Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-12-04, n. 201206190

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-12-04, n. 201206190
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201206190
Data del deposito : 4 dicembre 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10056/2005 REG.RIC.

N. 06190/2012REG.PROV.COLL.

N. 10056/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10056 del 2005, proposto da:
Soc. Arca Confezioni A R.L., in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. G S, A C, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;

contro

Comune di Empoli, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. F M, con domicilio eletto presso F M in Roma, corso V. Emanuele II, 18;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della TOSCANA – Sede di FIRENZE- SEZIONE III n. 04472/2004, resa tra le parti, concernente obbligo di concessione edilizia per interventi di ristrutturazione


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 ottobre 2012 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Fausto Buccellato su delega di A C e Roberto Modena in sostituzione di F M;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso di primo grado corredato da motivi aggiunti era stato chiesto dalla società odierna appellante ARCA CONFEZIONI s.r.l. l’annullamento del provvedimento sindacale n. 29608 reso dall’appellata amministrazione comunale il 12 ottobre 1995.

La originaria ricorrente aveva esposto di essere proprietaria di un immobile (nel quale in passato svolgeva attività produttiva da tempo trasferita altrove, e successivamente divenuto sede dell’ufficio di rappresentanza della società, pur essendo rimasta “produttiva” la destinazione dell’immobile) e di avere preso impegni per locare il fabbricato alla U.s.l. che lo avrebbe destinato ad uffici.

Essa aveva quindi presentato una prima denuncia di inizio di attività per mutamento di destinazione d’uso, senza opere edilizie, da “industriale” a “direzionale”( ai sensi dell’art. 8, comma 7, d.l. n. 310/1995, trattandosi della regolarizzazione di una situazione di fatto da tempo esistente) e, comunicata al comune in data 23 settembre 1995 l’”ultimazione” di quanto richiesto, aveva avanzato anche, in pari data, nuova denuncia di inizio di attività per realizzare alcune opere di manutenzione straordinaria ed interne al fine di adeguare il fabbricato alle necessità dell’U.s.l. locataria dello stesso.

Con il provvedimento sindacale gravato, il comune le aveva ingiunto di non proseguire l’attività “per dimostrazione dell’effettivo insediamento dell’attività e del non collegamento funzionale tra la presente istanza e quella relativa al cambio di destinazione d’uso presentata in data 16.9.1995”.

Successivamente al predetto provvedimento la società odierna appellante, precisato che il mutamento di destinazione d’uso era avvenuto da tempo, aveva presentato richiesta di concessione edilizia,ed aveva proposto ricorso, prospettando quattro articolate macrocensure di violazione di legge (dell’art. 8, comma 7 e seguenti del d.l. n. 400 del 20 settembre 1995 -vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato- nonché dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, violazione dei principi in tema di d.i.a.)ed eccesso di potere.

L’adito Tribunale amministrativo regionale della Toscana - Sede di Firenze - ha respinto il gravame in primo luogo ponendo in risalto che, contrariamente a quanto sostenuto dalla odierna appellante, non era ascrivibile all’amministrazione comunale alcuna (illegittima) “inversione dell’onere della prova” ma solo il corretto esercizio del potere inibitorio previsto dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990.

Legittimamente infatti detta amministrazione comunale, preso atto che a distanza di una settimana, con due successive dichiarazioni di inizio di attività, la originaria ricorrente aveva prima comunicato il mutamento di destinazione d’uso avvenuto nell’immobile di propria pertinenza e poi l’esecuzione di opere interne e di manutenzione straordinaria ( e del tutto plausibilmente ritenendo che si trattasse di un unico episodio caratterizzato da un nesso causale tra le due circostanze, ancorché fatte oggetto di separate dichiarazioni di inizio di attività) aveva inibito la prosecuzione dell’intervento.

Peraltro successivamente, adita in sede di procedimento per rilascio di concessione edilizia per lo stesso intervento, la commissione edilizia comunale, in diverso avviso rispetto ad un precedente parere, avuto riguardo al carattere progressivo delle opere volte nel loro insieme a configurare un intervento di ristrutturazione edilizia, aveva espresso parere favorevole al rilascio di concessione edilizia, pur condizionandola ad una serie di adempimenti documentali.

