TAR Bari, sez. II, sentenza 2019-02-27, n. 201900313
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Pubblicato il 27/02/2019
N. 00313/2019 REG.PROV.COLL.
N. 01426/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
S
sul ricorso numero di registro generale 1426 del 2014, proposto dal prof. dott. G.M., rappresentato e difeso dall’avv. A S, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari, alla via Abbrescia n. 50;
contro
Università degli Studi di Bari, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati L S e S S, con ufficio presso l’avvocatura dell’Ateneo in Bari, alla piazza Umberto I;
per l’annullamento
- delle note del Rettore dell’Università degli Studi di Bari n. 5015 del 22.1.2014, n. 22751 del 31.3.2014 e prot. n. 50509 del 15.7.2014, nonché degli atti presupposti e consequenziali ivi compresa, se di interesse, la nota G.d.F. del 30.11.2013;
nonché per l’accertamento del diritto del ricorrente a non subire il recupero prospettato;
nonché per l’accertamento del diritto a veder riconosciute le proprie ragioni creditorie nei confronti dell’Università degli Studi di Bari.
e per la conseguente condanna dell’Amministrazione intimata al pagamento delle somme dovute al prof. G.M., per compensi di Stato e rimborsi per trasferte.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Bari;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 dicembre 2018 il dott. Lorenzo Ieva e uditi per le parti i difensori avv. A S, per il ricorrente, e avv. Gaetano Prudente, su delega dell’avv. S S, e L S, per l’Amministrazione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso depositato in data 19 novembre 2014, il prof. dott. G.M., medico chirurgo specialista, già professore ordinario in quiescenza, cessato dall’impiego il 31 ottobre 2010, impugnava i provvedimenti dell’Università degli Studi di Bari, come meglio descritti in epigrafe, di recupero delle somme incamerate a seguito dello svolgimento di plurimi incarichi esterni , svolti nel corso dell’impiego a regime pubblicistico di docente universitario, senza aver mai ottenuto la prevista autorizzazione, ai sensi dell’art. 53 d.lgs 30 marzo 2001 n. 165 e del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, nonché alla stregua dello Statuto e del regolamento universitario di specie.
Gli atti impugnati seguono specifici accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza, che ha con propria nota segnalato gli illeciti all’Università per il seguito di competenza.
Incontestato è che il prof. G.M. era professore a tempo pieno e ricopriva cariche universitarie alle quali poteva accedere solo per via di tale qualità. Non risulta agli atti che egli sia mai stato in regime di impiego a tempo definito.
Tuttavia, il ricorrente lamentava la sproporzione delle somme richieste, in conseguenza della omessa autorizzazione a cui era invero tenuto per poter svolgere gli incarichi esterni retribuiti e la carenza di una sufficiente base normativa che giustificasse il riversamento di dette somme all’amministrazione, nonché manifestava che, al più, l’omessa richiesta di autorizzazione fosse ascrivibile ad una mera dimenticanza giustificabile o, comunque sia, da ritenersi inoffensiva per l’interesse pubblico.
Si costituiva l’Università, rilevando l’insussistenza dei vizi di legge dedotti dal ricorrente e ribadiva la legittimità degli atti adottati, sulla scorta della specifica normativa applicabile in merito a tutti i pubblici dipendenti, compresi i docenti universitari, se a tempo pieno.
Il ricorso veniva ampiamente discusso alla udienza pubblica del 4 dicembre 2018 e indi veniva trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1.- Con il primo motivo di ricorso, il prof. G.M. contesta la insussistenza dei presupposti che fondano il diritto dell’amministrazione all’incameramento delle somme accertate come derivanti da incarichi esterni non autorizzati. Tanto in violazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs 165 del 2001 e dell’art. 6 legge n. 240 del 2010.
