Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2013-09-04, n. 201304409

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2013-09-04, n. 201304409
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201304409
Data del deposito : 4 settembre 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 11061/2001 REG.RIC.

N. 04409/2013REG.PROV.COLL.

N. 11061/2001 REG.RIC.

N. 11635/2001 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 11061 del 2001, proposto da:
Mccesi P, rappresentato e difeso dall'avv. A C, con domicilio eletto presso Luigi Medugno in Roma, via Panama 58;

contro

M S, A C, A A, C R, B M, M M, rappresentati e difesi dall'avv. P N, con domicilio eletto presso Costanza Acciai in Roma, piazza del Fante 2;

nei confronti di

Comune di Apiro;
Associazione Avi Marche;



sul ricorso numero di registro generale 11635 del 2001, proposto da:
Comune di Apiro, rappresentato e difeso dagli avv. Ranieri Felici e Sergio Del Vecchio, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, viale Giulio Cesare 71;

contro

M S, A C, A A, C R, B M e M M, rappresentati e difesi dall'avv. P N, con domicilio eletto presso Costanza Acciai in Roma, piazza del Fante n. 2;
Associazione Avi Marche, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Ranci, con domicilio eletto presso Elio Vitale in Roma, viale Mazzini 6;

nei confronti di

Mccesi P;

per la riforma

quanto ad entrambi i ricorsi:

della sentenza del T.a.r. Marche - Ancona n. 00958/2001, resa tra le parti, concernente concessione edilizia per lavori di costruzione capannone avicolo


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile 2013 il Cons. Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati Calzolaio e Giammaria su delega dell’avv. Niccolaini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il presente giudizio trae origine dall’impugnativa proposta davanti al TAR Marche dagli odierni appellati, tutti residenti in frazione San Isidoro del Comune di Apiro, avverso la concessione edilizia (datata 15 dicembre 1998, n. 64) rilasciata a P Mcesi, per effettuare lavori di costruzione in tale località di un capannone con struttura prefabbricata in acciaio destinato all’allevamento avicolo.

2. Il TAR ha accolto l’impugnativa, reputando tale provvedimento illegittimo per plurime ragioni, e cioè:

- per contrasto con lo strumento urbanistico vigente, dato da una variante del 1984 al programma di fabbricazione comunale, vietante la realizzazione di industrie “nocive” al di fuori della zona appositamente prevista dallo strumento urbanistico vigente, diversa da quella su cui l’intervento è stato assentito, la cui destinazione agricola è incompatibile con tale tipologia di insediamento;
ciò sul presupposto che l’allevamento avicolo è qualificabile come industria insalubre di prima classe ai sensi dell’art. 216 t.u. leggi sanitarie di cui al r.d. n. 1265/1943 e nell’elenco contenuto nel D.M. 5 settembre 1994, n. 1, lett. c), e dunque rientrante nella previsione urbanistica in questione;

- per violazione della l. reg. n. 13/1990 (“Norme edilizie per il territorio agricolo”), in ragione della mancanza del presupposto, necessario per la realizzazione di attività industriali in zone agricole, del collegamento funzionale tra il capannone assentito e la conduzione del fondo, trattandosi di allevamento intensivo qualificabile come allevamento industriale nocivo;

- per mancato rispetto della distanza minima del capannone dal centro abitato di San Isidoro, consistente in 200 metri, contro i 500 imposti dall’art.9, comma 2, lett. b), l. reg. n. 13/1990 citata.

3. La sentenza è appellata tanto dal Comune di Apiro quanto dal controinteressato Mccesi.

3.1 L’amministrazione deduce che:

- il concetto di industria nociva fatto proprio dalla variante al programma di fabbricazione non coincide con quello di industria insalubre di cui al r.d. n. 1265/1934, ma, come si evince dalla pertinente norma tecnica di attuazione introdotta con la predetta variante (art. 33-b), “fa riferimento esclusivo alle industrie pericolose in concreto” , e cioè a quelle dai cui processi lavorativi si sprigionano emissioni inquinanti, a tale ipotesi non potendo ricondursi l’allevamento avicolo in contestazione;

- non sussiste alcuna violazione della legge regionale regolante l’attività edificatoria in zone agricole del 1990, visto che quello oggetto del presente giudizio, oltre ad essere funzionale all’attività di allevamento a carattere non industriale, è comunque qualificabile come ampliamento, assentibile in zona agricola ai sensi dell’art. 3, comma 3 della citata l. reg. n. 13/1990, in quanto Mccesi è già titolare nel medesimo complesso di altro capannone impiegato a scopo di allevamento avicolo, mentre la tesi fatta propria dal giudice di primo grado conduce a configurare un vincolo di inedificabilità assoluta non ricavabile dal testo unico delle leggi sanitarie né dalla predetta legge regionale;

- il TAR ha errato nel qualificare il capannone oggetto della concessione edilizia impugnata come insediamento industriale ai sensi della ridetta l. reg. n. 13/1990, attraverso l’integrazione del parametro, previsto dall’art. 9, comma 4, consistente nel rapporto peso del bestiame allevato/superficie previsto dalla richiamata legislazione nazionale (l. n. 319/1976 “Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento”), con l’ulteriore criterio del collegamento funzionale tra l’attività di allevamento e la conduzione del fondo, elaborato dalla Cassazione in materie estranee a quella dell’edilizia, nonché facendo sul punto proprie le risultanze della consulenza tecnica di parte ricorrente;
quindi disattendendo il parere dell’Asl che ha escluso qualsiasi pericolosità in concreto dell’allevamento;

- parimenti erronea è la statuizione di accoglimento della censura concernente l’asserito mancato rispetto delle distanze legali, attesa, da un lato, la genericità con la quale la stessa è stata dedotta, ossia senza specificazione della fonte normativa violata, e dall’altro per avere considerato la frazione di San Isidoro un centro abitato, trattandosi invece di nucleo costituito da poche case sparse.

3.2 Il secondo formula i seguenti motivi, qui di seguito sintetizzati:

- irricevibilità del ricorso, disconosciuta dal TAR, sul rilievo che i lavori di costruzione del capannone sono iniziati il 3 maggio 1999, a fronte di una proposizione dell’impugnativa avvenuta solo il 6 novembre successivo, benché i ricorrenti fossero consapevoli sin dall’origine della natura e delle caratteristiche dell’intervento edilizio ed aderendo, nel merito, alle censure dell’amministrazione appellante;

- ultrapetizione, accolto per avere ritenuto non edificabile in zona agricola il capannone di cui alla concessione edilizia impugnata, pur non avendo i ricorrenti formulato una simile censura, essendosi questi ultimi limitati ad assumerne il carattere di industria insalubre ai sensi del t.u. leggi sanitarie;

- erroneità nel merito della sentenza di primo grado, per avere qualificato come industriale e nocivo l’allevamento progettato, laddove lo stesso, in ragione del rapporto peso/superficie di cui alla l. n. 319/1976 avrebbe dovuto essere qualificato come ampliamento dell’attività di allevamento zootecnico già esercitata;
per averne quindi sostenuto l’inedificabilità in zona agricola;
per avere dato credito alla perizia di controparte e per avere introdotto il criterio del collegamento con il fondo agricolo;

- erronea applicazione dell’art. 33-b N.T.A. del programma di fabbricazione;

- erroneo mancato rilievo del parere favorevole dell’Asl;

- inammissibilità per genericità del motivo concernente il mancato rispetto delle distanze legali, nondimeno accolto dal giudice di primo grado ed infondatezza dello stesso, a causa dell’inesistenza di un centro abitato.

4. Si sono costituiti i ricorrenti in primo grado per resistere agli appelli, nonché l’Associazione Avi Marche, interveniente ad oppponendum in primo grado, la quale invece aderisce alle conclusioni delle parti appellanti.

5. Così riassunte le prospettazioni delle parti costituite in giudizio, preliminarmente va disposta la riunione degli appelli in virtù del disposto dell’art. 96 cod. proc. amm., in quanto promossi avverso la medesima sentenza.

6. Nell’ordine delle questioni dedotte dalle due parti appellanti ha evidentemente carattere prioritario l’eccezione di irricevibilità del ricorso di primo grado riproposta da Mccesi, il quale pretende di fare decorrere il termine per impugnare la concessione edilizia in proprio favore dalla data di avvio dei lavori.

6.1 Nel respingerla, il TAR ha correttamente applicato il costante indirizzo della giurisprudenza amministrativa in materia di termine per l’impugnazione di titoli edilizi da parte dei controinteressati, tradizionalmente individuato nel momento in cui può dirsi insorta in questi ultimi la “consapevolezza dell’esistenza delle violazioni della disciplina urbanistica derivanti dal progetto” . Più precisamente, secondo quanto ancora di recente ribadito da questo Consiglio di Stato (sez. IV, 5 aprile 2013 n. 1904;
26 marzo 2013, n. 1699;
15 febbraio 2013, n. 922;
30 gennaio 2013, n. 608;
sez. V, 16 aprile 2013, n. 2107), in linea con l’insegnamento dell’Adunanza plenaria (sentenza 29 luglio 2011, n. 15, § 6.3), tale termine coincide di regola, quando cioè non si deduca l’inedificabilità assoluta, con l’ultimazione dei lavori o comunque quando i lavori edilizi in itinere abbiano raggiunto un avanzamento tale da fare emergere gli eventuali profili di contrasto con la disciplina urbanistica. Circostanze, in ogni caso, che, in ossequio al generale disposto dell’art. 2697, comma 2, cod. civ., spetta esclusivamente al controinteressato provare.

Sulla base di questa premessa, non vi è dubbio che nel caso di specie non fosse possibile per i ricorrenti avere contezza delle asserite illegittimità al momento dell’inizio dei lavori, giacché, come notato dal TAR, la loro impugnativa è volta “a sostenere la non possibilità di realizzare nella zona un capannone di tipo industriale” , il che presuppone l’avvenuta realizzazione di questo nelle sue caratteristiche strutturali, costruttive e dimensionali.

Né il controinteressato, odierno appellante Mccesi, è stato in grado di offrire la prova che la conoscenza dei ricorrenti in ordine alle illegittimità prospettate possa essere fatta risalire ad un momento precedente.

Sul punto, il giudice di primo grado ha motivatamente escluso che tale prova possa essere fornita sulla base del cartellone apposto all’ingresso del cantiere edile all’epoca di inizio lavori, e cioè al 3 maggio 1999, sul rilievo – assolutamente condivisibile – che lo stesso non consentisse di acquisire elementi in ordine alla natura dell’intervento.

7. Non ha fondamento nemmeno la censura di ultrapetizione riproposta dal medesimo appellante.

Tra i motivi formulati nel ricorso originario vi è infatti quello (il terzo) volto a sostenere, tra l’altro, che il capannone avrebbe dovuto essere realizzato in una zona diversa da quella nella quale era stato assentito, trattandosi di manufatto destinato ad attività classificata come industria insalubre di prima categoria ai sensi del t.u. leggi sanitarie e dunque ad un’attività non insediabile in frazione San Isidoro, in quanto nociva ai sensi dell’art. 33-b norme tecniche di attuazione adottate in sede di variante del 1984 al programma di fabbricazione.

A questa censura si è attenuto il TAR il quale è pervenuto ad accertare la non compatibilità urbanistica del capannone assentito in ragione delle (a suo dire) incompatibili prescrizioni contenute nelle predette norme tecniche di attuazione, in base alle quali impianti della specie di quello in contestazione “possono essere realizzate soltanto nella zona espressamente prevista (localizzata lungo la strada comunale della Serrocchia)” e non già in quella su cui insiste la frazione di San Isidoro, avente destinazione agricola, in relazione alla quale è stata nondimeno rilasciata la concessione edilizia impugnata.

8. Può dunque passarsi ad esaminare i motivi concernenti il merito della presente impugnativa, il cui accoglimento in primo grado è censurato sotto plurimi profili dalle parti odierne appellanti.

Coglie innanzitutto nel segno la doglianza con cui il Comune di Apiro critica la decisione di accoglimento dei primo motivo di ricorso.

Essa risulta in effetti inficiata da una non corretta applicazione dei concetti di industria insalubre ai sensi dell’art. 216 r.d. n. 1265/1934 e dell’elenco contenuto nel D.M. 5 settembre 1994 e industria nociva disciplinata dall’art. 33-b delle N.T.A. alla variante del programma di fabbricazione del 1984.

L’art. 216 sopra citato impone unicamente che le industrie insalubri della prima classe, vale a dire quelle produttive di “vapori, gas o altre esalazioni insalubri” pericolose per la salute umana, tra le quali sono compresi gli allevamenti di bestiame (D.M. citato, lett. C, n. 1) siano “isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni” .

Peraltro, la prescrizione normativa non contiene alcuna fissazione di distanze minime, consentendo quindi che quelle imposte dalla disciplina di legge o di piano regolatore possano in ipotesi derogate, se venga dimostrato che l’esercizio dell’attività non reca pregiudizi alla salute del vicinato (in questo senso: C.d.S., sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 6612;
sez. V, 13 ottobre 2004, n. 6648).

Nella medesima prospettiva si colloca anche la norma tecnica di attuazione in esame, che appunto richiede che il carattere nocivo di un’industria sia in concreto accertato affinché queste siano realizzate solo nella zona appositamente prevista.

Infatti, come fatto palese dalla formulazione letterale di tale prescrizione urbanistica, l’industria nociva, per il cui insediamento devono essere riservate apposite zone da parte dello strumento urbanistico generale, richiede espressamente che detta “nocività” sia accertata in concreto, vale a dire che il processo produttivo in esse destinato a svolgersi determini un inquinamento ambientale “mediante fumi, polveri, umori, sostanze tossiche ed acque inquinanti” .

L’errore in cui il giudice di primo grado è incorso è quello di avere applicato meccanicisticamente i concetti in questione, senza prima avere accertato se l’allevamento avicolo assentito vi possa essere ricondotto, pervenendo quindi alla conclusione, inficiata da tale non corretta premessa, per cui “la mancata indicazione nel piano adottato di una zona destinata alle industrie insalubri non avrebbe potuto rendere assentibile un tale tipo d’intervento in zona agricola, essendo a ciò d’impedimento la pur vigente disciplina della variante al piano di fabbricazione, ostativo ad una siffatta localizzazione” .

Al contrario, sia il testo unico delle leggi sanitarie che il programma di fabbricazione del Comune di Apiro (cfr. art. 29 delle N.T.A.) postulano un simile accertamento.

Ne consegue che non vi è nel caso di specie alcuna violazione dello strumento urbanistico invece ravvisata dal TAR.

9. Deve dunque passarsi ad esaminare la conformità del manufatto assentito con la legge regionale n. 13/1990 sull’attività edilizia in zone agricole, questione oggetto del secondo motivo del ricorso di primo grado, il cui accoglimento è contestato sotto plurimi profili soprattutto dal controinteressato Mccesi nel proprio appello.

Innanzitutto, ribadito quanto poc’anzi osservato, deve essere escluso – contrariamente a quanto invece fatto dal TAR anche sotto questo profilo - che l’allevamento avicolo in contestazione possa essere qualificato come industria nociva e dunque ricada nella previsione di cui all’art. 3, comma 3, della citata legge (sostanzialmente riproduttiva di quella urbanistica sopra esaminata), secondo cui questa tipologia di attività può essere insediata esclusivamente in “apposite zone” individuate attraverso la pianificazione generale del territorio.

Il citato art. 3, comma 3, peraltro, assoggetta al medesimo trattamento gli “allevamenti industriali” , esonerando invece gli “ampliamenti degli allevamenti comunque esistenti” .

Al comma 1 di detto art. 3, poi, risultano nondimeno consentiti in zone agricole gli “edifici per allevamenti zootecnici, di tipo industriale” (lett. d).

10. A questa apparente contraddizione della norma, che da un lato consente gli allevamenti industriali in zona agricola e dall’altro ne impone la realizzazione previa apposita zonizzazione, tenta di dare una risposta Mccesi.

Costui sostiene che, in realtà, gli allevamenti industriali possono certamente essere realizzati in zone agricole, senza necessità di provvedere ad un’apposita zonizzazione, riservata invece alle sole industrie nocive, le quali non possono essere insediate nelle vicinanze delle prime, a causa dei rischi di inquinamento sulla produzione a scopi alimentari. L’art. 3, comma 3, in esame avrebbe quindi il solo scopo di concedere una facoltà alle amministrazioni, e cioè di “segnalare la particolare destinazione (o uso già in atto) come allevamento” di aree a destinazione agricola, attraverso apposite varianti di piano per tali allevamenti nell’ambito delle aree agricole nelle quali questi possono generalmente essere insediati, allo scopo di impedire che attività di trasformazione a scopi residenziali di fabbricati rurali possa ostacolare la realizzazione di impianti produttivi.

In sostanza la previsione va letta al contrario, a tutela dell’attività produttiva rispetto alle esigenze residenziali.

10.1 L’assunto è suggestivo ma non può essere condiviso.

E’ infatti indiscutibile che in zona agricola possano essere situati anche allevamenti industriali.