Doveva inoltre essere rimarcato, ad avviso del primo giudice, che il cambio di destinazione d’uso dell’immobile de quo( già a destinazione industriale e successivamente divenuto sede di uffici dell’U.s.l.) si era concretamente realizzato a seguito di una serie di opere ( queste ultime descritte nell’allegato A al contratto preliminare di locazione tra la ricorrente e la predetta U.s.l.laddove -art. 2 del contratto- le parti avevano qualificato l’intervento come “ristrutturazione” avendo esso ad oggetto il rifacimento di tutti gli impianti -elettrico, idrico-sanitario, riscaldamento-, la sistemazione di intonaci e pavimento, la demolizione di ripostigli e la rimozione di inferriate, l’installazione di divisori, la costruzione di due w.c. e la predisposizione di impianto tv e di condizionamento, eccetera, riferiti al piano seminterrato, al piano rialzato ed al piano primo dell’immobile ).

Ne conseguiva che non appariva sostenibile la tesi che il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile si fosse determinato a seguito del mero diverso utilizzo del medesimo da parte della stessa originaria ricorrente ( che lo avrebbe utilizzato come ufficio di rappresentanza della società) e soprattutto che ciò avrebbe dovuto autonomamente accertare il comune in concomitanza della presentazione della prima d.i.a..

Ciò perché, doveva rimarcarsi ad avviso del primo giudice, la destinazione d’uso dell’immobile era quella ad esso impressa con provvedimento formale (normalmente, con lo stesso titolo ad edificare) in conformità alla destinazione di zona. Una diversa utilizzazione da parte del concessionario non valeva a rendere operante, nei confronti della pubblica amministrazione, un cambio di destinazione dell’immobile laddove esso si configurasse come mutamento rispetto a categorie urbanisticamente rilevanti ( come nella specie si assumeva essersi verificato).

Per di più il mutamento di destinazione di cui si trattava – da industriale a direzionale – oggetto di d.i.a., non poteva non essere collegato all’esecuzione di opere (qualificate come di manutenzione straordinaria ed interne) oggetto di altra d.i.a., presentata ad una settimana di distanza dalla prima ( come si evinceva dallo stesso contratto preliminare di locazione tra la ricorrente e la U.s.l. –nel quale le stesse opere erano qualificate, nel loro insieme, come “ristrutturazione”- ).

Ad avviso del primo giudice, quindi, in tale contesto, legittimamente l’amministrazione aveva prima richiesto alla originaria ricorrente la dimostrazione della mancanza di nesso causale tra le due d.i.a. e, successivamente, qualificando l’intervento come ristrutturazione avendo esso prodotto come esito finale un organismo diverso dal precedente, aveva ribadito la necessità della concessione edilizia (richiesta peraltro dalla stessa odierna appellante, sia pure con riserva di ripetere i relativi oneri concessori).

Né, ad avviso del Tribunale amministrativo, sussisteva la dedotta violazione di legge, in quanto l’art. 8, comma 7, del d.l. n. 310/95, -in base al quale il mutamento di destinazione d’uso senza opere a ciò preordinate era oggetto di d.i.a.- esigeva la duplice condizione che si trattasse di mero cambio di destinazione funzionale e che esistesse la regolamentazione di cui all’art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47.

Il successivo comma 8, invece, - secondo cui l’esecuzione delle opere di cui al comma 7 non era subordinata alla corresponsione dei contributi di cui alla legge n. 10/ 77 - si riferiva alle opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo (che non determinavano cambio di destinazione), ma non agli interventi di ristrutturazione (o, comunque, a quelli idonei a determinare un mutamento di destinazione d’uso).

Nel dubitare della autonomia e del mancato collegamento tra le due dichiarazioni di inizio di attività, il comune non aveva, quindi, violato le dette disposizioni, le quali richiedevano, per la loro immediata applicabilità nella fattispecie, l’accertamento di requisiti e condizioni i quali, anzi, apparivano insussistenti sulla base della documentazione offerta dalla originaria ricorrente.

Sia pure a posteriori, in sede di rilascio della richiesta concessione edilizia, l’amministrazione comunale aveva comunque rilevato l’unitarietà dell’intervento e, con riguardo alla qualità ed all’insieme delle opere eseguite, lo aveva ritenuto idoneo a portare ad un organismo edilizio diverso dal precedente.

