TAR Napoli, sez. I, sentenza 2018-07-13, n. 201804675
Sintesi tramite sistema IA Doctrine
L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta
Segnala un errore nella sintesiTesto completo
Pubblicato il 13/07/2018
N. 04675/2018 REG.PROV.COLL.
N. 04221/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4221 del 2017, proposto da
-O- s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati F L, F S, A S, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato F L in Napoli, via Francesco Caracciolo, 15;
contro
U.T.G. - Prefettura di Caserta, Ministero dell'Interno, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli, via Armando Diaz, 11;
-O-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato E R, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Carlo Iaccarino in Napoli, via S. Pasquale a Chiaia, 55;
per l'annullamento
- del provvedimento REA n. 182554 del 27 luglio 2017 prot. 0019397/U, con il quale il -O- ha comminato alla ricorrente il “divieto di prosecuzione dell'attività di -O-” ;
- di ogni altro atto preordinato, connesso e successivo, ove lesivo della posizione giuridica della ricorrente, ivi incluse la nota prot. n. 0055280 del 13 luglio 2017, con la quale la Prefettura di Caserta comunicava alla -O- la “conferma della informativa antimafia interdittiva” nei confronti della società -O- s.r.l. ai sensi dell'art. 91 del D.Lgs. 159/2011 e la nota prot. 6021020/U del 6 settembre 2017, con la quale il-O-ha ribadito il contenuto del provvedimento prot. n. 0019397/U del 27 luglio 2017, conformandone le motivazioni.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’U.T.G. - Prefettura di Caserta, del Ministero dell'Interno e della -O-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 giugno 2018 il dott. G D V e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Nel 2015 la società -O- s.r.l. veniva attinta da una interdittiva antimafia ostativa emessa ex art. 91 del D.Lgs. n. 159/2011 dal Prefetto di Caserta, ritenuta legittima da questo T.A.R. (sentenza n. 4471/2016) e dal Consiglio di Stato (sentenza n. 2314/2017), fondata su rapporti di parentela, contatti e cointeressenze economiche intrattenuti dagli esponenti aziendali con soggetti gravitanti nell’orbita del clan camorristico dei “casalesi”.
Con il ricorso in trattazione la società impugna, chiedendone l’annullamento, il provvedimento in epigrafe con cui, all’esito della comunicazione della Prefettura prot. n. 55280 del 13 luglio 2017 circa la conferma in secondo grado della richiamata sentenza di questo Tribunale n. 4471/2016, la -O- ha inibito alla società istante la prosecuzione dell’attività di realizzazione di impianti di produzione, trasporto, distribuzione e utilizzazione di energia elettrica, di impianti di riscaldamento e climatizzazione, di impianti idrosanitari, di sollevamento di persone o cose per mezzo di ascensori in edifici adibiti a civile abitazione e ad attività produttive (si tratta di attività imprenditoriale disciplinata dal D.M. n. 37/2008, emanato in attuazione dell'articolo 11-quaterdecies, comma 13, lettera a), della L. n. 248/2005, recante riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all'interno degli edifici).
A fondamento dell’avversato provvedimento la Camera di Commercio ha richiamato l’indirizzo espresso dal Consiglio di Stato (sentenza n. 565/2017) secondo cui anche le attività soggette ad autorizzazione, licenze ed abilitazioni - come quella in esame - soggiacciono alle informative antimafia, rilevata l’opportunità di superare la rigida bipartizione tra comunicazioni antimafia - applicabili alle autorizzazioni – e, appunto, le informative antimafia previste per gli appalti pubblici, concessioni, contributi e elargizioni.
Avverso tale atto la società deduce diversi profili di illegittimità per violazione di legge, con particolare riguardo al D.Lgs. n. 159/2011, al D.M. n. 37/2008 e alla L. n. 241/1990, violazione dell’art. 41 della Costituzione, violazione dei principi di buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione, eccesso di potere per difetto di motivazione e dei presupposti, sproporzione, sviamento.
