Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-09-21, n. 201504375

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-09-21, n. 201504375
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201504375
Data del deposito : 21 settembre 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05769/2009 REG.RIC.

N. 04375/2015REG.PROV.COLL.

N. 05769/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5769 del 2009, proposto da:
G P, rappresentato e difeso dagli avv. D T, E P, con domicilio eletto presso D T in Roma, Via Pierluigi Da Palestrina,19;

contro

Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
Ministero dell'Economia, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 05415/2008, resa tra le parti, concernente risarcimento danni a seguito di nomina negata a Vice Avvocato Generale dello Stato.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Ministero dell'Economia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 luglio 2015 il Cons. F M e uditi per le parti gli avvocati E P e l'Avvocato dello Stato Fiorentino;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con sentenza n. 5415 del 3 giugno 2008 il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sezione Prima, accoglieva per quanto di ragione il ricorso proposto dall’avv. G P nei confronti della presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Economia per ottenere il risarcimento dei danni a lui derivati dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri del 28-11-1997, che gli aveva negato la nomina a Vice Avvocato Generale dello Stato ed era stata successivamente annullata dal Consiglio di Stato con decisione n. 4581 del 22-3-2005.

La predetta decisione esponeva in fatto quanto segue: “ Con l’atto introduttivo del giudizio l’avvocato dello Stato P, premettendo di avere infruttuosamente partecipato insieme ad altri tre colleghi alla procedura per la nomina di quattro vice avvocati generali dello Stato, evidenziava che – nonostante si fossero espressi in senso a lui favorevole sia il Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato (Caps) sia l’Avvocato Generale dello Stato, escludendo in particolare la rilevanza di un procedimento penale aperto a suo carico da sette anni – il Consiglio dei Ministri aveva nominato gli altri istanti e aveva al contempo deciso di soprassedere provvisoriamente sulla sua posizione in ragione della presunta imminente conclusione del processo. Segnalato alla Presidenza del Consiglio che tale giudizio sarebbe in realtà andato ad iniziare solo nel mese di giugno del 1998, l’Avvocato Generale reiterava la designazione del ricorrente, ma nella riunione del 28 novembre 1997 il Consiglio dei Ministri decideva di sospendere la nomina “fino alla definitiva conclusione del processo”. La mancata promozione …aveva inciso sul suo stato di salute, tanto da consigliargli di prendere un periodo di congedo e, infine, di chiedere il collocamento a riposo a far tempo dal 24 agosto 1998.

Con pronuncia n. 1198 del 2005 il Consiglio di Stato, in riforma della statuizione di prime cure (di improcedibilità del gravame per carenza di interesse in ragione delle intervenute dimissioni), riconosceva il perdurante interesse dell’avv. P alla decisione 8 anche con riferimento alla valutazione in separata sede degli effettti consequenziali del mancato incarico) e dichiarava l’illegittimità dell’anzidetta deliberazione del 28-11-1997, risoltasi a suo dire in una “determinazione definitiva di tipo sostanzialmente e immotivatamente sanzionatorio in assenza di causa legittimante”.

Tanto premesso, il ricorrente chiedeva l’integrale riparazione dei danni sofferti, derivanti: a) dalla mancata acquisizione del trattamento di vice avvocato generale nel periodo antecedente le dimissioni e dalla perdita del trattamento stesso nel periodo successivo, fino alla data del normale collocamento a riposo, con le corrispondenti conseguenze sul trattamento di quiescenza;
b)dalla perdita delle prerogative e dei benefici connessi alla denegata qualifica e dalla cancellazione delle aspettative connesse alla posizione;
c) del danno non patrimoniale, comprensivo del danno morale in senso stretto, di danno biologico o danno all’integrità fisica o psichica, per la turbativa indotta dalla ingiusta situazione afflittiva, e di danno esistenziale, inteso come danno conseguente alla lesione di beni che fanno capo alla persona”.

Il Tribunale Amministrativo, con la sentenza n. 5415/2008, accogliendo il ricorso per quanto di ragione, condannava la Presidenza del Consiglio al pagamento della somma di euro 6428,25 a titolo di danno patrimoniale ed euro 72.000 a titolo di danno non patrimoniale, oltre interessi dalla data della pronuncia al saldo.

L’avv. G P proponeva appello avverso la citata sentenza dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendone la riforma ed, in particolare, instando per la condanna dell’Amministrazione a: 1) pagamento della somma corrispondente alla differenza tra quanto sarebbe spettato a titolo di trattamento tabellare di servizio nel periodo fino al 5 gennaio 2005 e quanto nello stesso periodo percepito a titolo di trattamento di quiescenza, nonché di euro 290.000 complessivi, al netto di imposta, per mancata percezione nel medesimo periodo sia delle indennità corrisposte ai vice avvocato generale, sia delle quote di proventi professionali;
2) riliquidazione del trattamento di quiescenza sulla base dell’anzianità di servizio al 5 gennaio 2005 e pagamento delle maggiori somme per tale titolo maturate;
3) pagamento di 300.000 euro per mancato guadagno riferito alla media dei compensi per incarichi arbitrali conferiti ai vice avvocati generali aventi anzianità confrontabile con quella del ricorrente;
4) pagamento di 500.000 o di altra somma da determinare in via equitativa, per perdita di personali chances ;
5) pagamento di tre milioni di euro, o di altra somma da determinare in via equitativa, per danno non patrimoniale derivante da diffamazione, compromissione dell’integrità biologica, da mancata acquisizione di prestigio connesso alla funzione e da lesione di ogni altro interesse relativo a valori della persona costituzionalmente protetti;
6) pagamento delle somme dovute a titolo di rivalutazione ed interessi legali;
7)pagamento delle spese del doppio grado del giudizio.

