TAR Roma, sez. I, sentenza 2016-10-14, n. 201610309
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Pubblicato il 14/10/2016
N. 10309/2016 REG.PROV.COLL.
N. 03540/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3540 del 2016, proposto da:
Manutencoop Facility Management Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati M S C.F. SRGMRA48A01G273D, P F C.F. FTTPRI60H04H501I, G C R C.F. RZZGLI64P12I754L, A L C.F. LRSNTN61E04G288P, M C C.F. CRPMHL79M03A669C e C V C.F. VNCCLD80A23C351C, con domicilio eletto presso Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo &Partners in Roma, via delle Quattro Fontane, 20;
contro
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - Antitrust, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso cui è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
- Consip Spa, non costituita in giudizio;
- Associazione Nazionale delle Cooperative di Servizi - Legacoop Servizi, non costituita in giudizio;
per l'annullamento, previa sospensione,
a) del provvedimento 22 dicembre 2015, n. 25802, notificato a MFM il 20 gennaio 2016, con il quale, a conclusione del procedimento I785 ‘Gara Consip servizi di pulizia nelle scuole’, l’AGCM ha: (i) constatato che le società CNS-Consorzio Nazionale Servizi Società cooperativa (il CNS), MFM, Kuadra S.p.A. (Kuadra) e Roma Multiservizi S.p.A. (RM) hanno posto in essere una pratica concordata restrittiva della concorrenza in violazione dell’art. 101 TFUE, avente per oggetto e per effetto di condizionare gli esiti della gara indetta da Consip nel 2012 per l’affidamento dei servizi di pulizia ed altri servizi tesi al mantenimento del decoro e della funzionalità degli immobili, per gli istituti scolastici di ogni ordine e grado e per i centri di formazione della P.A.;(ii) irrogato alle parti sanzioni amministrative pecuniarie, in particolare alla ricorrente l’ammenda di € 48.510.000;(iii) diffidato le parti dal porre in essere in futuro comportamenti analoghi;e (iv) ordinato alle parti di assumere misure atte ad evitare la ripetizione di condotte collusive analoghe a quelle accertate, e di comunicarle all’Autorità entro il 31 maggio 2016;
b) di ogni altro atto e/o comportamento presupposto, consequenziale e/o connesso;nonché
c) del § 35 delle Linee guida 22 ottobre 2014 sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/90.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust, con la relativa documentazione;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 6 luglio 2016 il dott. I C e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
In seguito all’analisi delle risultanze della gara comunitaria a procedura aperta bandita in data 11.7.2012 dalla Consip s.p.a. (Consip) per l’affidamento di servizi di pulizia e altri tesi al mantenimento del decoro e della funzionalità degli immobili degli istituti scolastici di ogni ordine e grado nonché dei centri di formazione della p.a., l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), rilevando alcune anomalie, in data 8.10.2014 avviava un procedimento orientato a constatare un’eventuale violazione della normativa a tutela della concorrenza.
Il procedimento, originariamente rivolto nei confronti del Consorzio Nazionale Servizi soc. coop. (CNS), della Manutencoop Facility Management (MFN), della Kuadra s.p.a. (Kuadra) e della EXITone S.p.a. (Exitone), era poi esteso con decisione del 1.4.2015 anche alla Roma Multiservizi s.p.a. (RM) e vedeva la partecipazione dell’Associazione Nazionale Imprese di Pulizia-ANIP e della Associazione Nazionale delle Cooperative di servizi- Legacoop servizi, che ne avevano fatto richiesta.
Richiamando le risultanze istruttorie, la tipologia di gara e i relativi risultati, le modalità e le strategie partecipative alla gara delle parti, i rapporti tra queste ultime nonché le argomentazioni rese dalle interessate a seguito della comunicazione delle risultanze istruttorie (CRI), l’AGCM perveniva alla conclusione secondo la quale le parti sopra richiamate – tranne Exitone - avevano dato luogo ad un’intesa volta a condizionare l’esito della gara, eliminando il reciproco confronto concorrenziale mediante l’utilizzo distorto dello strumento consortile: ciò al fine di garantire a CNS e MFM il numero massimo di lotti maggiormente appetibili, sul presupposto che entrambe avrebbero complessivamente beneficiato dei risultati singolarmente conseguiti. Risultava altresì individuato un ruolo nell’intesa anche a carico di RM e Kuadra, secondo l’approfondita descrizione degli elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria.
In sostanza, l’Autorità illustrava nelle relative conclusioni che gli elementi di prova “esogeni” ed “endogeni” accertati avevano fatto emergere incontrovertibilmente che, in occasione della procedura di gara in questione, le quattro imprese sopra richiamate avevano posto in essere un’intesa anticoncorrenziale per il suo stesso oggetto (sub specie di pratica concordata), con la finalità di condizionare gli esiti della gara attraverso l’eliminazione del reciproco confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti, così da aggiudicarsi i più appetibili nel limite massimo fissato dalla “lex specialis”. La condivisione della scelta degli otto lotti su cui presentare l’offerta e la conseguente decisione di non partecipare ai residui cinque messi a gara aveva inoltre, secondo la ricostruzione dell’AGCM, influenzato gli esiti della procedura con riguardo a tutti i tredici lotti oggetto della procedura.
In particolare, risultava che CNS e la sua principale consorziata MFM avevano deciso di partecipare separatamente alla gara, laddove, se quest’ultima avesse partecipato in qualità di impresa indicata dal consorzio, il numero massimo di lotti che si sarebbero potute aggiudicare congiuntamente sarebbe stato pari a tre, mentre partecipando separatamente avevano potuto contare sull’aggiudicazione di sei lotti. Inoltre, le due imprese, una volta decisa la partecipazione autonoma, avrebbero dovuto concorrere come soggetti assolutamente indipendenti, del tutto prescindendo dai legami consortili mentre risultava che avevano individuato i lotti su cui avrebbero rispettivamente concentrato i propri “sforzi” tramite scambi indiretti di informazioni al fine di perseguire un comune disegno, per il quale risultava essenzialmente che CNS aveva partecipato alla gara avendo tra i propri principali obiettivi quello di tutelare i contratti storici e il portafoglio della propria consorziata di maggior peso quale era MFM, curandone gli interessi in via principale e maggiore rispetto a quelli delle consorziate per conto delle quali pure aveva presentato le sue offerte.
Per l’AGCM, quindi, risultava un utilizzo distorto dello strumento consortile da parte di CNS, il quale aveva principalmente avuto riguardo alle consorziate di maggior peso rispetto a quelle di più ridotte dimensioni. La strategia di gara di CNS era risultata del tutto irrazionale, oltre che incoerente con i principi che lo stesso consorzio aveva riferito essere alla base delle proprie scelte partecipative, presentandosi solo in alcuni lotti e non presentandosi in altri, e coincideva unicamente con l’obiettivo collusivo condiviso con MFM di aggiudicarsi complessivamente sei lotti in luogo di tre, come emergeva dalla scelta - estranea a una sana logica imprenditoriale - di non presentare offerta per i lotti comprendenti l’Emilia-Romagna e la Lombardia (lotti 2 e 8), poi aggiudicati a MFM, e di presentare offerte decisamente non competitive per i lotti relativi alla Toscana e al Veneto (lotti 3 e 9), entrambi pure aggiudicati a MFM.
Analogamente, nel presentare offerta per il lotto comprendente il Lazio e la Sardegna, CNS aveva inteso garantire a una società non consorziata quale RM, ma riconducibile a MFM in virtù di partecipazione societaria di quest’ultima, il pieno mantenimento del portafoglio storico nella città di Roma, nel rispetto di un accordo compensativo nel frattempo sottoscritto.
D’altro canto, a fronte dell’operato di CNS, risultava che MFM aveva rinunciato a presentare offerta per il lotto 4, nonostante il cospicuo portafoglio ivi detenuto da RM sua partecipata, e che si era impegnata, tramite lo strumento del subappalto, ad aiutare CNS affinché anche ad altre consorziate detentrici di appalti storici fosse garantito il mantenimento di tali appalti o perlomeno il valore del portafoglio a questi riconducibile.
Per quel che riguardava Kuadra, l’AGCM concludeva nel senso che la stessa tipologia di affidamenti al quadro collusivo era stata garantita in ragione di un credito pregresso vantato nei confronti del CNS, che aveva indotto l’interessata a partecipare al suo fianco alla gara nell’ambito di un a.t.i. (ATI 1), accettando nel contempo però di concedere subappalti a consorziate di rilievo di CNS, a cui il consorzio stesso intendeva garantire il mantenimento del portafoglio.
Secondo l’Autorità, l’intesa si era potuta pienamente realizzare e aveva trovato attuazione anche per effetto degli scambi di informazioni sensibili che si erano realizzati nel contesto dei rapporti di “governance” esistenti tra MFM e RM, laddove, in particolare, quest’ultima aveva svolto un cruciale ruolo di veicolo di informazioni tra la prima e lo stesso CNS.
Tenuto conto che vi era stato pregiudizio al commercio fra Stati membri dell’Unione europea, tale da configurare la violazione dell’art. 101 TFUE, e che l’infrazione constatata era qualificabile tra le più gravi della normativa “antitrust” - in quanto, per sua stessa natura, appariva idonea e destinata ad alterare, in caso di aggiudicazione della gara come poi avvenuto, il normale gioco della concorrenza per tutta la durata dell’affidamento – l’AGCM, in applicazione delle c.d. “Linee Guida” deliberate il 22.10.2014 e ritenute applicabili alla fattispecie, irrogava specifiche sanzioni pecuniarie pari a € 56.190.090 per CNS, 48.510.000 per MFM, 3.377.910 per RM e 5.763.882 per Kuadra.