Tuttavia, quelli consentiti in base alla legislazione regionale marchigiana, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), sono unicamente quelli rispettosi dei requisiti e delle caratteristiche tipologiche e dimensionali ricavabili dagli artt. 9 e 13 della medesima legge.

Nel disciplinare espressamente la realizzazione di tali allevamenti, la prima delle citate disposizioni specifica, al comma 4, che “Sono considerati allevamenti zootecnici di tipo industriale quelli la cui consistenza supera il rapporto peso-superficie stabilito dalla legge 319/76” , sugli scarichi nelle acque (ora abrogata). La norma ha la funzione – puntualmente colta dall’appellante Mccesi – di garantire che il fondo abbia dimensioni tali da garantire l’assorbimento delle deiezioni degli animali allevati. Ciò è confermato dal comma 1 del medesimo art. 9, il quale specifica che tali allevamenti sono assentibili “a condizione che sia garantito il regolare smaltimento dei rifiuti” .

Dal canto suo, l’art. 13 condiziona il rilascio delle concessioni edilizie per gli allevamenti in questione al fatto che “le costruzioni stesse siano in funzione dell'attività agricola dell'imprenditore” .

Gli insediamenti non rispettosi di tali caratteristiche sono quindi considerati dalla normativa regionale in esame come “allevamenti industriali” ai sensi dell’art. 3, comma 3, per i quali occorre una individuazione di zone specifiche, al pari delle industrie nocive.

Vi è dunque una equiparazione quanto al trattamento urbanistico di queste due diverse tipologie insediative.

Le ragioni sono evidenti: entrambe sono fonti di potenziale inquinamento atmosferico e pericolo per l’ambiente e la salute dei residenti, essendo notorio che anche gli allevamenti intensivi presentino queste esternalità negative.

Nondimeno, tale equiparazione “scatta” al superamento da parte degli allevamenti industriali di tali limiti, cui la legge regionale connette dunque, in via presuntiva, carattere di industria nociva. Al di sotto degli stessi vi è solamente un allevamento “di tipo industriale” ex art. 3, comma 1, lett. d), il quale, cioè, condivide con il primo la tecnica intensiva di produzione, ma presenta caratteristiche dimensionali compatibili con la destinazione agricola dell’area su cui è destinato a sorgere.

10.2 Tanto precisato, il TAR è pervenuto ad esaminare la sussistenza di tali requisiti, giungendo alla conclusione negativa e qualificando il manufatto assentito come destinato ad attività industriale insalubre ai sensi dell’art. 216 t.u. leggi sanitarie.

In ciò è incorso in un fraintendimento, suscitando le censure dell’appello del controinteressato.

Come finora visto, non occorre infatti affermare tale ulteriore carattere, giacché il contrasto con la legge regionale è semplicemente integrato per effetto del mancato rispetto dei ridetti requisiti e caratteristiche da quest’ultima fissati per discriminare l’allevamento di tipo industriale dall’industria vera e propria. Contrasto che determinerebbe in ogni caso l’illegittimità della concessione, quand’anche la stessa fosse conforme allo strumento urbanistico, stante la subvalenza di quest’ultimo rispetto alla legge ai sensi dell’art. 1, comma 3.

10.3 E’ invece necessario verificare se siano o meno superati i più volte menzionati limiti cui la legge regionale subordina la realizzazione in zona agricola di allevamenti di tipo industriale.

Prima però occorre stabilire se, come assumono entrambe le parti odierne appellanti, l’intervento oggetto della concessione edilizia qui impugnata si sostanzi in un “ampliamento” , il quale – come visto sopra - è esonerato dall’apposita zonizzazione richiesta per gli allevamenti industriali, potendo essere dunque realizzato in zone agricole (in virtù dell’art. 3, comma 3, sopra citato).

10.4 Al riguardo, come condivisibilmente sostengono gli appellati, ricorrenti in primo grado, “gli ampliamenti degli allevamenti comunque esistenti” assentibili in zona agricola in base alla disposizione normativa in esame sono riferibili alle costruzioni o, comunque, aggiunge il Collegio, ad una specifica unita produttiva agricola circoscrivibile in un ambito spaziale unitario.