Posto che, ai sensi dell’art. 7 l. 47/85, un organismo edilizio poteva essere qualificato diverso da quello concessionato anche per caratteristiche di utilizzazione e le opere che ciò avessero comportato dovevano ritenersi eseguite in totale difformità (dalla concessione) si doveva ritenere che un intervento siffatto non potesse che essere configurato come ristrutturazione ( la quale, ai sensi dell’art. 9 della legge citata, richiedeva il rilascio della concessione edilizia):in ogni caso, l’intervento edilizio de quo– che in mancanza di prova contraria si configurava come mutamento di destinazione mediante opere che superavano largamente la soglia delle mere opere interne – non era soggetto alla disciplina di cui all’art. 8 dei dd. ll. 310/95 e 400/95.

Il primo giudice, infine, ha disatteso il quarto motivo di censura alla stregua del principio per cui l’illegittimità della firma di sottoscrizione dell’atto non ne comportava l’invalidità laddove risultassero elementi sufficienti ad attribuirne la provenienza all’autorità che lo ha emanato (come nel caso di specie, in cui l’intestazione del provvedimento, con relativo numero di protocollo e data di emissione, nonché la presenza del timbro dell’ufficio e la dicitura a stampa “il sindaco”, costituivano per sé elementi idonei ad individuarne la provenienza).

Il mezzo di primo grado è stato pertanto integralmente respinto.

L’originaria ricorrente rimasta soccombente ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe sotto tutti i versanti motivazionali suindicati ripercorrendo la cronologia degli accadimenti e chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha in particolare evidenziato che il 13.12.1995 la commissione edilizia, all’unanimità, aveva rilevato che le opere realizzate non erano soggette a concessione.

Ha poi rimarcato che l’appellante medesima, giovandosi dell’ordinanza sospensiva n. 1/1996 resa dal primo giudice, aveva definito i lavori e già locato l’immobile alla Usl.

Nel merito, ha fatto presente che sarebbe spettato al Comune verificare ex officio la sussistenza di un collegamento funzionale tra le due d.i.a. presentate: inopinatamente era stato obliato tale principio, ed i lavori erano stati sospesi invertendo l’onere della prova ed onerando l’appellante alla dimostrazione di ciò che avrebbe dovuto essere verificato ex officio.

Tale illegittima condotta integrava violazione dell’ art. 8, commi 7 e segg. del d.l. n. 310/95, e dell’art. 19 della legge n. 241/1990.

Del pari errato era l’operato del comune (ed il capo di sentenza che aveva respinto il secondo motivo del mezzo di primo grado) in quanto fondato sulla erronea interpretazione dell’allegato A al contratto di locazione, laddove il termine “ristrutturazione” era stato utilizzato qual sinonimo di quello “risistemazione”.

Il primo giudice, inoltre, non aveva preso in esame la censura subordinata (terzo motivo del mezzo di primo grado) con la quale si era evidenziato che, in base all’art. 2 comma 61 della legge n. 662/1996, se anche le opere edilizie eseguite fossero state (il che si negava) funzionali ad un mutamento di destinazione d’uso non avvenuto in precedenza, esse –pur sempre- non avrebbero abbisognato di concessione in quanto mere opere interne.

Infine, ha ribadito la fondatezza del quarto motivo di censura, posto che il provvedimento gravato in primo grado non era stato sottoscritto dal Sindaco;
la firma allo stesso apposta era illegibile, ed il Comune non aveva dimostrato che il soggetto sottoscrittore (peraltro rimasto ignoto) fosse munito dei poteri di rappresentanza del Sindaco.

L’appellante ha depositato due memorie puntualizzando e ribadendo le proprie difese.

L’appellata amministrazione comunale di Empoli ha depositato due articolate memorie chiedendo in via principale la declaratoria di inammissibilità dell’appello perché tardivo e, nel merito ed in via subordinata, la reiezione dell’appello medesimo perché infondato.

Alla odierna pubblica udienza del 30 ottobre 2012 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO


1.Giunge alla decisione del Collegio l’appello proposto dalla ARCA CONFEZIONI s.r.l. volto a sostenere la erroneità della decisione in epigrafe indicata n. 4472/2004 resa dal Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana con la quale è stato respinto il mezzo di primo grado dalla stessa proposto avverso il provvedimento sindacale n. 29608 del 12 ottobre 1995 con il quale il comune le aveva ingiunto di non proseguire l’attività sottesa ad una denuncia di inizio attività dalla stessa presentata “per dimostrazione dell’effettivo insediamento dell’attività e del non collegamento funzionale tra la presente istanza e quella relativa al cambio di destinazione d’uso presentata in data 16.9.1995.