In sintesi, i presupposti presi in considerazione dall’AGCM possono riassumersi nei profili che seguono:
1) la gara era suddivisa in tredici lotti, per un importo totale a base d’asta di circa 1,63 miliardi di euro, con valori medi per ciascun lotto intorno ai 100.000 euro e con punte intorno ai 200.000 euro per i lotti 4, 6 e 11 (Sardegna-Lazio, Campania e Puglia);il criterio di aggiudicazione era quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa (offerta tecnica, max p.60, offerta economica, max p. 40) e non potevano essere aggiudicati più di tre lotti al medesimo concorrente, tranne specifiche deroghe nel caso di specie non applicate;
2) l’ATI 1, cui partecipava CNS quale mandataria, con Kuadra e Exitone mandanti, e MFM si erano aggiudicati quattro lotti ciascuno, tutti ricadenti nell’area geografica centro-settentrionale;
3) sui lotti in cui ATI 1 era vincitrice, MFM non aveva presentato offerta mentre sui lotti 3 e 9 – unici in cui vi era sovrapposizione di offerte ed era vincitrice MFM – ATI 1 aveva presentato un ribasso decisamente meno aggressivo rispetto a quello formulato sugli altri lotti;
4) RM non aveva partecipato alla gara nonostante fosse interessata quantomeno ai lotti 4 e 5 (Sardegna-Lazio, quale gestore “uscente” dei servizi di pulizia, e Lazio);
5) tra il bando di gara e la scadenza del termine per presentare le offerte risultava un accordo tra CNS e RM avente ad oggetto l’impegno di quest’ultima di non partecipare alla gara e l’obbligo di CNS di richiedere l’autorizzazione al subappalto della “quota-parte” comprendente il pregresso portafoglio di RM, una volta aggiudicatosi il lotto 4;
6) CNS e MFM, pur formalmente concorrendo in autonomia, hanno perseguito obiettivi condivisi, consistenti nella tutela del portafoglio della principale consorziata, quale era MFM, nella tutela del posizionamento di CNS sui lotti 1, 4 e 10 (Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria, Sardegna-Lazio e Umbria-Marche-Abruzzo-Molise), nella tutela del portafoglio di RM relativamente al lotto 4, nella tutela del portafoglio delle altre consorziate di maggior rilievo, anche grazie a subappalti concessi a Kuadra, nonché nella volontà di compensare un debito pregresso di CNS verso la stessa Kuadra, consentendo a quest’ultima di partecipare in ATI 1 pur possedendo CNS per intero i requisiti richiesti;
7) la condotta era identificabile quale anticompetitiva “per oggetto”, con irrilevanza di eventuali effetti restrittivi, peraltro realizzatisi con l’eliminazione del rischio del confronto concorrenziale reciproco tra i due maggiori “players” del mercato, quali CNS e MFM;
8) CNS aveva individuato con precisione i lotti che si sarebbe aggiudicata già prima dell’esito di gara, pur mantenendo aperte soluzioni alternative sino alla presentazione delle offerte;
9) la strategia partecipativa era contraddistinta da scelte irrazionali spiegabili solo con l’intento collusivo, quali: mancata sovrapposizione sui lotti appetibili per CNS e MFM, mancato rispetto della procedura di preassegnazione per cui lo stesso CNS aveva adottato un apposito regolamento, irragionevole traslazione del portafoglio di talune consorziate in regioni diverse da quelle di radicamento, mancata tutela del portafoglio di altre consorziate;
10) le tesi difensive delle parti si erano fondate su una parcellizzazione delle evidenze agli atti, non idonea a fornire una spiegazione alternativa;
11) nessuna offerta risultava presentata per i lotti riguardanti l’Italia meridionale, pur avendo alcune consorziate di CNS manifestato interesse a partecipare, e illogica appariva la scelta di CNS di non presentare offerta per il lotto 2 (Emilia-Romagna), poi aggiudicato a MFM, ove storicamente aveva la sua operatività e con la conseguenza di dover riallocare artificiosamente in altre regioni il portafoglio di consorziate ivi operanti, non risultando idonea la giustificazione per la quale le consorziate stesse avevano chiesto di operare al di fuori della Regione avendo già visto aggiudicato una specifica commessa sul territorio, in quanto anche MFM aveva acquisito quest’ultima e aveva poi concesso subappalti a consorziate non riallocatesi altrove;
12) non idonea era anche la giustificazione in ordine alla mancata partecipazione di CNS al lotto 8 (Lombardia), fondata sull’assenza di consorziate con portafoglio storico di rilevo, laddove in Lombardia esistevano due consorziate e lo stesso CNS aveva presentato offerta per il lotto 3 (Toscana) pure privo di “portafoglio consortile storico”;
13) sui due lotti in cui vi era stata sovrapposizione, CNS aveva formulato un’offerta economica non concorrenziale mentre l’offerta tecnica era pressoché simile a quella per gli altri lotti;
14) RM poteva partecipare alla gara disponendo dei requisiti ma aveva preferito rinunciare a fronte dell’impegno sul lotto 4, come desumibile da “e-mail” interne acquisite e, inoltre, aveva svolto un ruolo di raccordo tra CNS e Kuadra, da un lato, e MFM, dall’altro;
15) risultavano numerosi scambi di informazioni tra le parti, giustificati in istruttoria con tesi contraddittorie.
Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, MFM chiedeva l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento in questione, lamentando, in sintesi, quanto segue.
“I. Primo motivo: violazione dei diritti della difesa di MFM per avere l’Autorità qualificato la condotta constatata come restrittiva della concorrenza “per oggetto” per la prima volta nel Provvedimento, modificando l’impostazione accusatoria della CRI in assenza di contraddittorio con le Parti” .
La ricorrente evidenziava che nella CRI l’AGCM aveva fatto riferimento ad un impianto accusatorio imbastito sull’esistenza di un’intesa anticoncorrenziale “per effetto” mentre, nel provvedimento impugnato, emergeva il riferimento ad un’intesa che per il suo stesso “oggetto” avrebbe avuto la finalità di condizionare gli esiti della gara.
Tale evidente modifica della contestazione avrebbe richiesto il doveroso contraddittorio, mediante una CRI supplementare da notificare alle parti al fine di consentire un adeguato contraddittorio in merito alla qualificazione definitiva assegnata ai fatti oggetto della valutazione dell’Autorità.
“ II. Secondo motivo: violazione dell’art. 101 TFUE per non avere l’AGCM dimostrato che la pratica concordata da essa constatata presentava un grado sufficiente di dannosità da poter essere considerata come una restrizione della concorrenza per oggetto, ai sensi e per gli effetti della giurisprudenza Cartes Bancaires”.
L’oggetto restrittivo della concorrenza era stato individuato nella pratica concordata consistente nel condizionamento dello svolgimento della gara mediante l’eliminazione del rischio del reciproco confronto concorrenziale tra le parti principali del procedimento, CNS e MFM.
In merito, la ricorrente richiamava recente giurisprudenza della Corte di giustizia europea (pronuncia “Cartes Bancaires” del 2014), secondo la quale la nozione di intesa anticoncorrenziale “per oggetto” deve essere interpretata restrittivamente, potendosi invocare solo in riferimento ad alcuni tipi di coordinamento tra imprese che rivelano, per la loro stessa natura, un grado di dannosità per la concorrenza tale da poter ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario. Tale conclusione doveva applicarsi anche alla fattispecie delle “pratiche concordate”, di cui infatti sono estremamente rari i casi dichiarati restrittivi della concorrenza “per oggetto”.
Nel caso di specie tali presupposti non sussistevano, in quanto non si rivelava un grado di dannosità per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza tale da esentare l’AGCM dall’obbligo di provare gli effetti concreti sul mercato della condotta presa in considerazione.
In particolare, l’Autorità non aveva tenuto conto del contesto giuridico ed economico del mercato nel quale si era svolto il confronto concorrenziale in questione, legato: all’applicazione della normativa del codice dei contratti pubblici sulle imprese collegate (quali, nella specie, MFM e RM) che imponeva di conoscere “ex ante” la volontà di partecipazione, alla presenza di imprese consorziate che possono competere con il consorzio di appartenenza, alla possibilità di stipulare contratti di subappalto, da concludersi prima della presentazione delle offerte secondo quanto previsto dalla legge di gara.
Inoltre, l’AGCM non aveva preso nella giusta considerazione la consistenza delle offerte tecniche, limitandosi a porre attenzione unicamente a quelle economiche, non aveva inquadrato correttamente gli scambi di informazione tra MFM e RM nell’ambito dei legami societari sussistenti tra le parti, non aveva neanche attribuito adeguata rilevanza all’esistenza di un significativo numero di importanti operatori di mercati estranei all’area della concertazione collusiva e che erano stati perfettamente in grado di esercitare sulle parti sanzionate una notevole pressione concorrenziale nel quadro della gara in questione.
“ III. Terzo motivo: violazione dell’art. 101 TFUE e dell’art. 2 (1) del Reg. (CE) del Consiglio 16 dicembre 2002, n. 1/2003 per avere l’AGCM omesso di fornire la prova dell’asserita pratica concordata, valutando in maniera erronea tanto gli asseriti elementi di prova esogeni quanto quelli endogeni, facendo eccessivo ricorso a presunzioni e interpretando in maniera strumentale i documenti acquisiti al fascicolo istruttorio.”
Richiamando i principi stabiliti dalla giurisprudenza in materia di “standard” della prova della violazione delle regole di concorrenza e di onere della prova della sussistenza di una pratica concordata, la ricorrente evidenziava che il quadro accusatorio posto in essere dall’AGCM non teneva conto di altra spiegazione alternativa, plausibile e convincente, che era stata fornita da lei in istruttoria e che gli indizi utilizzati non rivestivano il carattere di “gravità”, “precisione” e “concordanza” richiesti dalla giurisprudenza.