Segnatamente, il ricorrente insiste sulla circostanza, secondo cui la mancata richiesta di autorizzazione negli anni contestati (2008-2009) riguardasse “incarichi minori” svolti per enti ecclesiastici, la cui omissione era dovuta a semplice dimenticanza, in correlazione ad un non meglio precisato pregresso “indirizzo autorizzatorio” dell’Università e, quindi, ad una svista non sua, ma addebitabile ad una non meglio indicata “segreteria”, dato anche il numero elevato di cariche ricoperte e di incarichi svolti, in qualità di professionista medico, di primario ospedaliero, di ricercatore scientifico, di docente universitario e di quant’altro.
Pur tuttavia, nonostante il sicuro merito dell’attività svolta, che rimane indiscusso, tanto non vale ad esimere giuridicamente qualsiasi pubblico dipendente, per il quale vige, in linea generale, un rapporto di esclusività del servizio svolto nell’amministrazione (art. 98, comma 1°, Cost.;art. 13 d.p.r. n. 3 del 1957), dal richiedere o comunque ottenere la dovuta autorizzazione allo svolgimento di incarichi esterni, che esulano dai compiti d’ufficio (Cons. St., sez. VI, 23 giugno 2015 n. 3172).
Al contrario, come emerge dalla segnalazione del Nucleo di polizia tributaria di Bari della Guardia di finanza del 13 novembre 2013, al prof. G.M. sono state ascritte plurime violazioni negli anni 2008 e 2009. Segnatamente, viene addebitato lo svolgimento di incarichi retribuiti, che andavano in realtà ben al di là della mera consulenza o della collaborazione scientifica, che erano state autorizzate dall’Università, per enti privati e per enti ecclesiastici;è stata altresì contestata l’omessa rendicontazione dei compensi reali percepiti e, infine, sono stati evidenziati lo svolgimento di incarichi retribuiti, invece mai autorizzati.
Inoltre, non è fondato il rilievo per cui, il docente universitario, dopo la riforma di cui alla legge 30 dicembre 2010 n. 240 (cd. riforma Gelmini), potrebbe svolgere, ai sensi dell’art. 6, comma 10, liberamente attività di collaborazione scientifica e di consulenza, in quanto non si trattava affatto di mera consulenza (T.A.R. Reggio Calabria, sez. I, 14 marzo 2017 n. 195).
Peraltro, lo stesso art. 6, comma 10, legge n. 240 cit., per i professori e i ricercatori a tempo pieno, espressamente subordina alla previa autorizzazione del rettore lo svolgimento delle funzioni didattiche e di ricerca, nonché di compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro, purché non si determinino situazioni di conflitto di interesse con l’Università di appartenenza, a condizione comunque che l’attività non rappresenti detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali affidate dall’Università di appartenenza.
Trattasi – come è possibile ben comprendere dal chiaro testo di legge – di condizioni normative , che devono essere prudentemente saggiate dall’organo competente, ossia dal Rettore, previa istanza documentata da parte del docente a tempo pieno, che aneli ai suddetti incarichi esterni, da autorizzarsi specificamente, che esclude ogni ipotesi di autoreferenziale presunzione di rilascio di qualsivoglia autorizzazione implicita o generalizzata.
Né il fatto di svolgere la libera professione di medico in attività intramoenia , fuori dell’orario di lavoro, ai sensi del d.P.C.M. 27 marzo 2000, all’interno della struttura universitaria, determina un diverso regime di autorizzazione per l’espletamento degli incarichi esterni, svolti fuori dalla struttura, in quanto l’attività libero-professionale intramuraria in favore e su libera scelta dell’assistito (e con oneri a carico dello stesso) costituisce una specifica modalità di svolgimento della professione di medico, che non ha alcuna afferenza con lo svolgimento delle attività interne di docente universitario o con altre attività esterne per diversi incarichi prestati a vantaggio di enti pubblici o privati.
2.- Con un secondo motivo , il ricorrente insiste specificamente nell’inesistenza dell’elemento soggettivo della violazione dell’art. 53, comma 6, d.lgs n. 165 del 2001, rapportata alla circostanza che il prof. G.M. avesse sempre richiesto autorizzazioni e che poi per mera svista o errore in buona fede avesse omesso di richiederla in alcuni casi, non sussistendo alcuna violazione dolosa o colposa in merito.