Affidava il gravame ai seguenti motivi: 1) Errata qualificazione della posizione giuridica del ricorrente. Arbitrarietà delle limitazioni che ne sono state tratte ai fini del risarcimento del danno. contraddittorietà e violazione del giudicato;
2) Errata valutazione dell’illecito e della sua portata.Violazione del giudicato;
3)Mancanza di analisi e di valutazione della gravità della colpa;
4) Omessa ed erronea valutazione dei fatti circa l’asserita partecipazione del ricorrente alla produzione del danno. Difetto di motivazione. Contraddittorietà. falsa applicazione degli artt. 2056 e 1227, comma 2, c.c.;
5) Mancata, insufficiente ed erronea valutazione dei fatti e violazione delle regole di diritto per quanto concerne la dichiarazione che le dimissioni e le loro conseguenze non possono essere riferite al comportamento illecito dell’Amministrazione. Violazione del giudicato;
6) Ingiustificato rigetto e omissione di pronuncia in relazione ai singoli capi della domanda.Mancata o errata valutazione del danno.Violazione o elusione del giudicato;
7) Mancata rivalutazione delle somme liquidate a titolo di risarcimento.Violazione dell’art. 1224 c.c. per quanto concerne la decorrenza degli interessi;
8)Mancata ed ingiustificata disapplicazione della regola generale di cui all’art. 91 cpc per cui l’onere delle spese segue la soccombenza.

Resistevano in giudizio le intimate amministrazioni, proponendo a loro volta appello incidentale, volto ad ottenere l’annullamento o la riforma della sentenza di primo grado.

Rilevavano in primo luogo la mancanza dei presupposti per poter configurare l’esistenza di un illecito civile a carico della P.A., evidenziando: -che alcuna responsabilità poteva desumersi dalla invocata pronuncia di annullamento del Consiglio di Stato, la quale si era limitata ad annullare la deliberazione del Consiglio dei Ministri per carenza di motivazione;
-che non vi era condotta colposa dell’amministrazione, essendo la nomina del vice avvocato generale atto ampiamente discrezionale;
-che non poteva favorevolmente concludersi il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita;
-che in ogni caso le volontarie dimissioni dell’avv. P escludevano ogni nesso causale tra la mancata nomina ed il preteso danno.

In via subordinata, contestavano l’avvenuta liquidazione del danno patrimoniale operata dal TAR ed evidenziavano che il ricorrente non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza di un danno non patrimoniale, che pure era stato riconosciuto dal giudice di primo grado.

Le parti depositavano memorie e documenti in corso di causa.

L’appello veniva discusso e trattenuto per la decisione all’udienza del 7 luglio 2015.

DIRITTO

La Sezione ritiene preliminarmente di evidenziare come la ricostruzione in fatto, come sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non sia stata contestata dalle parti costituite per cui, vigendo la preclusione di cui all’art. 64 comma 2 cpa, deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.

Con il primo motivo dell’appello principale l’avv. P lamenta l’errata qualificazione della posizione giuridica di cui esso è titolare, con conseguente arbitrarietà delle limitazioni che ne sono state tratte ai fini del risarcimento del danno, nonché contraddittorietà e violazione del giudicato.

Evidenzia, invero, che il Tribunale erroneamente, in relazione alla fattispecie della sua nomina a Vice Avvocato Generale, lo avrebbe ritenuto titolare di un interesse legittimo pretensivo e non anche di un diritto soggettivo o di un interesse oppositivo.

Evidenzia, invero, che egli “non aveva un diritto perfetto alla nomina, nel senso che essa non doveva essergli attribuita in modo automatico, ma aveva tuttavia certamente il diritto, consacrato nell’ordinamento cui era sottoposto, di essere valutato al pari dei colleghi sulla base della proposta dell’Avvocato Generale passata al vaglio del competente organo collegiale interno, senza che il giudizio potesse essere alterato dalla reintroduzione di un elemento superato nel corso del procedimento ed arbitrariamente considerato di carattere definitivamente preclusivo”.Aggiunge, poi, che nella specie “sono stati lesi diritti primari a garanzia di valori costituzionalmente protetti, talchè la responsabilità contrattuale è aggravata da evidenti profili di responsabilità aquiliana”.

La doglianza non è condivisa dal Collegio.

Osserva, invero, la Sezione – come incontestato dalle parti – che la nomina a Vice Avvocato Generale dello Stato – necessita della deliberazione in proposito assunta dal Consiglio dei Ministri, la quale fa seguito al parere espresso dal Consiglio degli Avvocati e Procuratori dello Stato ed alla proposta avanzata dall’Avvocato Generale dello Stato.

La delibera di nomina del Consiglio dei Ministri, come tra l’altro affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 1198/2005, costituisce atto di alta amministrazione “in quanto inerente alla provvista di alte cariche dell’Amministrazione statale (cfr., fra le tante, Cons.Stato, IV, 5 febbraio 1999, n. 120 e 14 luglio 1995 n. 562;
VI, 10 agosto 1993, n. 566)”.

Orbene, l’atto di alta amministrazione è espressione di un potere pubblicistico autoritativo, di contenuto discrezionale, volto alla cura di interessi connessi al perseguimento delle finalità della pubblica amministrazione.

Di conseguenza, pur quando esso si inserisca nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego ovvero di rapporto di lavoro di altro genere, la richiamata natura e la peculiarità del potere esercitato connotano indiscutibilmente, di fronte all’esercizio del medesimo, la posizione dell’interessato in termini di interesse legittimo e non anche di diritto soggettivo ( cfr. Cons. stato, IV, 3-7-2000, n.3649;
TAR Lazio, III, 1-10-2013, n. 8513).

