Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2017-04-26, n. 201701923
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Pubblicato il 26/04/2017
N. 01923/2017REG.PROV.COLL.
N. 00099/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello n. 993 del 2017, proposto da:
Elmecont Elettromeccanica e Controllo Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Carlo Comande', con domicilio eletto presso lo studio Carlo Comande in Roma, via Pompeo Magno, 23 A;
contro
Ministero dell'Interno, U.T.G. - Prefettura di Vibo Valentia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Gen.Le Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del TAR Calabria, sede di Catanzaro - sez. I, n. 2069/2016
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di U.T.G. - Prefettura di Vibo Valentia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 marzo 2017 il Cons. Francesco Bellomo e uditi per le parti gli avvocati Carlo Comandè e l'avvocato dello Stato Wally Ferrante;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso e motivi aggiunti proposti dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, sede di Catanzaro, Elmecont Elettromeccanica e Controllo s.r.l. domandava l’annullamento:
- dell’informazione interdittiva antimafia del 20 luglio 2015, emessa dal Prefetto di Vibo Valentia;
- di tutti gli atti su cui si fonda l’informazione interdittiva antimafia, in particolare la nota del 13 aprile 2015 della Questura di Vibo Valentia, nella parte in cui afferma che i fatti ivi dedotti sarebbero valutabili ai fini di cui all’art. 84, c. 4 bis, d.lgs. n. 159/11, e il parere del 12 giugno 2015 espresso dal Gruppo tecnico presso la Prefettura e del verbale del 25 giugno 2015 della Riunione di Tecnica di Coordinamento della Forze di Polizia;
- della nota del 31 luglio 2015 della Prefettura di Vibo Valentia, concernente l’esistenza di motivi ostativi alla positiva definizione del procedimento volto all’iscrizione della società ricorrente nell’elenco dei fornitori e prestatori di servizi non soggetti a rischio di infiltrazioni mafiose ( white list ), in ragione dell’adozione dell’informativa prefettizia;
- del provvedimento del 22 dicembre 2015, con il quale il Prefetto di Vibo Valentia ha negato l’iscrizione nell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecuzione di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa (c.d. white list ).
A fondamento del ricorso e dei motivi aggiunti deduceva plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere.
Si costituivano in giudizio per resistere al ricorso il Ministero dell’interno.
Con sentenza n. 2069/2016 il TAR rigettava il ricorso.
2. La sentenza è stata appellata da Elmecont Elettromeccanica e Controllo s.r.l., che contrasta le argomentazioni del giudice di primo grado.
Si sono costituiti per resistere all’appello il Ministero dell’interno e la Prefettura di Vibo Valentia.
La causa è passata in decisione alla pubblica udienza del 30 marzo 2017.
DIRITTO
1. Legale rappresentante di Elmecont Elettromeccanica e Controllo s.r.l. è L M R. Tale circostanza era stata alla base dell’emissione nel 2006 e del 2012 nei confronti di Elmecont Elettromeccanica e Controllo s.r.l. di informative antimafia atipiche.
Alla luce degli esiti positivi dei giudizi amministrativi che avevano coinvolto alcune ditte subappaltatrici della Elmecont e, soprattutto, dei giudizi penali che avevano coinvolto il sig. Lico, la società, con nota del 13 marzo 2015, reiterata il 13 luglio 2015, ha chiesto alla Prefettura un riesame della propria posizione, anche al fine dell’inserimento nella c.d. white list .
