere, sulla base dei dati di comune esperienza sulla conoscenza del fenomeno mafioso, che la sua assunzione fosse effetto di un’imposizione estorsiva della criminalità organizzata.
Secondo l’appellante, inoltre, la vicinanza del signor -O- ai clan malavitosi e il ruolo di intermediario che egli avrebbe assunto per l’affare del campo sportivo di -O- sarebbero elementi inverosimili e inattendibili, in quanto nel relativo procedimento penale lo stesso non è stato neanche sentito come persona informata sui fatti.
Erroneamente, quindi, il giudice di primo grado non ha tenuto conto del quadro indiziario nel suo complesso, ma si è basato su singoli elementi in violazione di quanto ha in proposito affermato la giurisprudenza.
In definitiva, l’impugnata misura interdittiva antimafia non solo sarebbe stata emessa in totale assenza di un quadro indiziario grave, preciso e concordante (di cui al paradigma legislativo dell’2729 c.c.), ma in assenza di circostanze, fatti o acquisizioni istruttorie da cui far discendere anche solo il pericolo di un condizionamento mafioso.
5. Si sono costituiti in giudizio l’Ufficio territoriale del Governo di Napoli e il Ministero dell’interno, sostenendo l’infondatezza dell’appello.
6. All’udienza del 18 febbraio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020 n.137, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Come esposto in narrativa, oggetto della controversia è l’interdittiva emessa dalla Prefettura di Napoli a carico della società appellante, esercente attività di "installazione di impianti civili ed industriali" e concessionaria del servizio di accensione lampade votive nel cimitero di -O- fino ad aprile 2016. Amministratore unico è il signor --O-, mentre è preposto alla gestione tecnica il signor -O-.
Gli elementi che hanno indotto la Prefettura ad adottare il provvedimento sono stati essenzialmente le circostanze che dipendente della società, in regime di parti-ime, è stato tale -O-, vicino alla criminalità organizzara, e che nel corso di attività investigativa riferita al procedimento penale incardinato presso la Procura delle Repubblica presso il Tribunale di Napoli — Direzione Distrettuale Antimafia, il nome di -O-è emerso in occasione dell’intercettazione di tre colloqui (in date 22 ottobre 2012, 5 novembre 2012 e il 12 novembre 2012) all'interno della casa di reclusione di -O- dove lo stesso ricopre un ruolo di spicco - e suoi visitatori. Dal tenore di tali colloqui emergeva la figura di tale -O-identificato dagli inquirenti in --O-, il quale sarebbe risultato persona vicina alla famiglia camorristica dei -O-
Con il ricorso dinanzi al Tar Napoli prima e con l’appello poi si è cercato di smontare tale quadro fattuale, per far cadere i gravi indizi che hanno portato la Prefettura ad adottare l’informativa antimafia.
2. L’appello non è suscettibile di positiva valutazione.
Giova ripercorrere i principi elaborati da una ormai consolidata giurisprudenza della Sezione, peraltro puntualmente richiamata dal giudice di primo grado, che inquadra il provvedimento prefettizio interdittivo.
Come più volte affermato dalla Sezione (30 giugno 2020, n. 4168;25 giugno 2020, n. 4091), la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, da un lato, non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata;d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).
Come di recente ribadito dalla Sezione (27 dicembre 2019, n. 8883, riprendendo un ormai consolidato orientamento del giudice di appello), l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Ha aggiunto la Sezione (n. 8883 del 2019) che lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Ha ancora chiarito la Sezione (5 settembre 2019, n. 6105) che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.
Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza -O-, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.
In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata;d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Lo stesso Giudice delle leggi ha confermato la legittimità delle disposizioni in materia di interdittiva antimafia.
Come chiarito di recente anche dalla Corte costituzionale n. 57 del 26 marzo 2020 – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione – a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.
Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa;la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dal d.lgs. n. 159 del 2011;i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”;i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa;la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
3. Ciò preliminarmente chiarito, il Collegio ritiene che il provvedimento della Prefettura di Napoli non si fondi su “un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio”, unica preclusione all’adozione dell’interdittiva antimafia perché non concorre a costituire il quadro indiziario. Sussistono infatti indizi che rendono “più probabile che non” la contiguità soggiacente della società alla camorra, attraverso la figura del suo amministratore unico, --O-.
Non possono, infatti, ritenersi fondati i profili dedotti dall’appellante avverso l’interdittiva.
Afferma innanzitutto l’appellante che l’assunzione di -O- non è stata imposta dagli ambienti della criminalità organizzata, ma dal direttore dei lavori nel cantiere di -O-presso il quale è stato assunto con contratto part-ime dall’ottobre al dicembre 2015.
Il profilo di doglianza non è suscettibile di positiva valutazione.
Non è infatti contestabile che -O- (-O- 'a -O-): abbia lavorato per due mesi per la società -O-;sia affiliato al clan -O-;sia gravato da precedenti di polizia per associazione di tipo mafioso, ricettazione, detenzione di materiale esplodente;sia stato destinatario, nel giugno del 1990, di misura coercitiva personale in quanto appartenente al gruppo camorristico -O- - costola del clan -O-) di -O-(detto '-O-), morto nel -O-- e poi al clan -O-, di cui era il capo indiscusso.