Corretta risulta, di poi, la qualificazione operata dal giudice di prime cure in termini di interesse pretensivo, lamentandosi nella specie la mancata nomina (in particolare, domandandosi il risarcimento del danno ad essa conseguente), e, dunque, il ristoro del pregiudizio subito per effetto della mancata adozione di un atto ampliativo della sfera giuridica dell’interessato.

Non risulta, invero, dirimente il richiamo al “diritto di essere valutato al pari dei colleghi sulla base della proposta dell’Avvocato Generale….senza che il giudizio potesse essere alterato dalla reintroduzione di un elemento superato nel corso del procedimento ed arbitrariamente considerato di carattere definitivamente preclusivo”.

Tale posizione giuridico-soggettiva, invero, a fronte dell’esercizio di un potere amministrativo di alta amministrazione e di contenuto discrezionale, riveste, come sopra detto, consistenza di interesse legittimo pretensivo.

Con il secondo motivo di appello l’avv. P censura la sentenza di prime cure per errata valutazione dell’illecito e della sua portata, nonché per violazione del giudicato.

Egli contesta la costruzione operata dal TAR in ordine alla verifica della sussistenza dell’illecito civile, essendo la stessa partita – in coerenza con l’assunto della affermata esistenza di un interesse legittimo pretensivo – dalla effettuazione di un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, concludendo in proposito per l’esistenza di “altissime probabilità (vicine alla certezza) della conclusione favorevole dell’iter”.

Tale modus operandi avrebbe condotto ad una distorta valutazione del fatto lesivo e ad un apprezzamento riduttivo delle sue conseguenze.

Rileva in proposito che “accennare ad altissime probabilità della nomina appare del tutto fuori luogo, non tanto perché vi è certezza che il Consiglio dei Ministri avrebbe proceduto a deliberarla se non si fosse trincerato dietro il procedimento penale in corso, quanto perché la questione non è della mancata nomina in sé, ma del contenuto e della portata della deliberazione per la quale la nomina è venuta a mancare”. Deduce, pertanto, “il travisamento delle ragioni della domanda di risarcimento, che non muove dal carattere discrezionale della deliberazione dichiarata illegittima quale atto di alta amministrazione …ma trova titolo soltanto nell’arbitrario esercizio dell’attività amministrativa, svolta in violazione dei diritti primari oltre che delle regole proprie del pubblico impiego e dell’ordinamento cui il ricorrente apparteneva. Prospettare da un lato l’eventualità …che l’incarico avrebbe potuto essere negato per altri motivi, dall’altro che avrebbe potuto essere conferito in un secondo tempo significa voler ripercorrere la fase che ha portato all’accertamento dell’illecito riproponendo argomentazioni già respinte dal Consiglio di Stato. Il fatto accertato e ormai incontestabile è che il diniego è avvenuto attribuendo ad una circostanza, valutata in modo difforme da come era stata valutata nel corso del procedimento, una portata preclusiva ingiustificata, proiettata nel futuro con effetti consapevolmente ultimativi”.

La censura, a giudizio della Sezione, non merita favorevole considerazione.

L’avv. P ha dedotto, a fondamento della richiesta risarcitoria ( in primis, di tipo patrimoniale), un illecito civile dell’amministrazione estrinsecatosi nella sua mancata nomina a Vice Avvocato Generale dello Stato.

Ha posto a fondamento della propria pretesa la sentenza del Consiglio di Stato, IV sez. n. 1198/2005, la quale ha pronunciato l’annullamento della deliberazione ( di mancata nomina) assunta dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 28 novembre 1997.

Ha, di conseguenza, richiesto, quale ristoro del danno patrimoniale subito, tutti i trattamenti, le competenze, gli emolumenti e gli accessori che gli sarebbero derivati per effetto della nomina ad Vice Avvocato Generale dello Stato fino al collocamento a riposo ed il conseguente trattamento pensionistico.

Ciò posto, osserva il Collegio che , vertendosi in tema di interesse legittimo pretensivo, il giudice di prime cure correttamente ha operato, nella autonoma sede della decisione della domanda risarcitoria, un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, costituendo questo indefettibile presupposto per la risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo pretensivo.

Tale valutazione risulta corretta, oltre che per la ragione sopra detta, anche in considerazione del fatto che il risarcimento richiesto era correlato al trattamento economico proprio della qualifica negata all’avv. P nonché alla circostanza che l’acclarata illegittimità di un provvedimento in sede giurisdizionale non determina automaticamente la sussistenza dell’illecito generatore di responsabilità e non esime il giudice del risarcimento a vagliarne la portata ai fini della sua configurabilità in termini di fatto generatore di danno ingiusto.

Sotto tale profilo, pertanto, risulta priva di pregio la doglianza prodotta con l’appello principale.

D’altra parte, tale giudizio prognostico è stato risolto con esito ampiamente favorevole per il ricorrente.

Invero, al di là della circoscritta affermazione riportata nell’atto di appello ( “…altissime probabilità (vicine alla certezza) della conclusione favorevole dell’iter se non vi fosse stato l’illegittimo arresto procedimentale stigmatizzato dal giudice amministrativo”), in realtà dalla complessiva lettura del passo motivazionale della decisione emerge che il giudice di prime cure ha ritenuto sostanzialmente certa la nomina del ricorrente.

Si legge, invero, nella decisione : “Passando al giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, convergenti elementi fattuali convincono il Collegio che il ricorrente avrebbe conseguito l’auspicata nomina. L’avv. P ricorda anzitutto come l’Avvocato generale dello Stato avesse compiutamente rappresentato al Caps la ridetta vicenda penale (risalente al 1987), segnalando che un parallelo giudizio si era concluso a Roma con una pronuncia di pieno proscioglimento. Muovendo da questa premessa ed in ossequio alla presunzione di non colpevolezza, l’avvocato generale aveva compiutamente illustrato le altissime qualità culturali e professionali del ricorrente, ascrivendogli il possesso “di certo in misura eminente” delle capacità e dell’esperienza “per assolvere proficuamente” le funzioni desiderate.

Va, poi, considerato, sempre con riferimento al processo penale, che il tempo trascorso in assenza di provvedimenti e il suo mancato inizio a distanza di circa dieci anni dai fatti lasciavano presumere che esso difficilmente si sarebbe concluso in via definitiva prima del collocamento a riposo dell’avv. P (il 5-12-2002, come si dirà in prosieguo…), cosa puntualmente verificatasi, avendo il Tribunale di Salerno rilevato solo nel febbraio 2006 (riferisce l’istante) l’intervenuta prescrizione degli illeciti (il ricorrente deduce peraltro di aver proposto ricorso per cassazione ai fini del proscioglimento con formula piena). Appaiono, infine dirimenti, nel senso di reputare integrato il requisito in disamina , le circostanze della pretermissione del solo ricorrente tra i quattro aspiranti per gli altrettanti posti vacanti e della totale assenza (tanto negli atti della serie procedimentale in contestazione quanto negli atti di causa) di elementi ostativi alla nomina diversi da quello posto a base del diniego”.

Il corretto e condivisibile giudizio reso dal giudice di primo grado sulla “spettanza del bene della vita” evidenzia, di poi, a giudizio della Sezione, l’infondatezza del motivo dell’appello incidentale al riguardo proposto dall’amministrazione, con il quale essa nega che le circostanze riferite dal Tribunale possano dimostrare “ che la nomina spettava senz’altro all’avv. P, nel senso che la proposta dell’Avvocato generale non potesse essere respinta per nessun altro motivo e che comunque avrebbe potuto comportare automaticamente l’attribuzione dell’incarico”.

Osserva, invero, il Collegio che la censura si appalesa generica, non supportata da alcun elemento concreto atto a dimostrare o quantomeno ad allegare l’esistenza di ulteriori motivi ostativi (ripetesi, non rappresentati in sede procedimentale né in sede giurisdizionale né tampoco ricondotti ad esigenze di opportunità), con la conseguenza che deve ritenersi, una volta affermata l’illegittimità della ragione preclusiva posta a base del provvedimento di diniego, che la nomina dovesse ritenersi sostanzialmente certa.

Con il terzo motivo dell’appello principale l’avv. P censura la sentenza del Tribunale Amministrativo per mancanza di analisi e di valutazione della gravità della colpa.

Questi si sarebbe limitato alla generica affermazione di una “chiara percepibilità del requisito della colpa”, omettendone l’approfondimento, rilevante al fine di determinare l’entità del risarcimento.

Invero, il Consiglio di Stato, nella citata decisione n.1198/2005, aveva parlato di “una piana previsione dei tempi necessari per concludere il giudizio”, onde l’elemento soggettivo nella specie configurabile non era quello della colpa (quale prevedibilità dell’evento dannoso), ma poteva dirsi equiparabile al dolo, come consapevolezza dell’evento di danno.

Lo svolgimento dei fatti, come di seguito verificatisi, costituirebbe conferma di quanto sopra, rilevandosi che il processo penale, iniziato con una informazione di garanzia del 1990 e proseguito con un rinvio a giudizio del 1994, si è concluso in primo grado con una sentenza di prescrizione del 2006, fatta oggetto di ricorso per cassazione.

La doglianza non è condivisa dal Collegio.

La giurisprudenza afferma che in sede di risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, ai fini dell’ammissibilità della relativa domanda, non è sufficiente il mero annullamento del provvedimento amministrativo, ma è necessario che sia fornita la prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’Amministrazione.

In particolare, la colpa è cd. “colpa di apparato”, la quale è configurabile quando l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali d’imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell’ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza ( cfr. Cons.Stato, III, 10-9-2014, n.4618).

Viene, di poi, affermato, sotto il profilo probatorio, che, in caso di acclarata illegittimità di un atto amministrativo asseritamente foriero di danno, al privato non è richiesto un particolare sforzo probatorio, per ciò che attiene al profilo dell’elemento soggettivo della fattispecie. Egli può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto, dovendosi fare rinvio, al fine della prova dell’elemento soggettivo della responsabilità, alle regole della comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’art. 2727 c.c., mentre spetta all’amministrazione dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile. Peraltro, la presunzione di colpa dell’amministrazione può essere riconosciuta solo in limitate situazioni di colpa grave o inescusabile e commessa in un contesto di circostanze di fatto ed in un quadro di riferimento normativo, giuridico e fattuale da palesare la negligenza e l’imperizia, cioè l’aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di correttezza, imparzialità e buona fede dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, mentre deve essere negata la responsabilità quando l’indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la complessità della situazione di fatto ( cfr. Cons. Stato, III;
1-4-2015, n. 1717;
III, 11-3-2015, n.1272;
VI, 5-3-2015, n. 1099).

Ciò premesso, ritiene la Sezione che il Tribunale Amministrativo abbia fatto corretta applicazione dei richiamati principi giurisprudenziali ed abbia correttamente individuato la sussistenza della colpa in capo all’amministrazione.

Questa la motivazione resa sul punto dal giudice di prime cure.

“ 3….non pare dubbio al Collegio che le circostanze di fatto allegate dal ricorrente, apprezzate alla stregua del dictum del giudice amministrativo (sulla influenza di altre sentenze nel giudizio risarcitorio v. il punto 2 della sent. n. 4251/07 cit.) , siano idonee a convincere della sussistenza della responsabilità dell’amministrazione resistente.

3.1. Nella decisione n.1198 del 22 marzo 2005 il Consiglio di Stato – affermata la sostanziale unitarietà del “procedimento di nomina di quattro aspiranti alla posizione di vice avvocato generale dello stato” e riconosciuta, sia pure per implicito, l’esistenza di un’ampia sfera di discrezionalità in capo alla parte pubblica, consistendo le statuizioni impugnate (delibere del 4 luglio e 28 novembre 1997) in “atti di alta amministrazione” in quanto inerenti alla provvista di alte cariche dell’amministrazione statale” – ha annullato , in dichiarata esplicitazione del sindacato ab externo, la determinazione di sospensione del procedimento fino all’esito del giudizio penale, sulla considerazione che la “mera pendenza” di un procedimento di tal genere “non costituisce ex se preclusione” al conferimento di una nomina a dette cariche …, mancando nella specie – e, comunque, non essendo addotte – specifiche esigenze di carattere cautelare” . Ed ha concluso affermando che la contestata deliberazione si sia in realtà risolta, “secondo una piana previsione dei tempi necessari per concludere i tre gradi di giudizio” in una determinazione definitiva di tipo sostanzialmente e immotivatamente sanzionatorio in assenza di causa legittimante”, affermazione alla cui stregua è chiaramente percepibile il requisito della colpa”.

Da quanto sopra emerge, dunque, che il Tribunale non si è limitato a dedurre la colpa dell’amministrazione in via presuntiva, sulla base della sola illegittimità della deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Esso, invero, ha tenuto in debita considerazione le ragioni di tale illegittimità (quali affermate dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 1198/2015), desumendo dal loro richiamo l’avvenuta violazione delle regole di correttezza, imparzialità, buona fede, ragionevolezza e proporzionalità.

Orbene, osserva la Sezione che tale violazione risulta certamente sussistente, ove si consideri – per come ritenuto dal Consiglio di Stato in sede di pronunzia demolitoria- che “la mera pendenza di un procedimento penale non costituisce, ex se, preclusione alla nomina alle alte cariche dell’Amministrazione Statale, mancando nella specie – e comunque, non essendo addotte – specifiche esigenze di carattere cautelare” e che nella specie la determinazione formalmente “soprassessoria” assunta si appalesava, in relazione allo stato del procedimento penale ed ai tempi necessari per la sua conclusione, in realtà come una “determinazione definitiva di tipo sostanzialmente e immotivatamente sanzionatorio in assenza di causa legittimante”.

Gli elementi sopra richiamati rivelano – a giudizio della Sezione – l’elemento soggettivo della colpa in capo all’amministrazione, ma non anche la coscienza e volontà di arrecare al P un danno ingiusto da parte del Consiglio dei Ministri, risultando comunque addotta una ragione ostativa in punto di fatto non inesistente né all’evidenza assolutamente priva di rilievo, ma piuttosto meritevole di più approfondita considerazione e valutazione, allo stesso modo ( ed anche alla luce) di quanto era stato nella medesima sede procedimentale operato dal Caps e dall’Avvocato generale.

Le considerazioni sopra svolte evidenziano, dunque, l’infondatezza del terzo motivo dell’appello principale, ma costituiscono altresì ragione sufficiente per respingere il motivo dell’appello incidentale dell’Amministrazione con il quale si deduce l’assenza di un comportamento colposo in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’Avvocatura erariale, muovendo dall’assunto della natura ampiamente discrezionale del potere di nomina, afferma in proposito che il diniego opposto al P era illegittimo perché basato soltanto sulla pendenza del processo penale e quindi carente di specifica motivazione;
ciò, peraltro, non poteva integrare gli estremi della colpa vertendosi in materia di valutazione ampiamente discrezionale.

L’assunto non può essere condiviso, rilevandosi:

-che la natura discrezionale dell’attività svolta non si traduce in assoluta ed incontrollata libertà di azione dell’amministrazione, risultando essa comunque soggetta al rispetto dei tradizionali limiti esterni della discrezionalità e dei principi generali dell’agire amministrativo, la cui violazione integra la “colpa di apparato” di cui innanzi si è detto;

-la legittimità e la liceità della determinazione amministrativa vengono valutate in relazione alle ragioni che sorreggono la scelta, le quali vanno a costituire componente del provvedimento sub specie di supporto motivazionale dello stesso;

-il provvedimento discrezionale non è esonerato dall’obbligo generale della motivazione, con la conseguenza che lo stesso è oggetto di valutazione giurisdizionale con riferimento ai motivi in esso espressi e non anche in relazione a valutazioni o a ragioni non esternate ( nella specie, neppure in sede giurisdizionale);

-le ragioni di annullamento espresse dal Consiglio di Stato nella richiamata sentenza n. 1198/2005 non possono ricondursi al mero difetto di motivazione ma anche a vizi di ordine sostanziale, per come chiaramente emerge dalla lettura della decisione.

Può a questo punto passarsi alla disamina delle questioni relative alla incidenza del comportamento dell’avv. P ( in particolare, delle sue dimissioni dal servizio, rassegnate a far data dal 1° settembre 1998 ) sulla responsabilità della amministrazione, con particolare riferimento alle conseguenze risarcitorie sulla stessa gravanti per effetto della mancata nomina a Vice Avvocato Generale.

Dette questioni risultano introdotte dal quarto e quinto motivo dell’appello principale e con l’appello incidentale dell’Amministrazione nella parte in cui contesta l’esistenza di un nesso causale tra la mancata nomina ed il preteso danno di cui si chiede il risarcimento.

