Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2015-09-24, n. 201504487

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2015-09-24, n. 201504487
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201504487
Data del deposito : 24 settembre 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 03035/2012 REG.RIC.

N. 04487/2015REG.PROV.COLL.

N. 03035/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3035 del 2012, proposto da:
Società Eneco Trade s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati M B, S V e G B C, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via E.Q.Visconti, 99;

contro

Autorità garante per l’energia elettrica ed il gas, in persona del Presidente pro tempore , rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata presso gli uffici di quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Gestore dei servizi energetici-Gse s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Malinconico, Filippo Pacciani e Paolo Marzano, con domicilio eletto presso Assoc. Legance Studio Legale in Roma, via San Nicola Da Tolentino, 67;
Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza 17 gennaio 2012, n. 147 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Milano, Sezione III.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 19 maggio 2015 il Cons. V L e uditi per le parti gli avvocati Tonoletti, per delega dell’avvocato Bucello, Viola, Malinconico, Pacciani e l’avvocato dello Stato Pio Marrone.


FATTO e DIRITTO

1.– Eneco Trade s.p.a. (d’ora innanzi anche solo Eneco) è una società che svolge attività di commercializzazione dell’energia elettrica.

Nell’ambito di tale attività di commercializzazione, la società importa, per poi rivenderla sul mercato nazionale, energia elettrica prodotta in Paesi esteri.

In particolare, Eneco Trade s.p.a. ha importato, nell’anno 2005, energia elettrica prodotta in Svizzera, Francia e Slovenia e, ritenendo che tale energia fosse idonea a determinare l’esenzione dall’obbligo di acquisto dei certificati verdi (in quanto asseritamente prodotta con l’utilizzo di fonti rinnovabili), ha inviato la relativa istanza corredata da apposita autocertificazione al Gestore dei servizi elettrici italiano (GSE s.p.a.) - società pubblica che si occupa dello sviluppo del settore delle fonti rinnovabili ed assimilate.

Il GSE, con nota del 20 aprile 2007, ha respinto l’istanza, rilevando che non poteva riconoscersi la provenienza da fonte rinnovabile di tale energia ed ha quindi comunicato alla società stessa la sussistenza dell’obbligo di acquisto di 386 certificati verdi.

Non avendo Eneco Trade s.p.a. ottemperato a tale prescrizione, l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas (d’ora innanzi anche AEEG o Autorità) ha adottato la deliberazione del 10 gennaio 2011 – VIS 2/11, con cui è stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria pari ad euro 1.936.600.

2.– La società ha impugnato il provvedimento dell’Autorità innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, per i motivi riproposti in sede di appello e riportati nei successivi punti.

3.– Il Tribunale, con sentenza 17 gennaio 2012, n. 147, ha accolto soltanto i motivi con cui si contestava l’applicazione della sanzione anche in relazione alla energia elettrica importata dalla Francia. Ha rigettato gli altri motivi. La sanzione è stata rideterminata in euro 1.678.752,00.

4.– La ricorrente in primo grado ha proposto appello.

4.1.– Si sono costituite le amministrazioni e i soggetti intimati. Il GSE ha proposto appello incidentale.

4.2.– La Sezione, con sentenza non definitiva 26 giugno 2013, n. 3511, ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ponendo questioni il cui contenuto verrà esaminato al punto 10.1.1.

5.– La causa è stata decisa all’esito delle camere di consiglio del 19 maggio e del 16 giugno 2015.

6.– L’appello è in parte infondato e in parte fondato.

7.– Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto illegittimo l’atto impugnato perché adottato da un Collegio dell’Autorità per il quale era scaduto il periodo settennale di mandato. Tale atto, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, non potrebbe ritenersi di ordinaria amministrazione, in quanto l’attività di accertamento dell’illecito non potrebbe considerarsi di natura vincolata così come la fase di determinazione dell’entità della sanzione sarebbe comunque espressione di discrezionalità amministrativa.

7.1.– Il motivo non è fondato.

L’istituto della prorogatio degli organi scaduti, derogando al principio della durata certa e circoscritta degli organi amministrativi, si giustifica nella misura in cui tende ad assicurare la continuità dell’azione amministrativa (Corte cost., sentenza 4 maggio 1992, n. 208).