In sintesi, ritiene che il divieto di prosecuzione dell’attività impiantistica svolta dalla società ricorrente in favore di committenti privati e non di amministrazioni pubbliche potrebbe conseguire all’adozione - non già di una informativa antimafia ex art. 84 del D.Lgs. n. 159/2011 (che riguarda il settore degli appalti pubblici e dei rapporti con l’amministrazione e può discendere, in aggiunta alle cause di decadenza, sospensione o divieto ex art. 67, anche da valutazioni discrezionali del Prefetto in ordine alla sussistenza di tentativi di infiltrazione criminale) - bensì esclusivamente di una comunicazione ex art. 67 codice antimafia che, a sua volta, richiede l’adozione nei confronti dei soci di misure di prevenzione di cui al libro I, titolo I, capo II del D.Lgs. n. 159/2001 che, obietta l’istante, non sono state applicate agli esponenti della società.
Ritiene che sia improprio il richiamo alla pronuncia del Consiglio di Stato indicata nell’atto impugnato poiché essa attiene ad una attività (rilascio dell’Autorizzazione Unica Ambientale) estranea all’oggetto sociale della società ricorrente.
Osserva che l’art. 3, comma 1, del D.M. n. 37/2008 richiede unicamente il possesso di requisiti professionali per l’abilitazione all’esercizio delle attività impiantistiche e aggiunge che, nella fattispecie, alcun fattore ostativo è stato riscontrato in ordine al riconoscimento e alla conservazione dei predetti requisiti. Il -O- avrebbe dovuto svolgere una autonoma valutazione per acclarare la permanenza delle condizioni per lo svolgimento dell’attività anziché limitarsi a prendere atto della valutazione prefettizia.
Rileva che il D.M. n. 37/2008 non prevede l’informativa antimafia tra le cause di decadenza dell’abilitazione all’esercizio dell’attività impiantistica.
L’atto impugnato si sostanzierebbe in una revoca dell’iscrizione all’albo ma difetterebbero i requisiti di cui all’art. 21 quinquies della L. n. 241/1990 – ivi inclusi i sopravvenuti motivi di pubblico interesse – e inoltre la -O- non avrebbe tenuto conto di elementi nuovi che avrebbero travolto il quadro indiziario tracciato dal Prefetto in sede di adozione dell’atto interdittivo (archiviazione del procedimento penale nei confronti dei soci, denuncia di un episodio di intimidazione, azione di risarcimento per danni proposta nei confronti di esponenti del clan dei casalesi, sentenze di giudici penali che avrebbero accertato l’inattendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia richiamate nella informativa prefettizia). Evidenzia che tali circostanze non sono state portate all’attenzione del giudice amministrativo ma, secondo la ricorrente, avrebbero giustificato la prosecuzione dell’attività di impresa, quantomeno nell’ambito dei rapporti privatistici, dovendosi il -O- discostare dalla nota prefettizia n. 55280 del 13 luglio 2017 di cui la ricorrente assume parimenti l’illegittimità perché estranea all’ambito degli atti sanzionatori previsti dal codice antimafia.
Ancora, qualora dovesse ritenersi che la conclusione del -O- si regga sull’art. 89 bis del D.Lgs. n. 159/2011 - nel senso di consentire che una informativa antimafia possa incidere anche su provvedimenti meramente autorizzativi, in luogo della mera comunicazione ex art. 67 - la difesa di parte ricorrente chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 2 della legge delega n. 136/2010 (che non consentirebbe l'estensione dell'informazione antimafia ai procedimenti autorizzatori) e degli artt. 3, 41, 76, 77 e 97 della Costituzione.
Infine, parte ricorrente assume l’illegittimità dell’informativa prefettizia posta a base dell’impugnato provvedimento, in relazione al quale la difesa di parte ricorrente espone di aver proposto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Si sono costituite le controparti processuali che replicano analiticamente alle censure, ribadendo la legittimità dell’azione amministrativa e concludendo per il rigetto del ricorso.
La Sezione ha respinto la domanda cautelare con ordinanza n. 1828 del 22 novembre 2017.
