Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-02-16, n. 201200825
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N. 00825/2012REG.PROV.COLL.
N. 00732/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 732 del 2011, proposto da:
Arno Societa' Cooperativa Edilizia, Reno Società Cooperativa Edilizia, S. Ciro Società Cooperativa Edilizia, Irec 812 Società Cooperativa Edilizia, Parmense Soc. Coop. A Rl., in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, rappresentati e difesi dall'avv. R F, con domicilio eletto presso R F in Roma, via G.B. De Rossi N.30;
contro
Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. A P, G T, con domicilio eletto presso E Associati Srl Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;Regione Campania, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'Massimo Lacatena, domiciliata per legge in Roma, via Poli n.29;Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;P Srl, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. Riccardo Marone, con domicilio eletto presso Riccardo Marone in Roma, via Sicilia N. 50;
per la revocazione della sentenza del CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV n. 07622/2010, resa tra le parti, concernente GARA PER CONCESSIONE CONTRIBUTI COSTRUZIONE ALLOGGI ERP - ESPROPRIO AREE
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Napoli della Regione Campania del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e della P Srl;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2012 il Consigliere F T e uditi per le parti gli avvocati G T, Rosanna Panariello in sostituzione di Massimo Lacatena e Riccardo Marone;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con la decisione impugnata per revocazione n. 7622/2010 la Sezione ha respinto – previa riunione dei medesimi- due ricorsi proposti avverso la decisione del Tribunale amministrativo regionale della Campania – Sede di Napoli- n. 3033/2009.
I ricorsi in appello erano stati proposti da Arno Societa' Cooperativa Edilizia, Reno Societa' Cooperativa Edilizia, S.Ciro Societa' Cooperativa Edilizia, Irec 812 Societa' Cooperativa Edilizia, Parmense Soc. Coop a R.L., (recante numero di registro generale 6268 del 2009) e da Concab - Consorzio Cooperative Abitazione S.c.a.r.l. in Liquidazione Coatta Amministrativa (recante numero di registro generale 6392 del 2009).
Con la detta decisione la Sezione, ricostruita sotto il profilo cronologico la complessa vicenda sottesa al contenzioso, ha respinto gli appelli confermando la decisione di primo grado sia laddove questa aveva dichiarato inammissibile il ricorso delle cooperative per difetto di legittimazione ad agire (in relazione alla circostanza che le stesse non avevano mai acquisito l’accampato diritto di superficie sulle aree in controversia e non erano mai subentrate nel rapporto concessorio originariamente intercorrente tra i consorzi e il comune) sia con riferimento al capo di sentenza che aveva dichiarato il ricorso del consorzio Concab inammissibile ( oltre che per difetto di legittimazione anche per difetto di interesse, vista la pratica impossibilità di percepire compensi in relazione a progetti presentati dalle cooperative ma non realizzabili).
In particolare, con la detta decisione n. 7622/2010 è stata respinta la tesi delle appellanti secondo cui era inesatta la statuizione del primo giudice che aveva affermato la intervenuta scadenza, con conseguente perdita di efficacia, del piano di zona che originariamente disciplinava il comprensorio di Ponticelli (e la conseguente perdurante vigenza del piano Ponticelli anche dopo l’approvazione ad opera del Decreto del Presidente della G.R. n. 323 del 2004 della variante urbanistica insistente sulla zona stessa).
Ciò perché il Piano di zona del comprensorio di Ponticelli era stato approvato con D.M. n. 516 del 14 settembre 1968 e dunque aveva perso efficacia ed era scaduto il 14 settembre 1986, non risultando che la Regione l’avesse prorogato su richiesta del comune in applicazione dell’art. 9 della legge n. 167 del 1962 (in virtù del disposto dell’art. 1 della legge n. 247 del 1974 e dell’art. 51 della legge n. 457 del 1978, l’efficacia dei piani di zona di cui alla legge n. 167 del 1962 originariamente fissata in dieci anni era stata portata prima a quindici anni e poi a diciotto anni).
Né la perdurante vigenza del piano in controversia poteva farsi discendere dall’art. 1 bis del decreto legge 22.12. 1984 n. 901, convertito con modificazioni dalla legge 1.3.1985 n. 42 non essendo sufficiente di qualsivoglia, generica attività da parte del concedente o del concessionario per determinare la proroga dell’efficacia del piano di zona.