Per quel che riguardava la corretta ricostruzione della vicenda e le spiegazioni alternative all’ipotesi collusiva fornite nel corso dell’istruttoria che l’Autorità non aveva ritenuto idonee, la ricorrente evidenziava, in sintesi, quanto segue: a) per quanto riguardava la scelta dei lotti sui quali presentare offerta, i relativi criteri erano fondati sull’assenza di lavoratori “ex LSU”, dei quali la legge di gara obbligava l’aggiudicatario a farsi carico, e sul radicamento territoriale della società;b) la stessa MFM si era valsa di una società di consulenza esterna al fine di valutare, in autonomia, la piena razionalità economica della partecipazione ai lotti posti a gara;c) la volontà di partecipare autonomamente ed indipendentemente dal CNS, pur essendo sua consorziata, era dettata dalla piena disposizione della capacità tecnica ed operativa per aspirare all’aggiudicazione e per evitare di dover corrispondere al consorzio la relativa percentuale consortile (c.d. “fee”), in coerenza, d’altro canto, con la partecipazione autonoma di MFM ad altre “gare Consip”, fermo restando che lo stesso statuto di CNS consentiva un assetto variabile tra le consorziate di “collaborazione/piena concorrenza”;d) la scelta dei lotti era stata anche guidata dal principio del radicamento territoriale della società, inteso come significativa presenza nei territori ricompresi nei lotti 2, 3, 8 e 9, tale da consentire oltre il 62% dei ricavi maturati nel 2012 dalla stessa ricorrente, non rilevando il concetto di “appalto storico”, cui si è riferita l’AGCM, da intendersi invece corrispondente a una porzione degli appalti di pulizia delle scuole confluiti in gara;e) la decisione di selezionare i su richiamati quattro lotti nei quali concorrere risultava anche sul frontespizio della c.d. “carpetta di gara” datata 30 luglio 2012, di cui risultava acquisita nel corso dell’accertamento ispettivo la sola documentazione interna ma non anche la copertina;f) i rapporti di “governance” tra MFM e RM obbligavano le parti a relazionare sulle rispettive intenzioni di partecipare a procedure di selezione pubblica, al fine del rispetto della norma di cui all’art. 38, comma 1, lett. m-quater), e comma 2, d.lgs. 163/06, ma non avevano dato luogo ad alcuna condivisione di documentazione sulla gara;g) non risultava acquisito alcuno scambio diretto di informazioni sulla gara in questione tra CNS e MFM;h) RM non possedeva i requisiti per poter partecipare autonomamente alla gara, per cui la negoziazione intercorsa con CNS non aveva alcuna relazione con questa;i) non risultava inviata per “e-mail” alcuna copia del regolamento dell’ATI 1 a MFM da parte di RM ma unicamente il testo del contratto di subappalto e la circostanza per la quale tali due imprese interloquivano sulla propria attività industriale commerciale era una mera supposizione di un rappresentante di CNS acquisita in corso di causa;l) il documento interno di CNS concernente la previsione di aggiudicazione dei lotti, in realtà non conteneva alcuna specifica indicazione ma era frutto della valutazione dell’esperienza, territorialità, solidità e fatturato di ciascun “competitor”, i cui nominativi erano stati appresi prima dell’aggiudicazione della gara;m) la scelta di CNS di non partecipare al lotto dell’Emilia-Romagna rispondeva a logiche imprenditoriali e non era affatto bilanciata dalla concessione da parte dell’aggiudicataria MFM di subappalti, avvenuta oltre un anno dopo e anche a favore di soggetti non consorziati di CNS, fermo restando che la ricorrente aveva dimostrato la convenienza economica di affidare alle cooperative sociali il subappalto in questione, secondo altrettanto non censurabili logiche imprenditoriali;n) il ribasso non particolarmente competitivo offerto da CNS per gli unici due lotti in cui vi era stato confronto con MFM non dava la certezza di avvantaggiare uno specifico concorrente, andando semplicemente a influenzare la media rispetto alla quale sarebbero state valutate le offerte di tutti i partecipanti;o) la consistenza delle offerte specifiche di CNS e MFM non era paragonabile, attesa la diversa struttura delle due compagini imprenditoriali.
“ IV. Quarto motivo: violazione dell’art. 101 TFUE per avere l’AGCM caratterizzato la pratica concordata constatata come avente per effetto di restringere il normale gioco della concorrenza senza avere analizzato quale sarebbe stato in concreto l’esito della Gara Consip per i lotti aggiudicati all’ATI 1 e a MFM in assenza delle condotte oggetto di addebito. In particolare, irragionevolezza dell’omessa considerazione del ruolo di numerosi concorrenti estranei all’area della concertazione conclusiva”.
La ricorrente insisteva nella censura riguardante la mancata considerazione degli effetti della condotta sanzionata, in quanto l’attenzione dell’Autorità doveva essere incentrata anche sulla posizione delle altre concorrenti e sui fattori o meccanismi specifici del mercato di riferimento, laddove invece era stato dato luogo ad un “ragionamento circolare” nel quale le argomentazioni utilizzate dall’AGCM avevano una mera struttura presuntiva non confermata dai necessari presupposti logici o fattuali, invece necessari secondo la conclusione cui è pervenuta la giurisprudenza in situazioni analoghe.
“ V. Quinto motivo: violazione dei principi di legalità e irretroattività in malam partem della pena (artt. 7 Convenzione europea, 49(1) Carta dei diritti fondamentali dell’UE e 25 Cost.) in sede di determinazione dell’importo della sanzione comminata a MFM;illegittimità del § 35 delle Linee guida”.
La ricorrente lamentava anche il calcolo dell’ammenda a lei irrogata, pari ad euro 48.510.000, fondata sulle Linee guida adottate il 24 ottobre 2014 e applicabili ai procedimenti istruttori in corso a quella data in cui la CRI non fosse stata ancora notificata alle parti.
In particolare, avendo avuto la pratica in questione luogo anteriormente al mese di ottobre 2014, l’unico parametro applicabile doveva essere quello del valore delle vendite effettivamente realizzate dei prodotti oggetto, direttamente o indirettamente, dell’infrazione, secondo gli Orientamenti CE in vigore “pro tempore” in materia di condotte di “bid ridding”.
L’adozione invece del criterio “dell’importo di aggiudicazione” per ciascun lotto ha comportato la considerazione, quale importo base della sanzione, di un valore più elevato rispetto al fatturato effettivo conseguito dalla ricorrente nei lotti in questione, di quasi sei volte superiore per quanto riguardava il lotto 2 e di quasi quattro volte superiore al valore dei ricavi nei lotti 2 e 4.
La qualificazione delle ammende comminate a seguito di una violazione della normativa “antitrust” come sanzioni penali, inoltre, secondo la conclusione della più recente giurisprudenza UE (sentenza “Menarini”) comportava l’applicazione dei principi generali di legalità e di “non retroattività”, di cui comunque anche l’art. 11 l. n. 689/81 è espressione.
Il riferimento al criterio degli importi oggetto di aggiudicazione era stato introdotto solo dalle su richiamate Linee guida (§ 18), entrate in vigore in tempo posteriore a quello delle condotte attuative, per cui il relativo criterio doveva essere dichiarato illegittimo, in quanto contrario ai suddetti diritti fondamentali, nella misura in cui esso, riportato nel § 35, non contemplava eccezioni al principio di irretroattività, con conseguente inapplicabilità del trattamento più sfavorevole all’impresa accusata.
“ VI. Sesto motivo: violazione, in sede di determinazione dell’importo della sanzione comminata a MFM, del principio di proporzionalità rispetto alla durata e gravità della condotta constatata;violazione e/o falsa applicazione dei § 7, 8, 11, 12 e 18 delle Linee Guida;omessa personalizzazione delle sanzioni in relazione alla gravità relativa della partecipazione di ciascuna delle Parti e omessa motivazione;in via subordinata, richiesta al Tribunale di ridurre la sanzione nell’esercizio della sua competenza giurisdizionale anche di merito”.
MFM rilevava che il valore complessivo degli importi di aggiudicazione ai fini del calcolo dell’importo base della sanzione era stato quantificato in euro 323.400.000, facendo riferimento al valore massimo convenzionabile complessivo previsto per ciascun lotto aggiudicato alla ricorrente (lotti 2, 8 e 9) comprensivo del “plafond” ma così soffermandosi su un valore delle vendite puramente teorico piuttosto che a quello storico effettivo, legato al dato reale degli ordinativi che le imprese aggiudicatarie avrebbero ricevuto, come era considerabile “ex ante” al momento della valutazione della partecipazione alla gara.
Inoltre, la stessa giurisprudenza della Corte UE aveva più volte rilevato il rispetto delle esigenze di proporzionalità nell’irrogazione della sanzione, così come confermato dai § 2 e 18 delle richiamate Linee guida, che facevano riferimento al criterio adottato dall’AGCM qualificandolo come elemento da applicare comunque solo “in linea di principio”. Nel caso di specie, invece, la proporzionalità non era stata affatto rispettata, in quanto il valore complessivo degli ordinativi ricevuti tra il mese di novembre 2013 e quello di novembre 2015 era stato di gran lunga inferiore al rispettivo importo di aggiudicazione.
L’AGCM avrebbe comunque dovuto applicare una percentuale significativamente inferiore a quella del 15% utilizzata nel provvedimento impugnato e avrebbe dovuto considerare i successivi ridotti stanziamenti del MIUR per i servizi di pulizia in questione.
Risultava poi erronea l’inclusione del “plafond” aggiuntivo per ciascun lotto ai fini del calcolo dell’importo base della sanzione, dato che quest’ultimo rappresenta per l’impresa aggiudicataria nient’altro che un impegno convenzionale a erogare, in caso di ricezione di ordinativi superiori al massimale di fornitura, prestazioni aggiuntive agli stessi valori di corrispettivo dell’aggiudicazione, costituendo così una parte non integrante del valore massimo convenzionale perché applicabile solo in via residuale e ipotetica al momento dell’aggiudicazione.
Erronea era anche la valutazione della gravità della condotta, in assenza di evidenti elementi probatori idonei a dissimulare il preteso comportamento collusivo ed eliminare possibili fonti di prova a carico, non potendo essere tali la bozza di accordo di subappalto esplicitamente sottoscritto tra CNS e RM, gli esiti di una riunione tenutasi il 20 novembre 2013 tra alcuni partecipanti alla gara, tra i quali però anche altri ”players” di mercato non accusati della pratica collusiva in questione, nonché uno scambio di “e-mail” nel periodo ottobre-novembre 2013, successivo di un anno al termine di presentazione delle offerte, che comunque riguardava un’associazione di categorie tra i cui soci comparivano CNS e MFM ma anche altri operatori di settore, dal contenuto comunque del tutto estraneo alla conferma della pratica concordata segreta, come tale ritenuta e sanzionata dall’AGCM.
Non era stata neanche applicata la riduzione per l’effettivo coinvolgimento di ciascuna delle parti nella pratica concordata, per la quale la ricorrente non era considerabile in posizione “centrale”.
Da ultimo, MFM invocava la potestà di questo Tribunale di poter ridurre la sanzione nell’esercizio della sua competenza giurisdizionale anche di merito.
