TAR Roma, sez. 3T, sentenza 2016-09-15, n. 201609768

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 3T, sentenza 2016-09-15, n. 201609768
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201609768
Data del deposito : 15 settembre 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 15/09/2016

N. 09768/2016 REG.PROV.COLL.

N. 12289/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Ter)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 12289 del 2015, proposto da:
O F, anche per conto del proprio figlio minore, rappresentata e difesa dall’avv. M M, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. G G in Roma, Via Federico Cesi n. 21;

contro

Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato;
Ambasciata d’Italia a Kiev;

per l'annullamento

del diniego di visto di ingresso per residenza elettiva adottato dall’Ambasciata d’Italia a Kiev il 27.7.2015 (prot. n. 815).


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’amministrazione;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 15 luglio 2016 il cons. M.A. di Nezza e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso notificato il 12.1.2016 (dep. l’1.2) la ricorrente in epigrafe, esponendo di aver presentato documentata domanda di visto di ingresso per residenza elettiva al fine di stabilirsi in Italia insieme al proprio figlio minore, ha impugnato il diniego adottato dall’Ambasciata d’Italia a Kiev il 27.7.2015, così motivato: “Ella non ha comprovato di possedere i requisiti previsti dalle leggi e regolamenti vigenti, ed in particolare dal punto 13 dell’Allegato A del Decreto Interministeriale n. 850 dell’11.5.2011”.

A sostegno del ricorso, illustrata la propria situazione patrimoniale (la ricorrente sarebbe un’imprenditrice titolare di svariate rendite, analiticamente indicate nell’atto introduttivo), ha denunciato la violazione dell’art. 3 l. n. 241/90: la motivazione del provvedimento impugnato non consentirebbe di percepire le ragioni del diniego, avendo la ricorrente dimostrato di essere in possesso dei requisiti previsti dal n. 13, all. A, d.m. 11.5.2011, e in particolare della disponibilità, oltre che di un alloggio idoneo, di “ampie, stabili e regolari risorse economiche, di cui si può ragionevolmente supporre la continuità nel futuro”, consistenti in rendite derivanti da molteplici unità immobiliari date in locazione, per oltre 110.000 euro all’anno e dunque di gran lunga superiori al triplo dell’importo previsto dalla tab. A allegata alla dir. Min. interno 1.3.2000.

Si è costituita in resistenza l’amministrazione, che ha eccepito la tardività del ricorso e ha instato per la sua reiezione nel merito, stanti le risultanze della relazione dell’Ambasciata (mem. 24.2.15).

All’odierna udienza, in vista della quale la ricorrente ha depositato una memoria (12.4.2016), il giudizio è stato discusso e trattenuto in decisione.

2. Il ricorso è infondato.

2.1. Va anzitutto esaminata l’eccezione di irricevibilità sollevata dall’amministrazione, a dire della quale l’art. 41, co. 5, c.p.a. – “ Il termine per la notificazione del ricorso è aumentato di trenta giorni, se le parti o alcune di esse risiedono in altro Stato d’Europa, o di novanta giorni se risiedono fuori d’Europa ” – non sarebbe applicabile al caso di specie, risiedendo l’istante in Ucraina e dunque “ in altro Stato d’Europa ”.

La ricorrente sostiene in contrario (mem. 12.4.2016): a) che l’Ucraina, non facendo parte dell’Unione Europea, dovrebbe essere considerata “ fuori d’Europa ”;
la norma intenderebbe cioè favorire le parti necessitanti di “più tempo per poter organizzare la propria difesa nel processo amministrativo in Italia”, sicché per i soggetti residenti in altro Stato membro dell’Unione Europea, abilitati a circolare liberamente all’interno dei confini dell’Unione stessa, sarebbe sufficiente il termine supplementare di 30 giorni; b) che un’interpretazione dell’art. 41, co. 5, cit. incentrata sul dato geografico comporterebbe notevoli incertezze sul dies ad quem della notificazione, non risultando definiti in modo inequivoco i confini orientali dell’Europa (il rilievo varrebbe, a es., per Ucraina, Russia, Cipro, Turchia).