All’udienza pubblica del 20 giugno 2018 la causa è stata infine trattenuta in decisione.
DIRITTO
Parte ricorrente ritiene che, in base al codice antimafia (D.Lgs. n. 159/2011), le informative antimafia non possano esplicare il loro effetto interdittivo al di fuori del proprio ambito applicativo (contratti, concessioni, elargizioni e contributi), come è accaduto nel caso di specie, in cui la -O- ha inibito la prosecuzione dell’attività impiantistica per la quale la ricorrente è abilitata ex D.M. n. 37/2008.
La tesi si regge sulla presunta esistenza in materia di un rigido sistema di alternatività tra le comunicazioni e le informazioni antimafia, che non consentirebbe a queste ultime di operare in un ambito, quello delle “iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati” (cfr. art. 67 del D.Lgs. n. 159/2011) riservato a provvedimenti tipici, come le misure di prevenzione e alle conseguenti comunicazioni antimafia, pena l’incostituzionalità di un siffatto sistema per violazione degli artt. 3, 41, 76, 77 e 97 della Costituzione.
Il ragionamento non ha pregio, alla luce del consolidato indirizzo pretorio, già fatto proprio da questa Sezione (T.A.R. Campania, Sez. I, sentenza n. 103/2016 confermata dal Consiglio di Stato, Sez. III, con sentenza n. 1109/2017), dal quale non vi è ragione di discostarsi e le cui motivazioni di seguito si riportano.
La disciplina dettata dal D.Lgs. n. 159/2011 consente, al contrario di quanto assume l’istante, l’estensione degli effetti delle informative antimafia anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio e ai titoli abilitanti all’esercizio di attività imprenditoriali.
Invero, la tendenza del legislatore muove, in questa materia, verso il superamento della rigida bipartizione e della tradizionale alternatività tra comunicazioni antimafia, applicabili alle autorizzazioni, licenze e abilitazioni, e informazioni antimafia, previste per appalti, contributi ed elargizioni.
Al riguardo, si è osservato che il più risalente riparto dei rispettivi ambiti di applicazione, tipico della legislazione anteriore al codice delle leggi antimafia, si è rilevato inadeguato ed è entrato in crisi a fronte della sempre più frequente constatazione empirica che la mafia tende ad infiltrarsi, capillarmente, in tutte le attività economiche, anche quelle soggette a regime autorizzatorio e che un’efficace risposta da parte dello Stato alla pervasività di tale fenomeno criminale rimane lacunosa, e finanche illusoria nello stesso settore dei contratti pubblici, se la prevenzione del fenomeno mafioso non si estendesse al controllo e all’eventuale interdizione di ambiti economici nei quali, più frequentemente, la mafia si fa, direttamente o indirettamente, imprenditrice ed espleta la propria attività economica.
L’esperienza ha mostrato, infatti, che in molti di tali settori, anche strategici per l’economia nazionale le associazioni di stampo mafioso hanno impiegato, diretto o controllato ingenti capitali e risorse umane per investimenti particolarmente redditizi finalizzati non solo ad ottenere pubbliche commesse o sovvenzioni, ma in generale a colonizzare l’intero mercato secondo un disegno, di più vasto respiro, del quale l’aggiudicazione degli appalti o il conseguimento di concessioni ed elargizioni costituisce una parte certo cospicua, ma non esclusiva né satisfattiva per le mire egemoniche della criminalità.
La tradizionale reciproca impermeabilità tra le comunicazioni antimafia, richieste per le autorizzazioni, e le informazioni antimafia, rilasciate per i contratti e le agevolazioni, ha fatto sì che le associazioni di stampo mafioso potessero, comunque, gestire tramite imprese infiltrate, inquinate o condizionate da essa, lucrose attività economiche, in vasti settori dell’economia privata, senza che l’ordinamento potesse efficacemente intervenire per contrastare tale infiltrazione, al di fuori delle ipotesi di comunicazioni antimafia emesse per misure di prevenzione definitive con effetto interdittivo ai sensi dell’art. 67 del D.Lgs. n. 159/2011, anche quando, paradossalmente, a dette imprese fosse stata comunque interdetta la stipulazione dei contratti pubblici per effetto di una informativa antimafia.