Lo strumento attuativo in oggetto, secondo la Sezione, aveva quindi perso efficacia in epoca ben precedente alla approvazione della variante urbanistica del 2004.
Neppure poteva indurre a contrarie conclusioni la circostanza che il Consiglio comunale di Napoli con la delibera n. 126 del 2003 – in sede di esame delle osservazioni presentate dalle cooperative nel merito della variante allora adottata –aveva ritenuto diversamente, in quanto la proroga dell’efficacia del piano di zona non poteva considerarsi rimessa alla discrezionalità dell’ente.
Sotto altro profilo, ad avviso della Sezione, neppure poteva essere condivisa la tesi secondo cui le cooperative dovevano ritenersi titolari del diritto di superficie sulle aree dei campi 4, 6 e 7 (dal che sarebbe discesa la loro legittimazione ad impugnare con il ricorso introduttivo il provvedimento di autotutela adottato dal comune).
In disparte la circostanza che sia il comune sia soprattutto la P contestavano che gli espropri cui si riferivano gli appellanti avessero mai avuto luogo (affermando invece che nessuna procedura ablativa fu mai avviata per la realizzazione di quei piani di zona) e che era quindi contestato che la condizione sospensiva si fosse effettivamente avverata con conseguente espansione del diritto di superficie prima condizionato, militava in senso contrario alla tesi appellatoria una ulteriore, dirimente, circostanza.
L’art. 1 della convenzione base n. 25282 prevedeva la costituzione da parte del comune e in capo ai consorzi del diritto di superficie “ora per quando esso ne acquisterà la proprietà per effetto della espropriazione”, risultando quindi chiaramente che “ ben vero la concessione di tale diritto è condizionata all’effettiva emissione dei decreti di espropriazione relativi”.
La acquisizione da parte delle cooperative del diritto di superficie eventualmente ad esse anteriormente ceduto presupponeva l’avverarsi – in chiave bifasica – di una duplice condizione sospensiva: l’espletamento delle espropriazioni ( che rendeva efficace la cessione al concessionario prevista in convenzione) e la realizzazione degli immobili ( che rendeva efficace il sub contratto e quindi intestava il diritto di superficie alle cooperative sue aventi causa).
Anche ad ammettere che le procedure espropriative cui avevano fatto riferimento le appellanti avessero mai avuto corso, il diritto di superficie sulle aree di riferimento non era mai stato efficacemente acquisito dalle cooperative aderenti ai consorzi concessionari.
Confermato il difetto di legittimazione e di interesse delle cooperative restava confermata l’inammissibilità del ricorso del loro consorzio il quale aveva agito allegando un interesse ( quello alla provvigione sugli interventi da realizzare) del tutto dipendente da quello delle associate.
Con la ulteriore impugnativa che viene all’esame del Collegio, le originarie appellanti Arno Societa' Cooperativa Edilizia, Reno Societa' Cooperativa Edilizia, S.Ciro Societa' Cooperativa Edilizia, Irec 812 Societa' Cooperativa Edilizia, Parmense Soc. Coop a R.L., – rimaste soccombenti in appello – hanno chiesto la revocazione della sentenza pronunciata dalla Sezione n. 7622/2010 in quanto asseritamente affetta da errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n.4 del codice di procedura civile.
Esse hanno evidenziato che con il primo motivo dell’appello deciso con la revocanda sentenza avevano sollevato il vizio di nullità della sentenza, ex art. 183 co.4 del codice di procedura civile avendo il Tar posto a sostegno della motivazione di inammissibilità del mezzo di primo grado una circostanza (efficacia del trasferimento del diritto di superficie dai Consorzi alle cooperative in relazione alla pretesa omessa effettuazione delle procedure espropriative) senza che le parti fossero state messe in condizione di controdedurre.
Ciò avrebbe comportato l’annullamento con rinvio al primo giudice della decisione gravata, e da tale omissione di pronuncia sul primo motivo dell’appello da esse proposto (mai citato, non a caso, nella revocanda decisione della Sezione) discendeva la sussistenza del vizio revocatorio (si veda in punto di richieste, pag 19 del ricorso in appello).
