TAR Roma, sez. III, sentenza 2019-02-12, n. 201901810

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. III, sentenza 2019-02-12, n. 201901810
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201901810
Data del deposito : 12 febbraio 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 12/02/2019

N. 01810/2019 REG.PROV.COLL.

N. 07110/2002 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7110 del 2002, proposto da
-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati E F, P S C, con domicilio eletto presso lo studio P S C in Roma, via Valadier, n.36;
-OMISSIS- non costituiti in giudizio;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Croce Rossa Italiana - Cri non costituito in giudizio;

per ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e morali subiti, nonché del danno biologico, subito dai ricorrenti e dal de cuius a causa della malattia contratta dal loro dante causa -OMISSIS- deceduto il -OMISSIS-, a seguito del servizio prestato in occasione della missione internazionale di pace nella ex Jugoslavia (nella -OMISSIS-


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 13 aprile 2018 il dott. R S e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


Con ricorso notificato il -OMISSIS-quali eredi del -OMISSIS-della Croce Rossa Italiana -OMISSIS-, proponevano azione nei confronti del Ministero della Difesa e della Croce Rossa per ottenere il risarcimento dei danni tutti, patrimoniali e morali nonché del danno biologico subito dai ricorrenti e dal de cuius a causa della malattia contratta dal -OMISSIS-deceduto il -OMISSIS- a seguito del

servizio prestato in occasione della Missione Internazionale di pace nella -OMISSIS-, nella qualità di dipendente della Croce Rossa e quindi ausiliario delle Forze Armate, per l’importo complessivo di 2.700.000,00 o della maggiore o minore somma da determinarsi dal Tribunale nonché al rimborso delle spese mediche sostenute a causa della malattia contratta dal militare, con condanna delle amministrazioni resistente al pagamento delle spese, diritti e onorari

di giudizio.

I ricorrenti, con memoria difensiva depositata in vista dell’udienza di merito del 27.11.2017 deducevano che dalla documentazione allegata emergeva in modo incontrovertibile come le infermità riportate dal -OMISSIS-(le stesse che poi lo hanno portato alla morte) sono state riconosciute dipendenti da causa di servizio e dalle particolari condizione operative e di servizio di missione (esposizione ad ambienti contaminati) in quanto è lo stesso Comitato di verifica per le Cause di Servizio ad affermare l’esistenza del “nesso di causalità tra l’infermità denunciata dal richiedente e riscontrata dalla Commissione Medica con l’attività di servizio prestata” nonché l’esistenza “degli elementi e delle circostanze di fatto che si prospettano in rapporto di valida efficienza etiopatogenetica con l’insorgenza e l’evoluzione della predetta affezione, riconducibile alla esposizione e l’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e/o alla dispersione nell’ambiente di

nano- particelle di minerali pesanti prodotte da esplosioni di materiale bellico ponendosi quale causa ovvero concausa efficiente e determinante della patologia suddetta”.

Con ordinanza collegiale pubblicata il -OMISSIS-il Collegio così disponeva: “Ritenuto da parte del Collegio che, pur essendo stati concessi ai ricorrenti i benefici derivanti dal riconoscimento quale “vittima del dovere” del de cuius e, quindi, pur essendo stato acclarato il nesso causale tra l’infermità ed il servizio prestato, pur tuttavia ciò non è sufficiente a ritenere fondata l’azione

risarcitoria proposta dagli eredi, essendo necessario a tal fine che sia dimostrato che nella specifica fattispecie all’esame, la pubblica amministrazione, pur essendo a conoscenza dei rischi a cui era esposto il ricorrente, non avesse adottato le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica di un proprio dipendente, violando in tal modo gli obblighi “datoriali” posti, a suo carico, dall’art. 2087 c.c. (in termini ord. Sezione prima bis n. -OMISSIS-, Consiglio di Stato, Sezione IV, ord. n. -OMISSIS- ). Ritenuto, pertanto, che lo scrutinio della domanda di risarcimento dei danni avanzata in questa sede impone di acclarare: a) se il resistente Ministero (o altra Amministrazione dello Stato) fosse a conoscenza, sin dal luglio 1996, dell’utilizzo da parte della N.A.T.O di munizionamento all’uranio impoverito (DU) nelle aree ove operava il -OMISSIS- -OMISSIS- nella ex Jugoslavia e, sin dall’aprile 1999, in Kosovo;
b) se il resistente Ministero (o altra Amministrazione dello Stato) fosse a conoscenza, nei periodi dianzi citati al precedente paragrafo, del nesso eziologico fra esposizione umana all’uranio impoverito e l’insorgenza di patologie tumorali;
c) se il resistente Ministero (o altra Amministrazione dello Stato) fosse a conoscenza, nei periodi dianzi citati, del fatto che l’adozione di specifiche misure protettive poteva attenuare

significativamente o abbattere del tutto i rischi di insorgenza di patologie tumorali;

3.Ritenuto, pertanto, indispensabile ai fini del giudizio, ex art. 104, comma 2, c.p.a., che il

Ministero della difesa rediga puntuale relazione scritta in cui chiarisca, anche in base alle

risultanze acquisite ed elaborate in sede parlamentare dalle Commissioni specificamente costituite per scrutinare la problematica de qua (da ultimo delibera Camera deputati 30 giugno 2015 in G.U. n. 160 del 13 luglio 2015) e nel rispetto di eventuali segreti di Stato apposti ai sensi degli articoli 39 e ss. della l. 3 agosto 2007, n. 124: a) se, nel febbraio 1996 e nell’aprile 1999, organi dello Stato fossero a conoscenza dell’utilizzo, da parte delle Forze Armate dell’Alleanza Atlantica, di munizionamento all’uranio impoverito nelle aree ove operava il -OMISSIS- -OMISSIS-;
b) se, negli stessi periodi, secondo la migliore scienza ed esperienza di allora potesse già affermarsi, sulla scorta del criterio della preponderanza dell’evidenza, ossia “del più probabile che non”, che l’esposizione umana all’uranio impoverito aveva rilievo eziologico nell’insorgenza di patologie tumorali e, specularmente, che l’utilizzo di specifiche misure di protezione individuale poteva

significativamente ridurre o del tutto abbattere tale rischio.

4. Nell’elaborare la relazione il Ministero si rivolgerà, per le questioni d’ordine medico-sanitario, al Collegio medico legale di cui all’art. 189 del d.lgs. 15 marzo 2001, n. 66, che si riunirà nella composizione integrata con specialisti civili di particolare qualificazione nella materia de qua, come previsto dall’art. 189, comma 9, del medesimo d.lgs. 15 marzo 2001, n. 66, e si pronuncerà in seduta plenaria ai sensi del successivo art. 190, comma 1. 5. Il Ministero avrà cura di depositare, anche in formato cartaceo, la relazione conclusiva, completa di tutti gli allegati, entro e non oltre il 28 febbraio 2018, con espressa avvertenza che, nel caso di mancato adempimento all’incombente istruttorio nei termini sopra dettagliati, il Collegio trarrà argomenti di convincimento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 63, comma 1, 64, commi 3 e 4, 65, comma 3, c.p.a. nonché 116, comma 2, c.p.c. sulle questioni sopra Illustrate”.

In data 28.02.2018 il Ministero della Difesa, in realtà, depositava non la richiesta relazione, bensì una Relazione che riferiva un parere espresso su un “caso analogo” e non riguardante la fattispecie per cui è causa né prendeva in esame le risultanze della Commissione Parlamentare d’inchiesta della

XVII

Legislatura pubblicata il 07.02.2018 così come richiesto nell’ordinanza medesima.

E infatti le conclusioni della relazione contenute nell’ultima pagina dell’elaborato fanno riferimento a un quesito posto dal Consiglio di Stato, sebbene a piè pagina vi sia un generico riferimento agli Eredi -OMISSIS-.

Si tratta di richiesta contenuta nell’ordinanza collegiale pronunciata sull’appello avverso la sentenza della sezione 1 bis di questo tribunale n.5332/2013, la cui discussione nel merito è fissata al 28 febbraio p.v..

Dunque, stante la complessità della Relazione e dei documenti allegati da parte del Ministero della Difesa, i ricorrenti chiedono in via preliminare il termine per esaminare la relazione e controdedurre, in subordine chiedono che- ai fini della discussione della causa- venga autorizzata, ai sensi dell’art. 54 cpa, l’acquisizione della memoria difensiva di replica nonché della Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta resa pubblica in data 7.02.2018, le cui risultanze non

sono state menzionate né acquisite dalla Relazione del Ministero della Difesa datata 28.02.2018.

Dunque nella memoria di replica parte ricorrente chiede venga acquisita la relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti di deposito di munizioni, in relazione all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici, dal possibile effetto patogeno e da somministrazione di vaccini, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni”.

All’odierna udienza, dopo discussione, la causa è passata in decisione.

Preliminarmente deve essere considerato come non ritualmente proposto l’eccepito difetto di legittimazione passiva, derivante solo dalla relazione istruttoria del Min. Difesa e non trasfuso in apposito atto defensionale.

Anzitutto va precisato che dalla relazione della Croce Rossa emerge bensì che il -OMISSIS--OMISSIS-, oltre che in Bosnia durante un trasporto attraverso la Croazia, è stato impiegato in Albania – e non in Kossovo-, ma che “per assistere al meglio la massa dei civili in esodo, il personale militare CRI operava in zone interessate da conflitti e in taluni casi detti punti limitrofi sono stati oggetto di bombardamenti e raid aerei…inoltre i portaferiti e il personale sanitario, tra cui il mar. -OMISSIS-, si adoperavano in punti già teatro di azioni belliche”, sicchè ben può giustificarsi la domanda proposta, alla luce, peraltro della riconosciuta dipendenza della patologia da causa di servizio come accertato sia dalla Commissione, sia dall’istruttoria che ha condotto al riconoscimento dello speciale emolumento quale vittima del dovere.

La citata sentenza della sez.I bis ha affermato il principio secondo cui la valutazione della fondatezza dell’azione risarcitoria proposta in ordine alla neoplasia contratta dal de cuius e il conseguente decesso debba essere ricondotta all’accertamento di una condotta gravemente colposa del Ministero della Difesa, per aver sottoposto il militare all’esposizione di sostanze tossiche e/o cancerogene e per non aver adottato le necessarie misure preventive, atte a scongiurare la possibilità di contrarre la grave patologia che lo ha poi condotto a morte, quindi, in sostanza, alla presunta colposa omissione da parte dell’Amministrazione convenuta dell’adozione delle doverose cautele da parte del datore di lavoro.

In tale decisione, poi, si osservava “ che, agli atti del giudizio, non si rinviene alcun elemento concreto che consenta di affermare con la dovuta certezza che, nella fattispecie, la pubblica amministrazione, non avendo adottato le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica di un proprio dipendente, abbia violato gli obblighi “datoriali” posti, a suo carico, dall’art. 2087 cod. civ. (cfr. T.A.R. LAZIO – Sez. I Bis – n. 5817 del 26 giugno 2012). A tale proposito occorre precisare che non è stato documentalmente provato da parte ricorrente che l’Amministrazione della Difesa potesse, fin da prima del 1996, essere a conoscenza dell’esistenza di mezzi di protezione individuale e dei conseguenti rischi per la salute dei militari impiegati nella ex Jugoslavia, derivanti da bombardamenti e da proiettili all’uranio impoverito (DU), effettuati nelle suddette zone di guerra. Per converso la difesa erariale ha documentalmente provato che solo nel febbraio del 2001 il Ministro della Difesa, innanzi alla Commissione della Camera dei Deputati, affermava che la notizia dell’utilizzo da parte delle forze NATO delle munizioni al DU era pervenuta in data 21 dicembre 2000 a seguito di una sua specifica richiesta alla NATO”

Questa la dichiarazione :”Sono in grado di comunicare alla Camera, tramite questa Commissione, che è pervenuta oggi la risposta da parte dell’Alleanza atlantica: in tre tornate, rispettivamente il 5 agosto 1994, il 22 settembre 1994 e nel periodo fra il 29 agosto e il 14 settembre 1995, nelle operazioni effettuate dagli aerei A-10 sono stati utilizzati in attacchi alle forze serbo-bosniache circa 10.800 proiettili all’uranio impoverito, a tutela della zona di esclusione attorno a Sarajevo stabilita dall’Onu, in un raggio di 20 chilometri dalla città. (…) In Kosovo si è fatto, come è noto, un uso consistente dei proiettili ad uranio impoverito. La Nato ha comunicato nel maggio 1999 di averne fatto uso. Nell’ottobre 1999 l’Onu ha fatto richiesta di conoscere i siti bombardati, che sono stati comunicati il 7 febbraio 2000“.

Proseguiva la sentenza del 2013: “Appare, quindi, logico affermare che nel periodo in cui il … (luglio-ottobre 1996) ha prestato servizio nella ex-Jugoslavia, l’Amministrazione della Difesa non fosse a conoscenza del particolare rischio per i propri militari, conseguente all’uso delle suddette munizioni, né dell’esistenza di particolari misure precauzionali in ordine alla esposizione del personale militare all’uranio impoverito.”

L’ordinanza collegiale, peraltro, mostra come l’indagine sull’elemento soggettivo debba essere di tipo intrinseco, non potendosi limitare a ripercorrere l’esame estrinseco come effettuato nella richiamata sentenza, ma richiedendo una specifica valutazione, oltre che sulla conoscenza dell’uso nelle operazioni belliche di proiettili a contenenti DU – depleted uranium, vale a dire uranio impoverito- sul se il resistente Ministero (o altra Amministrazione dello Stato) fosse a conoscenza, nei periodi dianzi citati, del fatto che l’adozione di specifiche misure protettive poteva attenuare

significativamente o abbattere del tutto i rischi di insorgenza di patologie tumorali.

All’uopo i ricorrenti chiedono venga acquisita agli atti la Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, che nella scorsa legislatura ha esaminato funditus la questione, a integrazione della relazione istruttoria che , come detto, non è strettamente relativa al -OMISSIS-ma riguarda caso analogo.

Al proposito il Collegio ritiene che sulla medesima si sia formato comunque il contraddittorio, attesi i tempi di deposito della memoria di replica cui la relazione è allegata, e la considera utile ai fini del decidere, ammettendone l’acquisizione ex art.54 cpa.

Orbene, dal 2013 le evidenze scientifiche e istruttorie sono significativamente cambiate, oltre alla constatazione di una non adeguata rilevazione sotto il profilo epidemiologico: a pag.77 della Relazione si legge “ nel caso concreto è fin troppo ovvio che una rilevazione troncata al momento del congedo è priva di validità”, posto che, appunto, è solo durante il servizio che la patologia viene considerata, senza poi tener conto di altre situazioni note, come il caso di chi, ignaro delle conseguenze, si riporti in patria, anche violando precise prescrizioni, oggetti bellici.

Si faccia riferimento, ancora, alla Relazione della Commissione parlamentare, a pag. 82 e 83, in tema di nesso di causalità.

Ma anche la giurisprudenza amministrativa ha significativamente affermato che “va riconosciuta la responsabilità del ministero della Difesa , secondo la fattispecie astratta dell’art. 2087 c.c., nel caso di contrazione da parte del militare impegnato in missioni ad alto rischio della patologia…a causa dell’assenza di dispositivi di protezione personale ed informazioni sull’utilizzo di armamenti e proiettili a uranio impoverito….

Per altro verso e sul versante psicologico-soggettivo, come emerso diffusamente nella giurisprudenza amministrativa che si è largamente occupata del tema, da più parti si è stabilito – a smentire la tesi negazionista dell’Avvocatura e delle plurime dichiarazioni da essa richiamate - che "sono state svolte diverse indagini e studi da parte di organismi internazionali sulla base dei quali sono state adottate specifiche misure di protezione dal Governo degli Stati Uniti, l'ONU e la NATO, conosciute dallo Stato Italiano sin dal 1992 (relazione di Eglin relativa alla Ricerca condotta nel 1977-78;
rapporto US Army Mobility Equipmente Research and Development Command del 1979;
Conferenza di Bagnoli del 1995)” : così, letteralmente, T.A.R. Catanzaro, 2 ottobre 2014 n. 1568 condivisa da T.A.R. Piemonte Sez. I, 06/03/2015, n. 429;
T.A.R. Emilia-Romagna, Parma,11 ottobre 2016, n. 284;T.A.R. Liguria Sez. II, 14/03/2016, n. 247;
id., 15-1-2015, nm. 15;TAR Friuli, 19.6.2014 n. 308;
Cons. Stato, IV, 4 settembre 2013, n. 4440;
TAR Lazio Sez. I bis, 16-08-2012, n. 7363;
TAR Salerno Sez. I, 10 ottobre 2013, n. 2034).

Emerge in tal modo la consapevolezza della pericolosità delle condizioni di lavoro dei militari italiani nelle varie zone di guerra de quibus, ribadendosi come “La probabile connessione tra l’esposizione a uranio impoverito e l’insorgenza di gravi patologie, anche di natura oncologica, ha indotto l’ONU a vietare l’utilizzo di armi contenenti tale elemento (risoluzione n. 1996/16) e diversi Paesi hanno assunto misure di protezione e precauzione a favore dei militari impiegati nelle operazioni NATO (vedasi la Direttiva del Ministero della Difesa del 26.11.99)”: TAR Toscana, sez. I, 10 marzo 2016 n. 431 e, da ultimo, T.A.R. Toscana, sez. I, 18 Aprile 2017, n. 564.” (Tar Valle d’Aosta, n.56/2017).

E anche “ l’esposizione alle contaminazioni tossiche provocate dall’impatto ed esplosione di munizione anche all’uranio impoverito, fattori di rischio ormai riconosciuti pericolosi” ( Tar Bolzano, n.55/2017).

Del resto anche la giurisprudenza civile è in sintonia.

Il Tribunale di Roma ha affermato - cfr. Sez.II n.17610/2015- come la colpa dell’amministrazione, da intendersi come prevedibilità ed evitabilità dell’evento, non può ritenersi seriamente contestata dalla amministrazione convenuta.

Mentre, quanto al nesso eziologico, che il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio assume valenza probatoria anche nel giudizio risarcitorio esperito dagli eredi jure proprio (Corte d’Appello di Roma, sez I civ., n.697/2017).

Considerando, pertanto, che i vari elementi che caratterizzano il danno hanno una loro rilevanza in quanto costituiscono conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento da parte della pubblica amministrazione di un obbligo specifico e preesistente tra le parti e che la prova della esistenza di tale nesso, gravante, ex art. 2697 c.c., sul preteso creditore appare essere stata, nel caso in esame, fornita, il Collegio ritiene che la pretesa dei ricorrenti sia accoglibile, atteso che gli stessi hanno dimostrato la violazione, da parte dell’Amministrazione della Difesa, delle norme poste a tutela dell’integrità psico-fisica del defunto marito e padre, sussistendo entrambi gli elementi che concorrono a integrare la fattispecie della responsabilità civile della pubblica amministrazione, soggettivo e oggettivo.

Tuttavia la domanda è proponibile davanti al giudice amministrativo solo “ in relazione ai pregiudizi fatti valere iure hereditatis, giacchè fondata su una condotta dell’amministrazione che non presenta un nesso meramente occasionale con il rapporto di pubblico impiego;
per contro appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda volta al ristoro dei danni subiti iure proprio dagli attori, atteso che l’art.63 , comma 4 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n.165, nel riservare al giudice amministrativo, oltre alle controversie relative ai rapporti di lavoro non contrattualizzati anche i diritti patrimoniali connessi, sottintende la riferibilità degli stessi alle sole parti del rapporto di impiego e non anche a terzi “(cfr. Cass. Sez.Un. ord. N. 9573/2014).

Appurata dunque la sussistenza della responsabilità dell’amministrazione datrice di lavoro sul piano dei suoi elementi costitutivi oggettivi e soggettivi secondo la fattispecie astratta dell’art. 2087 cod. civ., resta da determinarne l’aspetto quantitativo, limitato come detto ai soli danni fatti valere iure hereditatis.

La questione della risarcibilità agli eredi del danno (biologico, morale-catastrofale, tanatologico) patito dalla vittima deceduta in conseguenza della condotta illecita, che aveva dato luogo a contrasto tra le sezioni semplici, è stata definitivamente ricomposta dalle Sezioni Unite della Cassazione (Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015) secondo le seguenti linee guida:

- alla vittima può essere risarcita la perdita di un bene avente natura non patrimoniale, nella misura in cui la stessa sia ancora in vita: presupponendo la vicenda acquisitiva del diritto alla reintegrazione della perdita subita la capacità giuridica riconoscibile soltanto ad un soggetto esistente (art. 2 c.c., comma 1);

- i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, trasmissibili "jure hereditatis", possono pertanto consistere:

a) nel "danno biologico" (cd. "danno terminale") determinato dalla lesione al bene salute quale danno-conseguenza consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino all'exitus: l'accertamento del danno-conseguenza è questione di fatto e presuppone che le conseguenze pregiudizievoli si siano effettivamente prodotte, necessitando a tal fine che tra l'evento lesivo e il momento del decesso sia intercorso un "apprezzabile lasso temporale" (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1877 del 30/01/2006;
id. Sez. 3, Sentenza n. 15491 del 08/07/2014;
id. Sez. 3, Sentenza n. 22228 del 20/10/2014;
id. Sez. 3, Sentenza n. 23183 del 31/10/2014);

b) nel "danno morale cd. soggettivo" (cd. "danno catastrofale"), consistente nello stato di sofferenza spirituale od intima (paura o paterna d'animo) sopportato dalla vittima nell'assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso l'ineluttabile fine-vita: anche in questo caso, trattandosi di danno-conseguenza, l'accertamento dell' "an" presuppone la prova della "cosciente e lucida percezione" dell'ineluttabilità della propria fine e (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6754 del 24/03/2011;
id. Sez. 3, Sentenza n. 7126 del 21/03/2013;
id. Sez. 3, Sentenza n. 13537 del 13/06/2014);

c) rimane invece esclusa la risarcibilità del danno consistente nella "perdita del bene-vita" (cd. "danno tanatologico"), autonomo e diverso rispetto al bene-salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015 che compone in tal modo il contrasto giurisprudenziale insorto dopo il precedente contrario di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1361 del 23/01/2014).

Fermo il principio di diritto statuito da Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995 secondo cui qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata "per equivalente", con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno (lucro cessante) che questi abbia allegato e provato essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma (prova che può essere data e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi e quindi anche mediante l'attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive inerenti alla prova del pregiudizio subito per il mancato godimento - nel tempo - del bene o del suo equivalente in denaro).

Anche il danno da ritardo in questione, pertanto, costituisce un "danno-conseguenza" inteso quale "eventuale" maggiore pregiudizio patrimoniale che va a comporre il danno risarcitorio, determinato dalla mancata tempestiva disponibilità dell'equivalente monetario diretto a reintegrare la perdita subita dal danneggiato a causa della lesione del proprio diritto, e che, in quanto ricollegabile al materiale impedimento di un impiego remunerativo della somma di denaro a quello spettante, deve essere provato (anche attraverso elementi indiziari) nell'an" e nel "quantum" (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18445 del 17/09/2005;
id. ), rimanendo esclusa la prospettazione di un danno "in re ipsa" atteso che la somma di denaro, ove tempestivamente resa disponibile, invece che essere investita in forme di risparmio, bene potrebbe anche essere destinata allo scambio con beni di consumo, modalità di impiego quest'ultima che - avuto riguardo al costante e progressivo deprezzamento della capacità di acquisto - viene adeguatamente salvaguardata con l'applicazione del tasso di rivalutazione della moneta ed esclude, pertanto, la stessa astratta configurabilità di un danno da lucro cessante.

Va in conseguenza ribadito il principio di diritto secondo cui nei debiti di valore i cosiddetti interessi compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno causato dal ritardato pagamento dell'equivalente monetario attuale della somma dovuta all'epoca dell'evento lesivo: tale danno sussiste solo quando, dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe se (in ipotesi tempestivamente soddisfatto) avesse potuto utilizzare l'importo allora dovutogli secondo le forme considerate ordinarie nella comune esperienza ovvero in impieghi più remunerativi, la seconda ipotetica somma sia maggiore della prima, solo in tal caso potendosi ravvisare un danno da ritardo, indennizzabile in vario modo, anche mediante il meccanismo degli interessi, mentre in ogni altro caso il danno va escluso (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 23225 del 16/11/2005;
id. Sez. 3, Sentenza n. 22347 del 24/10/2007).

Nel caso in esame va osservato che il danno tanatologico deve essere riconosciuto, atteso lo spatium esistente fra la lucida percezione del proprio stato e l’inevitabile decorso della malattia fino al momento terminale.( cfr. Cass. Sez.III, 22 settembre 2017 n.22451).

Tuttavia, in difetto di precisa dettagliata allegazione anche delle singole poste relative alle spese di degenza, sanitarie e mediche, relative al danno patrimoniale, ritiene il Collegio di poter ricorrere, nella valutazione equitativa che gli è commessa, alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano nel 2018, quantificando il danno non patrimoniale per i soggetti ricorrenti in euro 165960,00 ciascuno, e ciò senza operare alcuna compensazione con le altre elargizioni riconosciute o con la pensione privilegiata parimenti riconosciuta.

Sul totale delle somme così liquidate per sorte capitale competono gli interessi legali, dalla data della presente decisione al saldo, ex art. 1282 c.c.

Conclusivamente il ricorso va accolto, e le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.

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