Con provvedimento in data 20 luglio 2015 il Prefetto di Vibo Valentia ha rilevato che:
« nei confronti di L M R, in data 19.07.2013, è stato dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, dal Tribunale di Catanzaro, in ordine al reato di falsa testimonianza, nell’ambito di un procedimento penale che vedeva imputati due soggetti, entrambi esponenti della `ndrina dei Mancuso di Limbadi, per il delitto di estorsione attuato in danno del predetto Lico;in seguito a ciò si è accertata la falsità delle dichiarazioni rese in udienza dal Lico a proposito della consegna, ai predetti imputati, della somma di € 1000,00. In realtà si è acclarato che tale somma non è stata consegnata a titolo di prestito, per come dichiarato dallo stesso Lico, bensì quale prezzo dell’azione criminale condotta dai due esponenti del clan Mancuso. Al riguardo, si evidenzia che ai sensi dell’art. 531 del C.P.P., nella parte in cui richiama il 2° comma dell’art. 129 c.p.p. il giudice, qualora debba pronunciarsi in merito ad una causa di estinzione del reato (la prescrizione è una di esse), ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, deve emettere sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la forma prescritta. Nel caso in esame la sentenza nr. 604/13 del Tribunale di Catanzaro non fa alcun riferimento alle ipotesi illustrate dal menzionato articolo del Codice di Procedura Penale e, quindi, deve naturalmente desumersi l’assenza delle suddette condizioni per cui la falsa testimonianza, resa in udienza, è valutabile ai fini dell’applicazione di quanto disposto dall’art. 84, del D.LGS. 159/2011.
In tal senso, anche il Consiglio di Stato nella citata sentenza 5165/14, fa riferimento, in relazione alla sentenza con cui il Tribunale di Crotone il 1° luglio 2013 ha dato atto della intervenuta prescrizione nei confronti di L M R per il reato di gestione di rifiuti pericolosi, alla rilevanza della circostanza in base alla quale il giudice, dichiarando la prescrizione, ha escluso formule di assoluzione nel merito ai sensi dell’art. 129/2° C.P.P.
Lo stesso Lico è amministratore di altra società “Ligeam Srl” con sede in Roma, società aggiudicataria di un appalto per i lavori di realizzazione di un impianto di depurazione nel Comune di Francavilla Angitola, il cui cantiere è stato oggetto di accesso da parte del Gruppo Provinciale Interforze. Dalla relazione del suddetto Gruppo è emerso il pericolo di infiltrazioni e condizionamenti mafiosi in capo alla ditta appaltatrice e subappaltatrice ».
Sulla base di ciò il Prefetto ha dichiarato che a carico della Elmecont Elettromeccanica e Controllo S.r.l., con sede in Maierato, sussiste la presenza di situazioni relative a tentativi di infiltrazione mafiosa, di cui all’art. 84 del d.lgs. n. 159/2011 e che, pertanto, l’informazione ha carattere interdittivo dei rapporti con la pubblica amministrazione.
La società interessata ha impugnato tale provvedimento.
Con il primo motivo del ricorso ha dedotto la violazione degli artt. 24, 41 e 97 Cost., degli artt. 84 e 91 del d.lgs. n. 159/2011, dell’art. 3 della legge n. 241/90, per difetto ed erroneità di motivazione, eccesso di potere per difetto di istruttoria ed omessa valutazione di documenti rilevanti, illogicità, carenza dei presupposti, travisamento dei fatti e contraddittorietà.
Le censure lamentano:
a) il difetto di motivazione, di istruttoria e l’erroneità di cui all’informazione interdittiva, basate sull’esito dei procedimenti penali a carico del Lico. La ricorrente contesta il significato attribuito alla sentenza dichiarativa della prescrizione e rileva che è stata esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152/1991;
b) la rilevanza assegnata all’incarico del Lico di amministratore nella Ligeam S.r.l., benché l’informazione antimafia emessa a carico della ditta subappaltatrice Bova sia stata annullata con sentenza del Consiglio di Stato (sez. III, 21 dicembre 2012 n. 6626) e quella emessa a carico della ditta subappaltatrice Talora sia stata annullata in autotutela dalla Prefettura di Vibo Valentia, che con nota del 29 maggio 2012 ha escluso il pericolo di infiltrazione mafiosa;
c) la carenza di motivazione con riferimento alla richiesta di revisione delle informazioni antimafia atipiche e all’attualità del pericolo di infiltrazione.
d) la contraddittorietà con precedenti informazioni atipiche, con le quali è stato escluso per gli stessi fatti il pericolo di infiltrazioni mafiose.
