Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-06-05, n. 202305508
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Testo completo
Pubblicato il 05/06/2023
N. 05508/2023REG.PROV.COLL.
N. 00906/2023 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 906 del 2023, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato L P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – sezione V bis n. -OMISSIS-, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 maggio 2023 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza -OMISSIS- giugno 2022, il T per il Lazio ha respinto il ricorso avanzato dall’odierno appellante avverso il decreto del Presidente della Repubblica prot. -OMISSIS- del 26 luglio 2019, recante annullamento del D.P.R. del 19 agosto 2016 di concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91/1992, nonché il decreto prot. -OMISSIS- del 14 novembre 2019, impugnato in primo grado con motivi aggiunti, con cui il Ministero dell'Interno ha successivamente rigettato l’originaria istanza di concessione della cittadinanza italiana, richiamando le motivazioni già esposte in sede di autotutela.
Si rappresenta che la caducazione del provvedimento concessorio si è essenzialmente fondata sul richiamo ad una sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Roma in data 19 ottobre 2018 e sulla conseguente qualificazione del decreto annullato in autotutela come “carente in via assoluta di istruttoria e non altrimenti sanabile”.
In particolare - come emerge per tabulas - alla luce delle risultanze del processo penale, conclusosi con sentenza definitiva della Corte di Cassazione, sez. VI penale, n. -OMISSIS- (che ha confermato la sentenza della Corte di Appello n. -OMISSIS-, di conferma della citata sentenza del giudice penale di primo grado), il decreto di conferimento dello status civitatis è stato adottato a causa della condotta fraudolenta di un funzionario del Ministero dell’Interno che, in ragione di un accordo criminale con taluni intermediari, si è indebitamente attribuito l’istruttoria di 96 pratiche in materia di cittadinanza, tra cui quella dell’appellante. La dipendente infedele, nello specifico, dopo essersi abusivamente procurata le credenziali di accesso, si è illecitamente introdotta nel sistema informatico Sicitt del Ministero dell’Interno, ha manipolato i dati ivi contenuti e ha così consentito a numerosi stranieri di ottenere il rilascio della cittadinanza, ricevendo in cambio somme di denaro da almeno due intermediati identificati. Significativa in tal senso è la nota del 17 gennaio 2018. Con tale atto, il Ministero dell’Interno, dando riscontro alla richiesta del 14 dicembre 2017 di indicare, in esecuzione della delega del magistrato inquirente nell’ambito del p.p. R.G.N.R. n. -OMISSIS-, con riferimento alle n. 96 pratiche di cittadinanza di cui all’elenco allegato (nell’ambito del quale figura, -OMISSIS-, quella di pertinenza dell’odierno appellante), informazioni in ordine alle eventuali irregolarità formali e sostanziali che le hanno caratterizzate, ha evidenziato, quale irregolarità proprio della pratica dell’appellante, l’ “utilizzo illecito della credenziale “Dirigente Area Terza” per la definizione”.
Si rappresenta che, per tutte le pratiche di cittadinanza contraffatte, l’amministrazione, assicuratasi del mantenimento della cittadinanza originaria in capo agli interessati, ha provveduto all’annullamento in autotutela del provvedimento di concessione e alla reiezione delle originarie istanze di concessione della cittadinanza italiana, facendo salvi gli effetti dei provvedimenti annullati per i figli minori.
Un secondo procedimento penale, con riferimento ad altre numerosissime pratiche e coinvolgente la stessa dipendente, è tuttora in corso.
Con ricorso notificato in data 20 gennaio 2023 e depositato il successivo 1 febbraio 2023, l’appellante ha avversato la sentenza -OMISSIS- giugno 2022 del T per il Lazio, contestualmente domandandone la sospensione in via cautelare.
