Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-10-08, n. 201906775
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Pubblicato il 08/10/2019
N. 06775/2019REG.PROV.COLL.
N. 03447/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sull’appello n.3447 del 2019, proposto dalla s.r.l. Gruppo Agnusdei Holding, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentato e difeso dall'avvocato A G, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato A P in Roma, viale Mazzini, n. 4;
contro
Il Comune di Termoli (Cb), in persona del Sindaco
pro tempore
, rappresentato e difeso dall'avvocato V C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise n. 612/2018, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Termoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 ottobre 2019 il pres. L M e uditi per le parti l’avvocato A P, su delega dell’avvocato A G, e l’avvocato G. Pecorilla, su delega dell’avvocato V C;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il ricorso di primo grado n. 256 del 2014, proposto al TAR per il Molise, la società appellante ha chiesto la condanna del Comune di Termoli al risarcimento del danno, cagionato con l’emanazione di un provvedimento emesso in data 21 dicembre 2009, poi annullato dal medesimo TAR con la sentenza n. 756 del 2011.
Il TAR, con la sentenza impugnata in questa sede n. 612 del 2018, ha respinto il ricorso ed ha compensato tra le parti le spese del giudizio.
Con l’appello in esame, la società ha impugnato la sentenza del TAR n. 612 del 2018 ed ha chiesto che, in sua riforma, sia accolta la domanda risarcitoria formulata in primo grado.
2. Per l’esame delle censure dell’appellante, va sintetizzata la vicenda posta all’esame del Collegio.
2.1. Il Comune di Termoli ha rilasciato alla società appellante i titoli edilizi n. 174 del 2003 e n. 210 del 2006, per la realizzazione di un edificio destinato a civile abitazione, composto da tre piani interrati, adibiti a garage e cantine, e da quattro piani fuori terra.
Col successivo provvedimento n. 39897 del 21 dicembre 2009, il Comune ha annullato in sede di autotutela tali titoli edilizi, poiché è risultato che – a corredo della istanza per il rilascio dei titoli edilizi – è stata presentata una dichiarazione non corrispondente al vero, sulla titolarità di un’area di 17 metri quadrati, in realtà di proprietà del Comune.
2.2. Con la sentenza n. 756 del 2011, il TAR per il Molise ha annullato l’atto di autotutela di data 21 dicembre 2009, rilevando che il Comune non ha preso ‘nella dovuta considerazione l'entità del pregiudizio patrimoniale per la ricorrente derivante dal provvedimento adottato’.
Non risulta che, a seguito di tale annullamento, il Comune abbia rinnovato il procedimento di autotutela.
2.3. Con il ricorso di primo grado, la società ha chiesto la condanna del Comune al risarcimento dei danni che avrebbe subito nel periodo dal 21 dicembre 2009 (data di adozione del provvedimento di autotutela) fino al 16 novembre 2011 (data di pubblicazione della sentenza n. 756 del 2011).
La società al riguardo ha dedotto che:
a) la difficoltà di vendere gli appartamenti del fabbricato avrebbe comportato un danno emergente (consistente in interessi passivi sul mutuo ipotecario per un importo di euro 159.829,82 e nel deprezzamento degli immobili per un importo pari ad euro 248.325,00) ed un lucro cessante (consistente nella differenza negativa tra il prezzo di vendita pattuito in sede di preliminare e quello poi concretamente conseguito nel caso delle vendite eseguite nel corso dell’anno in cui è stato efficace l’atto di ritiro, per un importo di euro 85.000).
b) sussisterebbero tutti presupposti per ravvisare la responsabilità del Comune, poiché l’atto di autotutela, annullato dal TAR, sarebbe stato adottato con colpa, in quanto la sentenza n. 756 del 2011 ha affermato che il Comune avrebbe dovuto tenere in conto l’entità del pregiudizio arrecato alla società e la possibilità di soluzioni alternative.
2.4. Con la sentenza ora impugnata n. 612 del 2018, il TAR ha dapprima richiamato i principi riguardanti la risarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo (sulla necessità della sussistenza dell’elemento oggettivo, della rimproverabilità, del nesso di causalità materiale o strutturale e del danno ingiusto), evidenziando che vanno separate ‘le regole di validità dell’atto dalle regole di responsabilità’.
Nel passare alla valutazione dei fatti accaduti, il TAR ha escluso che in concreto sia ravvisabile la rimproverabilità dell’Amministrazione, poiché:
- nelle originarie istanze, volte ad ottenere i titoli edilizi, la società ha indicato come proprio un terreno di proprietà comunale di 17 metri quadrati (sul quale è stato costruito in parte l’edificio in questione);
- la sentenza n. 256 del 2014 ha annullato l’atto di autotutela per difetto di motivazione (per la mancata adeguata valutazione del pregiudizio patrimoniale per la società, ‘oggettivamente sproporzionato rispetto al valore economico della predetta area di sedime, anche per l’emanazione dell’atto di autotutela a distanza di anni dal rilascio dei titoli edilizi) e per il non avere cercato ‘soluzioni alternative idonee a realizzare un equo contemperamento dei contrapposti interessi’, tenuto conto del fatto che si era formato un affidamento, in assenza di una dichiarazione mendace circa il titolo di proprietà (per le peculiari vicende concernenti il mantenimento dell’intestazione della particella 82 del foglio 13 agli eredi Cieri, malgrado la stipula di una permuta tra questi ed il Comune).
Al riguardo, la sentenza n. 612 del 2018 ha sottolineato quanto segue.
‘ A fronte di un’oggettiva occupazione di una porzione sia pure limitata del suolo comunale, non dichiarata nell’istanza di rilascio del titolo edilizio, l’Amministrazione una volta accortasi della circostanza abbia potuto nutrire il ragionevole dubbio di poter adottare un provvedimento in autotutela, escludendo l’affidamento del privato, e che anzi tale atto fosse dovuto, in presenza di una circostanza non dichiarata dall’istante .
Sotto questo aspetto l’Amministrazione intimata avrebbe dovuto rilevare:
1) che la mancata dichiarazione poteva dipendere da un errore in buona fede del dichiarante;
2) che la quantità di terreno dell’Amministrazione occupata dal privato fosse troppo limitata per giustificare il ritiro dei provvedimenti edilizi;
3) che era decorso un lasso temporale troppo ampio per adottare un intervento in autotutela.
Tali valutazioni non erano di immediata evidenza al momento in cui l’amministrazione comunale è intervenuta annullando i titoli edilizi, tenuto soprattutto conto, come visto, la mancanza di prescrizioni sulle soglie temporali massime (inserite solo dalla legislazione successiva) e di univoci elementi da cui desumere che la dichiarazione resa dall’istante in sede di richiesta di rilascio dei titoli edilizi fosse connotata da buona fede.
A tale ultimo riguardo la buona fede dell’istante che ha dichiarato di proprietà l’intera area di sedime è stata desunta solo in sede di accertamento giurisdizionale, laddove l’Amministrazione avrebbe dovuto compiere un ulteriore sforzo di accertamento dell’intenzione soggettiva, dopo aver accertato la proprietà pubblica della porzione di terreno, che non era concretamente esigibile, con ciò dovendosi escludere la colpa dell’Amministrazione ’.
Con l’appello in esame, la società ha richiamato le vicende che hanno preceduto il secondo grado del giudizio (v. pp. 1-5) ed ha lamentato la violazione dell’art. 2943 c.c., dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, oltre la violazione del giudicato formatosi con la sentenza del TAR n. 756 del 2011 e l’erronea motivazione della sentenza impugnata.
Dopo aver dettagliatamente riportato il contenuto delle due sentenze del TAR (v. pp. 5-9), la società ha dedotto che:
- la sentenza impugnata n. 612 del 2018 non avrebbe tenuto conto delle specifiche statuizioni della sentenza n. 756 del 2011 e della formazione del giudicato;
- l’oggettiva illegittimità dell’atto di autotutela e l’oggettivo pregiudizio da essa patito giustificherebbero la condanna del Comune a risarcire il danno;
- sussisterebbe effettivamente il requisito della colpa dell’Amministrazione, bastando anche la ‘colpa lieve di apparato’;
- la sentenza impugnata, come l’originario atto di autotutela, avrebbe attribuito rilevanza ad una ‘questione assolutamente irrilevante sotto il profilo economico (l’area di proprietà del Comune era di appena 17 mq)’, senza tener conto della ‘buona fede della società’.
Il Comune appellato si è costituito in giudizio con una memoria depositata in data 23 maggio 2019, con cui ha articolato le proprie difese ed ha chiesto il rigetto del gravame.
In data 2 settembre 2019, l’appellante ha depositato una memoria, con cui ha insistito nelle già formulate conclusioni.
4. L’appello va respinto, perché infondato.
La sentenza impugnata, con argomentazioni che il Collegio condivide e fa proprie, ha evidenziato che la domanda risarcitoria, per una lesione arrecata ad un interesse legittimo, può essere accolta solo quando sussistono tutti i relativi presupposti e, in particolare, la rimproverabilità della pubblica amministrazione (sul punto, v. anche Cons. Stato, Sez. VI, n. 1047 del 2005;n. 4297 del 2006;n. 3521 del 2013;n. 5611 del 2015;Sez. VI, n. 5531 del 2018).
Nella specie, tale rimproverabilità non può essere ravvisata.
Il provvedimento di data 21 dicembre 2009 è stato emesso in sede di autotutela, dopo che è stato rilevato che la società aveva chiesto il rilascio di titoli edilizi, deducendo di essere titolare dell’intera area sulla quale intendeva realizzare l’edificio.
E’ poi risultato che una parte di tale area, nella misura di 17 metri quadrati, non era di proprietà della società, bensì del Comune medesimo.
Come ha correttamente evidenziato la sentenza impugnata, sono distinte le indagini che il giudice amministrativo deve svolgere quando il destinatario di un atto autoritativo lamenta la sua illegittimità e chiede il risarcimento del danno arrecato dall’atto.