1.1.Va dichiarata la infondatezza della eccezione preliminare di tardività dell’appello formulata dall’appellata amministrazione comunale.

Essa è infatti infondata, in quanto la sentenza gravata, non notificata, venne pubblicata in data 12 ottobre 2004;
l’appello venne proposto il 28 novembre 2005.

Laddove si sommi il termine “lungo” dell’impugnazione (pari ad un anno) al periodo di sospensione feriale dei termini processuali (46 gg) e posto che il 27 novembre era domenica, appare evidente che l’impugnazione è stata proposta nell’ultimo giorno utile ed è pertanto tempestiva.

2. Ciò premesso, l’odierna appellante ha lealmente esposto nell’atto di appello che, giovandosi dell’ordinanza sospensiva n. 1/1996 resa dal primo giudice, essa aveva definito i lavori e già locato l’immobile alla Usl.

Posto che, peraltro, a seguito della richiesta di concessione edilizia avanzata nelle more del procedimento la CE, all’unanimità, nella seduta del 13.12.1995 aveva rilevato che le opere realizzate non erano soggette a concessione, il Collegio ritiene che legittimamente ci si possa interrogare, ex officio, in ordine al permanere dell’interesse alla decisione del gravame.

A tal proposito, in carenza di alcuna espressa dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse da parte dell’appellante, ritiene il Collegio che non sussista alcun elemento per desumere dalla avvenuta “risoluzione” della vicenda amministrativa di che trattasi elementi dai quali fare discendere la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso.

Anche nella sopravvenuta vigenza del nuovo codice del processo amministrativo (a fortiori, verrebbe fatto di dire, alla luce della prescrizione di cui all’art. 30 comma 5 del codice medesimo), conserva ad avviso del Collegio piena attualità il principio di matrice giurisprudenziale secondo il quale “la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d' interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi e, in particolare, in modo che la declaratoria d'improcedibilità non si traduca in una sostanziale elusione dell'obbligo del giudice di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, perché l' interesse residuo alla pronuncia del merito della controversia va inteso in senso assai ampio, ossia alla luce degli effetti conformativi e ripristinatori dell'eventuale sentenza d'accoglimento - la quale, oltre all'efficacia meramente caducatoria dell'atto impugnato, si riverbera e condiziona la futura attività amministrativa -, in quanto la persistenza dell' interesse va valutata considerando anche le possibili ulteriori iniziative attivate o attivabili dal ricorrente per ottenere la soddisfazione della di lui pretesa, potendo la predetta sentenza costituire, com'è noto, il presupposto per l'accoglimento dei gravami contro gli atti consequenziali o per esercitare l'azione risarcitoria contro la p.a. emanante innanzi all'a.g.o. “(Consiglio Stato , sez. V, 10 marzo 1997, n. 242: -ormai innanzi al g.a.-).

Tale principio ad avviso del Collegio non implica che ci si debba pronunciare sempre e comunque sul merito della controversia anche in carenza di un concreto ed attuale interesse alla statuizione demolitoria in previsione di future ed incerte iniziative risarcitorie successive al giudicato.

Implica però che quantomeno con riguardo alle controversie incardinate antecedentemente alla entrata in vigore del cpa – sempre in assenza di alcuna manifestazione di volontà in un senso o nell’altro proveniente dalla parte processuale potenzialmente interessata da intraprendere una azione ex art. 2043 cc- il giudice si pronunci sul merito salvo che sussistano elementi dai quali potersi trarre il ragionevole convincimento che neppure sussista alcun possibile interesse alla delibazione del merito della controversia in chiave di futura proposizione del petitum risarcitorio.

Tali elementi, nel caso di specie, non sussistono, ed, anzi, risultano acquisite evidenze di contrario segno, atteso che (pag. 3 del ricorso in appello) la stessa appellante ha rammentato di avere avanzato istanza concessoria al Comune espressamente facendo riserva di esperire azione risarcitoria, e che la stessa si è altresì doluta (pag. 4 dell’appello) della circostanza che il comune, seppure avesse riconosciuto che le opere non necessitassero di concessione edilizia non aveva provveduto ad annullare in autotutela l’ordine di sospensione dei lavori, seppur non rilasciando la richiesta concessione edilizia.