In sintesi, sostanzialmente reiterando le doglianze non accolte in sede di giudizio di primo grado, l’appellante lamenta che, dal provvedimento impugnato in prime cure, non emerge quale sarebbe stato il suo effettivo apporto alla realizzazione della condotta criminosa poc’anzi descritta ed evidenzia, anzi, la propria estraneità alla vicenda penale, come l’assenza di procedimenti nei suoi confronti dimostrerebbe.
L’interessato sostiene anche di vantare tutti i requisiti di legge per l’ottenimento della cittadinanza italiana, tanto è vero che la sua pratica sarebbe completa di tutti i pareri favorevoli previsti dalla legge e non esisterebbero in suo sfavore cause ostative alla concessione di tale status giuridico.
Il medesimo si duole, inoltre, della tardività del provvedimento di autotutela rispetto al termine previsto dall’art. 21 nonies della legge n. 241/1990, della mancata partecipazione procedimentale, nonché della gravosa incidenza della determinazione amministrativa sulla sua situazione familiare ed economico-sociale.
Nello specifico, l’appellante censura la sentenza del giudice di primo sotto i seguenti profili:
1) “Error in iudicando: l’istruttoria della pratica a nome -OMISSIS- risulta completa di tutti i pareri favorevoli previsti dalla legge senza che emerga alcuna causa ostativa alla concessione della chiesta cittadinanza”. Il giudice di primo grado avrebbe violato “il principio processuale dell’onere della prova perché il T Roma dà per accertato un fatto [mancanza nella pratica -OMISSIS- dei necessari pareri] incontrastabilmente escluso dalla stessa documentazione prodotta da tale Autorità”.
2) “Error in procedendo. Violazione dell’art. 112 c.p.c.: Omessa pronuncia. Con il secondo motivo del ricorso in prime cure l’odierno appellante eccepiva: Violazione dell’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, in relazione all’art. 21 octies e nonies stesso testo. Violazione dei diritti partecipativi del ricorrente. Eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria”.
3) “Error in iudicando. Con il terzo motivo del ricorso in prime cure l’odierno appellante eccepiva: Violazione ed erronea applicazione dell’art. 10 bis della legge 07.08.1990, n. 241, in relazione all’art. 21 octies e nonies stesso testo. Violazione dei diritti partecipativi del ricorrente. Eccesso di potere per erronea presupposizione”.
4) “Error in iudicando. Violazione dell’art. 12 delle Preleggi con riferimento all’art. 21 nonies della legge statale n. 241/1990. Con il quinto motivo del ricorso in prime cure l’odierno appellante eccepiva: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies della legge n. 241/1990”.
5) “Error in iudicando. Violazione dell’art. 27 c. 1 Cost. in relazione all’art. 2729 cod. civ. Con il sesto motivo del ricorso in prime cure l’odierno appellante eccepiva: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies della legge n. 241/1990. Eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione”.
6) “Error in iudicando. Violazione dell’art. 27 c. 1 Cost. in relazione all’art. 2729 cod. civ. Con il settimo motivo del ricorso in prime cure l’odierno appellante eccepiva: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies della legge n. 241/1990. Eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione”.
7) “Error in procedendo. Nullità della epigrafata sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 73 c. 3 c.p.a. Con l’ottavo motivo del ricorso in prime cure l’odierno appellante eccepiva: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies della legge n. 241/1990. Violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza. Eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria e per ingiustizia manifesta”.
In particolare, nell’ambito di tale motivo di appello, l’appellante lamenta che, con la perdita della cittadinanza italiana, sarebbe soggetto a espulsione dal -OMISSIS-, dove si è trasferito con -OMISSIS- nel 2017. Inoltre, “L’eventuale rientro in Italia come semplice cittadino -OMISSIS- esporrebbe l’appellante, privo di contratto di lavoro nel nostro Paese, alla restrizione in un Centro di Permanenza per Rimpatrio [CPR] e all’espulsione verso il paese di origine”.
Il medesimo ritiene anche che il T abbia indebitamente integrato la motivazione dell’atto amministrativo di autotutela e proceduto d’ufficio alla riqualificazione giuridica dello stesso atto, quale decadenza anziché autoannullamento, in violazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 73 c. 3 c.p.a.. Donde, conseguirebbe la nullità della decisione per violazione del giusto processo (art. 111 c. 1 Cost.).
8) “In subordine, sempre con riferimento all’ottavo motivo del ricorso in prime cure: Error in iudicando. Nullità della sentenza per extrapetizione. Violazione dell’art. 64 c. 2 c.p.a.”
L’impugnata sentenza incorrerebbe nei vizi di ultrapetizione e di inversione dell’onus probandi. Sotto il primo profilo, l’interessato rileva come, invero, l’amministrazione, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non abbia mai contestato all’odierno appellante di aver utilizzato intermediari per corrispondere un prezzo al funzionario infedele. Sotto il secondo profilo, invece, l’interessato evidenzia che il T avrebbe dato per accertato un fatto (il pagamento di un prezzo da parte di intermediari per evadere la sua pratica di cittadinanza), di cui non vi sarebbe alcuna prova.
Infine, l’appellante si duole dell’omessa pronuncia da parte del giudice di prime cure, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., rispetto a cinque censure avanzate in sede di ricorso per motivi aggiunti, con le quali il medesimo aveva avversato, dinanzi al T, il sopravvenuto provvedimento ministeriale prot. -OMISSIS- del 14 novembre 2019 di rigetto dell’originaria istanza del 2014 per la concessione della cittadinanza.
Si evidenzia che il giudice di primo grado, respingendo il ricorso introduttivo del giudizio, ha affermato che la legittimità del provvedimento di annullamento ha riverberato i suoi effetti sul successivo provvedimento di rigetto dell’istanza di concessione della cittadinanza, motivato per relationem con riguardo alla vicenda sottesa all’annullamento della concessa cittadinanza.
Essenzialmente, l’appellante ripropone le doglianze e le argomentazioni difensive previamente esposte nell’atto di appello.
Con ordinanza -OMISSIS- febbraio 2023, è stata accolta l’istanza di sospensione in via cautelare della sentenza -OMISSIS- giugno 2022 del T per il Lazio.
Si sono costituiti in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno in data 16 febbraio 2023.
In vista della trattazione del merito all’udienza dell’11 maggio 2023, l’appellante e l’amministrazione hanno depositato memorie, rispettivamente, nelle date del 7 aprile 2023 e del 9 aprile 2023.
In data 20 aprile 2023, l’appellante ha depositato memoria di replica, sostanzialmente riportandosi ai motivi di doglianza già prospettati nell’atto introduttivo del presente grado di giudizio - così come precisati nella precedente memoria ex art. 73 c.p.a. - e insistendo per l’accoglimento dell’appello.
All’udienza del giorno 11 maggio 2023, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato.
I motivi di gravame, per la loro stretta connessione sul piano logico e giuridico, possono trattarsi congiuntamente.
Come poc’anzi esposto, costituisce oggetto della presente controversia la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela di un precedente decreto concessorio della cittadinanza italiana ex art. 9, comma 1, lett. f) l. n. 91/1992.
In particolare, l’amministrazione, in sede di riesame, si è determinata in senso sfavorevole all’appellante in quanto il decreto di conferimento della cittadinanza italiana è stato adottato senza la previa rigorosa istruttoria procedimentale, a causa della condotta fraudolenta di un funzionario infedele del Ministero dell’Interno. Quest’ultimo, nell’ambito di un accordo criminoso con altri soggetti, si è abusivamente introdotto nel sistema informatico attraverso cui vengono gestite le pratiche di concessione della cittadinanza e, manipolando i relativi dati, ha consentito la concessione del beneficio nonostante il mancato svolgimento di una apposita istruttoria e in modo accelerato rispetto all’ordinaria tempistica procedimentale.