La premessa da cui muove la ricorrente è condivisibile.

L’estensione del termine per impugnare, oggi prevista dall’art. 41, co. 5, cit., ma introdotta dall’art. 5 l. 7 marzo 1907, n. 62 (e poi ripresa dagli artt. 28, 3° co., r.d. 17 agosto 1907, n. 638, e 36, 3° co., r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), ha il fine di agevolare la proposizione del ricorso giurisdizionale per i non residenti in Italia, in considerazione delle maggiori difficoltà cui costoro vanno verosimilmente incontro nelle fasi prodromiche all’instaurazione della lite (si pensi, a es., al conferimento dell’incarico professionale;
cfr. Cons. Stato, sez. VI, 17 giugno 2014, n. 3037: “a livello teleologico, l’allungamento del termine per la notificazione del ricorso di primo grado risponde ad una ratio specifica, derivante dalle evidenti maggiori difficoltà che la residenza all’estero di qualcuna delle parti […] determina ai fini della regolare instaurazione del contraddittorio”).

Non è però certa la conclusione cui essa addiviene: alla lettura da essa propugnata può infatti essere opposta un’interpretazione incentrata sul dato testuale e dunque sulla riferibilità della norma, tenuto anche conto dell’epoca in cui è stata introdotta, a un elemento prettamente geografico ( del resto, l’identificazione con gli Stati appartenenti all’Unione Europea ipotizzata dalla ricorrente porterebbe al risultato di considerare come “fuori d’Europa” Stati che, pur non aderenti all’Unione, rientrano comunque nel continente europeo, quali a es. Svizzera, Norvegia, ecc.;
v. Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 738, concernente una parte residente nel Principato di Monaco).

Ma in disparte tale questione, sta di fatto che l’appartenenza dell’Ucraina al continente europeo (“Europa” in senso geografico) è obiettivamente incerta.

Ciò consente di riconoscere alla parte istante il beneficio della rimessione in termini (l’atto introduttivo è stato notificato entro il termine supplementare di 150 giorni previsto dalla disposizione in argomento), con conseguente superamento dell’eccezione in disamina.

2.2. Nel merito, il ricorso è infondato.

Ai sensi del punto 13, all. A, d.m. 11.5.2011:

“Il visto per residenza elettiva consente l’ingresso in Italia, ai fini del soggiorno, allo straniero che intenda stabilirsi nel nostro Paese e sia in grado di mantenersi autonomamente, senza esercitare alcuna attività lavorativa.

A tal fine, lo straniero dovrà fornire adeguate e documentate garanzie circa la disponibilità di un’abitazione da eleggere a residenza, e di ampie risorse economiche autonome, stabili e regolari, di cui si possa ragionevolmente supporre la continuità nel futuro. Tali risorse, comunque non inferiori al triplo dell’importo annuo previsto dalla tabella A allegata alla direttiva del Ministro dell’interno del 1° marzo 2000, recante definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato, dovranno provenire dalla titolarità di cospicue rendite (pensioni, vitalizi), dal possesso di proprietà immobiliari, dalla titolarità di stabili attività economico-commerciali o da altre fonti diverse dal lavoro subordinato.

Anche al coniuge convivente, ai figli minori ed ai figli maggiorenni conviventi ed a carico, potrà essere rilasciato analogo visto, a condizione che le suddette capacità finanziarie siano giudicate adeguate anche per quest’ultimi”.