Non può essere invece sostenuta la tesi degli appellanti, secondo cui l’ampliamento va riferito all’attività sic et simpliciter , con il risultato di ritenerlo sussistente anche nel caso, come quello oggetto del presente giudizio, nel quale oltre all’insediamento produttivo in contestazione l’imprenditore disponga nello stesso territorio comunale, ancorché a distanza di qualche chilometro di altra unità aziendale agricola. Ciò per l’evidente rilievo che un simile assunto conduce a conseguenze paradossali, consentendo l’insediamento di insediamenti industriali di qualsiasi tipo e consistenza sulla base di un legame del tutto avulso dall’area in cui questo è destinato ad essere localizzato.

Pertanto, deve ritenersi che la norma in esame consenta, per palesi ragioni di promozione dell’attività agricola, esclusivamente di migliorare le strutture produttive legate alla conduzione del fondo già fisicamente esistenti su quest’ultimo.

Non ha nemmeno rilievo il fatto che sul medesimo sito di frazione San Isidoro, dove è destinato a sorgere il capannone qui in contestazione, Mccessi sia già titolare di altro allevamento, esercitato in altro capannone, avente dimensioni all’incirca doppie di quello in contestazione.

Gli ampliamenti ammessi, infatti, sono quelli relativi all’attività di “allevamento del bestiame” , prevista dall’art. 1, comma 2, l. reg. n. 13/1990 accanto alle altre attività agricole e cioè alla coltivazione del fondo ed alla silvicoltura. La disposizione ora menzionata costituisce norma base dell’intera legge marchigiana, come si ricava dal fatto che essa è richiamata dall’art. 3, comma 1, della medesima legge, relativo – si è visto finora - alle tipologie di attività edilizie assentibili in zona agricola: “Nelle zone agricole sono ammesse soltanto le nuove costruzioni che risultino necessarie per l'esercizio delle attività di cui al comma 2 del precedente articolo 1” .

Da tale operazione ricostruttiva si evince che gli ampliamenti previsti dalla legge sono solo quelli relativi all’attività agricola tradizionalmente intesa, svolta cioè con caratteristiche di non industrialità. Più in generale, tale attività costituisce il substrato materiale della disciplina normativa in esame e ne rappresenta pertanto l’inevitabile punto di partenza al fine di stabilire quali attività di trasformazione edilizia, anche a carattere industriale, sia consentita in zone ad essa riservate in base alla potestà di pianificazione territoriale.

10.5 Nel caso di specie è evidente che l’allevamento preesistente non presenti le caratteristiche dell’attività di allevamento tradizionale, trattandosi di capannone delle dimensioni di 75 x 14 metri, nel quale sono tenuti 14.000 capi, e dunque di un allevamento intensivo di tipo industriale, cui si aggiungono i 7.500 capi, su un manufatto delle dimensioni di circa 40 x 14 metri, per l’intervento in contestazione.

11 Passando dunque alla verifica se il TAR si sia attenuto alle disposizioni legislative regionali volte a delimitare gli allevamenti zootecnici di tipo industriale assentibili, va innanzitutto sottolineato che lo stesso ha correttamente richiamato la delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall’inquinamento dell’8 maggio 1980, in cui, in applicazione della legge n. 319/1976, cui come visto fa rinvio l’art. 9, comma 4, l. reg. n. 13/1990, si è fissato il rapporto in 40 quintali di pollame per ettaro.

A tale requisito è stato aggiunto quello del collegamento del fondo.

Il giudice di primo grado ha valorizzato a questo riguardo il disposto dell’art. 13, comma 1, lett. d), l. reg. n. 13/1990, che in effetti subordina il rilascio della concessione edilizia per allevamenti zootecnici di tipo industriale al fatto che essi siano strumentali all’attività agricola (recita la norma: “in funzione dell'attività agricola dell'imprenditore” ).

11.1 Il ragionamento ora descritto è corretto.

Come visto sopra, infatti, tutta la normativa regionale in esame è imperniata su tale attività e la previsione in questione, in coerenza con la predetta norma base contenuta nell’art. 1, comma 2, è quella disciplinarne la sviluppo edilizio funzionale alla medesima.

Più specificamente, il nesso di strumentalità in questione impone che nel rilascio di titoli edilizi venga accertato che l’insediamento destinato all’allevamento di tipo industriale non sia avulso dal punto di vista produttivo dal contesto agricolo nel quale si colloca e che dunque non venga reciso il legame con il fondo, nel senso cioè che da questo continui a ritrarsi il mangime necessario al fabbisogno alimentare dei capi allevati.