Con il quarto motivo l’avv. P deduce omessa ed erronea valutazione dei fatti circa l’asserita partecipazione del ricorrente alla produzione del danno, difetto di motivazione, contraddittorietà e falsa applicazione degli artt. 2056, 1227, comma 2, del codice civile.

Richiama in proposito la sentenza di primo grado nella parte in cui assume che “la diligente proposizione e coltivazione dell’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo avrebbe potuto evitare il danno o eliderne l’entità (attraverso la reintegrazione in forma specifica), rivestendo la negligenza del danneggiato significativa rilevanza sulla definizione del merito della domanda risarcitoria, la quale in tali casi potrà essere in tutto o in parte disattesa alla stregua degli ordinari criteri civilistici di liquidazione del danno risarcibile ed in particolare del combinato disposto degli artt. 2056 e 1227, comma 2, del codice civile”.

Evidenzia al riguardo che la pronuncia non spiega affatto come e perché tale discorso possa riferirsi alla vicenda in esame, rilevando al riguardo che egli ha profuso un costante impegno, sia in sede amministrativa che giurisdizionale , per tutelare le proprie ragioni, proponendo tempestive azioni giurisdizionali in primo grado ed in appello, le quali, in considerazione della data del previsto collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, non gli avrebbero potuto comunque consentire, pur con esito favorevole, la reintegrazione in forma specifica.

Con il quinto motivo di appello lamenta , invece, la “mancata, insufficiente ed erronea valutazione dei fatti e violazione delle regole di diritto ( artt. 41 e 43 c.p. e 2043 c.c.;
artt. 1176, 1225, 1453, 1454 e 1455 c.c.) per quanto concerne la dichiarazione che le dimissioni e le loro conseguenze non possono essere riferite al comportamento illecito dell’amministrazione”.

Contesta al riguardo la sentenza di prime cure nella parte in cui attribuisce rilievo alle dimissioni per escludere il diritto al risarcimento del danno patrimoniale successivamente alla loro presentazione, censurando l’affermazione del TAR secondo cui le stesse non hanno costituito un atto necessitato, non vertendosi in presenza di una situazione così oggettivamente insostenibile da indurlo a recidere il rapporto di servizio.

Richiama l’articolo 41 del codice penale per escludere che le stesse costituiscano atto sopravvenuto idoneo ad escludere il nesso causale tra il comportamento dell’amministrazione ed il danno.

Evidenzia ancora, alla stregua della normativa civilistica, che l’inadempimento datoriale ( costituito dalla violazione delle regole dello statuto del pubblico impiego, affermate dal Consiglio di Stato) legittimavano la risoluzione del rapporto.

Sostiene, poi, che le dimissioni hanno avuto come unico presupposto, reale e dichiarato, il provvedimento di carattere sanzionatorio di mancata nomina, costituendo così in senso giuridico conseguenza del provvedimento stesso.

Afferma, poi, che non era presumibile che egli continuasse a rivivere la lesione subita prestando la sua attività ad un livello organicamente inferiore a quello dovuto, oltretutto con la consapevolezza della compromessa credibilità e perciò in assenza delle motivazioni necessarie, in condizioni che impedivano un sereno e fattivo espletamento delle funzioni.

Censura la sentenza del Tribunale in quanto essa avrebbe omesso di considerare che la sostenibilità di una situazione è sempre da valutare dal punto di vista della persona coinvolta, non potendo la stessa essere definita in termini oggettivi.

Mentre, dunque, l’avv. P contesta la pronunzia del TAR per la parte in cui, a cagione del suo comportamento e delle rassegnate dimissioni, esclude il risarcimento del danno patrimoniale per il periodo successivo alla loro presentazione e fino alla data prevista di collocamento a riposo, l’Amministrazione, attraverso l’appello incidentale, ritiene che le dimissioni (per libera scelta dell’appellante e non per limiti di età) escludano in toto la sussistenza del nesso causale tra la mancata nomina ed il preteso danno.

Assume in proposito che il ricorrente non ha ottenuto la nomina , che avrebbe potuto in ipotesi conseguire a seguito di tempestiva pronuncia giudiziale o di autotutela, perché si è per sua scelta dimesso dal servizio, in tal modo innescando una serie causale del tutto autonoma che ha interrotto il nesso causale tra il provvedimento impugnato e il danno consistente nelle utilità che la ipotetica nomina avrebbe potuto arrecargli. Giacchè l’effetto della decisione di annullamento del Consiglio di Stato era soltanto il diritto al nuovo motivato esame della sua posizione, soltanto le dimissioni hanno impedito tale riesame, così rendendo per esclusiva scelta dell’interessato irreversibile la perdita della possibilità di ottenere la nomina.

Ritiene la Sezione che le censure sopra rappresentate, proposte sia dall’appellante principale che da quello incidentale siano infondate, dovendosi condividere la determinazione in proposito assunta dal giudice di prime cure.

Deve, in particolare, ritenersi che le dimissioni rassegnate dall’avv. P a far data dal 1°settembre 1998 escludano il diritto al risarcimento del danno patrimoniale (sub specie di danno emergente che di lucro cessante) per il periodo ad esse successivo fino alla data prevista per il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età ( accettata dall’appellante nel 5-1-2002 , come da memoria depositata il 5-6-2015, pag. 25 ), mentre non incidano sulla responsabilità dell’amministrazione per il periodo precedente ( 28-11-1997 / 30-8-1998).

Tanto per le considerazioni che di seguito si espongono.