Giova rappresentare che Codesta Sezione del Consiglio di Stato, in pronunce su analoghe controversie (Cons. Stato, sez. III, 9 giugno 2022, n. 4687 e Cons. Stato, sez. III, 28 dicembre 2022, n. 11485), ha confermato che la concessione della cittadinanza fosse inficiata da un grave deficit istruttorio.
Ai fini della decisione del giudizio di che trattasi, è opportuno muovere, in via preliminare, dalla diversa natura del giudizio amministrativo di legittimità rispetto al giudizio penale.
Invero, mentre il giudizio penale è diretto ad accertare e a sanzionare la responsabilità per fatti previsti dalla legge come reati e, pertanto, in una dimensione soggettiva, riguarda la condotta dell’autore del reato, di cui viene valutata la riprovevolezza funzionale alla commisurazione della pena, il giudizio amministrativo, in una prospettiva di carattere oggettivo, è volto a verificare se l’assetto regolatorio di cui il provvedimento è fonte abbia determinato una corretta composizione degli interessi in gioco - nel rispetto di quanto previsto dalla norma attributiva del potere - o se, per converso, l’iter procedimentale che ne ha preceduto l’adozione presenti vizi inficianti la sua legittimità.
Premessa tale necessaria distinzione, al fine di accertare se l’amministrazione abbia legittimamente esercitato il potere di autotutela, è necessario, in particolare, verificare se e quale incidenza la condotta criminosa posta in essere dalla funzionaria, che ha gestito irregolarmente le pratiche di cui sopra, abbia avuto sul corretto perseguimento da parte dell’amministrazione dell’interesse pubblico mediante il provvedimento che è stato oggetto di riesame.
Allo scopo, non è sufficiente accertare che tale provvedimento sia stato lambito da una vicenda penalmente rilevante. Deve, piuttosto, verificarsi se essa abbia determinato la deviazione dell’atto dalla sua funzione tipica, connessa - si ribadisce – all’imparziale perseguimento dell’interesse pubblico previsto dalla legge.
Le osservazioni che precedono si attagliano - com’è evidente - al provvedimento di concessione della cittadinanza italiana, quale atto ampliativo che, refluendo nel novero degli atti di alta amministrazione e sottendendo, dunque, una valutazione di opportunità politico-amministrativa caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità, è volto a coniugare l'interesse dell'istante ad ottenere la cittadinanza con l'interesse pubblico (tendenzialmente prevalente) ad inserire, a pieno titolo e in modo stabile, nella comunità nazionale, un soggetto che, avendo tutti requisiti previsti dalla legge, si riveli in grado di rispettare le regole della civile convivenza, sul presupposto della piena condivisione dei valori identitari dello Stato.
Aggiungasi che, quanto più l’adozione del provvedimento sia risultata condizionata da una condotta criminosa che ne ha inficiato l’idoneità a realizzare il legittimo, ragionevole e imparziale contemperamento degli interessi concorrenti, tanto meno degno di tutela sarà l’affidamento riposto dal beneficiario dell’atto a lui favorevole e, quindi, l’interesse - oppositivo - alla conservazione del vantaggio.
In tale prospettiva, rileva altresì l’effettivo contributo dato dallo stesso destinatario del provvedimento favorevole al suo (illegittimo) rilascio, così come esso emerga dagli atti acquisiti al procedimento di autotutela, anche sulla base degli accertamenti provenienti dalla sede penale.
Infatti, la compartecipazione del beneficiario dell’atto alla consumazione dell’illecito, anche se non giudizialmente accertata, purché ragionevolmente desumibile dal concreto svolgersi della vicenda, comprime, fino ad annullarla, la legittima aspirazione al mantenimento di un assetto di interessi prevalentemente incentrato sulla egoistica realizzazione di un interesse privato in contrapposizione con quello pubblico, anziché in una doverosa e opportuna sinergica relazione con esso.
O, applicando le suesposte generali coordinate ermeneutiche alla fattispecie de qua, osserva il Collegio che il provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione, confermato dal T per il Lazio con la sentenza ivi impugnata, non risulta affetto dai vizi lamentati dall’appellante.
Innanzitutto, deve osservarsi che, del tutto legittimamente, l’amministrazione e il giudice di prime cure hanno rilevato che il provvedimento di concessione della cittadinanza - rilasciato all’odierno appellante il 19 agosto 2016 - fosse inficiato da un grave deficit istruttorio. Trattasi di un vizio, con ogni evidenza, ex se idoneo a concretizzare la fattispecie invalidante che legittima l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, sussistendone le altre condizioni e a prescindere da ogni ulteriore accertamento in ordine alla situazione sottostante, relativa alla situazione personale dell’interessato.
Invero, alla luce delle sintetiche, ma esaustive indicazioni contenute nel provvedimento di annullamento d’ufficio impugnato in primo grado, nonché delle risultanze documentali presenti agli atti, è ragionevolmente fuor dubbio che la pratica di cittadinanza riguardante l’odierno appellante sia effettivamente venuta in rilievo nell’ambito della vicenda criminosa poc’anzi descritta. Non v’è, quindi, motivo di dubitare che il rilascio del decreto di concessione della cittadinanza italiana all’interessato sia stato effettivamente determinato dall’ingerenza della dipendente infedele nel sistema informatico Sicitt del Ministero dell’Interno. A tal riguardo, è sufficiente richiamare la summenzionata nota di riscontro ministeriale del 17 gennaio 2018, dalla quale si evince, quanto alle irregolarità riscontrate nella pratica dell’appellante, l’“utilizzo illecito della credenziale “Dirigente Area Terza” per la definizione”.
Circa l’asserita estraneità dell’interessato alla vicenda penale che ha coinvolto la dipendente infedele, è pur vero che il medesimo né risulta destinatario della sentenza del giudice penale confermata in tutti i gradi di giudizio, né d’altra parte ha mai assunto la posizione di indagato, né il suo ruolo nella consumazione dell’illecito è stato compiutamente definito dall’amministrazione.
Tuttavia, tali rilievi non sono idonei a scalfire il legame, rilevante ai fini della presente decisione, tra la genesi del provvedimento di concessione della cittadinanza all’appellante e la suddetta fattispecie criminosa e, in definitiva, a smentire l’incidenza dei reati accertati sull’adeguatezza del provvedimento in rapporto all’interesse pubblico che esso è fisiologicamente destinato a realizzare, in armonia e non in contrapposizione con quello del richiedente.
Sicché, alla luce delle suesposte argomentazioni, sono destituite di ogni fondamento le doglianze censurate, in particolare, con l’ottavo motivo di gravame. È del resto del tutto evidente come il T si sia limitato a confermare la legittimità dell’atto di autotutela desumendo, ragionevolmente, il palese sviamento di potere, che ha connotato l’attività provvedimentale riesaminata, dall’evidenziato legame tra l’atto di concessione della cittadinanza e i fatti criminosi;e - si ribadisce – posta la rilevanza (e la sufficienza ai fini del “ritiro” dell’atto) della valutazione del coinvolgimento della pratica dell’appellante nella vicenda penale, non rileva che mai, né in sede penale, né nel procedimento amministrativo, sia stato contestato personalmente all’appellante, in modo espresso e specifico, il pagamento di un prezzo a degli intermediari (fatto, in ogni caso, pienamente plausibile, alla luce della dinamica concreta della vicenda criminale).
Non meritevoli di accoglimento sono, inoltre, le argomentazioni difensive volte a sostenere che l’appellante presentava e presenta tutti i requisiti per l’ottenimento dello status civitatis, tant’è che la sua pratica sarebbe completa di tutti i necessari pareri favorevoli.