Secondariamente, vengono prospettati ulteriori vizi revocatori, (comunque da delibarsi nel corso del - “nuovo”- giudizio di primo grado instaurando) quali la omessa acquisizione del fascicolo d’ufficio, l’omessa considerazione della avvenuta effettuazione di taluni espropri, etc.
Con una articolata memoria la P s.r.l. ha chiesto di dichiarare inammissibile – ovvero comunque di respingere nel merito – l’impugnazione per revocazione proposta sia con riferimento al primo motivo (relativo alla violazione in primo grado, non rilevata in appello, del disposto di cui all’art. 183 del codice di procedura civile) che con riguardo al secondo motivo (relativo alla asserita omessa valutazione di alcuni documenti prodotti in primo grado, ed alla omessa considerazione della circostanza che il Comune aveva eseguito alcuni espropri)
Il primo motivo di revocazione ( riposante nella omessa decisione sul motivo di appello con il quale era stata prospettata la nullità della sentenza di primo grado per violazione del disposto di cui all’art. 183 del codice di procedura civile in quanto aveva deciso e si era pronunciata su una questione non dedotta in giudizio dalle parti) era inammissibile ed infondato.
Ciò perché la sentenza di appello aveva dichiarato la carenza di interesse al ricorso in capo alle cooperative, e detta statuizione aveva portata assorbente rispetto ad ogni altra censura.
La ratio della riscontrata carenza di interesse alla impugnazione risiedeva nella circostanza che alla data del 14 settembre 1986 era decaduto il Piano di Zona Ponticelli, di guisa che nessuna posizione “particolare” assisteva le cooperative impugnati.
Detta statuizione in ordine alla intervenuta decadenza del Piano non era stata censurata, il che implicava anche la inammissibilità della odierna impugnativa.
Quest’ultima, peraltro, anche isolatamente considerata, era infondata: il tema affrontato dal Tribunale amministrativo primo giudice e relativo all’assenza di legittimazione attiva in capo alle cooperative, in carenza di alcun pregresso rapporto concessorio, non integrava una questione rilevata d’ufficio, posto che sia la P s.r.l. che il Comune di Napoli l’avevano rilevato sin dal primo atto di costituzione nel giudizio di primo grado.
Sotto altro profilo, il richiamo al comma 4 dell’art. 183 del codice di procedura civile era incomprensibile, in quanto trattavasi di disposizione che, al più, facultizzava le parti a compiere attività di stimolo processuale ma non onerava il giudice a disporre alcunché.
Il Comune di Napoli ha depositato in data 8 aprile 2011 una articolata memoria chiedendo di dichiarare inammissibile il gravame revocatorio per una pluralità di profili e richiamando le eccezioni prospettate in appello mercè la integrale trascrizione della memoria depositata in detto grado di giudizio.
Si è evidenziato, in primo luogo, la carenza di decisività – già sotto il profilo della formulazione teorica – del gravame.
Ciò perché, la sentenza di primo grado n. 3033/2009 aveva posto a sostegno della statuizione di inammissibilità la “ulteriore circostanza della avvenuta cessazione della efficacia del Piano di zona per la inutile scadenza del termine previsto, e la sovrapposizione alle relative previsioni di nuovi assetti urbanistico-edilizio incompatibili con quelle previsioni medesime disposte con provvedimenti formalmente adottati dal Comune e non tempestivamente contestati dagli interessati.”
E la decisione d’appello censurata in revocazione aveva rilevato che in primo grado era stato evidenziato che il decisum di primo grado conteneva “motivi di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse o acquiescenza individuati in via per così dire concorrente dalla sentenza impugnata”.
Ciò in quanto, “accertata la intervenuta scadenza del piano viene meno la posizione giuridicamente differenziata delle cooperative rispetto ad uno strumento urbanistico ( da esse non tempestivamente gravato nei termini di decadenza) che a ben vedere ne disconosce in radice la qualità privilegiata di soggetti attuatori degli interventi di edilizia popolare originariamente affidati.”.