Ritiene in primo luogo la Sezione che le dimissioni del dipendente possano essere ritenute ininfluenti ai fini della debenza del danno patrimoniale successivamente alla loro presentazione solo nella misura in cui le stesse siano oggettivamente riconducibili ad una determinazione dell’amministrazione medesima ovvero quando l’uscita del dipendente dal servizio sia derivata, in via diretta ed immediata, da condizioni di lavoro, create dall’amministrazione, che rendano oggettivamente insostenibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Tali presupposti non risultano sussistenti nel caso di specie.

Va in primo luogo rilevato che la cessazione del rapporto di lavoro non origina da una determinazione provvedimentale dell’amministrazione, la quale abbia posto termine al rapporto con l’avvocato P.

Il provvedimento lesivo, costituente come si è visto illecito civile, ha come contenuto la mancata nomina alla carica di Vice avvocato Generale dello Stato.

Esso, di conseguenza, non comporta, né direttamente né indirettamente, la cessazione del rapporto di servizio con il dipendente, ma unicamente il diniego ad un avanzamento di carriera.

Tale determinazione, di poi, determina oggettivamente la conservazione dello status quo ante, ma non anche un detrimento della pregressa condizione (in termini di qualifica e di posizione lavorativa), tale da giustificare, quale atto oggettivamente necessitato, la cessazione del rapporto di lavoro.

Né risultano, agli atti di causa, elementi tali da ritenere che le condizioni ambientali ed i comportamenti dell’amministrazione di appartenenza abbiano determinato un oggettivo peggioramento delle condizioni di lavoro del P, sì da comportarne una diminuita considerazione, l’ affidamento di affari meno importanti di quelli in precedenza assegnati, una dequalificazione ovvero un peggioramento delle mansioni ordinariamente svolte prima del provvedimento negativo del Consiglio dei Ministri.

Tale situazione è resa ben evidente dalla sentenza gravata, laddove essa condivisibilmente afferma che “di fronte a tale considerazione sta però il fatto che le dimissioni non sono un atto necessitato e che, in concreto, non è stata allegata ( né tanto meno provata) dal ricorrente la sussistenza di una situazione così oggettivamente insostenibile da indurlo a recidere il rapporto di servizio, sembrando anzi deporre in senso esattamente opposto la mancata contestazione di addebiti disciplinari e, soprattutto, la ripetuta enunciazione di giudizi encomiastici nei suoi confronti”.

L’appellante sostiene in proposito che “non era presumibile…che egli continuasse a rivivere la lesione subita prestando la sua attività ad un livello organicamente inferiore a quello dovuto (la funzione di vice avvocato generale non solo comporta che l’attività di avvocato sia svolta al più alto livello degli affari trattati, ma è per definizione e nei fatti una funzione direttiva) e soprattutto prestandola con la consapevolezza della compromessa credibilità e perciò in assenza delle motivazioni comunemente richieste a un patrono dell’amministrazione, vale a dire in condizioni che impedivano un sereno e fattivo espletamento delle funzioni”, aggiungendo che il Tribunale avrebbe ignorato “il fattore costituito dal grave condizionamento indotto nell’ordine psichico, la cui incidenza è generalmente riconosciuta quando si tratta di accertare l’esistenza delle dimissioni provocate”, evidenziando altresì che “la sostenibilità di una situazione è sempre da valutare dal punto di vista della persona che è chiamata a sopportarla”.

Tali considerazioni non possono essere condivise dal Collegio, ritenendosi che il collegamento tra l’atto dell’amministrazione e le dimissioni del dipendente debba essere immediato e diretto e, come tale, incidendo sull’elemento oggettivo del nesso causale, oggettivamente apprezzabile, senza l’intermediazione dell’elemento soggettivo delle modalità di percezione dello stesso da parte del soggetto interessato.

Dalle considerazioni sopra svolte, pertanto, emerge la convinzione della Sezione che le dimissioni rassegnate dall’appellante siano certamente originate (rectius, occasionate) dalla mancata promozione a Vice avvocato generale, ma non ne costituiscano conseguenza necessitata, oggettiva, immediata e diretta, quanto piuttosto la risultante di una scelta personale, da parte di un soggetto che nella sua sfera psichica avvertiva come insostenibile, in termini di dignità professionale, considerazione sociale e motivazione all’espletamento della funzione, la prosecuzione del rapporto di lavoro dopo che gli era stato negato l’avanzamento cui egli aspirava (elementi, che come di seguito si dirà, assumono peraltro rilevanza in tema di danno non patrimoniale).

La ritenuta affermazione delle dimissioni quali atto oggettivamente non necessitato né imposto dall’amministrazione inducono la Sezione a concordare con la determinazione in proposito assunta dal giudice di prime cure, di poter prendere in considerazione, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale (sub specie di retribuzioni ed emolumenti non percepiti, connessi alla qualifica di Vice avvocato generale) il solo periodo antecedente alle rassegnate dimissioni e non anche quello successivo fino alla data prevista di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età.

Osserva in proposito il Collegio che l’illecito posto in essere dall’Amministrazione è consistito nella deliberazione del Consiglio dei Ministri con la quale è stato espresso un sostanziale e definitivo diniego alla nomina dell’appellante a Vice avvocato Generale dello Stato.

Le conseguenze patrimoniali di tale illecito si configurano nella mancata percezione, da parte dell’interessato, del trattamento economico che gli sarebbe spettato ove tale nomina fosse stata disposta.

Come è ben evidente, dunque, danno emergente e lucro cessante conseguenti alla illegittima mancata nomina risultano strettamente collegati alla esistenza ed allo svolgimento del rapporto di lavoro.

Poiché tali emolumenti non vengono percepiti una tantum ma nel tempo, quale corrispettivo (ovvero in occasione) dello svolgimento del rapporto di lavoro, il danno consistente nelle differenze retributive ovvero nei mancati emolumenti connessi alla funzione negata costituiscono pregiudizio che si protrae nel tempo e che trova comunque titolo nell’esistenza di un rapporto di lavoro svolto in posizione poziore rispetto a quella spettante.