Il decreto-legge 16 maggio 1994, n. 293 (Disciplina della proroga degli organi amministrativi), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 1994, n. 444, ha previsto, quale durata massima della prorogatio , il termine di quarantacinque giorni, stabilendo che, in questo periodo, possono essere adottati esclusivamente atti di ordinaria amministrazione (art. 3).

Questa norma, pur non potendosi applicare nel caso in esame venendo in rilievo organi «per i quali la nomina dei componenti è di competenza parlamentare» (art. 1, ultimo comma, del citato decreto), è, nella parte in cui pone chiari limiti allo svolgimento dell’attività degli organi prorogati, espressione di un principio generale strettamente connesso alla natura e alla funzione dell’istituto. Tale limite è, pertanto, applicabile anche nella fattispecie in esame.

Si tratta, pertanto, di stabilire se l’irrogazione di una sanzione amministrativa da parte di un organo scaduto possa ritenersi compatibile con i suddetti limiti.

La Sezione ritiene che l’applicazione di sanzioni rientri nell’ambito dell’ordinaria amministrazione. Si tratta, infatti, di una attività che si sostanzia nella reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto (si veda punto 10.1.2.). La natura della funzione stessa impone, pertanto, di ritenere che il suo esercizio rientri nell’ambito dei compiti fisiologici per il funzionamento dell’ente. In questa prospettiva, si rileva che una delle ragioni che giustifica proprio l’istituto della proroga è quella di evitare che vi siano “vuoti” amministrativi idonei ad incidere sulla complessiva organizzazione pubblica, consentendo la “libera” violazione dei precetti.

8.– Con un secondo motivo, si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittimo l’atto impugnato per tardività della relativa contestazione.

8.1.– Il motivo non è fondato.

L’art. 14, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale) dispone che «se non è avvenuta la contestazione immediata (…) gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni».

Questa Sezione ha già avuto modo di affermare che «l’arco di tempo entro il quale l’Autorità deve provvedere alla notifica della contestazione, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689 del 1981 (invero richiamata di solito per la disciplina della sanzione pecuniaria e non già per l’istruttoria del procedimento) è collegato non già alla data di commissione della violazione, ma al tempo di accertamento dell’infrazione, da intendersi in una prospettiva teleologicamente orientata e quindi non già alla notizia del fatto sanzionabile nella sua materialità, ma all’acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita, implicante il riscontro della esistenza e della consistenza della infrazione e dei suoi effetti». Pertanto, «i limiti temporali ai quali l’Autorità era tenuta e doveva provvedere alla notifica della contestazione erano collegati al presupposto della effettiva e completa conclusione delle attività di accertamento». Ne consegue che il fatto che l’Autorità «deliberi l’avvio della istruttoria a distanza di vari mesi dalla segnalazione della possibile infrazione non può in alcun modo essere considerato come una violazione dei diritti delle imprese coinvolte, né un superamento dei termini procedimentali, in quanto la stessa valutazione della esigenza di avviare o meno l’istruttoria può presentarsi complessa». L’invocato termine di novanta giorni previsto dal comma 2 dell’art. 14 della legge n.689 del 1981 «inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta – o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie – l’attività amministrativa intesa a verificare la esistenza dell’infrazione, comprensiva delle indagini intese a riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi dell’infrazione stessa» (in questi termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 22 luglio 2014, n. 3896).

Nella fattispecie in esame, risulta che: il GSE ha segnalato, con nota del 28 settembre 2008, il mancato adempimento all’obbligo di acquisto di certificati verdi all’Autorità;
con note del 31 ottobre e 18 dicembre 2007, l’Autorità ha chiesto chiarimenti al GSE;
quest’ultimo ha fornito i chiarimenti con nota del 7 febbraio 2008;
la contestazione dell’illecito è stata effettuata con deliberazione del 17 marzo 2008, n. 30, pubblicata sul sito dell’Autorità in data 23 aprile 2008.

L’analisi della scansione temporale delle attività poste in essere dall’Autorità dimostra che dalla piena conoscenza della condotta illecita (7 luglio 2008) alla contestazione (17 marzo/23 aprile 2008) è trascorso un periodo di tempo inferiore al limite massimo dei novanta giorni previsto dall’art. 24 della legge n. 689 del 1981.