A fronte di tale quadro fattuale, poco rileva presso quale cantiere -O- abbia lavorato e da chi fosse stato segnalato ai fini dell’assunzione né il tipo di rapporto instaurato né, ancora, il tempo che è stato impiegato presso la società, essendo assorbente la considerazione che fosse uomo vicino alla criminalità organizzata inseritosi, seppure per un arco di tempo limitato, nella attività della società.
Né rileva il richiamo, operato dall’appellante, ad un precedente della Sezione, secondo cui l’assunzione, non di uno, ma addirittura di più dipendenti pregiudicati, non sarebbe prova ex se del tentativo di infiltrazione malavitosa.
Come è stato chiarito sub 2, il provvedimento prefettizio interdittivo non si fonda su fattiatomisticamente considerati, ma sull’insieme degli stessi, in applicazione del principio, costantemente affermato dalla Sezione (19 maggio 2020, n. 3193), secondo cui, nella materia di che trattasi, è proprio la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.
In altri termini, seppure potesse ritenersi che avere una società nell’organico dei propri dipendenti un lavoratore molto vicino alla criminalità organizzata non rende “più probabile che non” che anche la società sia vicina a tali ambienti, questo elemento, unito ad altri, supporta il provvedimento cautelativo del Prefetto.
4. L’appellante contesta altresì l’ulteriore ragione posta a fondamento del provvedimento interdittivo, e cioè la vicinanza – ricavata dall’ordinanza di custodia cautelare emessa in data 7 gennaio 2015, nel corso del procedimento penale -O- e n. -O-. (-O-+ 27) incardinato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli – di --O- alla famiglia camorristica dei -O- tale circostanza è emersa da intercettazioni ambientali tra il detenuto -O-nella gestione del campo sportivo di -O-, Comune sciolto per infiltrazioni camorristica.
Come condivisibilmente affermato dal giudice di primo grado non sono portati in giudizio prove certe tali da smontare il grave indizio raccolto nel corso della predetta indagine penale, senza che peraltro possa rilevare che a carico dell’-O- non risultino pendenze penali, come più volte affermato dall’appellante.
Ed invero, non scalfisce il quadro indiziario la circostanza che gli elementi posti a base dell'informativa, proprio per la ratio ad essa sottesa, possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707).
La criminalità organizzata, inoltre, può servirsi di soggetti incensurati, quale è l’-O-.
Anzi, costituisce un riconosciuto modus operandi tipico delle associazioni mafiose proporre al vertice di realtà economiche “soggetti incensurati e spesso inesperti proprio per continuare a dirigere da ‘dietro le quinte’ attività economiche funzionali a logiche illegali”. Si tratta di considerazioni anche queste munite di un sostrato “fattuale” (la dimensione dell’impresa, il quadro socio-territoriale nel quale essa opera, gli elementi sintomatici della sua vicinanza ad epicentri malavitosi) – oltre che rappresentative delle peculiarità sociologiche ricorrenti ed astraibili dal tracciato criminale di riferimento. Questo apparato descrittivo si presta ad essere integrato ed orientato da valutazioni presuntive che concorrono a delineare in termini sufficientemente puntuali e aderenti al “reale” la peculiare situazione ambientale nella quale l'impresa è attiva ed a fondare una legittima ipotesi prognostica sulla dinamica relazionale nella quale essa, verosimilmente, si trova ad operare.
5. Non rileva neanche la circostanza che i fatti sui quali si fonda la misura di prevenzione possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Come chiarito dalla Sezione (21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
E’ evidente che il momento in cui l’interdittiva è adottata non fotografa l’inizio della vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata, che possono trovare la loro genesi anche in epoca di gran lunga antecedente.
6. In conclusione, i gravi indizi rappresentati nell’interdittiva – peraltro inquadrati nel Comune di -O-, realtà a forte pregnanza della criminalità organizzata, che ha portato allo scioglimento degli organi amministrativi ai sensi dell’art. 143 TUEL per infiltrazione mafiosa – ne legittimano l’adozione, così come supportano il conseguente provvedimento del 19 marzo 2019 del Direttore della Struttura di Missione Prevenzione e Contrasto Antimafia Sisma del Ministero dell’Interno, con la quale è stata revocata la iscrizione della società dall'Anagrafe Autonoma degli esecutori, istituita ai sensi dell'art. 70, d.lgs. n. 189 del 2016.
Esaminate nel loro insieme, infatti, le evenienze sulle quali si è argomentato sub 3 e 4 si prestano in modo del tutto plausibile al ragionamento inferenziale e probabilistico posto a fondamento del provvedimento interdittivo, trattandosi di elementi plurimi e convergenti, più verosimilmente armonizzabili con la lettura che ne ha fornito la Prefettura e che è stata condivisa dal Tar.
L’abduzione formulata dalla Prefettura non è stata dunque in alcun modo superata dai rilievi dell’appellante, che anzi ha finito per corroborarne la valenza indiziaria, attingente la soglia, qui rilevante, della probabilità cruciale (v., sul punto, Cons. St., sez. III 5 settembre 2019, n. 6105).
Le valutazioni espresse dalla Prefettura in ordine alla esposizione al rischio di condizionamento dell’impresa appellante riposano su plausibili inferenze logiche - rafforzate dalle note di contesto che vedono quell’impresa operare in una dimensione territoriale caratterizzata dalla forte pervasività della forza intimidatrice mafiosa.
7. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
8. L’appello, nei diversi motivi in cui si sviluppa, deve quindi essere respinto, con conseguente conferma della sentenza del Tar Napoli, sez. I, -O-.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.