Ne consegue che deve essere delibato il merito della controversia.

3.Ritiene il Collegio che, quanto alle censure investenti la legittimità dell’ordine si sospensione gravato, le censure proposte, che per la loro intima concessione possono essere esaminate congiuntamente, non colgano nel segno.

Invero costituisce principio giurisprudenziale sempre costantemente predicato dalla giurisprudenza amministrativa quello per cui” La legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio «tempus regit actum», con conseguente irrilevanza di eventuali sopravvenienze normative che determinino l'abrogazione della disciplina che aveva legittimato l'adozione del provvedimento stesso, fatta salva l'ipotesi eccezionale di invalidità successiva introdotta da una norma sopravvenuta espressamente retroattiva, nei limiti in cui ciò possa considerarsi costituzionalmente legittimo.”(T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 10 marzo 2011 , n. 453, da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 settembre 2009, n. 5195).

Ne consegue che la legittimità del provvedimento avversato va valutata alla luce delle cognizioni e degli elementi fattuali e documentali in possesso del Comune al momento in cui lo stesso fu emesso, e che nessuna refluenza sul medesimo può spiegare la successiva manifestazione valutativa del Comune stesso, resa in data 13.12.1995, laddove era stato rilevato che le opere realizzate non erano soggette a concessione.

3.1. Fatta questa premessa, ritiene il Collegio che il primo giudice abbia fatto buongoverno del detto principio ed abbia esattamente riscontrato la legittimità del provvedimento inibitorio, al momento in cui venne emesso, alla stregua delle emergenze processuali e logiche che di seguito si elencano.

Si rammenta in proposito che costituisce jus receptum, in giurisprudenza, il principio per cui

l'inibitoria ad iniziare lavori edili con la semplice denuncia di inizio di attività è ascrivibile nella categoria degli atti a contenuto vincolato, sicché, lungi dal potersi accreditare come espressione di una valutazione discrezionale di volta in volta compiuta dal dirigente di settore, deve necessariamente costituire momento attuativo di un ben definito regime regolamentare ovvero di puntuali prescrizioni pianificatorie, per effetto dei quali il Comune definisce, in via preventiva, l'assetto del territorio.”(ex multis T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 17 luglio 2008 , n. 8882)

Detto potere, come è noto, deve essere esercitato in un termine perentorio fissato ex lege, a pena di caducazione (ed eventuale necessità, a seguito dell’invano trascorrere del termine, che l’attività del privato debba essere inibita esercitando il più complesso potere di autotutela, immanente pur se soggetto a stringenti limiti).

Trattasi quindi dell’esercizio di un potere che ratione natura viene esercitato in via d’urgenza: ciò non esonera l’amministrazione emanante da responsabilità in ipotesi di incauto esercizio dello stesso (ex multis: “sussiste responsabilità per danni causati dall'illegittimo provvedimento di inibitoria dei lavori di una DIA, quando viene accertata l'esistenza di tutti gli elementi di cui all'art. 2043, tra cui la colpa, desumibile dalla palese ed inescusabile violazione delle norme che presiedono all'esercizio dell'azione amministrativa, attesa la superficialità dell'istruttoria condotta dal Comune.”-T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 05 aprile 2011 , n. 901-).

Purtuttavia, proprio a cagione dello stato di urgenza in cui l’Amministrazione destinataria della denuncia si trova ad agire, la completezza/superficialità della istruttoria dalla stessa svolta e sottesa al provvedimento deve essere apprezzata tenuto conto della documentazione fornita dal privato stesso, e, appunto dei ristretti limiti temporali di esercizio del potere.

3.2. Nel caso di specie, tali principi e cautele valutative risultano vieppiù applicabili, laddove si consideri che il provvedimento inibitorio era all’evidenza finalizzato ad ottenere dal privato alcuni chiarimenti di natura istruttoria in quanto nello stesso si avvertiva il destinatario dell’ esigenza di dimostrazione “dell’effettivo insediamento dell’attività e del non collegamento funzionale tra la presente istanza e quella relativa al cambio di destinazione d’uso presentata in data 16.9.1995”.

3.3. In punto di fatto ritiene il Collegio che tale richiesta di chiarimenti fosse più che legittima, laddove si consideri quale era stato il dipanarsi delle richieste del privato e, soprattutto, il contenuto dell’allegato A al contratto di locazione con la Usl sotteso alle richieste medesime.

Invero, risulta per tabulas che l’amministrazione comunale ricevette una prima denuncia di inizio di attività per mutamento di destinazione d’uso, senza opere edilizie, da “industriale” a “direzionale”( ai sensi dell’art. 8, comma 7, d.l. n. 310/1995, trattandosi della regolarizzazione di una situazione di fatto da tempo esistente) e che successivamente, comunicata al comune in data 23 settembre 19095 l’”ultimazione” di quanto richiesto, era stata inoltrata una nuova denuncia di inizio di attività per realizzare alcune opere di manutenzione straordinaria ed interne al fine di adeguare il fabbricato alle necessità dell’U.s.l.

Come è agevole riscontrare, già la stessa sequenza delle richieste risultava (quantomeno) anomala, in quanto invertita rispetto alla ordinaria consequenzialità logica: ciò perché presupponeva una circostanza, che l’amministrazione comunale non era in grado di conoscere, riposante nella circostanza che l’immobile predetto, sebbene conservasse la destinazione “produttiva”, già da tempo era stato adibito a sede amministrativa di uffici (id est: lo stesso utilizzo cui avrebbe adibito l’immobile medesimo l’aspirante locatario Usl).

Ma v’è di più: come esattamente rilevato dal primo giudice, il cambio di destinazione d’uso dell’immobile de quo( già a destinazione industriale e successivamente divenuto sede di uffici dell’U.s.l.) si era realizzato a seguito di una serie di opere (descritte nell’allegato A al contratto preliminare di locazione tra la odierna appellante e la predetta U.s.l.) laddove le stesse parti negoziali –si veda art. 2 del contratto- avevano qualificato l’intervento come “ristrutturazione”.

Tale “ristrutturazione” aveva ad oggetto il rifacimento di tutti gli impianti -elettrico, idrico-sanitario, riscaldamento-, la sistemazione di intonaci e pavimento, la demolizione di ripostigli e la rimozione di inferriate, l’installazione di divisori, la costruzione di due w.c. e la predisposizione di impianto tv e di condizionamento, eccetera, riferiti al piano seminterrato, al piano rialzato ed al piano primo dell’immobile.

L’odierna appellante - ad avviso del Collegio- ben si rende conto della valenza di tale circostanza, e con il secondo motivo di gravame pretende di dimostrare che il termine “ristrutturazione” da essa stessa utilizzato nell’allegato al contratto di locazione non contenesse alcuna specifica valenza tecnica, e dovesse valere quale sinonimo di “risistemazione”.

Senonchè, proprio tale circostanza, ad avviso del Collegio, rende palese la infondatezza dei primi due motivi di censura e consente di pervenire all’affermazione che l’appellata amministrazione comunale non ebbe ad imporre alcuna (pretesamente illegittima) “inversione dell’onere della prova”.

Essa, al contrario, giovandosi di quanto portato a propria conoscenza dalla stessa appellante, paventò l’esistenza di una irregolarità, laddove dapprima si era comunicato il cambio di destinazione d’uso, e poi, la esecuzione di opere di ristrutturazione apparentemente connesse e finalizzate a realizzare proprio il cambio di destinazione d’uso già oggetto della prima d.i.a.

Se errore vi fu, quindi (ammesso che tale possa essere ritenuto), esso era stata originato proprio dalla sequenzialità delle due denunce, e soprattutto, dalla autodichiarazione della futura esecuzione di opere di “ristrutturazione” ad opera dell’appellante.

Data la situazione, il comune ebbe ad agire secondo i canoni della ordinaria diligenza, e del tutto correttamente, ad avviso del Collegio emise il provvedimento sospensivo contenente la richiesta istruttoria per cui è causa.

4.Non coglie nel segno neppure la terza censura contenuta nel ricorso in appello.

Il giudice di primo grado – contrariamente a quanto sostenutosi nel ricorso in appello, laddove si adombra la violazione del disposto di cui all’art.112 del codice di procedura civile - non ha affatto omesso di esplicitamente soffermarsi sulla doglianza.

Al contrario, alla stessa è stata dedicata ampia parte del tessuto motivazionale dell’appellata decisione( ultima parte del capo I, che di seguito si riporta per esteso di seguito: “in merito agli altri motivi dedotti, non si ravvisa la violazione delle norme citate. Infatti, l’art. 8, commi 7, del d.l. n. 310/95, in base al quale il mutamento di destinazione d’uso senza opere a ciò preordinate è oggetto di d.i.a., esige la duplice condizione che si tratti mero cambio di destinazione funzionale e che esista la regolamentazione di cui all’art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47;
il comma 8, secondo cui l’esecuzione delle opere di cui al comma 7 non è subordinata alla corresponsione dei contributi di cui alla legge n. 10/ 77, si riferisce alle opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo -che non determinano cambio di destinazione-, ma non agli interventi di ristrutturazione -o, comunque, a quelli idonei a determinare un mutamento di destinazione d’uso-.

Nel dubitare della autonomia e del mancato collegamento tra le due dichiarazioni di inizio di attività, il comune non ha violato le disposizioni invocate, le quali richiedevano, per la loro immediata applicabilità nella fattispecie, l’accertamento di requisiti e condizioni i quali, anzi, apparivano insussistenti sulla base della documentazione offerta dalla ricorrente.

Sia pure a posteriori, in sede di rilascio della richiesta concessione edilizia, l’amministrazione comunale ha rilevato l’unitarietà dell’intervento e, con riguardo alla qualità ed all’insieme delle opere eseguite, lo ha ritenuto idoneo a portare ad un organismo edilizio diverso dal precedente.

Invero, ai sensi dell’art. 7 l. 47/85, un organismo edilizio può essere qualificato diverso da quello concessionato anche per caratteristiche di utilizzazione e le opere che ciò abbiano comportato devono ritenersi eseguite in totale difformità -dalla concessione-.Un intervento siffatto non può che essere configurato come ristrutturazione, la quale, ai sensi dell’art. 9 della legge citata, richiedeva il rilascio della concessione edilizia. In ogni caso, l’intervento di che trattasi – che in mancanza di prova contraria si configurava come mutamento di destinazione mediante opere che superavano largamente la soglia delle mere opere interne – non era soggetto alla disciplina di cui all’art. 8 dei dd. ll. 310/95 e 400/95.”)

Va recisamente esclusa quindi -alla luce della motivazione della decisione di primo grado che si è pedissequamente riportata dianzi - la sussistenza di alcun vizio di omessa petizione ex art. 112 cpc.

Nel merito, peraltro, il ragionamento svolto dal primo giudice appare persuasivo, in quanto la lett. h del comma 7 dell’art. 8 dei decreti legge invocati dall’appellante prevedeva la eseguibilità mediante semplice Dia della “opere interne alle costruzioni che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile”.

Posto che la precedente lett. e) del medesimo articolo prevedeva che fosse assentibile con dia il “mutamento di destinazione d'uso degli immobili senza opere a ciò preordinate nei casi in cui esista la regolamentazione di cui all'art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, come sostituito dal comma 12 del presente articolo;”, costituisce interpretazione non condivisibile quella per cui dal combinato-disposto delle dette norme si dovesse far discendere la conseguenza che opere interne comportanti il mutamento di destinazione d’uso del’immobile fossero “assentibili” mediante dia, con ciò modificandosi la disposizione dei cui all’art. 26 della legge n. 47/1985 ( “Non sono soggette a concessione né ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con i regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della sagoma, della costruzione, dei prospetti né aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari, non modifichino la destinazione d'uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari, non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile e, per quanto riguarda gli immobili compresi nelle zone indicate alla lettera A dell'articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 , pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, rispettino le originarie caratteristiche costruttive. Ai fini dell'applicazione del presente articolo non è considerato aumento delle superfici utili l'eliminazione o lo spostamento di pareti interne o di parti di esse .

Nei casi di cui al comma precedente, contestualmente all'inizio dei lavori, il proprietario dell'unità immobiliare deve presentare al sindaco una relazione, a firma di un professionista abilitato alla progettazione, che asseveri le opere da compiersi e il rispetto delle norme di sicurezza e delle norme igienico-sanitarie vigenti.