Il Tar ha puntualmente esaminato tutte le censure, ritenendole infondate.
In particolare, con riferimento a quella sub d), ha osservato che è sopravvenuto l’art. 84 del d.lgs. n. 159/2011, il quale ha attribuito specifica e autonoma rilevanza ostativa alla falsa testimonianza resa in relazione a reati di estorsione, aggravati ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152/1991.
Tale notazione si congiunge a quella, formulata per respingere la censura sub a), secondo cui la fattispecie in esame è riconducibile tipologicamente all’ipotesi di cui all’art. 84, comma 4, lett. c) del d.lgs. n. 159/2011, che si riferisce alla mancata denuncia del reato di cui all’art. 629 c.p., aggravato ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152/1991, sull’assunto che persino imprenditori soggiogati dalla forza intimidatoria della criminalità organizzata e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia (Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743). Alla luce di ciò il Tar ha ritenuto l’esistenza di un quadro indiziario sufficiente, anche se il reato di estorsione non è risultato aggravato ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152/1991.
Il giudice di primo grado ha infine respinto i motivi aggiunti proposti avverso il diniego di iscrizione nella white list , trattandosi di atto vincolato a seguito dell’interdittiva antimafia.
L’appellante contesta funditus il ragionamento – in fatto e in diritto – seguito dal giudice di primo grado, censurando, quanto all’interdittiva antimafia, i seguenti punti della sentenza:
- punto 5.2 ( rectius : 5.1), nella parte in cui viene affermato che risulterebbe acclarato che la dazione di denaro non possa ascriversi a semplice prestito;
- punto 5.2, nella parte in cui ha ritenuto rilevanti gli accertamenti compiuti in seguito ad accesso del Gruppo interforze presso un cantiere della Ligeam srl, non considerando invece gli atti di dissociazione comunque compiuti;
- punto 5.3, nella parte in cui non ha ritenuto di accogliere le censure volte ad evidenziare la carenza di motivazione degli atti impugnati con riferimento alle puntuali indicazioni fornite dal privato interessato al procedimento;
- punto 5.4, nella parte in cui non è stata ritenuta condivisibile l’argomentazione difensiva volta a disvelare la manifesta illegittimità degli atti impugnati quantomeno con specifico riferimento all’obbligo – anche di natura costituzionale teso rendere ammissibile e compatibile con l’ordinamento lo strumento delle informative prefettizie – di necessario aggiornamento costante delle predette informative;
- punto 5.5, nella parte in cui non ritiene sussistente un’evidente contraddittorietà nella condotta dell’Amministrazione laddove, in relazione ai medesimi fatti, tra l’altro ormai lontani nel tempo, opera distinte valutazioni.
Con riguardo a detti punti, seguendo l’ordine logico invece di quello espositivo, l’appellante deduce con il primo motivo:
I-A) la non attualità del pericolo di infiltrazione (punto 5.4);
I-B) la mancata e/o erronea valutazione dei fatti, con riguardo alla sentenza dichiarativa della prescrizione ed all’esclusione dell’aggravante mafiosa (punto 5.1);
I-C) la mancata e/o erronea valutazione dei fatti con riguardo alla posizione della Ligeam (punto 5.2);
I-D) la mancata e/o erronea valutazione dei fatti nuovi posti a fondamento della richiesta di aggiornamento della propria posizione (punto 5.3);
I-E) l’erroneità della motivazione con cui è stata esclusa la contraddittorietà dell’operato della Prefettura (punto 5.5).
Con il secondo motivo di appello (II) viene censurato il mancato annullamento per invalidità derivata del diniego di iscrizione alla white list .
Con i successivi motivi si formulato censure autonome nei confronti di detto provvedimento.
2. L’appello è fondato con riguardo agli assorbenti motivi I-B e I-E, nonché II.
L’art. 84, comma 3 del d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che “ L’informazione antimafia consiste […] nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4 ”.