Posto che tale capo (avente natura autonoma) della decisione di primo grado, confermato in appello, non era stato gravato, ne discendeva la inammissibilità del gravame che, anche laddove accolto in sede rescindente non avrebbe potuto modificare l’esito del giudizio rescissorio
Analoghe valutazioni attingevano la questione relativa all’avvenuto – o meno- espletamento di talune procedure espropriative ad opera del Comune: la sentenza d’appello aveva infatti testualmente affermato che “ anche ad ammettere che le procedure espropriative cui si riferiscono gli appellanti abbiano avuto corso, il diritto di superficie sulle aree di riferimento non è mai stato efficacemente acquisito dalle cooperative aderenti ai consorzi concessionari come chiarito dal T.A.R.”.
Ne conseguiva la ininfluenza dell’eventuale “errore” segnalato, da che discendeva la carenza di interesse alla odierna impugnazione.
Sul riscontrato difetto di legittimazione, era errato affermare che si trattasse di questione rilevata d’ufficio in primo grado (in quanto colta e rilevata dalla P già in primo grado) : in ogni caso alla data del 13 luglio 2010 in cui la causa fu posta in decisione in appello, non vigeva alcun obbligo incombente sul Giudicante di evidenziare alle parti le questioni rilevate ex officio, né l’art. 183 del codice di procedura civile era applicabile al processo amministrativo.
E comunque, se anche il giudice d’appello avesse rilevato che in primo grado s’era effettivamente verificata la “violazione del contraddittorio” ipotizzata nel motivo d’appello non avrebbe potuto annullare la decisione del Tribunale amministrativo come richiesto.
L’appello era stato deciso ponendo a sostegno della decisione elementi che lo stesso Consiglio di Stato aveva definito “assorbenti”: ne conseguiva che, oltre a non essersi verificato alcun errore di fatto, v’era stato un espresso richiamo alla ininfluenza dei motivi non espressamente esaminati a condurre all’emissione di una statuizione di segno diverso da quella resa ed accoglitiva del gravame.
Quanto al secondo motivo revocatorio, la mancanza del fascicolo d’ufficio non poteva condurre alla revocazione della decisione, tanto più che detta mancanza non era stata rilevata né eccepita in appello e che comunque essa non aveva dato causa ad alcun errore rilevante.
Con una ulteriore memoria depositata in data 7 febbraio 2012 in vista dell’odierna udienza pubblica il Comune di Napoli ha ribadito dette considerazioni evidenziando che ulteriore causa di inammissibilità del gravame riposava nella circostanza che il consorzio Concab non aveva proposto domanda di revocazione della sentenza.
Le ricorrenti in revocazione, infatti, non potevano vantare alcun trasferimento del rapporto concessorio in loro favore, né da potere dell’Irec né dal Concab come discendeva dalla in impugnata delibera giuntale n. 5312/1996;né tale trasferimento poteva derivare dalle scritture private autenticate (quella dell’8 aprile 1994 infatti, condizionava il detto trasferimento ad una presa d’atto da parte del Comune di Napoli in realtà mai avvenuta).
Con memoria di replica datata 27 gennaio 2012 parte ricorrente in revocazione ha puntualizzato e ribadito le proprie censure.
Il Concab ha depositato una memoria chiedendo di accogliere il ricorso in revocazione perché fondato.
Alla odierna pubblica udienza del 7 febbraio 2012 la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
1.Il ricorso per revocazione è inammissibile.
1.1. Una pluralità di ragioni milita a supporto della inammissibilità della impugnazione revocatoria proposta.
2. Invero si rammenta in proposito che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che l'errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall'art. 395 n. 4 c.p.c., deve consistere in un “travisamento di fatto costitutivo di “quell'abbaglio dei sensi” che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa.” (ex multis, Consiglio Stato , sez. IV, 07 settembre 2006, n. 5196).
La ratio di tale condivisibile orientamento riposa nella necessità di evitare che detta forma di impugnazione si trasformi (soprattutto, ovviamente, il problema si pone con riferimento alle sentenze pronunciate nell’ultimo grado di giudizio di merito, ovvero, per ciò che attiene ai procedimenti innanzi al giudice ordinario, in sede di legittimità) in una forma di gravame, teoricamente reiterabile più volte, idoneo a condizionare sine die il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale ( ex multis Cassazione civile , sez. I, 19 giugno 2007, n. 14267).