10.– Con un terzo motivo si deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto sussistente la violazione per mancanza dell’accordo dello Stato italiano con la Svizzera, richiesto dall’art. 20 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità). Nel caso in esame, essendo l’importazione avvenuta nel 2005, si assume che troverebbe applicazione l’art. 3, comma 1- bis , del decreto ministeriale 11 novembre 1999, il quale, ai fini dell’esenzione dall’obbligo di pagamento, riteneva sufficiente la dichiarazione dell’operatore estero dalla quale risultino la quantità di elettricità venduta e i dati identificativi degli impianti di produzione. La circostanza che l’Autorità abbia applicato una normativa diversa e successiva avrebbe comportato la violazione del principio di legalità che presiede all’applicazione delle sanzioni amministrative e che impedirebbe l’applicazione retroattiva delle pene, nonché del principio del legittimo affidamento dell’operatore economico. Si assume, inoltre, che mancherebbe il requisito soggettivo e che in ogni caso sussisterebbero gli estremi dell’esimente della buona fede.

10.1.– Il motivo è in parte fondato e in parte infondato.

L’analisi della doglianza impone di: i ) ricostruire il quadro normativo rilevante alla luce anche della giurisprudenza europea; ii ) stabilire la natura del potere esercitato dall’Autorità; iii ) valutare le conseguenze che l’applicazione corretta di detta normativa comporta in ordine al giudizio di validità del provvedimento impugnato.

10.1.1.– Sul piano normativo, l’art. 11 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica) ha disposto quanto segue:

- «al fine di incentivare l’uso delle energie rinnovabili, il risparmio energetico, la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e l’utilizzo delle risorse energetiche nazionali, a decorrere dall’anno 2001 gli importatori e i soggetti responsabili degli impianti che, in ciascun anno, importano o producono energia elettrica da fonti non rinnovabili hanno l’obbligo di immettere nel sistema elettrico nazionale, nell’anno successivo, una quota prodotta da impianti da fonti rinnovabili entrati in esercizio o ripotenziati, limitatamente alla producibilità aggiuntiva, in data successiva a quella di entrata in vigore del presente decreto» (comma 1);

- «gli stessi soggetti possono adempiere al suddetto obbligo anche acquistando, in tutto o in parte, l’equivalente quota o i relativi diritti da altri produttori, purché immettano l'energia da fonti rinnovabili nel sistema elettrico nazionale, o dal gestore della rete di trasmissione nazionale» (comma 3);

- «con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, di concerto con il Ministro dell'ambiente, sono adottate le direttive» per l’attuazione, tra l’altro, di quanto disposto dal comma 1 (comma 5).

L’art. 2, comma 147, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria 2008), vigente ratione temporis , ha previsto che, ai fini della commercializzazione delle quote, il GSE rilascia ai produttori di energia elettrica che si avvalgono di impianti alimentati da fonti rinnovabili «certificati verdi».

L’art. 3, comma 1- bis , del decreto ministeriale 11 novembre 1999, nel dettare le direttive di cui al suddetto comma 5 dell’art. 11 del d.lgs. n. 79 del 1999, ha stabilito che la richiesta di esenzione dall’obbligo di acquisto di energia rinnovabile è «inoltrata al gestore della rete entro i medesimi tempi di cui al comma 1, ed è corredata dai seguenti documenti: a) dichiarazione dell’operatore estero dalla quale risultino la quantità di elettricità venduta e i dati identificativi degli impianti di produzione;
b) dichiarazione, rilasciata dal gestore della rete del Paese ove è ubicato l'impianto di produzione, che attesti la provenienza da fonte rinnovabile dell’energia elettrica prodotta e che riporti i dati identificativi degli impianti di produzione».

L’art. 4, comma 6, dello stesso decreto ha previsto, quale rimedio alternativo a quello previsto dall’articolo precedente in grado di consentire l’esenzione dall’obbligo di acquisto di certificati verdi, l’importazione, in tutto o in parte, di «elettricità prodotta da impianti entrati in esercizio successivamente al 1° aprile 1999, alimentati da fonti rinnovabili, purché tali impianti siano ubicati in Paesi esteri che adottino analoghi strumenti di promozione ed incentivazione delle fonti rinnovabili, basati su meccanismi di mercato che riconoscano la stessa possibilità ad impianti ubicati in Italia». In tale caso, specifica la norma, la relativa domanda «è presentata dal soggetto obbligato, unitamente al contratto di acquisto dell'energia prodotta dall'impianto ed a titolo valido per l'immissione della stessa nel sistema elettrico nazionale» e deve essere certificata «dall’autorità designata ai sensi dell' art. 20, comma 3, della direttiva 96/92/CE nel paese in cui è ubicato l’impianto».

L’art. 20 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità) ha previsto, nei testi vigenti ratione temporis , che:

- «i soggetti che importano energia elettrica da Stati membri dell'Unione europea, sottoposti all’obbligo di cui all' articolo 11 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, possono richiedere al Gestore della rete, relativamente alla quota di elettricità importata prodotta da fonti rinnovabili, l’esenzione dal medesimo obbligo. La richiesta è corredata almeno da copia conforme della garanzia di origine rilasciata, ai sensi dell' articolo 5 della direttiva 2001/77/CE, nel Paese ove è ubicato l’impianto di produzione. In caso di importazione di elettricità da Paesi terzi, l'esenzione dal medesimo obbligo, relativamente alla quota di elettricità importata prodotta da fonti rinnovabili, è subordinata alla stipula di un accordo tra il Ministero delle attività produttive e il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e i competenti Ministeri dello Stato estero da cui l'elettricità viene importata , che prevede che l'elettricità importata prodotta da fonti rinnovabili è garantita come tale con le medesime modalità di cui all’articolo 5 della direttiva 2001/77/CE» (comma 3, abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 2012, dalla lettera a) del comma 11 dell’ art. 25, d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28;
corsivi aggiunti).

- «Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con decreto del Ministro delle attività produttive di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sono aggiornate le direttive di cui all' articolo 11, comma 5, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79» (comma 8).

La Corte di giustizia, sez. IV, con sentenza 26 novembre 2014 n. C-66/13, in relazione alla questione pregiudiziale sollevata da questa Sezione con sentenza n. 3511 del 2012, ha stabilito che: «Il Trattato CE dev’essere interpretato nel senso che, tenuto conto delle disposizioni della direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la Comunità europea dispone di una competenza esterna esclusiva che osta ad una disposizione nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che prevede la concessione di un’esenzione dall’obbligo di acquistare certificati verdi a motivo dell’immissione, nel mercato nazionale del consumo, di energia elettrica importata da uno Stato terzo, mediante la previa conclusione, tra lo Stato membro e lo Stato terzo interessati, di un accordo in forza del quale si garantisce che l’energia elettrica così importata è prodotta da fonti energetiche rinnovabili, secondo modalità identiche a quelle previste dall’articolo 5 di tale direttiva».

La stessa Corte, ha aggiunto, esaminando il secondo quesito posto con la citata sentenza, che: «il diritto dell’Unione osta a che, dopo che una disposizione nazionale come quella di cui al punto 1 del dispositivo della presente sentenza sia stata disapplicata da un giudice nazionale in quanto non conforme a tale diritto, lo stesso giudice applichi in sostituzione una precedente disposizione nazionale (art. 4, comma 6, del decreto ministeriale 11 novembre 1999) sostanzialmente analoga alla disposizione suddetta, che prevede la concessione di un’esenzione dall’obbligo di acquistare certificati verdi a motivo dell’immissione, nel mercato nazionale del consumo, di energia elettrica importata da uno Stato terzo, mediante la previa conclusione, tra il gestore di rete nazionale ed un’analoga autorità locale dello Stato terzo interessato, di una convenzione che determina le modalità di verifica necessarie per certificare che l’energia elettrica così importata è prodotta da fonti energetiche rinnovabili».

A queste conclusioni la Corte è pervenuta rilevando come il sistema europeo si fondi sulle cosiddette «garanzie di origine» che hanno lo scopo di consentire ai produttori di elettricità di dimostrare che l’elettricità da essi venduta è prodotta da fonti energetiche rinnovabili. In questa prospettiva, si afferma nella sentenza, consentire ad accordi tra Stati di prevedere diversi sistemi di certificazione, ampliando «il campo di applicazione del meccanismo armonizzato di certificazione proprio delle garanzie di origine», interferirebbe, tra l’altro, con l’obbligo che incombe agli Stati membri di aumentare la loro produzione di energia elettrica e, pertanto, pregiudicherebbe il buon funzionamento del sistema delineato dalla direttiva 2001/77.

10.2.– Sul piano della natura del potere esercitato dall’Autorità l’art. 4 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità) dispone che il Gestore delle rete comunica all’Autorità i nominativi dei soggetti inadempienti agli obblighi di settore, tra cui quello che rileva in questa sede, e l’Autorità applica le sanzioni ai sensi della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità).

Le sanzioni, irrogate dalla pubblica amministrazione nell’esercizio di funzioni amministrative, rappresentano la reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto.

Le sanzioni si distinguono in sanzioni in senso lato e sanzioni in senso stretto: le prime hanno una finalità ripristinatoria, in forma specifica o per equivalente, dell’interesse pubblico leso dal comportamento antigiuridico;
le seconde hanno una finalità afflittiva, essendo indirizzate a punire il responsabile dell’illecito allo scopo di assicurare obiettivi di prevenzione generale e speciale.

Le principali tipologie di sanzioni in senso stretto sono pecuniarie, quando consistono nel pagamento di una somma di denaro, ovvero interdittive, quando impediscono l’esercizio di diritti o facoltà da parte del soggetto inadempiente.

La disciplina generale delle sanzioni pecuniarie, modellata alla luce dei principi di matrice penalistica, è contenuta nella legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

Se la sanzione ha natura afflittiva, la stessa deve essere sostanzialmente equiparata, ai fini della disciplina applicabile, ad una vera e propria sanzione penale.

La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione.

In particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i ) dalla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza “intrinsecamente penale” della misura; ii ) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; iii ) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia;
10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhin c. Russia;
si v. anche Corte di giustizia UE, grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10;
si veda, da ultimo, su questi tre criteri, Cons. Stato, sez. VI, sentenza 26 marzo 2015, n. 1596, spec. par. 14).

Chiarito ciò, occorre procedere all’esatta qualificazione del potere esercitato dall’Autorità.

In relazione al primo criterio, la normativa di disciplina del potere non fornisce indicazioni chiare.

In relazione al secondo criterio, dall’analisi complessiva dell’assetto normativo si desume come lo scopo principale perseguito, imposto anche dal diritto europeo, sia quello di ripristinare la legalità violata dall’inadempimento dell’obbligo di acquisto dei certificati verdi al fine di tutelare l’interesse pubblico alla promozione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili.

In relazione al terzo criterio, l’Autorità, nel determinare l’entità della sanzione, ha utilizzato, quale indice di riferimento, il «valore di mercato dei certificati verdi (…) al tempo dell’insorgenza dell’obbligo inadempiuto», con la conseguenza che «in base a tale quotazione, il valore complessivo dei 304 certificati verdi non acquistati da Eneco Trade è pari a 1.904.256 euro» (par. 55 del provvedimento impugnato). L’Autorità ha aggiunto che «l’efficacia deterrente della sanzione sarebbe vanificata ove si irrogasse una sanzione pari o inferiore al valore dei certificati verdi non acquistati». L’Autorità, pertanto, ha determinato la sanzione in euro 1.983.600.

Da quanto esposto risulta come lo scopo principale perseguito nell’immediato dall’Autorità sia stato quello di “ripristinare” l’interesse pubblico leso.

La sanzione ha, pertanto, una finalità ripristinatoria nella parte in cui viene determinata prendendo quale indice di riferimento il valore dei certificati verdi non acquistati.

La sanzione presenta una valenza afflittiva soltanto in quella minima parte che supera il valore dei certificati.

10.1.3.– Sul piano delle conseguenze che comporta l’applicazione della normativa di settore, così come interpretata dalla Corte di giustizia, al potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità.

L’analisi deve muovere dalla doppia qualificazione del provvedimento adottato come avente finalità ripristinatoria ed afflittiva.

In relazione alla parte più consistente, avente finalità ripristinatoria, valgono le considerazioni di seguito svolte.

La Corte ha ritenuto contrarie al diritto europeo le norme nazionali che consentono un sistema di certificazione delle “garanzie di origine” diverso da quello contemplato dal diritto europeo stesso. La competenza a delineare tale sistema, in presenza di rapporti con Paesi terzi, è di esclusiva competenza della Unione europea, al fine di assicurare omogeneità di trattamento ed effettività nel perseguimento degli obiettivi posti.

La contrarietà al diritto europeo delle norme nazionali impone la loro “disapplicazione” ai fini della definizione del presente giudizio.

La loro disapplicazione non può comportare, come ritenuto dall’appellante nella memoria dell’8 maggio 2015 (spec. pag. 9), l’illegittimità del provvedimento dell’Autorità perché adottato «sul presupposto di un accertamento che il GSE aveva condotto alla luce di un improprio criterio normativo».

L’obbligo primario di acquisito dei certificati verdi è, infatti, contenuto nell’art. 11 del d.lgs. n. 79 del 1999.

L’art. 20 del d.lgs. n. 387 del 2003, così come il previgente art. 4, comma 6, del d.m. 11 novembre 1999, prevedeva esclusivamente un sistema di esenzione dall’obbligo nel caso di sussistenza dei presupposti previsti dalle norme stesse. L’accertata illegittimità europea di tale sistema lascia fermo l’obbligo di acquisito dei certificati verdi.

Né vale rilevare, come fa l’appellante nella richiamata memoria, che l’art. 11 del d.lgs. n. 79 del 1999 impone il dovere di acquisito soltanto in presenza di importazione di energia da fonte non rinnovabile mentre la società appellante avrebbe acquistato energia da fonte rinnovabile. La mancata applicazione dell’esimente prevista dalla normativa nazionale, sopra richiamata, comporta che la società non può dimostrare che l’energia acquistata provenga da fonte rinnovabile con la conseguenza applicabilità dell’art. 11 del d.lgs. n. 79 del 1999. In altri termini, una volta che sono espunte dall’ordinamento interno le norme dichiarate dalla Corte di giustizia contrarie al diritto europeo, non sussistono sistemi idonei per accertare la provenienza da fonti rinnovabili dell’energia importata.

Né varrebbe rilevare, come fa sempre la società appellante, che dovrebbe applicarsi l’art. 3, comma 1- bis , del d.m. 11 novembre 1999, che contempla un sistema di esenzione dall’obbligo non dichiarato illegittimo dalla Corte di giustizia. Sul punto è sufficiente rilevare che anche tale norma deve ritenersi contraria al diritto europeo. Le argomentazioni impiegate dai giudici europei non possono non valere anche in relazione alla norma in esame. Infatti, una volta che si è affermato il principio che la competenza a stipulare accordi con Paesi terzi per stabilire i criteri di certificazione delle “garanzie di origine” spetti soltanto alla Unione europea, tutte le norme nazionali che contemplano criteri diversi sono contrarie al diritto europeo. La circostanza che il citato art. 3, comma 1- bis , non sia stato oggetto di espressa valutazione dalla Corte di giustizia non priva questo Collegio del potere di giudicare la conformità della norma interna al diritto europeo.

In definitiva, dunque, anche tale norma deve essere “disapplicata” perché in contrasto con la disciplina comunitaria del settore.

In relazione alla parte afflittiva della sanzione irrogata, valgono le (diverse) valutazioni di seguito riportate.

La natura “penale” della sanzione determina l’applicazione dei principi di matrice penalistica, tra i quali quello della necessaria esistenza di un comportamento doloso o colposo del soggetto ai sensi dell’art. 27 Cost. In particolare, per quanto rileva in questa sede, l’art. 5 del codice penale, così come integrato dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, dispone che l’errore di diritto esclude la colpevolezza nel caso in cui la violazione del precetto sia stata inevitabile. In questa prospettiva, l’esistenza di una norma interna contenente una esimente dall’applicazione della sanzione può giustificare, anche nel caso in cui la stessa sia stata dichiarata contraria al diritto europeo, l’applicazione dell’art. 5 cod. pen., quando si tratti di un contrasto non palese che è stato, ad esempio, riconosciuto per la prima volta dalla stessa Corte di giustizia. In altri termini, l’esistenza di un contrasto interpretativo conseguente anche all’applicazione del diritto europeo in ordine alla portata di una esimente, può indurre a ritenere applicabile l’art. 5 cod. pen. e pertanto scusabile, in quanto inevitabile, la violazione del precetto “penale”.