“ VII. Settimo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 15 della Legge;eccesso di potere per difetto di motivazione, travisamento dei fatti e illogicità manifesta per aver l’Autorità ordinato alle Parti di adottare misure “atte ad evitare il riproporsi di condotte collusive analoghe a quelle accertate”: la natura dell’oggetto delle misure in questione sono generici ed indeterminati e ciò rende l’ordine non attuabile.”
La ricorrente lamentava anche che l’intimazione alle parti riportata in rubrica si palesava del tutto generica e indeterminata e, come tale, inattuabile, tenuto conto che il nucleo delle contestazioni richiamava nella sostanza l’utilizzo distorto delle regole consortili, imputabile quindi esclusivamente a CNS.
Se poi l’intimazione, nella parte rivolta a MFM, riguardava un possibile impegno a partecipare alle future procedure di gara esclusivamente in qualità di consorziata anziché in maniera autonoma, essa era palesemente sproporzionata e illogica nonché in contrasto con la libertà di impresa costituzionalmente garantita.
Si costituiva in giudizio l’Autorità intimata, chiedendo la reiezione del ricorso secondo tesi illustrate in specifica memoria per la camera di consiglio.
In tale occasione la trattazione della causa era rinviata al merito e, in prossimità della relativa udienza pubblica, le parti costituite depositavano ulteriori memorie a sostegno delle rispettive tesi (la ricorrente anche di replica). La difesa dell’AGCM depositava anche una specifica istanza di autorizzazione al deposito tardivo e così pure faceva la ricorrente in relazione alla sua replica.
Alla pubblica udienza del 6 luglio 2016 la causa era trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il Collegio, in via preliminare, ritiene di concedere eccezionalmente l’autorizzazione alle parti al deposito tardivo degli ultimi scritti difensivi, ai sensi dell’art. 54, comma 1, c.p.a., attesa la complessità della fattispecie e il numero rilevante di documenti da esaminare.
Passando all’esame del ricorso, il Collegio, senza dilungarsi oltremodo sui presupposti che la giurisprudenza ha individuato ai fini della valutazione di legittimità di provvedimenti sanzionatori in materia di “antitrust”, peraltro ben noti alle parti che ne hanno fatto ampio richiamo nelle proprie difese, evidenzia, in sintesi, quanto già recentemente precisato sul punto (per tutte: TAR Lazio, Sez. I, 25.7.16, n. 8506).
In particolare, si è evidenziato che la concorrenza sul mercato è tutelata al fine di garantire il benessere dei consumatori e un’allocazione efficiente delle risorse, per cui ogni operatore economico deve determinare in maniera autonoma il suo comportamento nel mercato di riferimento (Case C-49/92 Commission v Anic Partecipazioni s.p.a. [1999] ECR I-4125), non essendogli consentito instaurare con gli altri “competitors” contatti diretti o indiretti aventi “per oggetto” o “per effetto” di creare condizioni di concorrenza non corrispondenti alle condizioni normali del mercato.
Tali contatti vietati possono, poi, rivestire la forma dell’accordo ovvero quella delle pratiche concordate.
Il Consiglio di Stato (per tutte, tra le ult.: Sez. VI, 4.9.15, n. 4123 nonché 13.5.11, n. 2925, con ampi richiami giurisprudenziali, comunitari e nazionali) ha infatti avuto modo di precisare in argomento quanto segue: “Mentre la fattispecie dell’accordo ricorre qualora le imprese abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un determinato modo, la pratica concordata corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce, in modo consapevole, un’espressa collaborazione fra le stesse per sottrarsi ai rischi della concorrenza. I criteri del coordinamento e della collaborazione, che consentono di definire tale nozione, vanno intesi alla luce dei principi in materia di concorrenza, secondo cui ogni operatore economico deve autonomamente determinare la condotta che intende seguire sul mercato. Pur non escludendo la suddetta esigenza di autonomia il diritto degli operatori economici di reagire intelligentemente al comportamento noto o presunto dei concorrenti, essa vieta però rigorosamente che fra gli operatori abbiano luogo contatti diretti o indiretti aventi per oggetto o per effetto di creare condizioni di concorrenza non corrispondenti alle condizioni normali del mercato. L’intesa restrittiva della concorrenza mediante pratica concordata richiede comportamenti di più imprese, uniformi e paralleli, che costituiscano frutto di concertazione e non di iniziative unilaterali, sicché nella pratica concordata manca, o comunque non è rintracciabile da parte dell’investigatore, un accordo espresso, il che è agevolmente comprensibile, ove si consideri che gli operatori del mercato, ove intendano porre in essere una pratica anticoncorrenziale, ed essendo consapevoli della sua illiceità, tenteranno con ogni mezzo di celarla, evitando accordi scritti o accordi verbali espressi e ricorrendo, invece, a reciproci segnali volti ad addivenire ad una concertazione di fatto. La giurisprudenza, consapevole della rarità dell’acquisizione di una prova piena, ritiene che la prova della pratica concordata, oltre che documentale, possa anche essere indiziaria, purché gli indizi siano gravi, precisi e concordanti. Nella pratica concordata l’esistenza dell’elemento soggettivo della concertazione deve perciò desumersi in via indiziaria da elementi oggettivi, quali:
- la durata, l’uniformità e il parallelismo dei comportamenti;
- l’esistenza di incontri tra le imprese;
- gli impegni, ancorché generici e apparentemente non univoci, di strategie e politiche comuni;
- i segnali e le informative reciproche;
- il successo pratico dei comportamenti, che non potrebbe derivare da iniziative unilaterali, ma solo da condotte concertate.
La giurisprudenza comunitaria e nazionale distingue tra parallelismo naturale e parallelismo artificiosamente indotto da intese anticoncorrenziali, di cui la prima fattispecie da dimostrare sulla base di elementi di prova endogeni, ossia collegati alla stranezza intrinseca delle condotte accertate e alla mancanza di spiegazioni alternative, nel senso che, in una logica di confronto concorrenziale, il comportamento delle imprese sarebbe stato sicuramente o almeno plausibilmente diverso da quello riscontrato, e la seconda sulla base di elementi di prova esogeni, ossia di riscontri esterni circa l’intervento di un’intesa illecita al di là della fisiologica stranezza della condotta in quanto tale. La differenza tra le due fattispecie e correlative tipologie di elementi probatori – endogeni e, rispettivamente esogeni – si riflette sul soggetto, sul quale ricade l’onere della prova: nel primo caso, la prova dell’irrazionalità delle condotte grava sull’Autorità, mentre, nel secondo caso, l’onere probatorio contrario viene spostato in capo all’impresa. In particolare, qualora, a fronte della semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti sul mercato, il ragionamento dell’Autorità sia fondato sulla supposizione che le condotte poste a base dell’ipotesi accusatoria oggetto di contestazione non possano essere spiegate altrimenti se non con una concertazione tra le imprese, a queste ultime basta dimostrare circostanze plausibili che pongano sotto una luce diversa i fatti accertati dall’Autorità e che consentano, così, di dare una diversa spiegazione dei fatti rispetto a quella accolta nell’impugnato provvedimento. Qualora, invece, la prova della concertazione non sia basata sulla semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti, ma dall’istruttoria emerga che le pratiche possano essere stati frutto di una concertazione e di uno scambio di informazioni in concreto tra le imprese, in relazione alle quali vi siano ragionevoli indizi di una pratica concordata anticoncorrenziale, grava sulle imprese l’onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti” (sulla ricostruzione della fattispecie delle pratiche concordate anticoncorrenziali, in punto di giurisprudenza dell’Unione, v: Case 41, 44 e 45/69 ACF Chemiefarma NV v Commission [1970] ECR 661, Polypropylene [1986] OJ L230/1, Cases 48-57 ICI v. Commission [Dyestuffs 1972] ECR619;cases 40-48, 50, 54-56, 111, 113 e 114/73 Cooperatieve Verenigning ‘Suiker Unie’ UA v Commission [1975] ECR 16634, Case 172/80 Zuechner v Bayerische Vereinsbank [1981] ECR2021).
Per quanto riguarda, poi, l’individuazione del “mercato rilevante” in cui la condotta sanzionabile è ritenuta realizzata – per quanto riguarda la presente fattispecie - come ampiamente rilevato dalla giurisprudenza (con riferimento a “gare d’ambito”, v. Cons. Stato, Sez. VI, 4.11.14, n. 5423), la definizione ed estensione del concetto di “mercato rilevante” spetta all’Autorità competente quale frutto di una valutazione discrezionale, non censurabile nel merito da parte del giudice amministrativo se non per vizi di illogicità estrinseca, e ben può essere desunta all’esito dell’esame della singola e specifica condotta della quale sia sospettata la portata anticoncorrenziale, con la conseguenza per la quale il “mercato rilevante” può anche coincidere con una singola gara. Ciò vale tanto più nel caso in esame ove – aggiunge il Collegio - la procedura riguardava l’intero territorio nazionale, sia pure suddiviso in lotti regionali o macroregionali.
Passando ad esaminare i singoli motivi di ricorso, il Collegio rileva l’infondatezza del primo.
Dal contesto del provvedimento impugnato si evince con sufficiente chiarezza che, nella ricostruzione dell’AGCM, l’intesa anticoncorrenziale come individuata è stata ritenuta connotata per il suo stesso “oggetto”, in cui le parti, quali maggiori “players” del settore, CNS e MFM, hanno eliminato “a monte” un rischio, quale quello del reciproco confronto concorrenziale, condizionando in tal guisa lo svolgimento della gara, ma anche che la medesima si è “compiutamente realizzata”, in virtù dell’aggiudicazione del numero massimo di lotti per ciascuno degli operatori, salvo quanto vale per le altre imprese, RM e Kuadra, i cui specifici ricorsi, in decisione alla medesima udienza, sono trattati in altra pronuncia. Né è sorta, quindi, anche una connotazione “per effetto”, già prospettata nella CRI.