Il riordino della materia, impresso dalla legge delega, ha posto fine a molte delle gravi lacune evidenziatasi nel sistema precedente della prevenzione antimafia.
L’art. 2 della L. n. 136/2010 ( “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia” ), nel delegare il Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, prevede al comma 1 lett. c) l’istituzione di una banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, con immediata efficacia delle informative antimafia negative su tutto il territorio nazionale e “con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione, finalizzata all’accelerazione delle procedure di rilascio della medesima documentazione e al potenziamento dell’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa” . Tale previsione si riferisce evidentemente a tutti i rapporti con la pubblica amministrazione, senza differenziare le autorizzazioni dalle concessioni e dai contratti, come fanno invece, ed espressamente, le lett. a) e b).
Né giova replicare che l’espressione “rapporti” si riferisca solo ai contratti e alle concessioni, ma non alle autorizzazioni, che secondo una classica concezione degli atti autorizzatori non costituirebbero un “rapporto” con l’amministrazione.
Tale conclusione non solo è smentita dal tenore letterale dell’art. 2, comma 1, lett. c), che non differenzia le une dalle altre come fanno, invece, la lett. a) e la lett. b), ma anche a livello sistematico contrasta con una visione moderna, dinamica e non formalistica del diritto amministrativo, quale effettivamente vive e si svolge nel tessuto economico e nell’evoluzione dell’ordinamento, che individua un rapporto tra amministrato e amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio o autorizzatorio.
Di qui la legittimità, anche prima dell’introduzione dell’art. 89 bis - di cui ora si dirà - con il D.Lgs. n. 153/2014, delle originarie previsioni contenute nel D.Lgs. n. 159/2011 attuative dei fondamentali principi già contenuti in nuce nell’art. 2 della legge delega e, in particolare:
- dell’art. 83, comma 1, laddove prevede che le amministrazioni devono acquisire la documentazione antimafia di cui all’art. 84 (costituita dalla comunicazione e dalla informazione antimafia), prima di rilasciare o consentire i provvedimenti di cui all’art. 67 (tra cui rientrano, appunto, le iscrizioni, i provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati di cui alla lett. ‘f’);
- dell’art. 91, comma 1, laddove prevede che le amministrazioni devono acquisire l’informativa prima di rilasciare o consentire anche i provvedimenti indicati nell’art. 67;
- dell’art. 91, comma 7, il quale prevede che, con regolamento adottato con decreto del Ministro dell’Interno di concerto con quello della Giustizia, con quello delle Infrastrutture e con quello dello Sviluppo Economico, sono individuate “le diverse tipologie di attività suscettibili di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa per le quali, in relazione allo specifico settore di impiego e alle situazioni ambientali che determinano un maggiore rischio di infiltrazione mafiosa, è sempre obbligatoria l’acquisizione della documentazione indipendentemente dal valore del contratto, subcontratto, concessione, erogazione o provvedimento di cui all’art. 67” , dovendosi ricordare che l’art. 67 tra l’altro prevede, alla lett. f), proprio le “altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominate” .
L’introduzione dell’art. 89 bis ( “Accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa in esito alla richiesta di comunicazione antimafia” ) del codice delle leggi antimafia dunque, non rappresenta una novità né, ancor meno, una distonia nel sistema, ma è anzi coerente con esso e con le stesse disposizioni della legge delega, secondo la chiara tendenza legislativa di cui si è detto.
Tale disposizione prevede, nel comma 1, che “quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione interdittiva antimafia e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere la comunicazione antimafia” e in tal caso, come espressamente sancisce il comma 2, “l’informazione antimafia adottata ai sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta” .