Le sanzioni di cui al precedente articolo 10, ridotte di un terzo, si applicano anche nel caso di mancata presentazione della relazione di cui al precedente comma .

Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano nel caso di immobili vincolati ai sensi delle leggi 1° giugno 1939, n. 1089 , e 29 giugno 1939, n. 1497 , e successive modificazioni ed integrazioni. Gli spazi di cui all'articolo 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli articoli 817, 818 e 819 del codice civile”).

In particolare, non appare condivisibile la tesi per cui – a tenore della disposizione di cui al richiamato d.l. - ove le opere interne comportanti modifica della destinazione d’uso non fossero state assentibili mediante dia ci si sarebbe trovati al cospetto di una disposizione (la citata lett. h dell’art. 8) del tutto inutile.

Al contrario di quanto affermatosi nell’appello, infatti, la bipartizione contenuta alle lett. e ed h del citato articolo, è chiara nell’escludere la detta eventualità: semmai, è proprio la tesi sostenuta dall’appellante che, ove fondata, renderebbe incomprensibile la espressa indicazione (e limitazione) contenuta nella lett e) che fa riferimento, tra le trasformazioni assentibili con dia, a quelle riposanti nel “mutamento di destinazione d'uso degli immobili senza opere “.

E, per altro verso, comprova a quanto sinora affermato può trarsi dal testo della successiva lett. L del citato comma (“varianti a concessioni già rilasciate che non incidano sui parametri urbanistici, e sulle volumetrie, che non cambino la destinazione d'uso e la categoria edilizia e non alterino sostanzialmente i prospetti e non violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione edilizia;”) che del pari considera la variazione alla destinazione d’uso ostativa al rilascio di (semplice) dia.

Va peraltro rimarcato che i lavori per cui è causa, prevedevano, tra l’altro, la demolizione di vani (ripostigli)e costituisce affermazione non riscontrata quella per cui dovesse essere escluso comunque, in via di principio, che ciò non potesse comportare pregiudizio alla statica dell’edificio.

5.Quanto all’ultima censura (afferente alla incertezza sul soggetto sottoscrittore della nota avversata) il Collegio è ben consapevole delle affermazioni giurisprudenziali secondo cui la totale mancanza della sottoscrizione e l'assenza di qualsiasi elemento identificativo dell'autore costituisce vizio dell'atto amministrativo impugnato (Cfr., fra le tante, Cons. Stato, VI Sez., 26 novembre 1991 n. 885, ma anche T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 07 luglio 2008 , n. 7141).

Senonchè, nel caso di specie, la intestazione dell’atto e la circostanza che l’amministrazione non lo ha mai disconosciuto come proprio impedisce in radice di ritenere sussistente alcuno stato di “incertezza” circa l’attribuibilità dello stesso all’Amministrazione.

Si rammenta in proposito che anche la più avveduta giurisprudenza di legittimità civilistica si è spinta ad affermare l”'atto amministrativo non è invalido solo perché privo di sottoscrizione, in quanto la riferibilità dell' atto all'organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato può essere desunta anche dal contesto dell' atto stesso.” (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva annullato un provvedimento di diniego di condono esclusivamente in ragione dell'assenza di firma, omettendo qualunque ulteriore verifica: Cassazione, Sezione VI , sent. n. 11458 del 06-07-2012).

La censura va quindi – armonicamente con detti insegnamenti - disattesa, dovendosi per abundantiam rilevare che l’eventuale riconoscimento della sussistenza del detto vizio, in ogni caso, neppure gioverebbe all’ appellante società in chiave risarcitoria, posto che – ovviamente- lascerebbe immutata la questione della (positivamente riconosciuta dal Collegio) legittimità sostanziale del provvedimento gravato (ed è appena il caso di precisare che l’elemento genetico del danno potrebbe ravvisarsi unicamente laddove il provvedimento gravato fosse illegittimo “sostanzialmente” e non già laddove fosse stato riscontrato affetto da vizi formali.

6. Conclusivamente, l’appello va integralmente disatteso, nei termini di cui alla motivazione che precede.

7. Le spese processuali, tuttavia, possono essere compensate a cagione della particolarità delle tematiche sottese alla causa ed alla incertezza normativa discendente dalle modificazioni legislative introdotte al momento dell’adozione degli atti amministrativi avversati.

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