Delle ipotesi previste dal comma 4 l’Amministrazione – secondo la stessa sentenza appellata – ha ritenuto sussistente quella di cui alla lett. c): “ l’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste ”.
L’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 stabilisce che “Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà ”.
Nel caso in esame nei confronti di L M R è stata dichiarata l’estinzione per prescrizione del reato di falsa testimonianza commesso nell’ambito di un procedimento penale che vedeva imputati per estorsione in danno del medesimo due soggetti esponenti della `ndrina dei Mancuso di Limbadi.
Dunque è stata fatta applicazione analogica della fattispecie di cui all’art. 84, comma 4, lett. c) d.lgs. n. 159/2011, in assenza di uno degli elementi in essa contemplati.
Operazione non corretta sotto tre distinti profili:
- la norma in questione è a fattispecie esclusiva, quindi insuscettibile di applicazione analogica, quantomeno per le ipotesi che rinviano a reati, poiché nell’ordinamento penale vige il principio di tassatività e giammai l’interprete è autorizzato ad estendere figure incriminatrici a casi diversi da quelli in essa espressamente previsti, anche ad effetti non penali;
- non sussiste il presupposto dell’analogia, ossia l’ eadem ratio , perché la mancata denuncia per estorsione non può essere assimilata alla falsa testimonianza sul delitto di estorsione: la prima condotta preclude l’avvio del procedimento penale, essendo altamente improbabile l’acquisizione della notizia criminis in assenza dell’iniziativa della vittima, la seconda ostacola l’accertamento dibattimentale del reato, che però ben può avvenire sulla base di altre fonti di prova;
- non sussiste ancor più radicalmente il presupposto dell’analogia, ossia la similitudine tra il caso previsto e quello non previsto, perché nei confronti di L M R è stata esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 del decreto-legge n. 152/1991, che costituisce la ragione essenziale della previsione in oggetto, poiché è da tale elemento che si può desumere il pericolo di condizionamento mafioso.
Peraltro, la conclusione sostenuta nel provvedimento impugnato, sostanzialmente recepita nella sentenza appellata, non soddisfa la soglia probatoria richiesta dall’ordinamento.
Afferma il Tar: « Al riguardo, occorre tenere presente che il giudizio che l’autorità prefettizia è chiamata a effettuare non deve necessariamente basarsi su fatti dotati sul grado di certezza richiesta ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, ma deve essere effettuata sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza dell’ipotesi che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali nelle funzioni della pubblica amministrazione. Pertanto, si può ravvisare l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza, ma che, nel loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata, per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose ».
Il giudice di primo grado, dunque, riprende la tesi, affermata dalla giurisprudenza della Sezione, che in materia opera il principio “più probabile che non”, in contrapposizione al principio “al di là del ragionevole dubbio” ( b.a.r.d. ) che caratterizza il giudizio penale.
Per indirizzare l’applicazione di questo schema concettuale è indispensabile fissare l’esatto significato del “più probabile che non”, che si ricava proprio dalla distinzione con il principio b.a.r.d.
È oramai invalso nel pensiero giuridico occidentale l’impiego nell’indagine giudiziaria – sia penale (Cass. pen. sez. un. 11 settembre 2002, n. 30328), che civile (Cass. civ. sez. un. 11 gennaio 2008, n. 58111) – del metodo popperiano, che postula la verifica dell’ipotesi attraverso procedimenti logici di conferma fattuale e falsificazione delle ipotesi alternative.
L’ipotesi raggiunge la soglia “al di là del ragionevole dubbio” quando sia l’unica in grado di giustificare tutti i risultati ottenuti nell’indagine, o comunque sia nettamente preferibile rispetto ad ogni ipotesi alternativa astrattamente esistente.
Il criterio di netta preferibilità si misura sull’esistenza di ipotesi alternative meramente astratte (come tali – per gli insanabili limiti della conoscenza umana – non escludibili in assoluto), laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implica un ragionevole dubbio.
È nell’area del ragionevole dubbio che si colloca il criterio del “più probabile che non”: ciò che lo connota non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’ evidence and inference .
In definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ma al fine di ritenere provato un determinato fatto (nella specie il rischio di condizionamento mafioso, precisamente “ la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate ” ai sensi dell’art. 84, comma 3 d.lgs. 159/2013), gli è sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale.
Di questo ragionamento – ancorché in termini sostanziali, non potendosi pretendere da una pubblica amministrazione l’adozione delle categorie formali proprie dell’indagine giudiziaria – non c’è traccia nell’impugnata informativa, né la sentenza appellata ha utilizzato gli indicati criteri per valutare la tenuta della motivazione recata dall’impugnata informativa.
Ad esempio, con riguardo agli elementi desunti dalla mancata applicazione da parte del Tribunale di Catanzaro dell’art. 129, comma 2 c.p.p., il giudice di primo grado ha argomentato in astratto, senza considerare se in concreto è stata o poteva essere fatta dal giudice penale una valutazione sul merito dell’accusa.
In sostanza egli ha svolto solo la fase ipotetica del ragionamento, avvalendosi di una regola di inferenza debole (quella secondo cui se il giudice rileva la prescrizione invece di prosciogliere nel merito, il fatto contestato non è escluso e ciò basta a la valutare la circostanza ai fini dell’emissione del provvedimento interdittivo).
L’art. 129, comma 2 c.p.p. prevede che “Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta” .
Non può affermarsi, dunque, che la declaratoria di estinzione implichi la non esclusione del reato, giacché a detta esclusione il giudice perviene solo se dagli atti risulta evidente . Nella specie tale evidenza mancava per le carenze delle indagini e, comunque, non si può assimilare la prova negativa della colpevolezza a un evidente prova positiva dell’innocenza, desumendo la prima dall’assenza della seconda.
Era vieppiù necessario, dunque, che l’Amministrazione compiesse le operazioni di corroboration e cumulative redundancy volte a dare consistenza alla tesi secondo cui l’interessato aveva dichiarato il falso circa il rapporto con i due estorsori e tale lacuna doveva essere stigmatizzata dal Tar.
Né può essere sufficiente la sentenza n. 1751/06 con cui la Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Tribunale di Catanzaro che aveva irrogato ai due soggetti la pena di anni tre di reclusione e la multa di euro 1.400 ciascuno per il reato di estorsione ai danni, tra gli altri, di L M R. È lo stesso Tar, infatti, a tenere distinti i due piani, poiché la prova dell’estorsione non è prova della falsa testimonianza resa al riguardo, ma la sua premessa minima, giacche se non vi fosse l’estorsione difetterebbe la stessa configurabilità di una falsa testimonianza avente essa ad oggetto.
In tale quadro non si vede come la mera sottoposizione di L M R a procedimento penale per falsa testimonianza relativa a un’estorsione e senza l’aggravante di cui all’art. 7 del decreto-legge n. 152/1991 possa integrare la fattispecie di cui all’art. 84, comma 4, lett. c) d.lgs. n. 159/2011.
Caduto l’elemento fondamentale su cui si regge l’informativa antimafia, la circostanza che L M R sia amministratore della Ligeam Srl è del tutto insufficiente a giustificare il provvedimento impugnato.
In primo luogo, già nella struttura del medesimo tale elemento non costituisce autonoma ratio decidendi, ma aspetto integrativo della motivazione.
In secondo luogo, il peso di tale elemento risulta fortemente sminuito dai rilievi già svolti dall’appellante in primo grado, posto che la Ligeam non è mai stata oggetto di provvedimenti interdittivi, l’informazione antimafia emessa a carico della ditta subappaltatrice Bova è stata annullata dal Consiglio di Stato, quella emessa a carico della ditta subappaltatrice Talora è stata annullata in autotutela dalla Prefettura di Vibo Valentia, che con nota del 29 maggio 2012 ha escluso il pericolo di infiltrazione mafiosa.
All’accoglimento del primo motivo di appello, segue l’accoglimento del secondo motivo di appello.
3. L’appello è accolto.
La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del doppio grado giudizio.