La norma prevede dunque che lo straniero debba essere “in grado di mantenersi autonomamente, senza esercitare alcuna attività lavorativa” e che la prova di questa situazione vada data attraverso l’offerta di “adeguate e documentate garanzie circa la disponibilità”, oltre che di un’“abitazione da eleggere a residenza”, di “ampie risorse economiche autonome, stabili e regolari”: “di cui si possa ragionevolmente supporre la continuità nel futuro”;
aventi misura non inferiore a quella innanzi precisata (ai sensi della menzionata tabella A sono richieste risorse pari a euro 31.159,29, giusta la quota fissa e giornaliera per l’ipotesi di viaggiatore singolo);
provenienti “dalla titolarità di cospicue rendite (pensioni, vitalizi)”, “dal possesso di proprietà immobiliari”, “dalla titolarità di stabili attività economico-commerciali” ovvero “da altre fonti diverse dal lavoro subordinato”.

La formulazione della disposizione consente di condividere l’indirizzo secondo cui “la valutazione rimessa all’autorità consolare sulla ampiezza di dette risorse e sulla loro continuità nel futuro appartiene al novero delle valutazioni discrezionali, giurisdizionalmente sindacabili per manifesta irrazionalità o per erronea sussunzione dei fatti” (T.a.r. Lazio, sez. I- quater , 15 luglio 2014, n. 7520;
v, da ultimo, di questa Sezione, la sent. 7 giugno 2016, n. 6568).

Nel caso di specie, l’Ambasciata ha negato il visto adducendo la mancata prova del possesso dei requisiti contemplati dal n. 13 appena citato, mentre le specifiche ragioni della determinazione negativa risultano illustrate nella relazione versata in atti (prot. 152 del 4.2.2016, dep. il 24.2.16).

Si tratta di un modus procedendi che appare consentito dalla deroga al generale obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi prevista dall’art. 4, co. 2, 5° per., d.lgs. n. 286/98, a mente del quale “In deroga a quanto stabilito dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, per motivi di sicurezza o di ordine pubblico il diniego non deve essere motivato, salvo quando riguarda le domande di visto presentate ai sensi degli articoli 22, 24, 26, 27, 28, 29, 36 e 39” (relativi agli ingressi per lavoro subordinato, stagionale e autonomo e ai “casi particolari”, nonché a quelli per “unità familiare” e “ricongiungimento familiare”, per “cure mediche” e per “accesso ai corsi delle università”).

Secondo questa disposizione, dunque, il diniego di visto per residenza elettiva, quale è quello che viene oggi in rilievo, non è soggetto all’obbligo di motivazione.

Nondimeno, questa Sezione ha affermato che l’anzidetta deroga “deve essere intesa non già nel senso che la predetta norma abbia legittimato l’Amministrazione ad agire arbitrariamente (e che pertanto la stessa avrebbe la potestà di negare il visto anche nel caso in cui non vi sia alcuna legittima ragione per farlo) ma nel senso che nei casi in cui il visto può essere legittimamente negato (sempre, dunque, vi sia una ragione per farlo), il diniego può non essere motivato”, fermo il potere del giudice “di verificare la legittimità del diniego”, per cui l’amministrazione “non può esimersi dal fornire a quest’ultimo spiegazioni in merito alle ragioni che hanno condotto all’adozione del provvedimento” (sent. 15 novembre 2013, n. 9768).

Ora, la ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 3 l. n. 241/90 (con situazione differenziata da quella esaminata nella sentenza n. 6568/16 cit.), illustrando i presupposti fattuali che a suo dire avrebbero dovuto portare al rilascio del visto, ma nulla ha opposto a fronte delle circostanziate deduzioni dell’amministrazione, di cui alla menzionata relazione versata in atti, che superano le allegazioni fattuali contenute nell’atto introduttivo (la memoria del 12.4.2016 contiene infatti soltanto una replica all’eccezione di tardività).

Non è pertanto ravvisabile alcuna illegittimità invalidante, tenuto conto del fatto che l’amministrazione, pur non avendo illustrato le specifiche ragioni del diniego, in esercizio della facoltà riconosciuta dalla disposizione innanzi richiamata, ha comunque esternato in giudizio i motivi posti a base del diniego, consentendo alla ricorrente di avanzare le ritenute contestazioni, possibilità di cui la stessa non si è avvalsa.

3. In conclusione, il ricorso è infondato e va pertanto respinto.

Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi