Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-03-19, n. 201801725
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Pubblicato il 19/03/2018
N. 01725/2018REG.PROV.COLL.
N. 06586/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6586 del 2016, proposto da:
Comune di Livigno, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati L E P e L V, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Lungotevere Marzio,1;
contro
L S, rappresentata e difesa dall'avvocato B S, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. G C in Roma, via Cicerone n.44;
nei confronti di
R C e O S, rappresentati e difesi dagli avvocati L S e G M, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Cristina Della Valle in Roma, via Merulana, 234;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE II n. 00813/2016, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di L S, R C e O S;
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del giorno 15 febbraio 2018 il Cons. Silvia Martino;
Uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati Pedrana, Santamaria, Gobbi (su delega di Spallino);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La signora L S, odierna appellata, impugnava innanzi al TAR Lombardia il permesso di costruire del 19 marzo 2015, rilasciato dal Comune di Livigno ai sig.ri R C e Olga Salari, “ per lo spostamento e la rilocalizzazione più a valle del fabbricato rurale sito in loc. Pèmont, contraddistinto catastalmente con i mapp. n.322 e 1329 del Fg.29, con successivo intervento di ristrutturazione edilizia architettonica ed interna della struttura, trasformazione d’uso in civile abitazione, realizzazione di vani accessori interrati e ricostruzione delle parti crollate dell’edificio originario ”.
La ricorrente allegava di essere proprietaria del fondo confinante con quello dei sig.ri C e Salari e che la realizzazione dell’intervento avrebbe determinato un aggravamento della servitù di passaggio costituita sul proprio terreno, precisamente sulla particella catastalmente individuata al foglio 29, mappale 628.
Deduceva:
I) violazione dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, dell’articolo 27 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, dell’articolo 18, commi 5 e 20, e dell’articolo 23, commi 2 e 8, del Piano delle Regole (PdR) del Piano di Governo del Territorio (PGT) di Livigno, travisamento ;ciò in quanto l’intervento, complessivamente considerato, era una nuova costruzione, e avrebbe quindi dovuto soggiacere ai limiti stabiliti al riguardo dallo strumento urbanistico, nonché alla disciplina stabilita per la nuova edificazione in ambito agricolo dall’articolo 59 della legge regionale n. 12 del 2005;in particolare:
I.A) la circostanza che il manufatto fosse stato traslato su altro sedime avrebbe di per sé comportato la qualificazione dell’intervento come nuova costruzione, e non come ristrutturazione edilizia;inoltre, la traslazione dei fabbricati sarebbe subordinata dall’articolo 18, comma 20 del PdR al mantenimento delle volumetrie esistenti e dei caratteri architettonici del manufatto, nella specie non rispettati;non sussistevano, comunque, i presupposti stabiliti dalla medesima disposizione di piano per assentire la traslazione;sarebbe stato violato altresì l’articolo 23, comma 2 del PdR, il quale consentirebbe, per gli immobili di tipologia “a” – quale quello oggetto del titolo edilizio – interventi non eccedenti il restauro conservativo, e quindi non permetterebbe la ristrutturazione edilizia;infine, quest’ultima disposizione, in quanto speciale rispetto a quella di cui all’articolo 18, comma 20, che si riferisce in via generale alle aree agricole, escluderebbe la possibilità di traslazione del manufatto;
I.B) il titolo edilizio era illegittimo anche nella parte in cui aveva assentito la ricostruzione di una precedente porzione crollata, in quanto non sarebbe stata dimostrata né l’effettiva consistenza del manufatto diruto, né – prima ancora – che tale immobile sia mai esistito;
I.C) era, inoltre, illegittimo l’aver consentito la realizzazione di un piano interrato non computato nella volumetria dell’intervento, poiché il progetto prevedeva, in realtà, la realizzazione di un locale seminterrato di 164 mq, dotato di aperture, di cui solo 68 mq risultavano effettivamente destinati a impianti tecnologici;
II) violazione degli articoli 59, 60 e 61 della legge regionale n. 12 del 2005, dell’articolo 18, comma 5 del PdR del PGT, nonché travisamento e sviamento ;ciò in quanto il manufatto ricadeva in zona agricola, nella quale la normativa regionale consente unicamente la realizzazione delle opere funzionali alla conduzione del fondo e destinate alle residenze dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’impresa agricola, mentre nel caso di specie non sussisterebbe alcuna azienda agricola;inoltre, la realizzazione di nuove edificazioni nelle aree agricole sarebbe stata vietata dell’articolo 18, comma 5 del PdR.
Nella resistenza del Comune di Livigno e dei signori C e Salari, il TAR – respinte le eccezioni preliminari - accoglieva il ricorso, sulle scorta delle seguenti considerazioni.
Era incontroverso che l’immobile oggetto dell’intervento fosse costituito da una “tea”, composta da due piani e destinata ad uso agricolo.
In particolare, dalla relazione allegata all’istanza di permesso di costruire risultava che il piano terra era destinato a stalla e il primo piano a fienile.
L’immobile è individuato nella Tavola n. 5 del Piano di Governo del Territorio, ove è contrassegnato con il numero n. 245 e classificato come rientrante nella Tipologia “a” – Edifici di valore storico-architettonico.
Era parimenti incontroverso che il fabbricato ricada in area agricola.
Quanto alle caratteristiche dell’intervento, dalla lettura della relazione tecnica del progettista, dalle allegazioni svolte dalla difesa comunale e da quelle dei controinteressati, emergeva che l’intervento era stato ritenuto assentibile in quanto:
- la traslazione dei fabbricati su altro sedime è prevista, per gli immobili che ricadono nelle zone agricole, dall’articolo 18, comma 20 del Piano delle Regole;nel caso di specie, la presenza di un corso d’acqua in prossimità del fabbricato avrebbe integrato il necessario presupposto della “comprovata necessità”, cui la disposizione richiamata subordina lo spostamento;
- il recupero delle tee all’uso residenziale è consentito dall’articolo 23, comma 2 del PdR;
- la ricostruzione degli edifici o parti di edifici crollati è ammesso, su tutto il territorio comunale, dall’articolo 23, comma 8 del PdR, in presenza delle condizioni stabilite da tale disposizione che, nel caso di specie, sarebbero state integralmente rispettate.
Il TAR osservava che la possibilità di consentire l’intervento edilizio era stata ritenuta considerando separatamente singole fasi e singole parti dell’intervento (traslazione del manufatto originario, consolidamento statico e recupero all’uso abitativo della tea, realizzazione di vani interrati, ricostruzione di un precedente manufatto crollato) e applicando, per ciascuna di esse, specifiche disposizioni – o parti di disposizioni – del Piano delle Regole.
Tuttavia tale operazione era da ritenere, in linea di principio, non corretta, poiché, a fronte della presentazione di un progetto edilizio, l’amministrazione è tenuta anzitutto a qualificare giuridicamente l’intervento, tenendo conto del complesso delle opere previste, e a individuare poi la disciplina normativa ad esso applicabile. Tuttavia, la circostanza che un’attività o un intervento possano astrattamente rientrare nell’ambito di applicazione di più previsioni di piano non implica, di per sé, che tutte tali disposizioni siano contemporaneamente applicabili.
L’interprete è infatti sempre chiamato a verificare le relazioni intercorrenti tra le diverse norme, la loro reciproca compatibilità e la sussistenza di un eventuale rapporto di specialità tra le stesse.
Nel caso in esame, l’immobile di proprietà dei sig.ri C e Salari è individuato dallo strumento urbanistico come ricadente nella “Tipologia “a” – Edifici di valore storico-architettonico”.
Come tale, esso, sottolineava il TAR, è soggetto alle previsioni dell’articolo 23, comma 2, del Piano delle Regole, le cui disposizioni sono dirette a operare una tutela in via urbanistica nei confronti dei profili di interesse culturale, e più precisamente di tipo storico-identitario, che il Comune aveva avvisato nelle caratteristiche tee, considerate – secondo quanto affermato dalla disposizione sopra richiamata – quali “testimonianze tangibili della storia e della cultura locale”.
Ne derivava che tali previsioni, per la loro diretta funzionalizzazione alla tutela di interessi costituzionali primari, contemplati dall’articolo 9 della Costituzione, costituiscono la disciplina d’uso propria e – tendenzialmente – esclusiva degli immobili che vi sono assoggettati in base allo stesso strumento urbanistico. E invero, l’eventualità che, con riferimento a tali manufatti, possano in concreto trovare applicazione anche ulteriori disposizioni di piano, ad essi astrattamente riferibili, risultava necessariamente subordinata alla compatibilità di tali diverse prescrizioni con il regime proprio e specifico dettato per le tee storiche, in funzione della tutela dei profili di interesse culturale in esse ravvisabili.
Nel caso di specie, il richiamato articolo 23, comma 2 del Piano delle Regole – il quale stabilisce espressamente l’ammissibilità degli interventi non eccedenti il restauro conservativo, salva la possibilità della destinazione all’uso residenziale e ad attrezzature di servizio all’escursionismo, e fermo restando inoltre l’eventuale recupero del sottotetto, purché senza deroghe alle norme urbanistiche, in particolare quanto alle modifiche della sagoma e dell’altezza – risulta poi coerente con l’articolo 3, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale qualifica come “interventi di restauro e di risanamento conservativo” gli interventi edilizi «rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio».
In sostanza, la previsione dell’articolo 23, comma 2 del Piano delle Regole permette di eseguire opere volte a conservare l’esistente e a integrare gli elementi e gli impianti necessari a renderlo utilizzabile per una delle destinazioni ammesse, che possono anche essere realizzate modificando la destinazione attuale ed eventualmente recuperando il sottotetto.
In tale prospettiva, gli interventi eseguibili sul fabbricato, oltre a dover essere diretti alla sua conservazione, devono in ogni caso assicurare il mantenimento della piena identificabilità della costruzione risultante dal compimento delle opere con quella preesistente, non essendo sufficiente una generica somiglianza tra il nuovo edificio e il vecchio.
Nel caso di specie, emergeva invece come l’intervento attuato sull’immobile eccedesse nettamente le trasformazioni consentite dal predetto articolo 23, comma 2 del PdR.
Si trattava infatti di un insieme sistematico di opere che, secondo il TAR, eccedevano il restauro con possibile cambio di destinazione d’uso, consentito dalle disposizioni citate, e che non potevano ritenersi riconducibili neppure alla qualificazione di “ristrutturazione edilizia”, contenuta nel permesso di costruire. E infatti l’insieme delle modificazioni apportate, complessivamente considerate, non poteva che dare luogo a una costruzione del tutto nuova, che avrebbe potuto bensì richiamare, per certi aspetti, i caratteri architettonici della tea preesistente, ma nella quale non sarebbe stato identificabile l’edificio sostituito.
In ogni caso, per questo tipo di manufatto non era consentita neppure l’attuazione di interventi di ristrutturazione edilizia, salvo quelli attuati mediante le sole modifiche edilizie strettamente funzionali al cambio di destinazione d’uso e all’eventuale recupero del sottotetto, eseguiti nel rispetto di tutte le prescrizioni sopra richiamate.
Conseguentemente, anche laddove si fosse voluto qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, risultava ampiamente superato il limite di intervento stabilito dalla prescrizione del Piano delle Regole già richiamata.
Il TAR verificava poi se gli interventi compiuti – pur non trovando copertura nell’articolo 23, comma 2 del PdR – potessero considerarsi comunque legittimati dalle diverse disposizioni dello strumento urbanistico richiamate dalla relazione tecnica del progettista e invocate dalla difesa comunale e da quella dei controinteressati.
Al riguardo – anche a voler ammettere che la traslazione della tea su altro sedime, senza demolizione e ricostruzione, fosse necessitata dall’esigenza di allontanarla dal corso d’acqua esistente in prossimità dell’immobile, e potesse reputarsi legittimata dalla previsione dell’articolo 18, comma 20 del Piano delle Regole – emergeva comunque l’inapplicabilità, nel caso di specie, della previsione di piano che si riferisce alla ricostruzione di parti di fabbricati crollati.
La disposizione di cui all’art. 23, comma del Piano delle Regole, era infatti da ritenere inoperante con riferimento alle tee storiche, per il profilo – dirimente – che gli interventi di ricostruzione di volumi diruti, anche laddove attuati sullo stesso sedime, sono oggi riconducibili nella nozione di ristrutturazione edilizia in base al chiaro disposto dell’articolo 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380 del 2001, come modificato, da ultimo, dall'articolo 30, comma 1, lett. a) del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 (peraltro, come è noto, antecedentemente alla novella questi interventi venivano annoverati, di norma, tra le nuove costruzioni).
Si trattava, quindi, di opere decisamente eccedenti rispetto al restauro con eventuale cambio di destinazione d’uso, che – secondo il TAR - costituisce il limite degli interventi consentiti sulle tee storiche nel Comune di Livigno.
Il carattere di specialità della previsione dell’articolo 23, comma 3 del PdR, specificamente diretta alla tutela di tali manufatti, rispetto a quella del comma 8 dello stesso articolo 23, che opera in via generale su tutto il territorio comunale, comportava pertanto necessariamente la prevalenza della prima di tali disposizioni rispetto alla seconda.
Tale lettura era poi confermata da quanto previsto nell’ultima parte del comma 8 dell’articolo 23, ove si fanno salve espressamente “le disposizioni dei commi precedenti” – e, quindi, anche del comma 2 – “per quanto riguarda le prescrizioni sulle modalità e sulle condizioni del recupero”.
Il che equivaleva a dire che, per le tee storiche, il recupero è consentito laddove riconducibile nel novero degli interventi di restauro, i quali possono contemplare bensì l’integrazione di porzioni di murature o di coperture o di altri elementi architettonici deteriorati, ma non certo la totale ricostruzione di un intero volume edilizio ormai del tutto venuto meno.
Sotto un ulteriore profilo, il TAR rilevava che non risultavano neppure rispettati i presupposti richiesti dalla disciplina di piano per consentire la ricostruzione.
E invero, secondo quanto risultava agli atti del giudizio, nel caso di specie difettava la presenza di “porzioni strutturali dell’edificio” ancora esistenti in sito.
Tutto quanto rimaneva sul luogo era infatti soltanto un esiguo frammento di un muro, che non poteva di certo soddisfare il requisito richiesto dalla disposizione richiamata.
Peraltro, anche la relazione storica, che avrebbe dovuto comprovare la preesistenza e la consistenza dell’ulteriore volume, che sarebbe crollato nel corso degli anni ’70, risultava basata su elementi non certi e univoci, ma congetturali.
La presenza del manufatto veniva infatti argomentata – oltre che da documentazione fotografica non inequivoca – anche dalla rappresentazione di una porzione immobiliare attigua alla tea in una mappa catastale.
Si faceva, poi, riferimento alla presenza in loco del frammento di muro di cui si è detto e, inoltre, alla rilevazione di buchi sul fronte est del fabbricato esistente.
Dato, quest’ultimo, dal quale veniva dedotta la presenza di una copertura a falde, innestata nei suddetti fori.
Si trattava però, di elementi del tutto insufficienti a dimostrare l’esistenza e la caratteristiche della porzione immobiliare attigua alla stalla/fienile.
Era comunque dubbio che, laddove un manufatto edilizio effettivamente vi fosse stato, questo consistesse in un volume chiuso.
E ciò considerato anche che – come ben evidenziato dalla difesa della ricorrente – nella mappa catastale prodotta agli atti la porzione corrispondente alla tea è colorata, mentre quella attigua, graffata con la prima, è in bianco.
Il TAR considerava illegittimo anche l’assenso alla realizzazione dell’ampio locale interrato, eccedente persino il sedime dell’edificio, il quale non era pienamente compatibile con le mere esigenze di conservazione dell’immobile storico e di integrazione degli impianti funzionali all’attuazione della destinazione residenziale.
Peraltro, anche la circostanza che la destinazione all’uso abitativo del fabbricato esistente fosse consentita dallo strumento urbanistico in zona agricola imponeva di intendere in senso restrittivo la portata e l’incidenza delle trasformazioni eseguibili per realizzare tale destinazione.
2. La sentenza è stata impugnata dal Comune di Livigno.
L’amministrazione premette che, alla stregua di quanto previsto dalla relazione tecnica – all. 3 al fascicolo di primo grado - l’intervento è consistito sostanzialmente non nella demolizione e ricostruzione ma nella “materiale traslazione” in direzione nord - est previa ristrutturazione interna ed architettonica del manufatto esistente (“imbragamento” “scivolamento” sono documentati nelle fotografie in allegato 9), nella realizzazione delle strutture portanti verticali e orizzontali in cemento armato e nel reinterro lungo le mura perimetrali, con successivo riposizionamento della struttura preesistente in legno.
L’appello è affidato ai motivi così articolati:
I) Error in iudicando: erroneità della sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione del Comune di Livigno di inammissibilità/irricevibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione attiva della signora S e/o di interesse ad agire della medesima. Inesistenza e/o carenza e/o insufficienza sul punto con particolare riguardo alla mancata dimostrazione da parte della ricorrente del pregiudizio derivante a carico della stessa, costituito dall’incidenza negativa dell’intervento assentito sui beni immobili di proprietà di costei. Violazione dell’art. 100 del c.p.c. e dell’art. 35, comma 1, lett. b) c.p.a..
Nel corso del giudizio di primo grado l’odierna appellata aveva fondato la propria legittimazione ad agire sulla base della “ vicinitas ” tra i fondi di sua proprietà e quelli dei controinteressati, distinti ai numeri 322 e 1329 nonché sul preteso aggravamento di una servitù di passaggio costituita a favore dei controinteressati medesimi sul proprio mappale n. 628 per consentire l’accesso alla stalla e al fienile del preesistente fabbricato. Muovendo da tale prospettazione, il Comune aveva eccepito che tali fondi non risultano confinanti in quanto sono separati dai mappali 1330 e 429.
Non vi era comunque traccia della tipologia, tracciato e modalità di esercizio di tale servitù di passaggio.
Solo in memoria di replica la S aveva “aggiustato il tiro” evidenziando di essere proprietaria anche del mappale n. 1330 effettivamente confinante con quello dei controinteressati.
Ai fini dell’appello, il Comune richiama l’evoluzione giurisprudenziale intervenuta in relazione al criterio della “ vicinitas ” secondo cui esso non potrebbe ex se radicare la legittimazione al ricorso dovendo pur sempre la parte ricorrente fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati in termini di deprezzamento del valore del bene o della concreta compromissione del diritto alla salute e all’ambiente.
Nel caso di specie, il TAR ha ritenuto la legittimazione ad agire sulla base della mera vicinitas e, comunque, con riferimento al preteso aggravamento della servitù di passaggio senza alcun riferimento alla sua concreta consistenza e alla reale entità del pregiudizio patito dalla signora S in conseguenza del rilascio del titolo edilizio.
II) Error in iudicando. Erroneità della sentenza nella parte in cui ha affermato l’illegittimità del titolo edilizio rilasciato per violazione del disposto dell’art. 23, comma 2, delle NTA del PDR del PGT di Livigno avendo il predetto titolo – asseritamente – assentito trasformazione del fabbricato esistente eccedenti (ristrutturazione edilizia e/o nuova edificazione) quelle consentite dalla norma in questione (restauro conservativo con possibile cambio di destinazione d’uso). Contradditorietà, illogicità ed irragionevolezza della relativa motivazione;violazione, falsa e omessa applicazione degli articoli 18, comma 20, e 23, comma 2 e 8 delle NTA del PDR del PGT di Livigno.
Il TAR non ha considerato che il titolo abilitativo è pienamente congruente con l’art. 18, comma 20, delle NTA del PdR che, in zona agricola consente la trasposizione anche su diverso sedime, purché non vengano alterate le volumetrie e i caratteri architettonici preesistenti.
L’art. 23, comma 8, delle medesime NTA consente poi il recupero, su tutto il territorio comunale, di edifici o parti di edifici parzialmente crollati per qualsiasi causa mediante interventi volti al ripristino filologico di elementi costitutivi eventualmente crollati o demoliti per cause di sicurezza e/o calamità naturali purché ne sia possibile accertare la effettiva consistenza attraverso fonti iconografiche, cartografiche, fotografiche o documentarie e sempre che porzioni strutturali dell’edificio siano ancora presenti in situ ;
Inoltre, a mente dell’ultimo alinea punto 2 dell’art. 23 delle NTA del Piano delle Regole, per alcune particolari tipologie di edifici, e, per quanto qui interessa, per la “tee” (Edifici a tipologia “a” di cui al punto 2, art. 23), quale nuova destinazione è possibile “l’uso residenziale”.
Al fine di confutare le conclusioni del giudice di prime cure, secondo cui la disciplina d’uso propria e tendenzialmente esclusiva delle c.d. tee prevale sulla restante normativa, il Comune osserva che nel contesto della medesima disposizione “è vietato” l’eventuale recupero del sottotetto «quando comporti deroga alle norme urbanistiche vigenti, con particolare riferimento alle modifiche della sagoma e dell’altezza» dal che deve desumersi che, nel rispetto di tali parametri, il recupero del sottotetto sia, invece ammissibile.
Il recupero di un vano tecnico e/o comunque non abitabile non potrebbe essere annoverato entro le tipologie di cui al comma precedente, considerato, oltretutto, che, a mente dell’art. 64, comma 2, della l.r. lombarda n. 12/2005, il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti è classificato come “ristrutturazione edilizia” ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. d) della medesima legge.
Ne deriverebbe, a dire del Comune appellante, che l’interpretazione corretta di tali disposizioni è quella non già dell’inammissibilità di tutti gli interventi edilizi di grado superiore al restauro conservativo bensì soltanto quelli riferibili a fattispecie particolari, come la “ salvaguardia degli edifici lignei fortemente caratterizzati ”.
Anche il cambio di destinazione d’uso in destinazioni residenziali e per attrezzature di servizio all’escursionismo, configura di per sé un intervento di ristrutturazione edilizia.
La predetta norma deve quindi essere applicata, a parere del Comune, in stretta correlazione con le altre previsioni delle NTA del PDR del PGT di Livigno.
Nel caso di specie, l’intervento progettato ha comunque previsto l’integrale conservazione dei caratteri architettonici e tipologici preesistenti, ed è quindi stato considerato funzionale alla tutela dei profili di interesse culturale oggettivamente ravvisabili negli immobili come quello che occupa.
Anche la competente Soprintendenza avrebbe ritenuto l’intervento perfettamente legittimo dal punto di vista paesaggistico ed estetico.
Il mantenimento del fabbricato preesistente sarebbe poi stato effettivamente garantito in sede esecutiva poiché i controinteressati, come già evidenziato, hanno dato corso alla sola realizzazione delle strutture portanti, in cemento armato, al reinterro lungo le pareti perimetrali e al riposizionamento della medesima struttura in legno preesistente.
L’immobile sarebbe pertanto quello di prima, sia pure con l’aggiunta della parte posteriore frutto del recupero delle porzione diruta del medesimo immobile.
III. Error in iudicando: Erroneità della sentenza nella parte in cui ha affermato l’inapplicabilità alle Tee storiche del disposto dell’art. 23, comma 8, delle NTA del PdR del PGT di Livigno, che consente il recupero degli edifici diruti (afferendo detta norma alla fattispecie della ristrutturazione edilizia e non già a quella del restauro conservativo), nonché il mancato rispetto dei presupposti richiesti dalla disciplina di piano al fine di consentire la ricostruzione dell’immobile crollato.
Contraddittorietà, illogicità ed irragionevolezza della relativa motivazione. Travisamento, violazione, falsa o omessa applicazione del succitato art. 23, comma 8, delle NTA del PDR del PGT di Livigno .
Poiché l’art. 23, comma 2, delle NTA non comporterebbe affatto l’assoluta inammissibilità rispetto alle tee storiche degli interventi di grado superiore al restauro conservativo, non sarebbe convincente l’ulteriore considerazione espressa dal TAR secondo cui siffatta lettura delle norme del PGT di Livigno sarebbe confermata da quanto previsto nell’ultima parte del comma 8 dell’art. 23, ove si fanno espressamente salve le disposizioni dei commi precedenti, e quindi anche del comma 2 “per quanto riguarda le prescrizioni sulle modalità e sulle condizioni del recupero”.
La sentenza appellata ha poi ravvisato nella fattispecie la totale assenza di “porzioni strutturali dell’edificio”, ancora esistenti in sito, residuando esclusivamente un esiguo frammento di muro, e comunque, ha rilevato un elemento ostativo nel fatto che la relazione storica in atti si fondasse su elementi congetturali.
Tuttavia la relazione fornita al Comune risulterebbe supportata da un corredo documentale e fotografico la cui insufficienza sarebbe stata negata dal primo giudice in modo del tutto generico.
Il Comune sottolinea che le foto più recenti mostrano la sussistenza di un rudere in muratura, astrattamente identificabile coma la base dell’originario edificio diruto, e quelle storiche (per quanto l’edificio sia ripreso da lontano) mostrano la sussistenza di un corpo di fabbrica più alto (quello esistente) e di un altro ad un solo piano (quello diruto), sviluppantesi in modo contiguo alla porzione lignea.
A tanto si aggiungono la presenza di una porta interna di collegamento, la presenza di buchi per l’alloggiamento di eventuali travature, che lasciano presagire la presenza di un tetto a due falde con frontespizio appena sopra la predetta porta e, soprattutto, l’inserimento nella mappa catastale dell’originario fabbricato di cui apparirebbero evidenti sia la porzione esistente che il sedime della porzione demolita.
Dalla stessa i controinteressati hanno dedotto le dimensioni planimetriche della porzione diruta e della relativa superficie.
IV) Error in iudicando. Erroneità della sentenza per travisamento dei presupposti di fatto ed errata applicazione dell’art. 23, comma 2, delle NTA del PDR del PGT di Livigno nella parte in cui ha affermato che la realizzazione del locale interrato è incompatibile con le esigenze di conservazione dell’immobile e di integrazione degli impianti funzionali dello stesso. Contraddittorietà, illogicità ed irragionevolezza della relativa motivazione.
Secondo il Comune la parte interrata è destinata ad ospitare gli impianti tecnologici a servizio dell’edificio tra cui quelli necessari al riscaldamento e all’isolamento termico della parte fuori terra dell’edificio. Poiché si tratta di un mero volume tecnico, non è nemmeno computabile dal punto di vista volumetrico.
Si è costituita, per resistere, la signora S, controdeducendo quanto segue.
L’appellata premette che la circostanza che non si sia trattato di demolizione e ricostruzione, come inizialmente ipotizzato, ma di trascinamento a valle del manufatto, non muta i termini della questione dedotta innanzi al TAR.
In particolare, la traslazione è stata autorizzata senza che ricorresse alcuna delle ipotesi previste dalle NTA non essendo in alcun modo comprovate le allegate esigenze di messa in sicurezza, laddove il corso d’acqua, secondo l’appellata, è una semplice canale di scolo per cui non è prevista nessuna fascia di salvaguardia né, tantomeno, di inedificabilità.
Ad ogni buon conto, l’immobile risulta individuato nella Tavola n. 5 del PGT, è contrassegnato con il numero 245 ed è classificato come rientrante nella “Tipologia “a” “ edifici di valore storico da sottoporre a misure di tutela dei caratteri testimoniali ed identitari e confermare nella destinazione d’uso attuale ”.
In relazione ad un immobile compreso in tale tipologia, non possono essere in alcun modo consentiti la ristrutturazione, l’ampliamento e, prima ancora, addirittura lo spostamento.
In punto di legittimazione l’appellata fa rilevare di non essere solo “vicina” ma confinante con le aree dei titolari del permesso di costruire e che, in tale situazione, la giurisprudenza esclude, in linea di principio, la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore.
Sottolinea che i signori C, nel corso del giudizio di primo grado, non hanno contestato tali circostanze, almeno sino alla memoria di replica, nella quale hanno aderito al contegno processuale del Comune.
Nel merito, evidenzia che il TAR ha considerato l’intervento in esame una “costruzione del tutto nuova” con statuizione che, a suo dire, non sarebbe stata specificamente censurata.
Ad ogni buon conto, l’intervento assentito avrebbe vanificato la portata dell’art. 23, comma 2, del PdR, annullando la tutela dei preminenti valori storico-culturali ivi consacrati.
Invero, relativamente al consentito recupero dei sottotetti, è comunque prescritto il mantenimento delle caratteristiche architettoniche, dell’altezza e della consistenza del manufatto, laddove gli interventi di ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380 non comportano oggi alcun vincolo di sagoma e di altezza.
L’intendimento del pianificatore comunale sarebbe stato quindi quello di fornire una tutela rafforzata di tali manufatti, incentivandone la conservazione e il recupero anche dal punto di vista funzionale.
Per quanto riguarda gli immobili di tipologia “a” le NTA non recano alcuna distinzione all’interno degli immobili ricadenti in tale tipologia.
Ha poi ulteriormente evidenziato;
- che la Soprintendenza per i Beni ambientali ed architettonici non ha espresso alcuna valutazione sul progetto;
- che l’immobile è stato traslato di una cinquantina di metri;
- che non è stata, comunque, comprovata la sussistenza dei presupposti di “comprovata necessità” prescritti dall’art. 18, comma 20 delle N.T.A. del PdR.
Relativamente alla porzione diruta è altresì pacifico che fosse presente in loco solo “ una porzione di muratura in pietrame, cha fa presupporre l’esistenza di un ulteriore volume ” (cfr. Relazione storica, in atti).
Manca non solo la prova dell’esatta consistenza del manufatto ma anche che esso vi sia mai stato.
L’esistenza di un precedente volume è quindi solo supposta.
Anche la mappa catastale non dimostra che la porzione ivi raffigurata fosse un edificio.
Comunque, un piccolo muretto in pietra non è in grado di integrare il presupposto della norma del PGT, laddove essa prescrive che «porzioni strutturali dell’edificio siano ancora presenti in loco».
Quanto al piano interrato, non è stata specificamente censurata la statuizione secondo cui l’ubicazione in zona agricola impone di intendere in senso restrittivo la portata e l’incidenza delle trasformazione eseguibili per realizzare tale destinazione.
A tale riguardo, l’appellata ripropone il motivo di “ Violazione e falsa applicazione degli artt. 59, 60 e 61, della l.r. n. 12/2005 e s.m.i. – travisamento e sviamento – violazione art. 18, comma 5, del PDR del PGT ”.
Le norme regionali in rubrica ammettono in zona agricola esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alla residenze dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda (art. 59, comma 1), mentre il comma 2 della medesima disposizione prevede la costruzione di nuovi edifici residenziali solo quando le esigenze abitative non possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente.
L’art. 61, detta altresì la c.d. norma di prevalenza sulle norme e le disposizioni del PGT e dei regolamenti edilizi. Nel caso di specie, l’art. 18, comma 5, del PDR dispone espressamente che nelle aree agricole “non sono ammesse nuove edificazioni”.
Nel contesto della memoria difensiva, riservandosi una specifica impugnazione, l’appellata critica poi la compensazione delle spese operate dal giudice di prime cure.
Si sono costituiti in giudizio anche i signori C, in adesione all’appello spiegato dal Comune.
Le parti hanno depositato memorie conclusionali e di replica.
I signori C hanno evidenziato:
- che le possibilità di intervento sul manufatto sono regolate dagli articoli 18, comma 20, e 23, comma 8, della Normativa Tecnica del Piano delle Regole a norma dei quali è consentito:
• in zona agricola, la demolizione e trasposizione, anche su diverso sedime, dei manufatti esistenti, purché non ne vengano alterate le volumetrie e i caratteri architettonici preesistenti (art. 18, comma
20);
• in tutto il territorio comunale, il recupero di edifici o di parti di edifici, parzialmente crollati per qualsiasi causa, mediante interventi volti al ripristino filologico di elementi costruttivi eventualmente crollati, o demoliti per cause di sicurezza e/o calamità naturali, purché ne sia possibile accertare la effettiva consistenza attraverso fonti iconografiche, cartografiche, fotografiche o documentarie, e sempre che porzioni strutturali dell’edificio siano ancora esistenti in sito (art. 23, comma 8);
• per alcune particolari tipologie di edifici e, per quanto qui interessa, le “Tee” (Edifici a tipologia “a” di cui al punto 2, art. 23 delle NTA del Piano delle Regole), quale nuova destinazione possibile è previsto “…l’uso residenziale…” (così l’ultimo alinea del punto 2, del citato art. 23).
La signora S ha illustrato l’ulteriore documentazione versata in atti, a comprova della trasformazione subita dallo stato dei luoghi.
Si tratta di fotografie che mostrano come era in origine la tea, lo stato dei luoghi, il cantiere dell’intervento e lo stato di progressione dei lavori, sino a giungere alla situazione odierna, che conferma la realizzazione di un vero e proprio complesso residenziale (di oltre 160 mq), composto di due ville, in luogo di quella che era una piccola casupola agricola.
Non si sarebbe trattato quindi di una mera traslazione con interventi di ristrutturazione interni, ma di una e vera e propria nuova edificazione e radicale trasformazione urbanistica, con le conseguenti problematiche legate anche alla intervenuta modifica dello stato dei luoghi, attraverso opere di sbancamento per lo spostamento della “tea”.
Relativamente all’edificio diruto, ha ricordato che la giurisprudenza (ad es., Cass. pen., III, 13 aprile 2007, n. 15054) ha stabilito che la ricostruzione dei ruderi costituisce sempre nuova costruzione, in quanto il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un organismo edilizio dotato delle murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il Comune di Livigno, dal canto suo, ha in particolare lamentato il fatto che - senza proposizione di appello incidentale di sorta - la difesa della sig.ra S abbia riproposto la censura di violazione e falsa applicazione degli articoli 59, 60 e 61 della L.R. 12/2005, nonché dell’art 18, comma 5, delle Norme Tecniche del Piano delle Regole del P.G.T. di Livigno (atteso che l’area oggetto di intervento ricade in zona agricola e, dunque, nella stessa non poteva essere assentita la realizzazione di un fabbricato di carattere residenziale): censura che era stata oggetto di assorbimento in sede di sentenza di primo grado.
Ha altresì eccepito la tardività e l’irrilevanza ai fini del decidere della documentazione da ultimo prodotta dalla appellata: tardività per quanto espressamente attiene alle fotografie ed agli scritti risalenti al 2016 (ed alle annualità precedenti), in quanto produzioni riconducibili addirittura a tempi antecedenti alla notifica del ricorso in appello, e comunque, alla costituzione in giudizio della sig.ra S;irrilevanza, in quanto la ragione della relativa produzione costituirebbe solo il tentativo di parte appellata di dare sostanza alla propria legittimazione ad agire, dimostrando in qualche modo l’incidenza negativa dell’intervento in questione sulla sua proprietà.
Il Comune argomenta poi in ordine alla tempestività della relativa eccezione, svolta in primo grado e ribadita in appello, ulteriormente osservando che la servitù pretesamente oggetto di aggravamento deve intendersi costituita esclusivamente a carico del già più volte citato fondo n. 628, non direttamente confinante con i mappali dei controinteressati e, dunque, insuscettibile di aggravamento di sorta in conseguenza dell’intervento per cui è causa.
Rimarca che il manufatto oggetto di contesa “tea” è “tea” sarebbe rimasto ancor oggi.
Relativamente alle riproposte censure di violazione e falsa applicazione degli articoli 59, 60 e 61 della L.R. 12/2005, nonché dell’art 18 comma 5 delle Norme Tecniche del Piano delle Regole del P.G.T. di Livigno (atteso che l’area oggetto di intervento ricade in zona agricola), nonché la compensazione delle spese di lite”, evidenzia che è lo stesso art. 23 comma 2, delle NTA più volte richiamato a consentire la possibile trasformazione della destinazione d’uso dell’edificio di valore storico-architettonico in residenza, al preciso fine di salvaguardare dette strutture e di evitare dunque l’abbandono di queste tangibili testimonianze del passato.
Deduce infine l’inammissibilità delle doglianze svolte avverso le statuizioni sulle spese in assenza di appello incidentale.
In replica la signora S ha fatto osservare:
- che è pacifico e incontestato che ella sia titolare del mappale 1330;lo stesso Comune ha attestato tale circostanza nel corpo dell’atto di appello, in ragione “della propria veste di Ente Pubblico” (cfr., p. 9 dell’atto di appello);
- che ella sia vicina e confinante con le aree dei titolari del permesso di costruire è pacifico e non contestato;
- che i signori C non hanno mai contestato l’esistenza della servitù di passaggio sui terreni dell’appellata per potere accedere al fondo per cui è causa;
- che ella ha sin da subito lamentato il timore di pregiudizi in danno della proprietà a causa di quegli ingenti lavori e modifica morfologica del terreno:
- che, secondo pacifica giurisprudenza la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a creare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse di rilevanza giuridica, riferibile a norme di diritto privato o di diritto pubblico;
- che il rudere ricostruito era in realtà andato completamente (e non quindi solo parzialmente) distrutto, e non era quindi possibile accertare l’effettiva consistenza;
- che l’intervento ha unito un risanamento conservativo (con ampliamento di oltre 100 mq. di interrato) con una ristrutturazione di un rudere crollato nel ’70, con un ampliamento ulteriore nell’interrato che originariamente comunque non poteva esistere;
- che il manufatto non è rimasto identico a prima in quanto, tra l’altro, l’intervento ha comportato la formazione anche di un ampio locale interrato annesso alla tea, oltre alla ricostruzione di un rudere “preesistente” con ulteriore interrato, il tutto a formare una unico nuovo complesso immobiliare, “con buona pace delle finalità culturali di tutela della Tea”.
I signori C ritengono che la signora S, in primo grado, non abbia in alcun modo provato la consistenza del pregiudizio che la autorizzava all’iniziativa giurisdizionale.
Analogamente, il Comune ha rimarcato che nulla è stato dimostrato in merito all’esatto tragitto della servitù di passo gravante (fra gli altri) sul mappale 628 di proprietà della signora S e, in particolare, sulla sussistenza di tale peso a carico del mappale 1330 in favore dei terreni dei signori C-Salari (effettivamente confinanti con il solo mappale 1330 e non anche con il n. 628);in sostanza, nulla sarebbe stato comprovato in termini di consistenza della servitù e del potenziale aggravamento della stessa a seguito della realizzazione dell’intervento edilizio dei controinteressati.
La causa, infine, è passata in decisione alla pubblica udienza del 15 febbraio 2018.
3. In via preliminare, vanno respinte le eccezioni concernenti la riproposizione mediante semplice memoria dei motivi di primo grado assorbiti dal TAR nonché quelle relative alla tardività e/o irrilevanza della documentazione fotografica prodotta in appello dalla signora S.
3.1. Ai sensi dell'art. 101 comma 2, c.p.a. la riproposizione in appello dei motivi di censura non esaminati dal giudice di primo grado o dallo stesso dichiarati assorbiti non richiede necessariamente la proposizione di appello incidentale per la parte vittoriosa in primo grado, potendo avvenire anche con semplice memoria non notificata, purché depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio e quindi, ex artt. 38 e 46 dello stesso c.p.a., entro sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso, divenendo irricevibile se depositata successivamente (cfr., ex plurimis , Cons. St., sez. IV, sentenza n. 513 del 9.2.2016).
Nel caso di specie, il ricorso in appello è stato notificato all’indirizzo PEC del difensore della signora S il 22 luglio 2016, mentre la memoria di costituzione di quest’ultima, recante l’espressa riproposizione dei motivi assorbiti dal TAR è stata depositata il 15.9.2016, nel rispetto dei termini prescritti.
3.2. La documentazione depositata in appello riguarda, in parte, foto relative allo stato attuale dei luoghi sia con riferimento alla intervento oggetto di gravame, sia con riferimento alla proprietà della signora S e ai danni che la stessa asserisce essere derivati dalla trasformazione della morfologia del territorio per effetto della traslazione della tea.
Sicché è evidente che la stessa non avrebbe potuto essere prodotta nel precedente grado di giudizio.
Per quanto concerne, invece, le foto “storiche” del ruscello Pemont e della tea, ovvero quelle relative alla “progressione del cantiere”, esse nulla aggiungono alla produzione di primo grado, in cui risulta parimenti presente copiosa documentazione fotografia, sostanzialmente sovrapponibile a quella esibita in appello.
3.3. Sono invece effettivamente inammissibili le deduzioni della parte appellata avverso la compensazione delle spese operata in primo grado in quanto l’espressione statuizione del TAR, avrebbe dovuto essere dalla stessa avversata mediante appello incidentale (cfr., ex plurimis , Cass. civ., sez. III, sentenza n. 18533 del 20.8.2009).
4. Nel merito, il primo ordine di rilievi concerne la pretesa carenza di legittimazione ad agire della ricorrente in primo grado, sotto il duplice profilo del difetto di titolarità di un interesse legittimo meritevole di tutela, e, comunque della mancanza di una utilità concreta derivante dall’annullamento degli atti impugnati (l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.).,
A tale riguardo, il Comune appellante argomenta la tempestività dei propri rilievi in primo grado, contestata dall’appellata, sull’assunto che «La titolarità della situazione sostanziale dedotta in giudizio è un elemento costitutivo della domanda, rientrante nell'onere deduttivo e probatorio dell'attore, salvo che il convenuto la riconosca oppure svolga difese incompatibili con la sua negazione» (Cass. civ., Sez. Un., sentenza n. 2951 del 16.2.20169).
Da ciò, tuttavia, consegue anche che all’appellata non era precluso fornire ulteriori elementi a supporto sia della legittimazione che del proprio interesse ad agire, trattandosi di presupposti della regolare costituzione del rapporto processuale e quindi di questioni esaminabili anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio salvo il limite della formazione del giudicato;in sostanza «non rileva il momento processuale in cui sia fornita la relativa prova, non operando, ai relativi effetti, le ordinarie preclusioni istruttorie»(Cass. civ., Sez. I, sentenza n. 22099 del 26.9.2013).
Nel caso in esame, peraltro, lo stesso Comune appellante ha “attestato”, nella sua qualità di Ente pubblico, che la signora S è titolare del mappale n. 1330, direttamente confinante con l’area di intervento, mentre è rimasta sostanzialmente incontestata - da parte dei signori C - l’esistenza a carico del mappale n. 628 (anch’esso nella titolarità dell’appellata) di un servitù di passo costituita in favore del fondo di loro proprietà.
Appare tuttavia inutile disquisire sull’aggravamento di tale servitù, ovvero in ordine agli eventuali danni causati alla proprietà S dai lavori eseguiti, perché, a parere del Collegio, il solo rapporto di “ vicinitas ” è idoneo a fondarne tanto la legittimazione quanto l'interesse ad agire.
Sulla sufficienza di tale requisito sono effettivamente registrabili orientamenti giurisprudenziali difformi (per la tesi restrittiva, cfr. ad es., da ultimo, Cons. St., sez. V^, sentenza n. 5442 del 22.11.2017), i quali però riguardano per lo più l’impugnazione di titoli edilizi da parte di operatori commerciali concorrenti ovvero di scelte di pianificazione urbanistica.
Nel caso, invece, di ricorsi avverso singoli titoli edilizi, appare prevalente l’orientamento secondo cui lo stabile collegamento dell'immobile del terzo con quello interessato dai lavori sia autonomamente idoneo a radicarne la legittimazione ad agire, giacché il pregiudizio della situazione soggettiva protetta è considerato sussistente in re ipsa in ragione dell'abuso edilizio.
Ogni edificazione abusiva incide infatti «se non sulla visuale, quanto meno sull'equilibrio urbanistico del contesto e l'armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi» (Cons. St, se. VI, sentenza n. 1156 del 21.3.2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).
La legittimazione del terzo deriva dal fatto che l’amministrazione «nel disciplinare l'edificabilità dei suoli o nell'autorizzare singoli interventi […] vede potenzialmente contrapposti ai propri atti gli interessi legittimi non solo dei diretti destinatari degli atti stessi, ma anche dei terzi (proprietari o detentori qualificati di aree o immobili limitrofi) che sono direttamente tutelati dai limiti imposti all'esercizio di ius aedificandi e che hanno, pertanto, una posizione differenziata rispetto agli altri appartenenti alla collettività, in ordine al rispetto di tali limiti» (sent. ult. cit.).
La Sezione ha poi osservato che «l'evoluzione delle tematiche connesse alla pianificazione territoriale ha trasferito nel campo urbanistico temi prima ad esso estranei (come la salvaguardia dei valori ambientali o culturali), determinando una ricerca più puntuale in questi settori di ulteriori fatti di legittimazione», ribadendo tuttavia, in tale contesto evolutivo, il principio della maggiore tutelabilità di quegli interessi che, contrastando una nuova edificazione, mirano a preservare l’assetto urbanistico e ambientale della zona (Cons. St., sez. IV^, sentenza n. 2861 dell’11.6.2015).
Nel caso di specie, pertanto, sia la vicinitas che l’identità del contesto territoriale ed urbanistico, escludono ogni dubbio in ordine alla legittimazione dell’originaria ricorrente, la quale non era quindi tenuta a dimostrare un pregiudizio specifico derivante dall’intervento assentito.
5. Il secondo ordine di rilievi si incentra sull’interpretazione degli strumenti urbanistici vigenti nel Comune di Livigno ed è teso a confutare la ricostruzione, operata dal TAR, secondo cui la disciplina d’uso, propria e tendenzialmente esclusiva delle c.d. “tee” storiche, prevale sul compendio delle disposizioni che disciplinano, in generale, “le zone destinate all’esercizio dell’agricoltura di montagna” (Capo III, art. 18 e ss. delle NTA del PdR).
Di tanto, in particolare, costituirebbe prova il fatto che, nel contesto delle disposizioni di cui all’art. 23, comma 2, delle medesime NTA “quale nuova destinazione possibile è ammesso l’uso residenziale” oltre che “per attrezzature a servizio dell’escursionismo estivo”, mentre l’eventuale recupero a fini abitativi del sottotetto è vietato solo ove “comporti deroga alle norme urbanistiche vigenti, con particolare riferimento alle modifiche della sagoma e dell’altezza”.
Il recupero a fini abitativi di un vano tecnico e/o comunque non abitabile non potrebbe essere annoverato tra gli interventi di mero restauro, anche mente della legge regionale lombarda n. 12/2005, che all’art. 64, comma 2, li classifica come “ristrutturazione edilizia” ai seni dell’art. 27, comma 1, lett. d) della medesima legge.
Lo stesso è a dirsi per il pure consentito cambio di destinazione d’uso.
Pertanto, non sarebbero inammissibili tutti gli interventi edilizi di grado superiore al restauro conservativo, bensì soltanto quelli riferibili a fattispecie particolari quali la “salvaguardia degli edifici lignei fortemente caratterizzati”.
5.1. Per una migliore comprensione dei fatti di causa giova riportare il contenuto delle NTA, nella parte di interesse.
L’art. 18, comma 1, definisce le “zone destinate all’esercizio dell’agricoltura di montagna” come gli ambiti territoriali «che risultano specificamente destinati all’esercizio dell’attività agricola ancorché nella condizione peculiare nella quale può essere esercitata in una località di montagna, come Livigno, laddove essa ha anche la funzione di salvaguardia del sistema idrogeologico, del paesaggio agrario e/o forestale e dell’equilibrio ecologico e naturale».
Secondo il comma 20 della medesima disposizione «In caso di comprovata necessità è ammessa la demolizione e la trasposizione, nell’ambito della stessa zona, anche su diverso sedime, purché non vengano alterate le volumetrie e i caratteri architettonici come preesistenti. Qualora vi siano edifici fatiscenti o in cattive condizioni con caratteristiche rurali che ricadano entro fasce inedificabili, ne è consentita la demolizione e la ricostruzione in altra parte del lotto, purché non vengano alterate la volumetria e la SLP esistenti, nonché i caratteri architettonici. Tale operazione può avvenire anche prescindendo dalla SF del loto interessato alla trasposizione dell’edificio, purché nel rispetto di tutti gli altri indici di zona»
Il Capo successivo (IV) è poi dedicato alla disciplina degli “Immobili distinti in tipologie sulla base del livello di valore e destinazione d’uso congruente”.
L’immobile per cui è causa ricade nella tipologia “a” – Edifici di valore storico architettonico.
Secondo l’art. 23, comma 2, più volte citato «Appartengono a questa tipologia gli edifici con caratteristiche tali da poter essere considerati testimonianze tangibili della storia e della cultura locale e che costituiscono la categoria più consistente dell’intero patrimonio disponibile. Nel caso del territorio aperto di Livigno essi sono fondamentalmente riconducibili alla tipologia delle “tee” ovvero delle dimore rurali sparse, casolari d’alpeggio poste ai margini alti dei prati, a mezza costa sul limitare del bosco. Per questa categoria di edifici che conta oltre 300 esemplari, il PGT propone un’attenta opera di conservazione con la conferma dell’uso attuale salvo quanto ammesso dall’ultimo alinea del presente comma.
Gli interventi ammessi al fine di garantire sia la salvaguardia di edifici lignei fortemente caratterizzati, sia l’adeguamento alla esigenze della contemporaneità in modo da radicare la residenza sono: la manutenzione ordinaria e straordinaria, il consolidamento, il restauro conservativo.
L’eventuale recupero del sottotetto è vietato quando comporti deroga alle norme urbanistiche vigenti, con particolare riferimento alle modifiche della sagoma e dell’altezza.
Quale nuova destinazione possibile, è ammesso l’uso residenziale e per attrezzature di servizio all’escursionismo estivo»
5.2. Nello specifico, quanto alle caratteristiche dell’intervento in esame risulta dagli atti di causa e dalla sentenza impugnata, che esso consiste:
- nella traslazione della tea su altro sedime, al dichiarato fine di “mettere in sicurezza l’edificio visto che allo stato attuale è praticamente adiacente all’alveo del corso d’acqua esistente, e quindi potenzialmente soggetto ad eventuali esondazioni dello stesso”;
- nel recupero del fabbricato all’uso abitativo, con la realizzazione di tutte le opere funzionali allo scopo;
- nella realizzazione di un locale sottostante al manufatto traslato, qualificato dalla relazione tecnica come “piano interrato”, destinato a ospitare “i locali accessori quali ripostiglio, cantina, centrale termica a biomassa con adiacente deposito di cippato oltre ad un bagno al servizio del piano terra”, con la formazione, lungo tutto il perimetro, di un’intercapedine areata, sulla quale è prevista la creazione di aperture, coperte da griglie, deputate a fornire aria e luce a tutti i vani interrati;
- nella ricostruzione di un ulteriore volume preesistente, che si afferma crollato negli anni 70.
Le caratteristiche di tale volume oggetto di ricostruzione sono state illustrate nella relazione storica asseverata del progettista.
5.3. Il Collegio osserva, in primo luogo, che la disciplina richiamata appare, come rilevato dal TAR, chiaramente finalizzata ad operare una tutela in via urbanistica di valori di tipo storico-identitario, che il Comune ha ravvisato nelle caratteristiche tee, considerate quali “testimonianze tangibili della storia e della cultura locale”.
Si tratta pertanto di una tipica destinazione urbanistica conformativa della proprietà, diretta a tutelare tutti i beni rientranti nella categoria individuata, e anzi, nel caso oggi in rilievo, anche singoli beni, specificamente individuati e catalogati.
Dalla documentazione di causa risulta che le tee sono “edifici lignei fortemente caratterizzati” sicché non è dato distinguere - come pretende il Comune argomentando dalla costruzione sintattica del secondo periodo del comma 2 della disposizione da ultimo richiamata - un’ulteriore sottotipo in relazione al quale sarebbero ammissibili interventi di grado superiore al mero restauro e/risanamento conservativo.
La piana lettura delle NTA consente poi di apprezzare che mentre l’art. 18 compendia la disciplina generale della zona agricola, l’art. 23 comma 2 è una norma speciale, finalizzata alla conservazione di manufatti specificamente individuati sia nella loro singolarità che per l’appartenenza ad una più ampia categoria, caratterizzata da una precisa valenza “storico – identitaria”.
E’ pertanto corretto l’argomento ermeneutico utilizzato dal giudice di prime cure, secondo cui la disciplina prevista in generale per le zone agricole, rispetto a tali edifici, può trovare applicazione nei soli limiti in cui risulti compatibile con le divisate esigenze di conservazione.
Tra le richiamate disposizioni vi è tuttavia un contrasto evidente e insuperabile nella parte in cui il cit. art. 18, sia pure solo nei casi di comprovata necessità, consente “la demolizione e la trasposizione, nell’ambito della stessa zona, anche su diverso sedime” degli edifici esistenti mentre l’art. 23, comma 2, ammette soltanto “la manutenzione ordinaria e straordinaria, il consolidamento, il restauro conservativo”, vietando altresì espressamente, ai fini dell’eventuale recupero dei sottotetti, deroghe alle norme urbanistiche vigenti, ovvero modifiche della sagoma e dell’altezza.
L’applicazione della disciplina prevista in generale per gli interventi in zona agricola ha così comportato, letteralmente, lo sradicamento della tea e il suo trascinamento più a valle, facendole per ciò solo irrimediabilmente perdere la caratteristica di “dimora rurale”.
E’ infatti agevole il rilievo secondo cui l’identità storico – culturale di tali manufatti è rappresentata non solo dalle caratteristiche architettoniche (strutturali, tipologiche e formali) ma soprattutto dalla loro collocazione del contesto del paesaggio, quali “casolari d’alpeggio” posti “ai margini alti dei prati, a mezza costa sul limitare del bosco”.
Va ancora soggiunto che le più recenti modifiche delle norme statali in materia, non consentono di annoverare la ricostruzione (o anche solo il riposizionamento) di un edificio su una differente area di sedime nemmeno tra gli interventi di ristrutturazione edilizia (cfr., l’art. 3, lett., comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001 - come modificato dall’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98).
Diversamente opinando, verrebbe ad essere infranto il limite, per così dire ontologico, che separa questi ultimi dalla nuove edificazioni.
Ciò che infatti contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un “insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma - in quest'ultimo caso - con ricostruzione, se non “fedele” (termine espunto dall'attuale disciplina), comunque rispettosa della volumetria e, nell’ipotesi di immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione preesistente.
In sostanza, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (Cassazione civile, sez. II, sentenza n. 16268 del 30.6.2017).
In punto di fatto, non appare inutile sottolineare che, diversamente da quanto sostenuto dal Comune, nella fattispecie non risulta essere intervenuto alcun assenso esplicito della competente Soprintendenza statale in ordine all’intervento progettato bensì soltanto il decorso del termine ex art. 146, comma 9, del d.lgs. n. 42/2004 per l’espressione del relativo parere, sicché - come esplicitamente riportato nelle premesse del permesso di costruire - il Comune ha autonomamente provveduto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, facendo proprio il parere della Commissione per il Paesaggio reso ai sensi dell’art. 81, comma 1, della l.r. lombarda n. 12/2005.
5.4. La differente opzione ermeneutica, riproposta in sede di appello, circa i rapporti tra la disciplina della zona agricola e le disposizioni di salvaguardia degli edifici di “valore storico – architettonico” in esame, non ha poi alcun fondamento, né logico – sistematico, né letterale.
In primo luogo, la circostanza che, anche per le tee storiche la disciplina urbanistica ed edilizia vigente nel Comune appellante ammetta il cambio di destinazione d’uso, al fine di “radicare la residenza” ovvero il recupero a fini abitativi del sottotetto non comporta, ex sé , l’ammissibilità di interventi di ristrutturazione edilizia e/o di nuova costruzione.
In tal senso, siffatta disciplina appare del tutto compatibile con quella recata dal d.P.R. n. 380/2001, secondo cui gli interventi di restauro e risanamento conservativo sono quelli «rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio» (art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001, nel testo all’epoca vigente).
La caratteristica degli interventi di mero restauro è infatti quella di essere effettuata mediante opere che non comportano l'alterazione delle caratteristiche edilizie dell'immobile da restaurare, e quindi rispettando gli elementi formali e strutturali dell'immobile stesso, mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al precedente assetto dell'edificio (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 6005 del 13.12.2013).
Nella fattispecie, è altresì del tutto irrilevante che la legge regionale lombarda abbia classificato gli interventi di recupero dei sottotetti tra quelli di “ristrutturazione edilizia”, poiché su di essa prevalgono le definizioni contenute nella normativa statale quale espressione di principi fondamentali della materia, estranei all’ambito di competenza della potestà legislativa concorrente (cfr. Corte Cost., sentenza n. 309 del 23.11.2011, secondo cui nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio sono comprese non solo le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi ma anche quelle definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni).
Pertanto, diversamente da quanto assume il Comune appellante:
- la modifica di una destinazione d’uso non è, ex se , un intervento di ristrutturazione edilizia come non lo è il recupero di un sottotetto a fini abitativi;
- il fatto che una norma di piano consenta di modificare una destinazione d’uso, o di recuperare un sottotetto, non implica necessariamente l’ammissibilità di interventi superiori al restauro conservativo;
- nell’ipotesi in cui, al fine di recuperare un sottotetto o un intero manufatto all’uso residenziale, siano necessari interventi di ristrutturazione edilizia, espressamente esclusi da una concorrente normativa di salvaguardia, tale facoltà, semplicemente, non potrà esplicarsi;
- la circostanza che un determinato uso sia, in via generale ed astratta, consentito, non implica che tale fine possa essere sempre legittimamente perseguito in concreto, almeno nelle ipotesi in cui ciò comporti il sacrificio di altri valori protetti dall’ordinamento.
E’ dunque pienamene corretto il rilievo del TAR secondo cui la lettera e la ratio dell’art. 23, comma 2, delle NTA vigenti nel Comune di Livigno consentono di attuare un mutamento della destinazione in atto delle tee storiche nei soli limiti delle opere edilizie strettamente necessarie ad attuare la funzionalizzazione del manufatto a uno degli usi consentiti, nel rispetto dell’esatta consistenza dell’immobile, oltre che della sua precisa conformazione esteriore, qualificata da specifici caratteri tipologici e formali.
Nella fattispecie, è al contrario avvenuto che le opere progettate, e poi realizzate, lungi dal limitarsi al restauro dell’esistente e agli adeguamenti strettamente necessari alla realizzazione della destinazione abitativa, hanno comportato:
- la traslazione della tea, a valle, per diversi metri, su una ben differente area di sedime;
- il “riposizionamento” del manufatto su strutture portanti in cemento armato con alterazione delle caratteristiche tipologiche;
- la formazione di un ampio locale interrato;
- la ricostruzione, sempre su sedime diverso da quello originario, di un locale supposto come preesistente, presuntivamente crollato negli anni 70 del secolo scorso.
In ogni caso, si tratta di un insieme sistematico di opere che ha dato luogo ad una «costruzione del tutto nuova, che potrà bensì richiamare, per certi aspetti, i caratteri architettonici della tea preesistente, ma nella quale non sarà identificabile l’edificio sostituito» risultando così ampiamente superato il limite di intervento stabilito dalla prescrizione del Piano delle Regole più volte richiamata.
6. Sulla scorta del criterio ermeneutico in precedenza individuato, ovvero la prevalenza delle norme speciali di Piano, volte a salvaguardare gli edifici di valore storico – architettonico localizzati nel territorio aperto di Livigno, il TAR, in maniera conseguenziale, ha poi ritenuto inoperante, rispetto alle “tee” storiche, anche l’art. 23, comma 8 del Piano delle Regole, in base al quale «In tutto il territorio comunale è anche ammesso il recupero di edifici o di parti di edifici, parzialmente crollati per qualsiasi causa, mediante interventi volti al ripristino filologico di elementi costruttivi eventualmente crollati, o demoliti per cause di sicurezza e/o calamità naturali, purché ne sia possibile accertare la effettiva consistenza attraverso fonti iconografiche, cartografiche, fotografiche o documentarie, e sempre che porzioni strutturali dell’edificio siano ancora esistenti in sito. (...)».
Al riguardo, è infatti insuperabile il rilievo secondo cui «gli interventi di ricostruzione di volumi diruti, anche laddove attuati sullo stesso sedime, sono riconducibili nella nozione di ristrutturazione edilizia. E ciò in base al chiaro disposto dell’articolo 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380 del 2001, come modificato, da ultimo, dall'articolo 30, comma 1, lett. a) del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98».
Per quanto occorrer possa, rileva il Collegio che la norma del PdR ha anche una salda base nel concetto filologico per cui la ricostruzione di un manufatto ormai andato perduto non potrà mai sostituirsi ad esso quale testimonianza della storia e della cultura del luogo poiché, anche nell’ipotesi cui fosse possibile riprodurne esattamente lo sviluppo planovolumetrico e l’aspetto formale, si tratterebbe pur sempre del frutto dell’ingegno contemporaneo e non già di una testimonianza del passato.
Il TAR si è comunque spinto a verificare anche l’eventuale sussistenza dei presupposti richiesti dalla disciplina generale di piano per consentire la ricostruzione di immobili diruti.
La norma di cui all’art. 23, comma 8, delle NTA precisa infatti che gli interventi volti al ripristino filologico di elementi costruttivi eventualmente crollati, o demoliti per cause di sicurezza e/o calamità naturali sono ammessi purché «ne sia possibile accertare la effettiva consistenza attraverso fonti iconografiche, cartografiche, fotografiche o documentarie, e sempre che porzioni strutturali dell’edificio siano ancora esistenti in sito».
Anche in questo caso la normativa vigente nel Comune di Livigno appare, se non pienamente sovrapponibile, in linea con l’attuale formulazione della normativa statale in materia di ristrutturazione edilizia, che vi ricomprende anche gli interventi volti «al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza», con la precisazione che «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente» (art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98).
Alla stregua delle prefate disposizioni, è comunque ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.9.2017).
Le disposizioni testé citate non hanno quindi sottratto al regime del permesso di costruire le opere delle quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione (cfr. Cass. pen., sez. III, sentenza n. 40342 del 3.6.2014).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.3.2016,).
Ed è appunto questo il caso di specie, in cui l’unica vestigia rimasta dell’edificio, supposto come esistente fino agli anni 70 del secolo scorso, non è altro che quello che il TAR ha definito un “esiguo frammento di muro”.
Il Comune appellante, al riguardo, imputa al giudice di prime cure di avere, in modo del tutto generico, disconosciuto il valore del corredo documentale e fotografico prodotto ai fini del rilascio del permesso di costruire.
Pare invece al Collegio che il TAR si sia limitato a rilevare, attraverso l’attento esame di tale documentazione (in particolare della relazione storica asseverata allegata al progetto) il mancato raggiungimento di una prova certa in ordine non solo alla consistenza ma alla stessa esistenza dell’ulteriore volume di cui il Comune appellante ha consentito la “ricostruzione”.
Non è stato quindi il giudice di primo grado ad essere generico nei suoi rilievi quanto i progettisti a formulare le loro ipotesi, giacché l’esistenza dell’edificio diruto è stata inferita esclusivamente:
- da alcune foto storiche panoramiche, riprese a grande distanza, nelle quali è francamente impossibile distinguere il corpo di fabbrica ad un solo piano che, secondo il Comune e i progettisti, si sviluppava “in modo contiguo alla porzione lignea”;
- da un estratto di mappa catastale rispetto al quale, ammesso che la porzione ivi raffigurata e giustapposta alla tea rappresenti un volume chiuso, non è chiaro come sia stato possibile calcolare l’esatto “sviluppo planovolumetrico” dell’edificio supposto come già esistente;
- dall’esistenza di non inequivoci elementi architettonici (quali un porta interna “considerata” di collegamento, i buchi per l’alloggiamento “di eventuali travature” da cui viene supposta “la presente di un tetto a due falde “con eventuale frontespizio” sopra la predetta porta etc..).
E’ dunque evidente che i progettisti hanno potuto formulare solo delle mere ipotesi ma non già effettuare, attraverso fonti attendibili, gli “accertamenti” richiesti dalla norme di piano per la ricostruzione degli edifici, o parti di edifici, parzialmente crollati.
7. I rilievi che precedono assumono carattere assorbente ai fini della reiezione dell’appello, alla quale consegue quindi l’integrale conferma della sentenza impugnata.
Le spese seguono come di regola la soccombenza e si liquidano in dispositivo.