Tali rilievi difensivi appaiono irrilevanti, nella misura in cui, in ogni caso, la pratica dell’interessato è stata illecitamente trattata al di fuori dell’area di competenza della funzionaria infedele, che si è ingerita nella procedura di rilascio del decreto concessorio, utilizzando abusivamente le credenziali della Dirigente dell’area terza (con l’effetto finale di esautorare la stessa competenza dirigenziale), proprio allo scopo di accelerarne la trattazione e di assicurarne, comunque, il buon esito, nel perseguimento di un interesse di carattere esclusivamente privato.
In tale contesto, l’eventuale sussistenza dei pareri favorevoli e, in generale, dei requisiti previsti dalla normativa in materia di cittadinanza – che non potrebbe essere verificata recta via dal giudice amministrativo – non pare sufficiente ad emendare il provvedimento di concessione della cittadinanza da un vizio a monte e - come correttamente rilevato dal giudice di primo grado - intrinsecamente insanabile, alla luce dell’origine criminosa dell’atto stesso, peraltro giudizialmente accertata in modo definitivo.
In altri termini, tra l’interesse del richiedente alla conservazione di uno status illecitamente - e non solo illegittimamente - conseguito e quello dell’ordinamento alla caducazione dello stesso, deve ritenersi prevalente, ragionevolmente, il secondo. Invero, anche l’eventuale sussistenza dei presupposti per l’ottenimento del provvedimento favorevole non sarebbe, in ogni caso, idonea ad elidere, ove accertata, la componente illecita dello stesso, connessa alle modalità fraudolente con le quali è stato conseguito.
L’evidenziato collegamento tra la descritta vicenda criminale e il rilascio del provvedimento concessorio de quo incide altresì, come poc’anzi già anticipato, sulle valutazioni in tema di tutela dell’affidamento dell’interessato alla conservazione della cittadinanza italiana e relative alle correlate garanzie di carattere procedimentale e temporale.
Invero, l’innegabile coinvolgimento dell’appellante nella vicenda criminosa – quantomeno nella forma, minima ed incontestabile, del suo consapevole apporto all’aggiramento delle procedure ordinarie e della tempistica che le scandisce – non consente di configurare, in capo al medesimo, alcuna posizione di affidamento meritevole di bilanciamento con l’interesse pubblico alla gestione delle pratiche di cittadinanza secondo i citati canoni di imparzialità e trasparenza.
Tale rilievo è sufficiente anche ad escludere rilevanza viziante alla lamentata mancata partecipazione procedimentale, segnatamente sotto il profilo dell’asserita violazione dell’art. 7, L. n. 241/1990, su cui il T - come sostenuto dalla difesa di parte appellante - ha omesso di pronunciarsi. A tale ultimo riguardo, il Collegio giova richiamare la tradizionale impostazione (cfr. ex multis Cons. Stato, sez V, 4 luglio 2018, n. 4095) secondo cui il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado è configurabile e costituisce un tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c.. In ogni caso, l’omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo, tale da comportare l’annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a., ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa.
Per le suesposte argomentazioni non può essere nemmeno attribuita alcuna rilevanza viziante al dedotto superamento del termine di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241/1990, ai sensi del quale, nella formulazione vigente alla data di adozione del provvedimento di annullamento, “il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici…”.
Il Collegio osserva che il termine ivi previsto riguarda, in modo chiaramente specifico, le autorizzazioni e i provvedimenti che attribuiscono vantaggi economici e non provvedimenti di concessione di status, quale è quello di conferimento della cittadinanza.
Essendo, dunque, incontestabile che il decreto di concessione della cittadinanza non sia riconducibile ai provvedimenti di “autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” di cui all’art. 21 nonies L. n. 241/1990 - per i quali è previsto un rigido sbarramento temporale – aggiungasi che, alla luce dello svolgimento della vicenda concreta, l’emanazione del provvedimento di secondo grado impugnato in prime cure è avvenuta entro un termine ragionevole, come richiesto dalla citata norma.
Infatti, è vero che tale provvedimento è stato adottato il 26 luglio 2019 e, dunque, tre anni dopo il decreto presidenziale datato 19 agosto 2016. Tuttavia, l’atto è stato emanato a distanza di soli circa 9 mesi dalla sentenza emessa dal Tribunale di Roma (in data 19 ottobre 2018), che ha accertato, in primo grado, la complessa vicenda criminosa riguardante anche la pratica di cittadinanza dell’appellante e che, in definitiva, ha reso palese il grave deficit istruttorio idoneo a invalidare l’atto di concessione dello status civitatis.
Con riferimento, inoltre, alla doglianza secondo la quale il T avrebbe indebitamente proceduto a riqualificare l’atto amministrativo quale decadenza anziché autoannullamento, in violazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 73 c. 3 c.p.a., osserva il Collegio che essa è priva di pregio. È sufficiente rilevare che il primo giudice non ha operato alcuna riqualificazione provvedimentale, avendo chiaramente affermato che, nella fattispecie, “(…) l’amministrazione ha fatto espresso utilizzo dello strumento dell’annullamento d’ufficio (…)” osservando, successivamente, ad abundantiam, che “(…) ciò non toglie che la fattispecie presenti significative similitudini con le ipotesi di decadenza, verosimilmente non azionata per fare salvi alcuni effetti del provvedimento oggetto di annullamento, quali quelli relativi ai figli minori”.
Quanto, infine, alla deduzione attorea secondo cui, per effetto della perdita della cittadinanza italiana, egli sarebbe soggetto a espulsione dal -OMISSIS-, deve osservarsi che essa inerisce ad un eventuale effetto secondario ed indiretto del provvedimento impugnato e che la rappresentazione della stessa denota, peraltro, il piegamento del titolo di cittadinanza ad un interesse di carattere strumentale, quale è quello connesso alla conservazione della residenza in altro Stato, che ne affievolisce ulteriormente la portata a fronte di quello perseguito dall’amministrazione.
Analoghe considerazioni possono valere con riferimento all’argomentazione difensiva secondo cui l’eventuale rientro in Italia come cittadino -OMISSIS- esporrebbe l’appellante, privo di contratto di lavoro nel nostro Paese, alla restrizione in un Centro di Permanenza per Rimpatrio e all’espulsione verso il paese di origine. Invero, oltre ad essere una tale questione estranea all’oggetto del presente giudizio, deve rilevarsi come l’acquisto della cittadinanza italiana non possa fondarsi sul mero interesse alla residenza nel territorio nazionale. Ed è opportuno ribadire che, costituendo la concessione della cittadinanza la consacrazione della piena integrazione dello straniero nella comunità nazionale anche dal punto di vista della condivisione sincera dei suoi valori ispiratori, non potrebbe non risultare paradossale il conferimento della stessa ad un soggetto che, proprio al fine di ottenerla secondo modalità sostanzialmente fraudolente, abbia dimostrato di essere lontano dai principi ai quali dovrebbe conformare la sua condotta.
In ogni caso, può considerarsi ad abundantiam che, qualora l’appellante dovesse fare rientro in Italia, non è escluso che egli possa richiedere un titolo di soggiorno nel rispetto dei necessari presupposti di legge.
Nel contesto descritto, la soluzione meglio idonea a realizzare il giusto contemperamento degli interessi contrapposti è quella consistente nell’ “azzeramento” della vicenda procedimentale così radicalmente inficiata dalla menzionata condotta criminosa, trasferendo la tutela dell’interesse sostanziale del richiedente la concessione della cittadinanza al nuovo procedimento concessorio che dovesse essere instaurato a seguito dell’eventuale rinnovazione, da parte del medesimo, della relativa istanza.
In conclusione, l’appello deve essere respinto.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Sussistono giuste ragioni, in considerazione della delicatezza degli interessi coinvolti, per disporre la compensazione delle spese del giudizio di appello.