Non si tratta, invero, di una illecita mancata costituzione di un rapporto lavorativo né di una illecita interruzione dello stesso da parte del soggetto pubblico, essendosi invece di fronte ad una fattispecie nella quale è illegittimamente negata una promozione al dipendente, che svolge servizio presso l’amministrazione, cui spettano, a titolo risarcitorio, le differenze che egli avrebbe percepito ove la promozione gli fosse stata riconosciuta.

In buona sostanza, il dipendente svolge servizio in una posizione inferiore rispetto a quella legittimamente spettantegli, con la conseguenza che il ristoro del pregiudizio patrimoniale subito si identifica nel pagamento delle somme che egli avrebbe percepito svolgendo la funzione dovutagli.

Orbene, poiché trattasi di differenze retributive e giacchè si è di fronte ad un rapporto di lavoro in corso, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale presuppone il perdurante svolgimento dello stesso, a maggior ragione perché trattasi di prestazioni periodiche temporalmente correlate allo svolgimento del rapporto medesimo.

Tanto costituisce logica conseguenza del principio di sinallagmaticità, venendo il danno in rilievo sub specie di differenze retributive connesse alla funzione negata, ma non escludente comunque la necessità che vi sia, a giustificazione della percezione di somme, lo svolgimento di attività lavorativa e, dunque, l’esistenza di un rapporto di lavoro in atto.

Da quanto sopra emerge, dunque, che la corresponsione del risarcimento del danno patrimoniale richiesto trova titolo nella perdurante vigenza del rapporto e nel mantenimento dello status di dipendente in servizio dell’interessato.

La cessazione del rapporto per dimissioni determina in capo al privato il sorgere di un nuovo status ed il mancato svolgimento del servizio impedisce la possibilità di corrispondere a titolo risarcitorio differenze retributive o emolumenti che nello svolgimento del servizio trovano il loro necessario presupposto.

Ciò quando - come nel caso di specie, per quanto si è sopra visto – l’uscita del dipendente non sia dovuta ad autonoma determinazione dell’amministrazione e non sia comunque a questa, in via oggettiva, diretta ed immediata, riconducibile, trattandosi di scelta del privato, oggettivamente non necessitata.

In tal modo, le dimissioni – nella consistenza e nella portata sopra delineata – fanno venire meno il necessario elemento di collegamento ( costituito dall’esistenza del rapporto di servizio) tra l’illecito della mancata promozione ed il danno patrimoniale subito, costituito dalle differenze retributive spettanti e dai relativi mancati guadagni, trovando queste comunque titolo in un rapporto di lavoro in corso di svolgimento.

Non può , peraltro, negarsi – sotto altro profilo – che le dimissioni del lavoratore costituiscano comunque elemento valutabile ai sensi dell’art. 1227 del codice civile, laddove, impedendo per il futuro la corresponsione di somme derivanti dalla permanenza in servizio, determinino incremento dell’ammontare del danno preteso, in relazione all’ormai non più possibile computo per sottrazione degli importi comunque percepiti dal dipendente sia pure nell’esercizio della inferiore funzione svolta.

Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte deve, di conseguenza, ritenersi corretta la determinazione del Tribunale che ha escluso la risarcibilità del danno patrimoniale per il periodo successivo alle rassegnate dimissioni, mentre lo ha ammesso per il periodo antecedente ad esso, risultando in tale fase sussistente il rapporto di lavoro che giustificava la pretesa alla corresponsione, in termini risarcitori, di emolumenti connessi al servizio ma non corrisposti in conseguenza dell’illecito diniego di nomina.

Sono, pertanto, da rigettare le censure al riguardo proposte sia nell’appello principale che nell’appello incidentale.

Con riferimento al “danno patrimoniale” , il giudice di primo grado così motiva: “ Quanto al danno patrimoniale, l’autonoma decisione dell’avv. P di dimettersi, impedisce, come anticipato, di tenere conto del lasso temporale 1.9.98 – 5.1.02, dovendo essere risarcite soltanto le voci afferenti all’antecedente periodo di nove mesi intercorrente tra la data della mancata nomina e la cessazione del servizio (28.11.97 -30.9.98). A tale riguardo, chiarito che non risultano differenze in punto di trattamento tabellare (la difesa erariale assume- e l’istante ammette;
cfr. pag.6 mem. 12-10-07 – che gli emolumenti del ricorrente e quelli spettanti ai vice avvocati generali coincidono) ritiene il Collegio che possano essere riconosciute le somme per “compensi accessori” (v. supra punto a.1), costituiti (secondo l’incontestata prospettazione del ricorrente) componente ordinaria del reddito, da liquidare in euro 6.428,52 netti (partendo dall’ammontare domandato di 60.000 euro netti per complessivi 7 anni –pag.7 mem.-, si determina la quota annua pari ad euro 8571, 42 e quella mensile , pari a 714,28, da moltiplicare per nove mesi).

Non spettano, invece, le “quote di proventi professionali” (cd. propine), domandate per il solo periodo successivo alle dimissioni ( egli ammette che tale emolumento viene ripartito in base allo stipendio e non alla funzione, sicchè le ha percepite fino al 30.8.1998), né può essere accolta la domanda di riliquidazione dell’indennità di fine rapporto e del trattamento pensionistico (v. punto a.2), stante l’insussistenza di differenze tra gli emolumenti spettanti e quelli percepiti. Rispetto alle voci di mancato guadagno (sub a.3), se da un lato la volontaria interruzione del rapporto di servizio impedisce di riconoscere la spettanza dei “compensi per arbitrati” (a.

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