Inoltre, il Collegio osserva che tale corrispondenza fa desumere che non vi è stata una mutazione della natura sostanziale della violazione accertata rispetto alla contestazione, essendosi l’Autorità limitata a riproporre le stesse imputazioni sui medesimi fatti, sia pure arricchendole di ulteriori valutazioni, con conseguente assenza di una “modifica dell’imputazione” assimilabile all’art. 423 c.p.p. e di una lesione del diritto di difesa della ricorrente, che ha peraltro ampiamente fornito il suo contributo procedimentale, sia in relazione a una contestazione “per oggetto” sia a una contestazione “per effetto”, come si rileva dalla lettura dello stesso provvedimento impugnato che riporta ampiamente le argomentazioni delle parti.
Inoltre, si richiama la conclusione giurisprudenziale - con cui il Collegio concorda - per la quale non può pretendersi che la decisione finale sia una “copia” della comunicazione degli addebiti formulati, dovendo avere il procedimento la sua funzione di acquisizione di ulteriori fatti, elementi e deduzioni (Cons. Stato, Sez. VI, 15.5.15, n. 2479 nonché Corte di Giustizia CE, 3.9.09, C-534/07).
Nel caso di specie non si riscontra nessuna violazione del diritto di difesa, in quanto la decisione finale ha fatto riferimento ad una imputazione esposta nella comunicazione degli addebiti in modo sufficiente per consentire ai destinatari di difendersi (Cons. Stato, Sez. VI, 1.3.12, n.1192), come in effetti avvenuto sia in relazione all’inquadramento “per oggetto” che “per effetto”, cui le argomentazioni della ricorrente nel corso del procedimento si riferivano.
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Il Collegio rileva che le fattispecie dell’“accordo” e quella della “pratica concordata”, pur presentando elementi costitutivi differenti, non sono mutualmente incompatibili e possono quindi coesistere.
Questa Sezione ha già recentemente evidenziato che una siffatta interpretazione non è incompatibile con la natura restrittiva del divieto posto dall’art. 101 TFUE e comporta l’accettazione del fatto che nel caso di illecito “antitrust” posto in essere attraverso differenti forme di condotta, queste, pur diversamente definite, ricadono comunque nell’ambito applicativo della stessa norma sanzionatoria e sono tutte ugualmente vietate, con la conseguenza che l’effetto di deterrenza della norma di forme collusive anticompetitive, è in ogni caso realizzato (TAR Lazio, Sez. I, n. 8506/16 cit.).
Nella presente fattispecie, quindi, l’AGCM ha sostanzialmente contestato alle parti una concertazione “complessa”, definendone con chiarezza – secondo la sua ricostruzione - il plurimo oggetto anticompetitivo, vale a dire la volontà di condizionare gli esiti della gara Consip attraverso l’eliminazione del reciproco confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti più appetibili nei limiti di quanto prescritto dalla “lex specialis”, con valorizzazione economica dei rapporti di portafoglio.
Devono quindi essere disattese le censure variamente volte a contestare l’inammissibilità della ricostruzione operata dall’Autorità sotto il profilo dell’incertezza o indeterminatezza del provvedimento sanzionatorio in merito alla identificazione dei comportamenti contestati per la mancata riconduzione degli stessi all’accordo o alla pratica concordata.
Così pure, non risulta dal contesto del provvedimento impugnato che sia stato censurato il ricorso a forme di aggregazione partecipativa a pubbliche gare in sé considerato, quali a.t.i., subappalto o partecipazione consortile, ma l’uso distorto del coordinamento che ne è derivato nella specifica gara esaminata, con conseguente sufficiente grado di dannosità.
Né vale quanto osservato dalla ricorrente sulla necessità di evidenziare gli effetti concreti sul mercato cui la condotta “per oggetto” avrebbe dato luogo, in quanto l’AGCM ha più volte sottolineato nel provvedimento che l’esito della gara era stato concretamente condizionato dall’aggiudicazione di otto lotti su tredici ai principali “players”, MFM e CNS.
Basti ricordare che, per consolidata giurisprudenza, un'intesa restrittiva della concorrenza integra "una fattispecie di pericolo, nel senso che il vulnus al libero gioco della concorrenza può essere di natura soltanto potenziale e non deve necessariamente essersi già consumato" (Consiglio Stato, 13.6.14, n. 3032 e 24.10.14, nn. 5274-78).
Anche questa Sezione, in adesione agli orientamenti del giudice comunitario e proprio in materia di gare d’appalto, ha di recente affermato che “…alcune forme di coordinamento tra imprese rivelano un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l'esame dei loro effetti non sia necessario. Secondo la medesima giurisprudenza, si tratta in particolare, delle forme di coordinamento tra imprese c.d. "per oggetto" - come la fissazione di prezzi o la spartizione del mercato, ed in particolare, così come nella fattispecie in esame, il coordinamento nella partecipazione alle gare d'appalto (c.d. "bid rigging') - che possono essere considerate, per loro stessa natura, dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, perché la probabilità di effetti negativi è talmente alta da rendere inutile la dimostrazione degli effetti concreti sul mercato, ai fini dell'applicazione dell'articolo 81, paragrafo 1, CE” (Tar Lazio, Sez. I, n. 8506/16 cit. nonché 16.11.15, nn. 12931-35).
In sostanza, tale essendo l'illecito collusivo accertato nel procedimento “de quo”, è evidente che l’Autorità non era tenuta a svolgere ulteriori accertamenti volti a verificare se l'intesa avesse in concreto prodotto effetti anticoncorrenziali sul mercato, una volta stabilito il suo oggetto anti-competitivo per come descritto.
Quanto detto vale anche a confutazione del quarto motivo di ricorso, che ripropone nella sostanza la censura fondata sulla ritenuta necessità per l’AGCM di dover dimostrare in concreto l’esito della gara in assenza delle condotte addebitate, necessità che – come visto – non si ritiene indispensabile nel caso di specie, ove è stata l’eliminazione del confronto concorrenziale “a monte” ad essere fulcro della condotta sanzionata.
Passando ad esaminare il terzo motivo di ricorso, il Collegio osserva che nelle ben cinquanta pagine spese dalla ricorrente per sostenere l’assenza di sufficiente materiale indiziario/probatorio, di tipo endogeno ed esogeno, su cui si è fondata l’Autorità, l’intento non appare raggiunto.
Ad un esame contestuale e complessivo delle risultanze in atti, non emergono dimostrate circostanze plausibili che pongano sotto una luce diversa i fatti accertati dall'Autorità e che consentano, in tal modo, di dare una diversa spiegazione logica dei fatti rispetto a quella accolta nell'impugnato provvedimento né di dare una diversa spiegazione lecita della condotta in esame.
In particolare, per quanto riguarda la strategia partecipativa di MFM, particolare rilievo assume la circostanza per la quale non risultano presentate da questa offerte sui lotti poi aggiudicati all’ATI 1, da unirsi all’altra relativa alla sovrapposizione parziale dell’offerta ATI 1 su due lotti aggiudicati a MFM con offerta però non particolarmente competitiva (lotti 3 e 9).
Dalle tesi espresse nel procedimento e negli scritti difensivi, non si rinviene una spiegazione plausibile a giustificazione di tale singolarità.
In primo luogo, è vero che, in senso assoluto, non è impedito alle consorziate di competere autonomamente in gare cui decide di partecipare anche il consorzio ma in questo caso la partecipazione deve essere, in concreto, assolutamente competitiva, attraverso la presentazione di offerte idonee a dare luogo ad un confronto pienamente concorrenziale.
Nel caso di specie, la ricorrente evidenzia di aver commissionato a una società di consulenza del settore uno studio ai fini di formulare un’offerta tecnica particolarmente competitiva sui lotti individuati (tanto da ottenere non meno di p. 55/60 per ogni lotto) fin dal 30.7.12 (si ricorda che il bando era stato pubblicato l’11.7.12 e il termine per la presentazione delle offerte scadeva il 15.10.12), come desumibile dell’esame della “copertina” (c.d. “carpetta di gara”) in possesso della società ma inopinatamente non copiata dai funzionari AGCM in sede ispettiva.
In merito a tale ultima circostanza, il Collegio ritiene suggestiva ma non idonea la spiegazione data dalla ricorrente, in quanto appare poco verosimile che un documento di siffatta importanza sia stato lasciato copiare senza un elemento fondamentale per la sua giustificazione come tale “copertina”.
Ma anche ammettendo la verosimilità di tale ricostruzione, il Collegio non considera valida la spiegazione alternativa di MFM, secondo cui proprio la scelta di affidarsi a un consulente esterno sarebbe stata irrazionale se fosse stato già concluso un accordo spartitorio con CNS.
Il Collegio ritiene condivisibile la considerazione dell’AGCM, secondo la quale era la parametrazione dei lotti su cui concorrere che richiedeva una necessaria e parallela attività di affinamento della pratica competitiva concordata, tenuto conto – aggiunge il Collegio – che analoga situazione di affidamento a terzi dello studio della conformazione di gara non era riconducibile anche a CNS, che il termine di presentazione delle offerte andava oltre la richiamata data del 30.7.12 e che comunque l’offerta doveva essere credibile per evitare valutazioni di anomalia.
Passando al “nucleo” della questione relativa alla scelta di escludere i lotti cui partecipava CNS, la ricorrente sostiene che essa era dettata da mera strategia imprenditoriale, legata all’assenza di lavoratori “ex LSU” e al radicamento territoriale nelle aree geografiche in questione.
Sul primo profilo, non appare come valida spiegazione alternativa quella proposta in quanto condivisibilmente l’AGCM ha evidenziato che la gestione di tale tipologia di lavoratori – oltretutto, aggiunge il Collegio, per un’impresa del settore operante su gran parte del territorio nazionale – sia in sé antieconomica, tenuto conto anche che alcuni lotti (lotto 1) ne possedevano un numero molto basso (62).
Sul punto le tesi di MFM, riproposte anche in questa sede, non convincono, dato che non risulta dimostrato che tale impresa non gestisca contratti con lavoratori ex LSU o che il rapporto costi/benefici derivante dall’aggiudicazione di uno dei lotti poi aggiudicati all’ATI 1 sarebbe stato antieconomico in assoluto. Che altre imprese successivamente si siano trovate in difficoltà per tale ragione non prova alcunché in tal senso, vista la non comparabilità di forza economica con MFM, primaria “player” del settore;così pure non rilevante appare la circostanza per la quale il MIUR abbia successivamente deciso di ridurre i fondi disponibili per assicurare la continuità occupazionale degli “ex LSU”, non essendo dimostrato che tale circostanza era prevedibile al momento di presentazione delle offerte.
Che vi siano state offerte nei lotti con “ex LSU” in numero minore rispetto a quelle dei lotti cui ha partecipato MFM non dimostra l’illogicità delle conclusioni dell’AGCM, in quanto comunque offerte ci sono state, tra cui da parte dello stesso CNS (che ha limitato la considerazione “escludente” sulla presenza di “ex LSU” solo ai lotti per il sud Italia), per cui evidentemente un vantaggio economico era comunque prospettabile, altrimenti non si comprenderebbe la strategia delle imprese partecipanti orientata a quel punto a scelte economiche non oculate, come correttamente osservato nel provvedimento impugnato.
In sostanza appare illogica – se non nel quadro della ricostruzione “collusiva” individuata dall’AGCM – la mancata partecipazione di MFM alla gara per lotti comunque appetibili per ragioni di ordine economico non ritenute tali da CNS.
Per quel che riguarda il profilo legato al radicamento territoriale della ricorrente nei lotti 2, 3, 8 e 9, se questo fosse stato il solo elemento “positivo” per spingere alla partecipazione (unito all’altro “negativo” sopra ricordato della presenza di “ex LSU”) non si comprende nuovamente la ragione dell’affidamento di un costoso studio a società di consulenza per decidere l’individuazione dei lotti (già sancita, secondo MFM, dalla richiamata “carpetta” del 30.7.12).
Ma anche a tacere di ciò, lo stesso richiamo alla volontà di favorire tale pregresso radicamento territoriale – sia pure non nella forma del possesso di “appalti storici” quale “porzione” degli appalti di pulizia, come illustrato nel ricorso da MFM – appare dare consistenza allo “sfondo” individuato dall’AGCM, orientato al mantenimento della garanzia di “portafoglio” delle imprese consorziate e non spiega per quale ragione la ricorrente non abbia ritenuto di espandere la propria attività anche in altre zone d’Italia, non ostandovi ragioni di ordine organizzativo particolare.
Ciò rinsalda anche l’osservazione dell’Autorità nel provvedimento impugnato, secondo cui appare irrilevante l’utilizzo di simulatori per la formulazione delle offerte presentate, dato che era comunque interesse di tutte le parti proporre offerte che in seguito all’individuazione in concreto degli edifici scolastici “convenzionandi” avrebbero reso appetibili i servizi oggetto di gara.
A ciò si aggiunga che in tale ottica permane l’illogicità, se non nella evidenziata conclusione dell’AGCM, della mancata offerta nel lotto 4 ove vi era un cospicuo portafogli detenuto da RM, partecipata da MFM.
Chiarito quanto sopra per gli elementi di prova endogeni, in riferimento a quelli esogeni, per quanto riguarda MFM, si evidenzia che l’AGCM non ha contestato la necessità di confronto con RM ai fini dell’applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. m-quater) d.lgs. n. 163/06 ma la funzione di “tramite” che l’accordo tra CNS e RM ha consentito, ai fini della preventiva individuazione della partecipazione o meno al lotto 4.
Risulta infatti una “e-mail” in cui nel quadro dell’accordo RM/CNS era trasmesso il regolamento interno dell’ATI 1 con indicazione dei lotti in cui presentare offerta e ciò non avrebbe avuto ragione di essere se non nell’ottica compensativa/collaborativa identificata dall’AGCM, dato che l’ATI 1 non comprendeva RM.
Né risulta che RM non possedesse i requisiti per partecipare singolarmente, in quanto non avrebbe avuto senso logico la clausola del relativo accordo in cui RM dichiarava di rinunciare a partecipare alla medesima, se essa “ab origine” non avesse posseduto i requisiti.
Risulta inoltre una delibera del 2.8.12 in cui il Consiglio di amministrazione aveva in realtà deciso di partecipare alla gara, evidentemente con la consapevolezza di detenere i requisiti richiesti, anche se per soli due lotti.
Così pure irrilevante è l’osservazione della ricorrente in ordine alla circostanza per la quale RM avrebbe potuto decidere, in piena autonomia e sulla base delle proprie valutazioni di opportunità, di accordarsi con CNS anche in caso di partecipazione alla gara di MFM, non essendovi alcuna certezza di aggiudicazione a favore di quest’ultima, dato che tale conclusione è meramente ipotetica e l’eliminazione del confronto concorrenziale è stato il fulcro della condotta sanzionata, non l’intervenuta aggiudicazione o una ragionevole previsione di questa, e ciò vale anche per quanto riguarda la consistenza probatoria del documento interno a CNS contenente i nominativi dei partecipanti alla gara e una valutazione prognostica sugli esiti.
Risultano poi una “e-mail” inviata da RM a MFM contenente il testo dell’accordo con CNS prima della sua sottoscrizione e ciò appare plausibile solo nell’ottica di una condivisione di informazioni sulla gara e sulla partecipazione al lotto 4 nonché una precedente “e-mail” in cui invece RM comunicava a MFM di voler partecipare, tra altre, anche alla gara Consip in questione.
Seguono anche varie comunicazioni in cui: MFM inviava a RM il testo di una bozza di accordo di subappalto da lei utilizzata e da considerare nella trattativa con CNS, MFM riceveva a sua volta da RM il testo definitivo dell’accordo RM/CNS prima della sottoscrizione, poi successivamente applicato mediante affidamento di subappalti anche ulteriori rispetto a quello originario.
In sostanza, il quadro indiziario complessivo fa emergere la plausibilità dell’unica interpretazione data dall’AGCM, legata all’esistenza di una strategia a valenza anticoncorrenziale orientata a eliminare il rischio del confronto in gara dei due principali “competitors” su determinati lotti, con conseguente mantenimento di quote di portafoglio di MFM anche attraverso società controllata e mediante subappalto.
Ne emerge, quindi, l’infondatezza del terzo motivo di ricorso, anche laddove MFM tenta di evidenziare la congruità delle offerte di CNS per i lotti 3 e 9 in considerazione della specificità della legge di gara che avrebbe premiato la maggior vicinanza alla media dei ribassi e non i più aggressivi o prudenti, per cui un’offerta non particolarmente aggressiva non avrebbe, a priori, avvantaggiato un determinato concorrente ma solo influenzato la suddetta media.
Come più volte evidenziato, infatti, nel caso di specie è la certezza di non avere concorrenzialità dal maggior “competitor” ad essere stata stigmatizzata non l’esito di ciascuna gara per lotti.
Passando ad esaminare l’entità della sanzione irrogata, il Collegio rileva invece la (parziale) fondatezza delle doglianze della ricorrente.
Per quel che riguarda, comunque, il quinto motivo di ricorso, il Collegio non ne rileva la condivisibilità, in quanto non si vedono ragioni per ritenere non applicabili al caso di specie le Linee guida adottate dall’Autorità il 22.10.2014, ben prima della notificazione della CRI avvenuta il 16.10.2015.
Questa Sezione ha infatti recentemente affermato – con motivazione che il Collegio condivide e riporta – che: “…il fatto per cui, nel caso in esame, sia stata riconosciuta la sussistenza di un’ipotesi di violazione dell’art. 101 del TFUE non vale a ricondurre l’intera fattispecie sotto l’ambito di applicazione esclusivo degli Orientamenti della Commissione per il calcolo delle ammende, di cui alla comunicazione della Commissione 2006/C 210/02. Come recentemente ribadito dalla Corte di Giustizia ‘Secondo una giurisprudenza costante, il meccanismo di cooperazione tra la Commissione e le autorità nazionali garanti della concorrenza, che è stato previsto al capitolo IV del regolamento n. 1/2003, mira a garantire un'applicazione uniforme delle regole di concorrenza negli Stati membri’. Tale cooperazione, conformemente al considerando 15 del regolamento n. 1/2003, comporta che ‘la Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri formano insieme una rete di pubbliche autorità che applicano le regole di concorrenza dell'Unione in stretta cooperazione’, la quale, ai sensi del punto 1 della comunicazione sulla cooperazione “costituisce un foro di discussione e di cooperazione in materia di applicazione e di vigilanza sul rispetto della politica della concorrenza dell'Unione’. A tanto consegue che l’ECN (European Competition Network), ‘intesa a promuovere la discussione e la cooperazione nell'attuazione della politica della concorrenza, non ha il potere di adottare norme giuridicamente vincolanti’ (cfr. Corte giustizia UE, sez. II, 20/01/2016, n. 428). Va, quindi, in primo luogo, rilevato come legittimamente il provvedimento, che ha ritenuto la sussistenza di un’ipotesi di violazione dell’art. 101 del TFEU, ha conformato l’attività di determinazione della sanzione ai criteri contenuti nelle Linee guida approvate dall’Autorità il 22 ottobre 2014 invece che sulla base dei criteri indicati negli orientamenti per il calcolo delle ammende inflitti in applicazione dell’art. 23, paragrafo 2, lettera a) del regolamento CE n. 1/2003 di cui alla comunicazione della commissione 2006/C 210/02 (in tale senso vedi, in fattispecie analoga in cui l’Autorità nazionale italiana ha sanzionato un illecito definito ai sensi dell’art. 101 TFUE, TAR Lazio, Roma. 5 aprile 2016, n. 4099). Neppure è configurabile la prospettata violazione dei principi della certezza del diritto, del legittimo affidamento e di non retroattività delle norme di cui agli art. 6 e 7 CEDU e degli artt. 74 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, non essendo configurabile alcuna successione nel tempo di norme applicabili alla medesima fattispecie...Deve infatti osservarsi come le decisioni della giurisprudenza amministrativa che hanno valutato con favore il richiamo che l’Autorità ha fatto, in taluni provvedimenti emessi prima dell’adozione delle linee guida, agli Orientamenti comunitari, hanno rilevato come il riferimento abbia consentito di far emergere l’iter argomentativo seguito in punto di quantificazione della sanzione - motivazione altrimenti assente o di difficile lettura - ma non hanno, tuttavia, riconosciuto una sfera di diretta cogenza delle disposizioni nel sistema nazionale.” (TAR Lazio, Sez. I, n. 8506/16 cit.).
In ordine alla irretroattività pure invocata dalla ricorrente, ugualmente si richiama il recente orientamento di questa Sezione, secondo cui: “…le Linee Guida sono applicabili, per loro espressa previsione, ai procedimenti ‘in corso’ al momento della loro adozione, ovvero ‘nei quali non sia stata notificata alle parti la comunicazione delle risultanze istruttorie’…secondo il medesimo regime transitorio già adottato dalla Commissione per gli Orientamenti sulle ammende 2006, la cui legittimità è stata confermata anche dal giudice amministrativo (tra le altre, Tar Lazio 7 aprile 2008, n. 2900, confermata da Consiglio di Stato 20 aprile 2011, n. 2438, Telecom-Vodafone-Wind), fermo restando che le stesse Linee Guida si sono limitate a formalizzare orientamenti giurisprudenziali oramai noti e consolidati sul carattere dissuasivo e sull'efficacia deterrente della sanzione antitrust e sulla gravità delle c.d. intese hardcore, impedendo di individuare la violazione di un legittimo affidamento degli interessati” (TAR Lazio, Sez. I, 5.4.16, n. 4099).
Fondato – nei limiti che si vanno a precisare – è invece quanto illustrato nel sesto motivo di ricorso.
In esso, in sintesi, la ricorrente contesta in generale l’importo della sanzione e che, in particolare, sia stato compreso nell’importo di aggiudicazione posto a base di esso anche il c.d. “plafond”, ancorandosi così a un valore delle “vendite” puramente teorico, piuttosto che “storico-effettivo”, perché non collegato al dato reale degli ordinativi, e che non risultano rispettati il principio di “proporzionalità”, di cui all’art. 2 delle Linee guida, nonché quello che impone di considerare la gravità dell’infrazione, ferma restando la richiesta conclusiva indirizzata a questo Tribunale di ridurre la sanzione ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a.
Ebbene, per quanto riguarda il primo profilo, il Collegio rileva che l’art. 18 di tali Linee guida prevede testualmente che: “ In generale, anche nei casi di collusione nell’ambito di procedure di gare di appalti pubblici, l’Autorità prenderà in considerazione il valore delle vendite direttamente o indirettamente interessate dall’illecito. In linea di principio, tale valore corrisponde, per ciascuna impresa partecipante alla pratica concertativa, agli importi oggetto di aggiudicazione o posti a base d’asta in caso di assenza di aggiudicazione o comunque affidati ad esito di trattativa privata nelle procedure interessate dall’infrazione, senza necessità di introdurre aggiustamenti per la durata dell’infrazione ai sensi dei paragrafi precedenti. Resta fermo che laddove il mercato rilevante risulti più ampio della/e gara/e considerata/e, l’Autorità potrà prendere in considerazione il valore complessivo delle vendite relative all’intero mercato del prodotto/servizio interessato dall’infrazione (comprensivo dunque di tutte le vendite realizzate dall’impresa nel mercato rilevante e non solo di quelle oggetto della gara d’appalto interessata) nell’ultimo anno intero di partecipazione all'infrazione, se del caso modulato in funzione della sua durata ai sensi dei paragrafi precedenti. ”
In riferimento al caso di specie, quindi, prende rilievo l’ipotesi che considera, “in linea di principio”, quale “valore delle vendite direttamente o indirettamente interessate dall’illecito”, gli “importi oggetto di aggiudicazione o posti a base d’asta in assenza di aggiudicazione”.
L’AGCM ha ritenuto che il valore massimo convenzionabile considerato per ciascun lotto era comprensivo del “plafond” aggiuntivo, ritenuto parte integrante di tale valore perché configurabile come ampliamento dell’oggetto prestazionale dell’appalto e del connesso corrispettivo che la stazione appaltante può imporre, in virtù di determinate condizioni, all’aggiudicatario senza ulteriore procedura ad evidenza pubblica e quindi rientrante a pieno titolo nel corrispettivo della commessa.
In merito, però, il Collegio condivide le osservazioni della ricorrente, secondo le quali tale “plafond” in realtà aveva natura meramente eventuale, perché preso in considerazione nella sola ipotesi in cui l’aggiudicatario avesse ricevuto ordinativi nonostante l’intervenuto esaurimento del massimale di fornitura, ipotesi peraltro non realizzatasi nel caso di specie in relazione ai tre lotti aggiudicati a MFM.
Il “plafond”, quindi, non rientrava in alcun modo nell’importo di aggiudicazione, come confermato anche dagli atti di gara nei quali lo schema di convenzione allegato al Disciplinare specificava, all’art. 2, lett. i), che l’importo massimo della Convenzione non lo comprendeva.
Del tutto immotivata, di conseguenza, si palesa la conclusione riportata nel provvedimento impugnato secondo cui era priva di rilevanza la circostanza per la quale, in relazione ad alcuni lotti, tale “plafond” non era stato attivato, dato che proprio su tale connotazione di estraneità al valore dell’importo (base) di aggiudicazione che la mancata attivazione confermava si erano incentrate le doglianze procedimentali dell’interessata.
D’altronde la stessa AGCM, contraddittoriamente, poco dopo, nel confutare la tesi secondo cui doveva farsi riferimento al solo fatturato effettivamente realizzato a seguito degli ordinativi di fornitura emessi dai singoli istituti scolastici, affermava che ciò non sarebbe coerente con l’impostazione delle Linee guida in quanto – ai fini della pianificazione della condotta collusiva – la strategia partecipativa delle parti era stata pianificata “sulla base degli importi messi a gara, gli unici disponibili al momento della realizzazione dell’intesa”.
Se infatti il criterio di riferimento, anche per il comportamento sanzionato, era legato alla “disponibilità” degli importi di gara al momento della sua realizzazione, di certo i su ricordati “plafond” non erano “disponibili” in tal senso, costituendo indubbiamente una mera eventualità legata all’avverarsi di circostanze di fatto non prevedibili e non nella disponibilità delle imprese.
Ne consegue che dall’importo base della sanzione deve essere detratto il valore dei “plafond” per ciascun lotto aggiudicato alla ricorrente.
Non può essere invece accolta l’ulteriore doglianza legata alla necessità di valutare a tale fine solo il ricavato delle vendite corrispondente agli ordinativi effettivi dei singoli istituti scolastici, atteso che la funzione “dissuasiva” della sanzione “antitrust” – in disparte quanto sarà in prosieguo specificato – non può che essere riferita ad impedire a priori una concertazione in funzione anticoncorrenziale e per fare ciò non può che riferirsi al momento della condotta legata alla specifica fattispecie e agli elementi allora in possesso delle imprese, quali appunto l’importo base dell’appalto a proposito del quale si è svolta la “concertazione” e non la successiva effettiva misura di realizzazione del ricavato “in concreto”, dato che – come illustrato in precedenza – se il pregiudizio per il rapporto di libera concorrenza è punibile in sé, a prescindere dagli effetti anticompetitivi “in concreto” fatti registrare sul mercato, ne consegue che anche il fatturato di riferimento non può che essere scisso da quanto “in concreto” realizzato e ciò vale a confutare anche quanto dedotto dalla ricorrente in merito alla ritenuta necessità di considerare che il MIUR ha stanziato nel corso dell’esecuzione dell’appalto un importo più contenuto (per tutte: Corte Giustizia CE, C-444/11 P e Case C-49/92 Commission v Anic s.p.a. [1999] ECR I-4125).
Da ultimo, il Collegio si sofferma sul profilo ulteriore legato alla contestazione dell’applicazione della percentuale aggiuntiva del 15%, ai sensi degli artt. 11-12 delle Linee guida.
Il Collegio osserva che il provvedimento testualmente (par. 331) descrive che per il valore complessivo degli importi di aggiudicazione ascrivibili a ciascuna parte – come da essa calcolato – “…trattandosi di un’infrazione molto grave dell’articolo 101 TFUE, cioè un intesa orizzontale segreta di ripartizione delle commesse e fissazione dei prezzi, il punto 11 delle Linee Guida prevede un range del 15-30%;nel caso di specie è stato dunque considerato il valore, uguale per tutte le parti, del 15%”.
In realtà, dalla lettura di tali Linee guida si evince che risulterebbe applicato alla fattispecie anche il successivo art. 12, laddove solo questo prevede il “range” minimo del 15%, peraltro collegato al requisito della gravità dell’infrazione se connotato da segretezza della pratica illecita nella forma di intese orizzontali di “fissazione dei prezzi, di ripartizione dei mercati e di limitazione della produzione”. In merito vale richiamare che il medesimo art. 12 aggiunge anche: “Al riguardo, l’eventuale segretezza della pratica illecita ha una diretta relazione con la probabilità di scoperta della stessa e, pertanto, con la sanzione attesa. Per questo tipo di infrazioni, la percentuale del valore delle vendite considerata sarà di regola non inferiore al 15%”.
Il “tetto massimo” del 30% è invece considerato dal richiamato art. 11, secondo cui – in generale – “La percentuale da applicarsi al valore delle vendite cui l’infrazione si riferisce sarà determinata in funzione del grado di gravità della violazione: Tale percentuale non sarà superiore al 30% del valore delle vendite”.
Ne deriva, ad opinione del Collegio, un quadro sufficientemente chiaro, secondo cui la percentuale del valore delle vendite da considerare (nel caso di specie del valore complessivo di aggiudicazione come sopra specificato) è legata alla gravità dell’infrazione, partendo dallo 0,n% fino al massimo del 30% (art. 11), a meno che l’infrazione sia definibile come intesa orizzontale “segreta” “di fissazione dei prezzi, di ripartizione dei mercati e di limitazione della produzione”, con conseguente minimo del 15%.
In disparte, comunque, l’osservazione meramente formale legata al richiamo del solo art. 11 contenuto nel provvedimento impugnato laddove risultava applicato anche l’art. 12 che individuava detta percentuale minima di “range” (poi concretamente applicata), il Collegio trova condivisibili le ulteriori doglianze fondate sul rilevare erroneità nella valutazione della gravità della condotta e della proporzionalità della sanzione.
Valga sul punto osservare che appare necessario esaminare l’intera struttura delle Linee guida per pervenire a tale conclusione.
Gli artt. 11-12, infatti, non possono che essere letti (e applicati) in relazione alle altre disposizioni, anche di ordine generale, che li precedono.
Ebbene, il Collegio in primo luogo rileva che l’art. 1 di tale “Linee” attesta che esse sono applicabili in relazione all’accertamento di una infrazione “grave” degli artt. 2 e 3 della l. n. 287/90 o degli artt. 101 e 102 TFUE. Ne consegue che la “gravità” non è insita nella violazione in sé dell’art. 101 – per rimanere al caso di specie – per cui il profilo di “gravità” da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione delle maggiorazioni di cui agli artt. 11 e 12 deve essere ulteriore e specifico, rispetto allo stesso realizzarsi dell’infrazione.
Il medesimo art.1 sottolinea, infatti, che l’Autorità deve a sua volta tenere conto della “gravità” e “durata” relativa, secondo le disposizioni di cui all’art. 15, comma 1, l. n. 287/90 e dell’art. 11 l. n. 689/81, espressamente riportate, e tale richiamo non avrebbe ragione di essere se già la violazione dell’art. 101 TFUE in quanto tale potrebbe comportare l’applicazione delle maggiorazioni “per gravità”.
Tanto è vero che l’art. 2 precisa che “Nell’esercizio del potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie, l’Autorità dispone di un ampio margine di discrezionalità” ma “nei limiti di quanto previsto dalle richiamate norme” e nel limite massimo assoluto del 10% del fatturato totale realizzato a livello mondiale in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida. A ciò si aggiunge il richiamo al principio di proporzionalità, in quanto è detto che: “Nel rispetto di tali vincoli, ai fini di un’effettiva deterrenza, il livello della sanzione irrogata non deve eccedere quanto necessario per indurre le imprese a conformarsi alle norme antitrust”, con effetto dissuasivo generale ed effetto dissuasivo specifico (art. 3, lett. a) e b).
L’art. 4, poi, indica che le Linee guida hanno lo scopo di orientare ad individuare la metodologia seguita per la quantificazione, “…funzionale a consentire alle parti di essere messe a conoscenza delle motivazioni e dell’iter logico che hanno indotto l’Autorità a irrogare una determinata sanzione pecuniaria, facilitando al contempo un pieno sindacato giurisdizionale sull’operato dell’Istituzione”.
L’art. 5, infine, anticipa – rispetto a quanto più diffusamente trattato nel successivo art. 12 – che “L’Autorità intende esercitare il proprio potere sanzionatorio con particolare rigore là dove ritenuto appropriato e, in particolare, nei casi di intese segrete volte alla fissazione dei prezzi e/o alla ripartizione dei mercati e/o alla limitazione della produzione o comunque di fattispecie che arrecano un serio pregiudizio al funzionamento del mercato a danno dei consumatori”.
Ciò sta a significare in sintesi, ad avviso del Collegio, quanto segue:
a) per applicare la percentuale di cui agli artt. 11 e 12 delle Linee guida la violazione dell’art. 101 TFUE deve essere accompagnata da ulteriori elementi, discrezionalmente verificabili dall’AGCM - ma, proprio per questo, da esternare in congrua motivazione specifica - al fine di applicare la maggiorazione per “gravità” in concreto;
b) tale “gravità”, ai fini dell’applicazione del minimo del 15%, non può limitarsi alla sussistenza dell’intesa come tale ma deve essere connotata da particolare “segretezza”;
c) l’Autorità deve sempre considerare l’effetto dissuasivo specifico (deterrenza nei confronti delle imprese che si sono rese responsabili) ma pur sempre nel rispetto del principio di proporzionalità, consentendo la continuazione dell’attività di impresa ed evitando, quindi, di porre in serio pericolo la saldezza economica delle responsabili.
Ebbene, applicando tali principi, il Collegio ritiene che nel caso di specie l’AGCM non abbia effettuato una corretta operazione, come lamentato dal ricorrente.
Pur rappresentando (par. 313) che “Secondo consolidata giurisprudenza comunitaria e nazionale, per valutare la gravità di un’infrazione si deve tenere conto di un gran numero di fattori il cui carattere e la cui importanza variano a seconda del tipo di infrazione e delle circostanze particolari della stessa…”, l’Autorità fonda la sua determinazione finale pressoché unicamente sulla rilevata “segretezza” dell’intesa, senza però soffermarsi su un impianto motivazionale idoneo a far conoscere l’”iter” logico seguito per giungere a tale conclusione.
Sulla segretezza in questione, infatti, non sono apportati elementi particolari e specifici.
Va da sé, infatti, che secondo quanto osservato dalla stessa AGCM nei suoi scritti difensivi e in base alle conclusioni giurisprudenziali pure sopra richiamate dal Collegio, sono noti tanto il divieto di partecipare a pratiche e accordi anticoncorrenziali quanto le sanzioni relative, per cui “di norma” le attività derivanti da tali pratiche ed accordi si svolgono in modo clandestino, le riunioni sono segrete e la documentazione ad esse relativa è ridotta al minimo (v. Corte Giustizia UE, 7.1.14, in C-204/00).
Ma se così è, vuol dire che uscendo dalla “norma” potrebbero esserci casi di assenza di pratiche e accordi clandestini e volutamente occultati e di documentazione non ridotta al minimo.
Ciò accade nel caso di specie, ove l’AGCM non ha dimostrato in modo incontrovertibile la verifica di incontri clandestini o di riunioni segrete tra le parti orientate allo scopo ma ha rinvenuto e prodotto una copiosa documentazione dei contatti tra le parti, fondata essenzialmente sullo scambio di “e-mail” che, per esperienza ormai notoria e diffusa, soprattutto tra gli operatori professionali del settore, sono strumenti facilmente “tracciabili” e difficilmente occultabili, tanto che la stessa Autorità, in sede ispettiva, non ha avuto particolari difficoltà a reperire, così come non ha avuto difficoltà a reperire documentazione (si pensi alla su richiamata “grappetta di gara”, fotocopiata più o meno integralmente).
Ne consegue che il Collegio ritiene che la “percentuale minima per segretezza”, di cui all’art. 12 delle Linee guida, possa rilevarsi solo allorché si riscontrino – e se ne dia atto con congrua motivazione e allegazione di un certo numero di chiari elementi indiziari – ulteriori circostanze idonee a far ritenere la precisa e determinata volontà delle parti non di dare luogo alla specifica condotta poi valutata sotto il profilo “antitrust” ma di occultare ogni contatto avvenuto per dare luogo all’intesa sanzionata, con artifici particolari e indirizzati esclusivamente a tale scopo.
Condivisibili in tal senso sono quindi le osservazioni del ricorrente in merito ai pochi e ambigui elementi richiamati nel provvedimento impugnato, dato che: a) la clausola di riservatezza dell’accordo di subappalto tra CNS e RM non poteva costituire elemento indiziario in tal senso, in quanto sarebbe altamente illogico e contraddittorio che le parti rendessero esplicita in un atto scritto (peraltro facendo salve le esigenze giudiziarie e di esecuzione) la volontà di rendere “segreta” la condotta anticoncorrenziale;b) la riunione in un hotel del 20.11.13 vedeva come partecipanti anche rappresentanti di imprese estranee al procedimento e alla condotta sanzionata stessa e configurabili come ulteriori forti “players” del mercato;c) la corrispondenza telematica dell’ottobre-novembre 2013 riguardava un’associazione di categoria cui partecipavano anche gli altri “players” e riguardava osservazioni su profili generali legati allo svolgimento di appalti pubblici, peraltro su sollecitazione dell’Autorità di settore (l’allora AVCP).
Ne consegue, quindi, che il provvedimento impugnato appare generico e immotivato nel dettaglio sulla ritenuta esistenza di una volontà di segretezza dell’intesa, idonea a giustificare la percentuale ex art. 12 cit. nel limite minimo del 15%.
A ciò si aggiunga, sulla stessa “gravità” ulteriore - comunque necessaria per quanto detto in precedenza - che la condotta ha riguardato una sola gara, sia pure a rilevanza nazionale e di ingente importo, e non un insieme di procedure pubbliche, circostanza sola quest’ultima che avrebbe contribuito alla ripartizione generale del mercato con “gravi” - perché “stabili” - effetti pregiudizievoli, secondo quanto pure richiamato come presupposto dall’art. 14 delle stesse Linee guida.
Inoltre, non risultano richiamate recidive su comportamenti analoghi.
Alla luce di quanto illustrato, quindi, il Collegio ritiene che:
1) l’importo (base) della sanzione deve essere ricalcolato facendo coincidere l’importo di aggiudicazione con il solo massimale di fornitura, “plafond” escluso;
2) il grado di gravità della sanzione deve essere rivisto, escludendo la sussistenza di profili di segretezza ai sensi dell’art. 12 delle Linee Guida;
3) la percentuale da applicarsi ex art. 11 delle Linee guida deve essere rivalutata, anche ai sensi dell’art. 14 delle Linee medesime, tenendo conto – del che non vi è traccia nel provvedimento impugnato – della rilevanza dell’effettivo impatto economico o, più in generale, degli effetti pregiudizievoli sul mercato e/o sui consumatori, e quindi degli effetti pregiudizievoli stabili e concreti sul mercato e comunque dell’impatto economico effettivo derivato dall’intesa, legato ad eventuali incrementi dei prezzi (v. Cons. Stato, Sez. VI, 11.7.16, n. 3047).
Pertanto il Collegio, richiamando la sua giurisdizione con cognizione estesa al merito - che consente, ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), cpa al giudice amministrativo di modificare, in base a una propria valutazione, la misura delle sanzioni pecuniarie comminate dall’AGCM - ritiene di fissare i parametri come sopra determinati per la concreta determinazione della sanzione da irrogare alla ricorrente e di rinviare gli atti all’Autorità affinché la stessa quantifichi, in concreto, l’importo della medesima conformandosi alle indicazioni della presente sentenza, con applicazione di una percentuale ex art. 11 delle Linee guida che si ritiene congrua indicare in un terzo della percentuale minima del 15% prevista nel successivo art. 12, quindi nel 5%, in considerazione della circostanza per la quale la condotta ha riguardato una sola gara e non sono stati dimostrati impatti economici tali da dare luogo ad effetti pregiudizievoli stabili per il mercato e/o i consumatori.
Alla luce di quanto dedotto il ricorso deve essere accolto solo parzialmente nei sensi sopra indicati e per tale ragione le spese di lite possono integralmente compensarsi.