Il rimedio in esame non è pertanto praticabile, allorchè incida su un aspetto della controversia che ha formato oggetto di valutazione giudiziale (tra le tante, Cassazione civile , sez. II, 22 giugno 2007, n. 14608) e men che meno allorchè l’errore segnalato verta nella interpretazione od applicazione di norme giuridiche.
Il Consiglio di Stato ha in passato condiviso pienamente tale orientamento ed ha affermato che “ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., sono soggette a revocazione per errore di fatto le sentenze pronunciate in grado di appello, quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare” (Consiglio Stato , sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3721, Consiglio Stato , sez. VI, 05 giugno 2006, n. 3343, Consiglio Stato , sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2278).
Inoltre, è stato chiarito dalla giurisprudenza che “l'errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione non soltanto deve essere la conseguenza di una falsa percezione delle cose, ma deve avere anche carattere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronuncia impugnata per revocazione. Il giudizio sulla decisività dell'errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione, non inficiata da vizi logici e da errori di diritto.”(Cassazione civile , sez. I, 29 novembre 2006 , n. 25376).
2.1. Più in particolare, e con riferimento allo specifico “vizio” prospettato nel primo motivo del gravame revocatorio si è condivisibilmente affermato, in passato, “che rileva come errore di fatto ex art. 395 n. 4, c.p.c. l'omessa pronuncia su un profilo della controversia devoluta in appello, qualora la ragione di siffatta omissione risulti causalmente riconducibile alla mancata percezione dell'esistenza e del contenuto di atti processuali.”(Consiglio Stato , sez. V, 17 settembre 2009 , n. 5552), con ciò definitivamente superandosi il più restrittivo, pregresso, orientamento, secondo cui
l' omessa pronuncia su censure o motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, pertanto, non è deducibile in sede di revocazione. ( Consiglio Stato , sez. V, 20 ottobre 2004 , n. 6865).
Si è detto poi, che “l'omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte è riconducibile all'errore di fatto idoneo a fondare il giudizio revocatorio ogni qualvolta esso risulti evidente dalla lettura della sentenza e sia chiaro che in nessun modo il giudice abbia preso in esame la censura medesima.”(Consiglio Stato , sez. VI, 04 settembre 2007 , n. 4629 Consiglio Stato , sez. V, 19 marzo 2007 , n. 1300).
Al condivisibile fine di evitare la proposizione di azioni revocatorie certamente inutili, quanto a tale aspetto si è puntualizzato " che il vizio di omessa pronuncia su un vizio deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile.(Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).
Tale condivisibile affermazione, che costituisce jus receptum, integra corollario di quel più ampio principio che privilegia la “decisività” dell’errore, secondo il quale “l'errore di fatto revocatorio (così come per il motivo di revocazione previsto al n. 4 dell'art. 395) deve essere "decisivo", nel senso che se non vi fosse stato la decisione sarebbe stata diversa.”(Consiglio Stato , sez. III, 29 novembre 2010 , n. 4466).
3.Le parti odierne ricorrenti in revocazione hanno tentato di “superare”, tali condivisibili orientamenti, costruendo argutamente l’impugnazione in modo da eludere talune circostanze che paiono al Collegio emergere con chiarezza dalla motivazione della revocanda decisione.
3.1. Ciò perché, nella costruzione del gravame, parte ricorrente appare ben consapevole che i supposti “errori” presi in esame (dei quali in punto di fatto, in verità, si dimostrerà la insussistenza) sono del tutto ininfluenti nell’economia motivazionale della decisione della Sezione.
Essa è pertanto “costretta” a postulare un vizio radicale, che - a suo modo di vedere - imponendo comunque l’annullamento della decisione di primo grado, avrebbe portata preliminare ed insuperabile rispetto alla disamina dell’intero ordito motivazionale della decisione d’appello ( che a quel punto diverrebbe ininfluente).
3.1.1. Senonchè già il caposaldo di partenza della prospettazione impugnatoria risulta non condivisibile.
Invero per comodità espositiva si prescinderà dalla considerazione che il thema decidendi legato alla sussistenza – o meno- del diritto di superficie costituiva precondizione della domanda avanzata dalle originarie ricorrenti in primo grado, di guisa che è quantomeno dubbio che il Tribunale amministrativo abbia deciso “d’ufficio su questione sulla quale avrebbe prima dovuto sollecitare il contraddittorio” (e non abbia piuttosto esaminato un funditus un tema che rientrava nella sua integrale cognizione).
Ed al contempo, si prescinderà dall’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui il “vizio” ex art. 183 comma 4 cpc sollevato in appello non aveva alcuna pratica possibilità di accoglimento, in quanto “la disposizione dell'art. 183 comma 3 c.p.c. - secondo cui «il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari ed indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione» - la cui applicazione al giudizio amministrativo è quantomeno dubbia - non prevede un obbligo del giudice ma gli attribuisce pur sempre una valutazione discrezionale.”(Consiglio Stato , sez. VI, 24 giugno 2006 , n. 4041).
Sarà sufficiente rammentare, invece, che anche aderendo alla tesi che ritiene doveroso che il giudice si conformi al precetto di cui all’art.183 citato (e, di conseguenza, ritiene viziata la sentenza allorchè ciò non sia avvenuto), è radicalmente escluso che siffatta evenienza possa importare l’annullamento della decisione di primo grado con rinvio al primo giudice.
Si è detto in particolare in giurisprudenza, che “il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d'ufficio deve indicarla alle parti, per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio;la violazione di questo principio, però, non consente al giudice d'appello di annullare la decisione restituendo gli atti al giudice di primo grado, ma comporta che il giudice d'appello debba comunque decidere la causa, eventualmente rimettendo in termini le parti per svolgere le difese sulla questione rilevata d'ufficio.” (Consiglio Stato , sez. IV, 14 aprile 2010 , n. 2079).
Un primo punto fermo dal quale si deve muovere, quindi, è quello per cui giammai la Sezione, esaminando la controversia, avrebbe potuto annullare con rinvio la decisione gravata.
Se così è appare evidente che la decisività della impugnazione dovrà essere valutata tenendo presente la motivazione della sentenza d’appello perché non ricorreva una evenienza che avrebbe dovuto comportare l’immediato (e preliminare) annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al primo giudice come ancora con l’odierna impugnazione ha richiesto la ricorrente in revocazione.
3.2. E, proseguendo nella disamina della censura, rileva il Collegio che dalla motivazione della decisione della Sezione n. 7622/2010 emerge con assoluta chiarezza che la circostanza dell’avvenuta – o meno – esecuzione delle procedure espropriative e della incidenza di tale accadimento sul diritto di superficie “attenzionata” dalla appellante difesa ed in ordine alla quale si chiese la declaratoria di nullità della decisione di primo grado fosse soltanto una delle questioni che hanno condotto al rigetto della impugnazione in appello (e, quel che è bene tenere presente alla luce di ciò che si chiarirà nel prosieguo della decisione, anche in primo grado).
3.1.1. La impugnata sentenza 7622/2010, infatti, già nell’incipit della parte in fatto, sintetizzando la motivazione della sentenza del Tribunale amministrativo, da’ atto della circostanza che “a sostegno del decisum il Tribunale ha poi in via concorrente osservato per un verso che il piano di zona del quale i progetti delle cooperative pretendono di costituire applicazione ha perso la sua efficacia;per l’altro che la disciplina urbanistica applicabile alla zona di Ponticelli è ormai completamente modificata a seguito della approvazione di una variante mai impugnata dai soggetti ricorrenti.”.
Ciò costituirebbe già un primo elemento per ritenere che, al di là della esplicita presa di posizione sulla censura sollevata in appello ed asseritamente pretermessa dalla Sezione, il Collegio a quo si era orientato per la ininfluenza della doglianza.
Si rammenta peraltro che per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
“se è vero che il giudice, se intende rilevare d'ufficio una questione, deve suscitare il contraddittorio delle parti, tuttavia è anche vero che siffatta omissione non si traduce in un vizio della sentenza che ne determina l'annullamento. Invero, l'art. 183 c.p.c. non prevede un obbligo del giudice di segnalare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio, ma gli attribuisce pur sempre una valutazione discrezionale, Allo stesso è, infatti, consentito non indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio qualora non ne ritenga opportuna la trattazione. In ogni caso, se le valutazioni compiute dal giudice sulla questione rilevabile d'ufficio si rivelano corrette, diventa ininfluente e non è viziante la circostanza che le parti non sono state sentite sul punto.”(Consiglio Stato , sez. VI, 23 marzo 2009 , n. 1712).
Costituisce approdo incontestato anche da parte delle ricorrenti in revocazione che (come si constata dalla motivazione esternata dalla Sezione in sede di decisione dell’appello) già il giudice di primo grado aveva ravvisato elementi concorrenti atti ad impedire l’accoglimento del ricorso di primo grado, di guisa che la eventuale omissione della indicazione della “questione rilevata d’ufficio” non avrebbe spiegato effetto viziante neppure con riferimento alla decisione del Tribunale amministrativo. A questo punto non si vede perché il giudice d’appello avrebbe dovuto esaminarla espressamente, e in ogni caso, non ne sarebbe giammai potuto discendere l’effetto di annullamento con rinvio insistentemente preteso dagli odierni impugnanti.
3.1.2. Ma v’è di più.
La sentenza censurata in revocazione ha immediatamente rimarcato che “chiaramente infondati sono in primo luogo i motivi mediante i quali gli appellanti, ed in particolare le cooperative, contestano quanto statuito nella sentenza impugnata in ordine alla intervenuta scadenza, con conseguente perdita di efficacia, del piano di zona che originariamente disciplinava il comprensorio di Ponticelli.
Infondati, di conseguenza, sono i motivi mediante i quali gli appellanti deducono la perdurante vigenza del piano Ponticelli anche dopo l’approvazione ad opera del Decreto del Presidente della G.R. n. 323 del 2004 della variante urbanistica insistente sulla zona stessa. ”, facendo da ciò discendere che “come esattamente indicato nella sentenza impugnata e come sostenuto sia dal comune di Napoli che dalla società P, deve concludersi che lo strumento attuativo di cui si discute ha perso efficacia in epoca ben precedente alla approvazione della variante urbanistica del 2004” e che ” Quindi i motivi di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse o acquiescenza individuati in via per così dire concorrente dalla sentenza impugnata resistono alle critiche svolte dagli appellanti.”.
Tale troncante affermazione, già idonea isolatamente considerata a pervenire al rigetto delle impugnazioni proposte ed alla conseguente conferma dell’impugnata decisione è stata poi doppiata da una ulteriore, riposante nella considerazione che “la acquisizione da parte delle cooperative del diritto di superficie eventualmente ad esse anteriormente ceduto presuppone l’avverarsi – in chiave bifasica – di una duplice condizione sospensiva: l’espletamento delle espropriazioni ( che rende efficace la cessione al concessionario prevista in convenzione) e la realizzazione degli immobili ( che rende efficace il sub contratto e quindi intesta il diritto di superficie alle cooperative sue aventi causa).”, il che ha portato la Sezione a rilevare che “concludendo sul punto, anche ad ammettere che le procedure espropriative cui si riferiscono gli appellanti abbiano avuto corso, il diritto di superficie sulle aree di riferimento non è mai stato efficacemente acquisito dalle cooperative aderenti ai consorzi concessionari come chiarito dal T.A.R..”.
3.3. Tirando le fila della esposizione sinora svolta è possibile rilevare in sintesi quanto segue:
a) la censura prospettata in appello ed asseritamente non valutata dalla Sezione nella revocanda decisione attingeva un tema che né per la sentenza di primo grado (che individua motivi “concorrenti” di reiezione), né, soprattutto, per il giudice d’appello aveva rilievo decisivo;
b)essa (che comunque non integrava vizio caducatorio della sentenza di primo grado: arg ex Consiglio Stato , sez. VI, 23 marzo 2009 , n. 1712) anche laddove espressamente esaminata ed in via ipotetica accolta nel senso che in primo grado si fosse effettivamente verificata una omissione ex art. 183 comma 4 cpc, non avrebbe mai potuto comportare la retrogradazione del processo al primo grado, non ricorrendo, per unanime giurisprudenza una ipotesi riconducibile al paradigma normativo di cui all’art. 35 della legge 1034/1971 (arg. ex Consiglio Stato , sez. IV, 14 aprile 2010 , n. 2079).