Questa è del resto la caratteristica che contraddistingue l’attività agricola da quella industriale, nella quale, per contro, le materie prime impiegate a scopi produttivi hanno provenienza esterna all’azienda. E’ infatti pertinente al riguardo, visto il richiamo contenuto dall’art. 13, comma 1, lett, d), l. reg. n. 13/1990 alla “legislazione vigente in materia” , l’avviso della Cassazione civile espresso a proposito della distinzione tra imprenditore agricolo ed imprenditore commerciale (nel cui ambito rientra quello esercente attività industriale, ai sensi dell’art. 2195 cod. civ.) ai fini dell’assoggettabilità al fallimento o della fruizione di benefici tariffari o agevolazioni di varia specie;
distinzione imperniata appunto sul legame tra fondo ed attività di allevamento (cfr. sez. I, 23 luglio 1997, n. 6911;
10 gennaio 1989, n. 18;
sez. III, 2 dicembre 2002, n. 17042).

Sulla base di questa impostazione, il TAR ha tra l’altro escluso il collegamento a causa dell’insufficiente produttività del fondo agricolo di cui il controinteressato è titolare rispetto al fabbisogno dei capi: “Per l’alimentazione dei polli d’ingrasso e dei bovini è necessario essere provvisti in azienda, in un anno, di almeno 538.000 unità foraggiere, ed il terreno necessario per coprire il 25% delle necessità alimentari dell’allevamento in esame è di 17,47 ettari, mentre il sig. Mcesi dispone per la produzione di seminativi di 15,9 ettari”.

La quale percentuale è, a detta del perito di parte ricorrente, l’indice comunemente impiegato per stabilire se vi sia una connessione tra fondo ed allevamento su di esso praticato.

11.2 L’impostazione seguita dal TAR merita conferma, ma, alla luce delle censure rivolte dall’appellante Mccesi, va precisata nei seguenti termini:

- la relazione agronomica allegata all’istanza di concessione edilizia riferisce di una superficie coltivata nell’azienda di Mccesi pari complessivamente a 20,25 ettari;

- nulla è detto in essa a proposito della copertura del fabbisogno alimentare del bestiame da parte delle colture praticate;

- i dati esposti, ed in particolare il dettaglio relativo alla produzione di seminativi (pari a 15,9 ettari), è comunque utilizzato dal consulente di parte ricorrente (dott. Giorgio Gaddoni), per il calcolo della capacità produttiva del fondo, sulla base dell’unità di misura costituita dalle unità foraggiere per tonnellata di bestiame allevato (anch’esso ricavato dalla relazione agronomica allegata all’istanza di concessione edilizia) ritraibili dalle colture praticate;

- diversamente da quanto rilevato dal TAR, la copertura del fabbisogno assicurata dal fondo di proprietà di Mccesi è stata stimata nel 9%, largamente inferiore al 25% richiesto al fine della concessione delle erogazioni comunitarie;

- ciò sulla base del fatto che i seminativi coltivati non sono dati esclusivamente dal mais, il quale è “il cereale per uso zootecnico per eccellenza” (pag. 11 della relazione del dott. Gaddoni), anche in ciò senza che si riscontri alcuna contestazione da parte del contro interessato.

11.3 A fronte di tali puntuali deduzioni, non vi è alcuna contestazione da parte del controinteressato.

Nemmeno la relazione agronomica del dott. P C, peraltro inammissibilmente depositata in appello, formula alcuna censura sul punto alla ricostruzione di cui sopra.

12. Ed allora, la stessa deve ritenersi pienamente comprovante le censure di violazione dell’art. 13 l. reg. n. 13/1990 e difetto di motivazione della concessione edilizia contenute nel terzo motivo del ricorso di primo grado.

Conseguentemente, nonostante la rilevata fondatezza di alcune censure contenute nei presenti appelli, il dispositivo della sentenza di primo grado deve essere confermato, essendo conforme a diritto, donde il rigetto di entrambi gli appelli. In particolare, la statuizione di annullamento emessa dal TAR in accoglimento del ricorso di primo grado deve essere confermata con riguardo ai motivi ora richiamati, salva la correzione della motivazione nei termini esplicitati nella presente sentenza.

Le spese del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra tutte le parti in causa, avuto riguardo alla complessità delle questioni trattate.

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