Nella fattispecie in esame, al momento della violazione della normativa che pone l’obbligo, sussistevano dubbi, sul piano interno, in ordine all’applicabilità dell’esimente costituita dall’acquisito di energia all’estero nel rispetto delle condizioni previste dalla legge nazionale. In particolare, l’art. 20, comma 8, del d.lgs. n. 387 del 2003 prevedeva che «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con decreto del Ministro delle attività produttive di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sono aggiornate le direttive di cui all' articolo 11, comma 5, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79» (comma 8). La formulazione ambigua della norma poteva indurre gli operatori economici a ritenere che continuasse ad applicarsi quanto stabilito dal decreto ministeriale del 1999 il quale, all’art. 3, comma 1- bis , prevedeva un particolare sistema di esenzione dall’obbligo di acquisto dei certificati verdi. Ne consegue che la società, quando ha provveduto all’acquisito dell’energia dalla Svizzera, poteva fare ragionevole affidamento sul fatto che esisteva una disposizione interna che autorizzava, nel rispetto dei presupposti da essa previsti, l’importazione di energia da Paesi terzi con le “garanzie di origine” della sua provenienza da fonte rinnovabile. Tale normativa, per le ragioni già esposte, è stata poi dichiarata in contrasto con il diritto europeo all’esito di un rinvio pregiudiziale da parte di questa Sezione.

In definitiva, al momento della commissione dell’illecito, la condotta dell’operatore economico era disciplinata da regole giuridiche non chiare. Sul piano interno, era dubbia l’applicazione dell’art. 23 del d.lgs. n. 387 del 2013 ovvero dell’art. 3, comma 1- bis , del d.m. 11 novembre 1999. Sul piano europeo, entrambe le norme erano comunque in contrasto con la disciplina europea sopra riportata. Tale contrasto non era però di facile individuazione, come dimostra la stessa necessità di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Alla luce di quanto esposto, emerge come sussisteva una oggettiva incertezza normativa in ordine alle regole di condotta da seguire, con la conseguenza che ricorrono i presupposti per ritenere non colpevole la violazione commessa dalla società.

Ne consegue che il provvedimento impugnato, nella sola parte (minima) in cui applica una sanzione “penale” per la sua valenza afflittiva, deve essere dichiarato illegittimo.

10.2– Con un ulteriore motivo si assume l’erroneità della sentenza per non avere ritenuto illegittima la parte del provvedimento dell’Autorità in cui si sancisce che rimane fermo «l’obbligo di acquisito dei certificati verdi che permane anche in caso di irrogazione della sanzione». Si ritiene, pertanto, che il pagamento della sanzione estinguerebbe anche tale obbligo, «diversamente, se si dovesse assumere la permanenza dell’obbligo, risulterebbe illegittima la determinazione della sanzione effettuata dall’Autorità sulla base del valore dei certificati verdi, perché nell’efficacia deterrente della sanzione dovrebbe computarsi anche la permanenza dell’obbligo».

Il motivo è inammissibile per mancanza di lesività.

Il provvedimento impugnato nella parte non dispositiva, prevede, nel valutare le argomentazioni difensive della società, che l’applicazione della sanzione lascia fermo «l’obbligo di acquisto dei certificati verdi». Questa statuizione non ha valenza lesiva in quanto alla affermazione non è seguita alcuna statuizione concreta. Del resto, l’Autorità è titolare del solo potere sanzionatorio, che ha concretamente esercitato.

E’ bene, però, aggiungere che, alla luce di quanto sin qui affermato, la società è tenuta soltanto a corrispondere il valore dei certificati verdi allo scopo di ripristinare l’ordine violato e dunque assicurare la legalità interna ed europea. Se si imponesse alla società di corrispondere, in aggiunta, anche il valore dei certificati si finirebbe per applicare una “doppia sanzione” in contrasto con i principi europei che disciplinano le sanzioni amministrative aventi valenza “penale”.

