Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-09-23, n. 201906321
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Pubblicato il 23/09/2019
N. 06321/2019REG.PROV.COLL.
N. 02039/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sull’appello n. 2039 del 2015, proposto dal signor P D, rappresentato e difeso dall'avvocato C D, domiciliato presso la Segreteria della Quarta Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n. 13;
contro
Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro
pro tempore
, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato
ex lege
in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 7793/2014, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 settembre 2019 il pres. L M;
Nessuno presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso di primo grado n. 9583 del 2013 (proposto al TAR per il Lazio, Sede di Roma), l’appellante ha chiesto che sia ordinato al Ministero della giustizia di dare esecuzione alla sentenza della Corte di Cassazione n. 23757 del 2007, resa in applicazione della legge n. 89 del 2001.
2. Con la sentenza n. 7793 del 2014, il TAR ha accolto la domanda principale, ha disposto le misure attuative del giudicato ed ha condannato l’Amministrazione al pagamento di una penalità di mora, ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera e) del c.p.a., condannando l’Amministrazione alle spese del giudizio, quantificate in euro 250.
Al riguardo, il TAR ha deciso nel senso che “ la Sezione ha già da tempo stabilito in relazione alla previsione di cui alla lett. e) del comma 4 dell’art. 114 c.p.a.:
a) che rispetto all’inadempimento dell’obbligazione di pagare una somma di denaro portato da titolo esecutivo giudiziale e in vista dell’applicazione dell’istituto di cui si discute, è concedibile all’amministrazione un termine di “tolleranza” di 6 mesi (art. 14, d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito dalla l. 28 febbraio 1997, n. 30, nella formulazione risultante dalle modifiche e integrazioni derivanti dall’art. 147 della l. 23 dicembre 2000, n. 388 e dal comma 3 dell'art. 44, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla l. 24 novembre 2003, n. 326), la cui decorrenza va individuata con riferimento alla data in cui il titolo giudiziale recante la condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di indennizzo, munito della prescritta formula esecutiva, è stato notificato nei confronti dell’amministrazione soccombente;
b) che, scaduto tale semestre, nulla osta, anche in carenza di attualità di disponibilità di risorse finanziarie sul pertinente capitolo, alla condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno da ritardo in favore del creditore;
c) che la quantificazione del pregiudizio risarcibile può essere in via generale effettuata prendendo a fondamento il parametro, individuato dalla CEDU, dell’“interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali”;
d) che, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., non è ininfluente nella considerazione della misura del risarcimento la tempestiva attivazione da parte del creditore del rimedio dell’ottemperanza;
e) che, sussistendo positivamente le condizioni di cui alle lett. b) e d), detta misura – e, quindi, il tasso sopra individuato, da applicare sulla sorte capitale dovuta a titolo indennitario – dovrà essere indi corrisposta a titolo di risarcimento del danno da ritardo, a carico dell’amministrazione, a far tempo dalla notificazione del titolo giudiziario in forma esecutiva e fino all’effettivo soddisfacimento del credito.
Applicando tali coordinate al caso di specie, il Collegio ravvisa la sussistenza delle condizioni per condannare il Ministero della giustizia, nella persona del Ministro p.t., al risarcimento del danno da ritardo in favore della parte ricorrente, che – alla stregua di quanto precedentemente osservato – andrà quantificato dalla stessa amministrazione con riferimento ai parametri di determinazione appena indicati ”.
Il TAR ha respinto ‘ la domanda di condanna dell’amministrazione al pagamento del danno da violazione prolungata di diritti fondamentali della persona, sia perché generica sia in quanto costituente un duplicato della domanda già favorevolmente delibata dalla statuizione posta in esecuzione e di quella avanzata nell’odierno gravame ’, ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera e).
3. Con il primo motivo dell’appello in esame, l’appellante ha dedotto che il TAR – pur avendo dichiarato improcedibile la domanda principale di esecuzione, in ragione del pagamento del dovuto - dovuto disporre la condanna dell’Amministrazione anche al pagamento di mille euro per ogni anno di ritardo, a partire dal sesto mese successivo al deposito del decreto della Corte d’appello che riconosceva l’avvenuta violazione dell’art. 6 § 1 della Cedu.
L’appellante ha richiamato la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sulla conseguenza della eccessiva durata delle procedure, nonché gli articoli 17, 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, ed ha lamentato che il TAR ha addossato al privato le conseguenze dannose dell’ulteriore ritardo con cui lo Stato adempia ai suoi obblighi.
4. Ritiene il Collegio che le censure così sintetizzate risultano ad un tempo inammissibili ed infondate.
4.1. Quanto alla loro inammissibilità, va rilevato che il TAR non ha dichiarato improcedibile il ricorso, bensì lo ha accolto, sicché la doglianza formulata non si attaglia al caso di specie.
4.2. Peraltro, anche non attribuendo rilievo a tale errore materiale, osserva il Collegio che il TAR ha specificamente motivato il rigetto della domanda riproposta in questa sede, constatando come in sostanza vi sia stato ‘un duplicato della domanda’ basata sull’art. 114, comma 4, lettera e), sulla penalità di mora.
Avverso tale specifica statuizione, non risulta proposta alcuna censura.
4.3. Peraltro, ad avviso del Collegio effettivamente la domanda proposta in primo grado e riproposta in questa sede consiste in una sostanziale duplicazione di quanto è stato chiesto ed ottenuto dal TAR, a titolo di penalità di mora.
4.4. Inoltre, risultano infondati i richiami alle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il danno cagionato dal ritardo nell’inadempimento comporta la corresponsione degli interessi legali salva la dimostrazione da parte del creditore di avere subito un danno maggiore: e non vi è stata alcuna prova al riguardo.
Il ritardo in sé della esecuzione del giudicato dà luogo all’esperibilità dei rimedi previsti dall’ordinamento nazionale, e dunque di quelli previsti dal codice del processo amministrativo, mentre ulteriori pretese risarcitorie non attengono all’oggetto del giudizio d’ottemperanza (concernente esclusivamente la domanda di esecuzione coattiva del giudicato) e in presenza dei relativi presupposti possono essere fatti valere in altra sede.
5. Col secondo motivo, è dedotta la violazione dell’art. 91 del c.p.c., nonché del decreto ministeriale n. 55 del 2014.
L’appellante ha rilevato che vi è stata la integrale soccombenza dell’Amministrazione e che il TAR ha liquidato complessivi euro 250 a titolo di spese (da considerare un importo estremamente esiguo, inferiore anche a quello desumibile dalla applicazione dei criteri previsti dal punto 21 della tabella allegata al decreto ministeriale) ed ha chiesto la liquidazione di un importo maggiore.
6. Ritiene il Collegio che tale motivo risulta in parte fondato.
6.1. Per la pacifica giurisprudenza, il TAR ha ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8), con il solo limite, in pratica, che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi (per tutte, Consiglio Stato, Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 4936;Sez. III, 9 novembre 2016, 4655;Sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5012;Sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 891;Sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4471;Sez. IV, 27 settembre 1993, n. 798).
Anche in considerazione dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 77 del 2018, il giudice ben può tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, tra cui possono avere rilievo la natura del credito insoddisfatto (ad esempio, la sua natura alimentare), la durata dell’inadempimento, la ricerca di soluzioni extragiudiziarie per evitare la pendenza del contenzioso, la mancata esecuzione di precedenti sentenze già rese in sede di esecuzione, le questioni di carattere organizzativo quando si tratti di giudizi sostanzialmente di carattere seriale, l’esistenza di un diffuso contenzioso in materia, l’assenza delle risorse nell’attuale congiuntura economica e la difficoltà di disporre tempestivamente delle risorse necessarie per disporre i pagamenti.
Il TAR può dunque anche tener conto del fatto che sia stata chiesta l’ottemperanza ad un giudicato basato sulla violazione della legge n. 89 del 2001, che notoriamente ha comportato l’insorgenza di un notevole contenzioso basato su ricorsi che per la loro semplicità possono essere presentati sulla base di schemi precostituiti, anche in assenza di particolari considerazioni di carattere giuridico.
Il TAR – nel caso di accoglimento di un tale ricorso d’ottemperanza - può dunque compensare le spese del giudizio, con una valutazione insindacabile in sede d’appello, che di per sé non incide sul diritto alla effettività della tutela giurisdizionale (poiché le regole sulla statuizione sulle spese coesiste con le altre regole, miranti alla effettività della tutela) e neppure incide sulla dignità e sul decoro della professione forense: la decisione sulle spese non comporta di per sé una valutazione sull’operato del difensore o sulla qualità dei suoi scritti e attiene esclusivamente agli aspetti processuali sopra indicati.
Al riguardo, la sentenza di accoglimento del ricorso comporta comunque l’obbligo del soccombente di rimborsare alla parte vincitrice quanto effettivamente versato a titolo di contributo unificato, pur se tale obbligo non è esplicitato nella sentenza.
6.2. Tuttavia, qualora il TAR abbia disposto la condanna al pagamento delle spese, si deve tenere conto del decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55 (‘Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247’).
Ai fini della liquidazione del compenso si tiene anche conto «delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate» (art. 4, comma 1).
6.3. Tenuto conto di tale normativa, ritiene il Collegio che vada riformata la statuizione del TAR.
Nel caso di specie la liquidazione in primo grado delle spese di lite risulta manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale.
Pertanto, in considerazione dell’attività professionale svolta – di non particolare complessità - e di tutti i criteri sopra esposti, il capo di sentenza impugnato va riformato e, conseguentemente, l’Amministrazione deve essere condannata alle spese del primo grado del giudizio nella misura complessiva di 500 euro (in luogo dei già liquidati euro 250), oltre agli accessori di legge.
7. Per le ragioni che precedono, il primo motivo d’appello va respinto e il secondo motivo va in parte accolto, sicché, in parziale riforma della sentenza appellata, il Ministero va condannato al pagamento di complessivi euro 500 per spese del primo grado, oltre agli accessori di legge, con distrazione al procuratore antistatario.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del secondo grado del giudizio.