L’indagine sulla legittimità dell’atto riguarda la sussistenza o meno dei vizi di incompetenza, di violazione di legge e di eccesso di potere, mentre l’indagine sulla sussistenza della responsabilità dell’Amministrazione riguarda – tra l’altro – la sussistenza della sua rimproverabilità.
Questa – malgrado l’accertata illegittimità del provvedimento - può essere esclusa (dallo stesso giudice che rileva l’illegittimità, se del caso già quando si chieda l’applicazione dell’art. 34, comma 3, del c.p.a., ovvero in sede di esame della domanda conseguente all’annullamento dell’atto) non solo quando si tratti di aspetti attinenti al quadro normativo (ad esempio quando una disposizione risulti poco chiara o abbia dato luogo a contrasti giurisprudenziali), ma anche quando si tratti di una vicenda complessa e – all’esito del giudizio di legittimità dell’atto – risultino sussistenti i presupposti per l’annullamento dell’atto lesivo.
La rimproverabilità può essere esclusa sia quando i fatti siano in sé caratterizzati dalla loro complessità, sia quando lo stesso destinatario dell’atto autoritativo – con la propria condotta – abbia causato l’emanazione dell’atto poi risultato illegittimo (Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2014, n. 5346).
In particolare, per i casi in cui un atto sia risultato illegittimo per eccesso di potere – in ragione della ravvisata sussistenza di un affidamento di cui si sarebbe dovuto tenere conto, ovvero in applicazione del principio di proporzionalità – il giudice amministrativo, così come può ravvisare l’illegittimità del provvedimento che di tale affidamento o di tale principio non abbia tenuto adeguata considerazione, allo stesso modo, in ragione dei fatti accaduti, può escludere che sia ravvisabile la rimproverabilità dell’Amministrazione quando sia poi proposta la domanda risarcitoria.
Come ha correttamente rilevato la sentenza impugnata, si tratta di due distinti piani di indagine, rispetto ai quali la soluzione del caso, in sede di giustizia amministrativa, pur se deve comportare l’annullamento dell’atto, non conduce senz’altro all’accoglimento della domanda risarcitoria.
La diversità di tali piani di indagini risulta con evidenza proprio quando l’Amministrazione abbia emanato un atto di autotutela e poi il giudice amministrativo – malgrado l’oggettiva sussistenza del vizio dell’atto in precedenza emesso – ritenga di annullare l’atto di autotutela.
Qualora il vizio dell’atto in precedenza emesso sia riconducibile alla condotta al destinatario del provvedimento di autotutela, il giudice amministrativo ben può rilevare la fondatezza della domanda di annullamento e respingere la domanda risarcitoria (ovvero – già in sede di applicazione dell’art. 34, comma 3, del c.p.a., escludere profili di responsabilità).
La coerenza di tali statuizioni vi è non solo quando una unica sentenza esamina sia la domanda di annullamento (o quella di accertamento della illegittimità), sia quella risarcitoria, ma anche quando – come è avvenuto nella specie – sia dapprima proposta solo la domanda di annullamento e – a seguito della sentenza di annullamento - sia poi formulata la domanda risarcitoria.
Contrariamente a quanto ha dedotto l’appellante, la sentenza impugnata non è dunque incorsa nella violazione del giudicato, per aver escluso la fondatezza della domanda risarcitoria, proposta dopo l’emanazione della sentenza di annullamento.
Neppure sono condivisibili le ulteriori deduzioni dell’appellante, secondo cui sarebbe ravvisabile una ‘colpa lieve di apparato’ e il Comune con l’atto di autotutela avrebbe attribuito rilevanza ad una ‘questione assolutamente irrilevante sotto il profilo economico (l’area di proprietà del Comune era di appena 17 mq)’.
Nella specie, dall’esame dei fatti accaduti non emerge alcun elemento che possa far ritenere sussistente una ‘colpa d’apparato’, essendovi stata una iniziativa procedimentale che, malgrado la illegittimità poi riscontrata dell’atto di autotutela, ha inteso porre rimedio ad una situazione di illegalità (conseguente al rilascio degli originari titoli edilizi) e di illiceità (conseguente alla disponibilità da parte della società di un’area di proprietà del Comune).
Inoltre, non può essere considerata ‘assolutamente irrilevante sotto il profilo economico’ la questione della perdurante occupazione di un suolo di proprietà comunale.
La stessa sentenza di annullamento n. 756 del 2011 ha rilevato che il Comune, sia pure senza emanare l’atto di annullamento, avrebbe potuto individuare ‘soluzioni alternative idonee a realizzare un equo contemperamento dei contrapposti interessi’ (così evocando anche la soluzione prevista dall’art. 938 del codice civile, riguardante ‘l’occupazione di porzione di fondo attiguo’), con ciò riconoscendo espressamente la perdurante rilevanza giuridica della situazione venutasi a verificare, caratterizzata anche dalla illiceità della condotta di occupazione.
Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.
E’ pertanto irrilevante l’esame delle deduzioni del Comune appellato, sulla assenza della prova del danno che l’appellante ha dedotto di avere subito.
La condanna al pagamento delle spese del secondo grado del giudizio segue la soccombenza. Di essa è fatta liquidazione nel dispositivo