10.3.– Con un ultimo motivo si assume la violazione dell’Accordo del 22 luglio 1972 intervenuto tra Svizzera e Comunità economica europea, che dovrebbe consentire l’equiparazione sotto tutti gli aspetti dell’energia proveniente da Stati membri a quella proveniente dal predetto Paese.

Il motivo non è fondato.

Il predetto Accordo, come risulta chiaramente dall’analisi del suo contenuto, è finalizzato esclusivamente ad assicurare l’espansione degli scambi commerciali mediante, tra l’altro, l’eliminazione degli ostacoli esistenti (tasse, dazi ecc.). Il Trattato non si occupa della questione specifica oggetto del provvedimento dell’Autorità, come, del resto, confermato, implicitamente, dalla stessa sentenza della Corte di Giustizia, sopra richiamata.

12.– Il GSE ha proposto appello incidentale, contestando la parte della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, esaminando il terzo e quinto motivo, avrebbe svolto argomentazioni non necessarie ai fini del decidere violando i limiti imposti dal rispetto del principio della domanda. In particolare, con i tre motivi dell’appello, che possono essere esaminati congiuntamente, si è contestata la sentenza nella parte in cui si è affermato che: il GSE avrebbe potuto soltanto segnalare all’AEEG il mancato acquisito dei certificati verdi;
l’unico strumento di cui le autorità dispongono per rendere effettivo l’obbligo di acquisto dei certificati verdi sarebbe l’applicazione della sanzione da parte dell’Autorità;
il GSE non è titolare di un diritto soggettivo che possa essere fatto valere innanzi al giudice ordinario;
l’obbligazione di acquisto di certificati verdi non è funzionale alla soddisfazione di un interesse patrimoniale del GSE ma alla soddisfazione di un interesse di natura pubblicistica;
il GSE non può utilizzare gli strumenti privatistici per tutelare una posizione di diritto.

L’appellante incidentale rileva, a conferma della fondatezza dei motivi, di avere proposto separata azione, innanzi al giudice ordinario, per l’accertamento dell’obbligo di acquisto dei certificati verdi.

Infine, si richiama, sempre per dimostrare l’erroneità della sentenza, quanto contenuto nell’art. 42 del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE).

L’appello incidentale è inammissibile.

La giurisprudenza della Cassazione, con orientamento che si condivide, ha più volte avuto modo di affermare che: «se è vero che gli effetti del giudicato sostanziale si estendono, anche in caso di rigetto della domanda, a tutte le statuizioni inerenti all'esistenza e alla validità del rapporto dedotto in giudizio, l'operatività di tale efficacia deve peraltro intendersi limitata alle statuizioni necessarie ed indispensabili per giungere alla decisione, non estendendosi, invece, alle enunciazioni puramente incidentali, nonché alle considerazioni prive di relazione causale con quanto abbia formato oggetto della pronuncia, ovvero di collegamento con il contenuto del dispositivo - e prive pertanto di efficacia decisoria». Si è aggiunto che «allo stesso modo, il giudicato implicito può ritenersi formato solo quando tra la questione risolta espressamente e quella considerata implicitamente decisa sussista non soltanto un rapporto di causa ad effetto, ma un nesso di dipendenza così indissolubile che l'una non possa essere decisa senza la preventiva decisione dell'altra, poiché, diversamente, ne risulterebbero illegittimamente pregiudicati i diritti delle parti» (Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2007, n. 11672).

Nella fattispecie in esame, oggetto esclusivo del giudizio amministrativo è costituito dall’accertamento della illegittimità del provvedimento adottato dall’Autorità con cui è stata inflitta una sanzione pecuniaria. Le statuizioni del primo giudice, cui si riferisce l’appello incidentale, non sono necessarie per giungere alla decisione né sussiste un rapporto di dipendenza con la questione risolta tale da indurre a ritenere che si sia formato un giudicato implicito. Del resto, è la stessa appellante incidentale a dichiarare di avere proposto impugnazione soltanto a fini “cautelativi”.

12.– La soccombenza reciproca, unitamente alla complessità e novità delle questioni trattate, giustifica l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

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