c) dalla complessiva disamina della motivazione della revocanda decisione, emerge che comunque la Sezione nella decisione n. 7622/2010 ebbe a valutare la tematica devoluta nel citato motivo d’appello, e anche senza chiarire specificamente perché non avrebbe potuto procedere (come richiestosi in appello) all’annullamento con rinvio della impugnata decisione del Tar ha fatto presente che sia in quest’ultima decisione, che secondo la stessa motivazione della decisione d’appello, se anche si fossero verificati gli espropri la decisione non avrebbe potuto essere di segno diverso.
Di più: per comodità espositiva ha dato per avvenuta detta evenienza ed ha chiarito perché essa era ininfluente.
In armonia con l’orientamento giurisprudenziale per cui la ricorrenza del vizio ex art. 112 cpc deve essere valutata alla stregua dell’intero tessuto motivazionale, il Collegio ritiene che nessuna omissione di pronuncia può riscontrarsi nella revocanda decisione, ma che essa, sia pure sinteticamente, abbia dato partita risposta al motivo di censura chiarendo che la questione dedotta non era decisiva né per il Tar (che conseguentemente poteva non effettuare l’incombente ex art. 183 cpc) né per lo stesso giudice d’appello (che comunque anche ove condiviso il motivo non avrebbe certo potuto annullare con rinvio la sentenza) e di conseguenza la censura sia inammissibile in quanto non decisiva.
4. Quanto al secondo motivo di censura, esso è prospettato avendo qual punto di riferimento la omessa acquisizione del fascicolo d’ufficio in appello, e, soprattutto, non indica mai quale sarebbe il supposto errore di fatto da ciò discendente.
Escluso che la semplice omessa acquisizione del fascicolo di primo grado possa comportare la revocazione della decisione d’appello (cfr: “l'art. 23 ultimo comma l. 6 dicembre 1971 n. 1034, come modificato dall'art. 1 l. 21 luglio 2000 n. 205, nel prevedere che "Entro trenta giorni dalla data dell'iscrizione a ruolo del procedimento di appello avverso la sentenza la segreteria comunica al giudice di primo grado l'avvenuta interposizione di appello e richiede la trasmissione del fascicolo di primo grado", detta una regola procedurale la cui eventuale violazione di per sè non concreta l'errore di fatto e non è dunque rimediabile mediante revocazione per il motivo di cui all'art. 395 n. 4 c.p.c. -nella specie invocato avverso una decisione emessa, mancando la previa acquisizione del fascicolo di primo grado-. “ Consiglio Stato , sez. IV, 23 novembre 2002 , n. 6459) le censure ivi esposte costituiscono riproposizione delle doglianze già prese in esame (e respinte) dalla Sezione.
Si afferma ivi che erroneamente nella sentenza di appello revocanda si è attribuito al Comune una “posizione di radicale contestazione degli espropri nei campi 4 e 6 di Ponticelli” (mentre invece il comune non aveva mai negato dette procedure) ed la stessa P si era limitata a dedurre che i suoli del campo 7 non erano mai stati espropriati e di non meglio precisata documentazione che avrebbe consentito di dedurre che prima della scadenza del termine di efficacia del piano di zona (1986) erano intervenuti gli atti di cessione volontaria.
Alla luce degli ampi stralci della revocanda sentenza prima espressamente ritrascritti nella presente decisione è evidente che trattasi di riproposizione di motivi di censura già vagliati ed esaminati dalla Sezione;che non è chiarito quale sarebbe l’errore “di fatto” o la omissione cui è incorsa la Sezione e che, pertanto, anche il secondo motivo è inammissibile.
5.Le spese processuali seguono la soccombenza, e pertanto le odierne ricorrenti in revocazione devono essere condannate in solido al pagamento delle medesime in favore dell’appellata amministrazione comunale di Napoli e della P SRL, in misura che appare equo quantificare in Euro cinquemila (€ 5000,00) complessivi (Euro 2500 in favore di ciascuna) oltre accessori di legge, se dovuti, mentre vanno compensate per il resto.