Con questa previsione, che non ha natura attributiva di un nuovo potere sostanziale (che è già rinvenibile nei dati di diritto positivo sopra evidenziati) ma ha al più carattere specificativo e procedimentale, il codice delle leggi antimafia ha inteso chiarire e disciplinare l’ipotesi nella quale il Prefetto, nell’eseguire la consultazione della banca dati nazionale unica per il rilascio della comunicazione antimafia, appuri che vi sia il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa.
L’art. 98, comma 1, del D.Lgs. n. 159/2011, come è noto, prevede che nella banca dati nazionale unica, ora operativa, “sono contenute le comunicazioni e le informazioni antimafia, liberatorie ed interdittive” e, dunque, tutti i provvedimenti che riguardano la posizione antimafia dell’impresa;tale banca consente, ai sensi del comma 2, la consultazione dei dati acquisiti nel corso degli accessi nei cantieri delle imprese interessate all’esecuzione di lavori pubblici, disposti dal Prefetto, e tramite il collegamento ad altre banche dati, ai sensi del comma 3, anche la cognizione di eventuali ulteriori dati anche provenienti dall’estero (si tratta di disposizione quanto mai opportuna, considerato il carattere pervasivo ed espansivo, a livello economico, e la dimensione sovente transnazionale delle attività imprenditoriali da parte delle associazioni mafiose).
Va qui ricordato che il Prefetto, richiesto di rilasciare la documentazione antimafia, può emettere la comunicazione antimafia liberatoria, attestando che la stessa è stata emessa utilizzando il collegamento alla banca dati, in due ipotesi.
a) quando non emerge, a carico dei soggetti censiti, la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 (art. 88, comma 1: c.d. “comunicazione de plano” );
b) quando, emersa la sussistenza di una di dette cause ed effettuate le necessarie verifiche, di cui all’art. 88, comma 2, per accertare la “corrispondenza dei motivi ostativi emersi dalla consultazione della banca dati nazionale unica alla situazione aggiornata del soggetto sottoposto ad accertamenti” , queste abbiano dato un esito negativo e non sussista più, nell’attualità, alcuna causa di decadenza, di sospensione o di divieto (art. 88, comma 1).
Nel corso di tali verifiche, quando emerga dalla banca dati la presenza di provvedimenti definitivi di prevenzione, ai sensi dell’art. 67, comma 1, del D.Lgs. n. 159/2011, o comunque di dati che, ai sensi del richiamato art. 98, impongano una necessaria attività di verifica nell’impossibilità di emettere la comunicazione antimafia de plano , il Prefetto può riscontrare la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in base all’art. 89 bis ed emettere informazione antimafia sostitutiva della comunicazione richiesta.
Ciò può verificarsi, ad esempio, quando il Prefetto, nell’eseguire il collegamento alla banca dati e le verifiche di cui all’art. 88, comma 2, constati l’esistenza di “una documentazione antimafia interdittiva in corso di validità a carico dell’impresa” , come ad esempio una pregressa informativa emessa in rapporto ad un contratto pubblico, secondo quanto prevede espressamente l’art. 24, comma 2, del D.P.C.M. n. 193 del 2014 (regolamento recante le modalità di funzionamento, tra l’altro, della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, istituita ai sensi dell’art. 96 del D.Lgs. n. 159/2011), o acquisisca dati risultanti da precedenti accessi in cantiere, ai sensi dell’art. 98, comma 2, o informazioni provenienti dall’estero, ai sensi dell’art. 98, comma 3.
L’istituzione della banca dati nazionale unica, prevista dall’art. 2 della legge delega sopra ricordata e resa operativa con il D.P.C.M. n. 193/2014, consente ora al Ministero dell’Interno, e per esso ai Prefetti competenti, di monitorare e “mappare” , le imprese sull’intero territorio nazionale – o, addirittura, anche nelle loro attività svolte all’esterno – e nello svolgimento di qualsivoglia attività economica, verificare che essa sia soggetta a comunicazione o a informazione antimafia, sicché l’autorità prefettizia, richiesta di emettere una comunicazione antimafia liberatoria, ben può venire a conoscenza, nel collegarsi alla banca dati, che a carico dell’impresa sussista una informativa antimafia o ulteriori elementi di apprezzabile significatività, provvedendo ad emettere, ai sensi dell’art. 89 bis, comma 2, del D.Lgs. n. 159/2011, una informativa antimafia in luogo della richiesta comunicazione.
E ciò perfettamente in linea con la richiamata previsione dell’art. 2, comma 1, lett. c) della legge delega – L. n. 136/2010 – che, giova ripeterlo, ha istituto una banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, testualmente, con “immediata efficacia delle informative antimafia negative su tutto il territorio nazionale” e “con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione, finalizzata all’accelerazione delle procedure di rilascio della medesima documentazione e al potenziamento dell’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa” .
Tale ultima finalità, chiaramente enunciata dal legislatore, pienamente giustifica quindi il potere prefettizio di emettere una informativa antimafia, ricorrendone i presupposti dell’art. 84, comma 4, e dell’art. 91, comma 6, del D.Lgs. n. 159/2011 in luogo e con l’effetto della richiesta comunicazione antimafia.
Questo Collegio non ignora che, con l’ordinanza n. 2337 del 28 settembre 2016, il T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di compatibilità dell’art. 89 bis del D.Lgs. n. 159/2011 in relazione ad un presunto eccesso di delega ai sensi degli art. 76, 77 Cost. e per presunta violazione dell’art. 3 della Cost.. Tuttavia, vi è da registrare che, con sentenza n. 4/2018, la questione è stata dichiarata infondata.
In sintesi, la Consulta ha affermato che, anteriormente alla legge delega n. 136/2010, non sussisteva alcun ostacolo logico o concettuale che imponesse di circoscrivere gli effetti della informazione antimafia alle attività contrattuali della pubblica amministrazione, escludendone quelle ulteriori indicate dall’art. 67 del D.Lgs. n. 159/2011. E’ stato evidenziato che nell’impostazione originaria dell’art. 10 della L. n. 575/1965, la documentazione antimafia allora prevista riguardava, con effetti impedienti, sia l’attività contrattuale che quella preclusa dall’attuale art. 67 del codice antimafia, ponendo in luce la necessità di reagire su entrambi i fronti davanti al pericolo che soggetti raggiunti da una misura di prevenzione o condannati per determinati reati potessero costituire un qualsivoglia rapporto con la pubblica amministrazione da cui trarre utilità.
E’ stato poi messo in risalto che l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge delega n. 136 del 2010 ha inteso allargare il campo di applicazione dell’informazione antimafia, stabilendo che la sua immediata efficacia possa esplicarsi con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione. Con questa disposizione il legislatore delegante, prendendo evidentemente le mosse dalla situazione di estrema gravità ravvisabile nel tentativo di infiltrazione mafiosa, ha concesso al legislatore delegato di introdurre ipotesi in cui tale infiltrazione, alla quale corrisponde l’adozione di un’informazione antimafia, giustifichi un impedimento non alla sola attività contrattuale della pubblica amministrazione, ma anche ai diversi contatti che con essa possano realizzarsi nei casi ora indicati dall’art. 67 del D.Lgs. n. 159/2011. Così, in linea generale, l’art. 84, comma 3, del D.Lgs. n. 159/2011 ha espressamente esteso l’oggetto dell’informazione antimafia alla sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67, mentre l’art. 91 ha più specificamente allargato gli effetti interdittivi dell’informazione antimafia ai provvedimenti indicati dal precedente art. 67, purché del valore specificamente indicato. Nel contesto del D.Lgs. n. 159/2011, e sulla base della legge delega n. 136 del 2010, nulla autorizza quindi a pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba precludere anche le attività di cui all’art. 67, oltre che i rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, se così il legislatore ha stabilito.
Anche la questione concernente la violazione dell’art. 3 Cost. è stata ritenuta infondata dalla Corte Costituzionale. La fattispecie delineata dall’art. 89 bis si riconnette infatti a una situazione di particolare pericolo di inquinamento dell’economia legale, perché il tentativo di infiltrazione mafiosa viene riscontrato all’esito di una nuova occasione di contatto con la pubblica amministrazione, che, tenuta a richiedere la comunicazione antimafia in vista di uno dei provvedimenti indicati dall’art. 67, si imbatta in una precedente documentazione antimafia interdittiva. Non è perciò manifestamente irragionevole che, secondo l’interpretazione dell’art. 89 bis, a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati, reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia.
Quanto infine al presunto contrasto con l’art. 41 della Costituzione - profilo non esaminato dalla Consulta perché non contemplato nell’ordinanza di rimessione - possono essere richiamate le considerazioni del Consiglio di Stato che inducono a ritenere la manifesta infondatezza della questione. Si è infatti osservato che lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose. Questa valutazione, che ha natura preventiva e non sanzionatoria ed è, dunque, avulsa da qualsivoglia logica penale o lato sensu punitiva (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1109/2017), costituisce un severo limite all’iniziativa economica privata, che tuttavia è giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un “danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l’utilità sociale, limite, quest’ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata. Il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica.
In altri termini, non si può ignorare che tra economia pubblica ed economia privata sussista un intreccio tanto profondo, anche nell’attuale contesto di una economia globalizzata, che non è pensabile e possibile contrastare l’infiltrazione della mafia “imprenditrice” e i suoi interessi senza colpire anche gli altri e che tale distinzione, se poteva avere una giustificazione nella società meno complessa di cui la precedente legislazione antimafia era specchio, viene oggi a perdere ogni valore, ed efficacia deterrente, per entità economiche che, sostenute da ingenti risorse finanziarie di illecita origine ed agevolate, rispetto ad altri operatori, da modalità criminose ed omertose, entrino nel mercato con una aggressività tale da eliminare ogni concorrenza e, infine, da monopolizzarlo.
La tutela della trasparenza e della concorrenza, nel libero esercizio di una attività imprenditoriale rispettosa della sicurezza e della dignità umana, è un valore che deve essere preservato nell’economia sia pubblica che privata.
Infine deve essere qui anche ribadito che il bilanciamento tra i valori costituzionali rilevanti in materia – l’esigenza, da un lato, di preservare i rapporti economici dalle infiltrazioni mafiose in attuazione del superiore principio di legalità sostanziale e, dall’altro, la libertà di impresa – trova nella previsione dell’aggiornamento, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del D.Lgs. n. 159/2011, un punto di equilibrio fondamentale e uno snodo della disciplina in materia, sia in senso favorevole che sfavorevole all’impresa, poiché impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti – se non noti – e consente all’impresa stessa di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 4121/2016).
Sono infine infondate le ulteriori censure dedotte da parte ricorrente.
In particolare, non possono trovare favorevole ingresso nel presente giudizio le deduzioni concernenti la presunta illegittimità derivata dalla informativa antimafia posta a base del provvedimento della -O-;difatti, l’atto prefettizio ha già superato il vaglio giurisdizionale in primo (T.A.R. Campania, Napoli, n. 4471/2016) e secondo grado (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2314/2017) e, quindi, non può esser nuovamente messo in discussione, ostandovi il principio processuale del ne bis in idem .
Quanto alle ulteriori circostanze sopravvenute ai giudizi amministrativi de quibus che, secondo la prospettazione attorea, avrebbero definitivamente eliso il rischio di contaminazione criminale (archiviazione del procedimento penale nei confronti dei soci, denuncia di un episodio di intimidazione, giudizio di risarcimento per danni nei confronti di esponenti del clan dei casalesi, sentenze di giudici penali che avrebbero dequotato indizi richiamati nella informativa prefettizia), si ribadisce che il provvedimento della -O- gravato in questa sede si fonda su una informativa antimafia dichiarata legittima dal giudice amministrativo;peraltro, i nuovi elementi istruttori potranno essere portati a conoscenza della Prefettura in sede di aggiornamento della posizione antimafia ex art. 91, comma 5, del D.Lgs. n. 159/2011.
Ancora, premesso che, per le ragioni illustrate, si rivela legittima l’estensione degli effetti dell’informativa antimafia anche alle attività imprenditoriali che presuppongono il rilascio di autorizzazioni, licenze ed abilitazioni, si osserva che nell’attività svolta dalla società ricorrente non vengono in rilievo solo profili privatistici ed imprenditoriali posto che, come rilevato dalla difesa della -O-, alla ditte abilitate ai sensi del D.M. n. 37/2008 compete anche il potere di rilasciare dichiarazioni di conformità degli impianti nel rispetto delle norme di cui all’art. 6 (esecuzione dell'impianto a regola dell'arte) aventi valore di certificazione, quindi con efficacia erga omnes e con indubbi riflessi di interesse pubblico, avendo tale documento lo scopo di garantire la sicurezza degli impianti e l'incolumità pubblica. Ad ulteriore conferma della rilevanza pubblica di tale certificazione, si osserva peraltro che la dichiarazione di conformità deve essere presentata presso amministrazioni pubbliche (Sportello Unico dell’Edilizia nel Comune in cui è ubicato l’impianto: art. 11 del D.M. n. 37/2008), la relativa produzione è richiesta per il rilascio del certificato di agibilità (art. 6 del decreto) e, ancora, il mancato rilascio di tale dichiarazione di conformità dà luogo all’applicazione delle sanzioni amministrative di cui all’art. 15 del D.M.n. 37/2008.
Quanto alla pendenza del ricorso alla Cedu, rileva il Collegio che, allo stato non è intervenuta alcuna decisione e, in ogni caso, eventuali sentenze con le quali sono accertate e dichiarate violazioni della Convenzione e/o dei suoi Protocolli, non incidono direttamente nell’ordinamento giuridico dello Stato convenuto, vincolando invece, sul piano internazionale appunto, soltanto quest’ultimo a conformarvisi (Consiglio di Stato, n. 2866/2015).
Peraltro, va rammentato in questa sede che, con sentenza n. 1017/2018, questa Sezione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto dell’art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 159/2011 con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla Cedu ( “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende” ) in ragione della presunta eccessiva indeterminatezza dei presupposti inferenziali per l’emissione della misura ostativa, tali da rendere imprevedibile, da parte dell’impresa interessata, l’adozione della misura anzidetta.
Per quanto rileva nel presente giudizio, con tale pronuncia si è infatti ritenuto che: a) l’informativa interdittiva antimafia incide sulla libertà di iniziativa economica, la quale non trova, però, specifica tutela nella Cedu, mentre è contemplata dall’art. 41 Cost.;b) la formula ‘elastica’ adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria riviene dalla ragionevole ponderazione tra l’interesse privato al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socio-economico dagli inquinamenti mafiosi, dove il primo, siccome non specificamente tutelato dalla Cedu né riconducibile alla sfera dei diritti costituzionali inviolabili, si rivela recessivo rispetto al secondo, siccome collegato alle preminenti esigenze di difesa dell’ordinamento contro l’azione antagonistica della criminalità organizzata;c) la formula ‘elastica’ in parola riflette l’obiettivo di apprestare all’autorità amministrativa statale competente strumenti di contrasto alle organizzazioni malavitose, tanto più efficaci, quanto più adattabili – in virtù di apprezzamenti discrezionali modulabili caso per caso – ai peculiari fenomeni proteiformi, occulti, impenetrabili e pervasivi di infiltrazione mafiosa nelle imprese operanti nel mercato, potenzialmente destinate a instaurare rapporti negoziali con la pubblica amministrazione;d) l’istituto dell’informativa antimafia non può in alcun modo ricondursi all’alveo della garanzia fondamentale della ‘presunzione di non colpevolezza’ di cui all’art. 27, comma 2, Cost., alla quale è ispirato anche l’art. 6 Cedu, in quanto non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale, ma riguarda la prevenzione amministrativa antimafia.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis , Cassazione Civile, n. 3260/1995, n. 7663/2012). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto pur ravvisandosi giustificati motivi, attesa la rilevanza e la complessità delle questioni esaminate, per disporre la compensazione delle spese processuali tra le parti costituite.