Al contrario, va rilevato che la richiesta o comunque l’ottenimento della prevista autorizzazione a svolgere incarichi esterni inerisce al rapporto di lavoro ed agli adempimenti che il lavoratore, anche quando ricopra qualifiche elevate, come quelle di docente universitario, è specificamente tenuto nei confronti dall’amministrazione presso cui presta l’attività lavorativa.
Tanto comporta un obbligo di diligenza professionale (art. 13, comma 1°, d.P.R. n. 3 del 1957, art. 2104 c.c., 2129 c.c.) che richiede – data la tendenziale esclusività del rapporto di impiego pubblico (art. 13, comma 2°, d.P.R. n. 3 del 1957), ricollegata anche a precetti di rango costituzionale (art. 98, comma 1°, Cost.) – un onere di particolare attenzione da parte del pubblico dipendente, che sa discernere e ben apprezza quando svolge attività presso strutture diverse dal suo luogo ordinario e quotidiano di lavoro.
Peraltro, la disposizione normativa, di cui all’art. 53, comma 8, d.lgs n. 165 del 2001, che prevede il “riversamento” all’amministrazione datrice di lavoro delle somme percepite, per l’incarico non autorizzato, comporta l’adozione di un provvedimento autoritativo di ingiunzione, volto al recupero delle dette somme a favore dell’amministrazione (), collegato alla responsabilità per inadempimento grave di un obbligo contrattuale (ancorché trovi fonte nell’atto di nomina) del prestatore di lavoro. Non viene, dunque, inflitta una sanzione amministrativa o penale, per le quali trovino applicazione rispettivamente i principi (sostanzialmente omologhi) in tema di responsabilità, di cui alla legge n. 689 del 1981 o quelli di cui al codice penale (, bensì viene adottato un provvedimento inerente alla gestione del rapporto di lavoro. Le somme sono dovute in base all’atto autoritativo di ingiunzione (Cons. St., sez. VI, 17 ottobre 2018 n. 5944), a cui è legittimata l’Università,
Vieppiù, l’assenza di autorizzazione avrebbe potuto fondare un illecito disciplinare, se il docente universitario fosse stato ancora in servizio (Cons. St., sez. VI, 20 novembre 2013 n. 5504), e comportare, nei casi più gravi ed estremi, anche la decadenza (o il recesso dall’impiego pubblico (Cass., sez. lav., 12 dicembre 2018 n. 32156;motivo per cui sovente il lavoratore pubblico, con ordinaria diligenza, pone la massima attenzione sull’osservanza dei doveri di incompatibilità, rispetto alle attività non rientranti nei doveri d’ufficio, e – nei casi dubbi – interpella di norma il proprio ufficio per riceverne chiarimenti in materia.
Dall’omesso riversamento può poi originarsi una responsabilità per risarcimento del danno erariale, sottoposta alla giurisdizione della Corte dei conti, ai sensi del comma 7- bis dell’art. 53 d.lgs n. 165 del 2001 (Cons. St., sez. IV, 28 dicembre 2016 n. 5506
Tanto detto, in realtà, la violazione contestata, dal punto di vista soggettivo, si appunta proprio sulla mancata osservanza dei precetti di diligenza nell’adempiere ai propri obblighi di lavoratore dipendente in servizio nell’Università, esigibili anche in relazione alle conseguenze gravose, che possono derivare allo status di dipendente pubblico, in rapporto alla violazione della normativa in materia, come sopra riassunta nei profili essenziali.
Semmai infine va considerato che la moltitudine di incarichi svolti dal prof. G.M. – in disparte la questione in sé dell’ammissibilità dei troppi incarichi svolti – doveva comportare che il docente si fosse dato una personale organizzazione adeguata a gestire i numerosi incarichi ricoperti, senza correre il rischio di incorrere in “dimenticanze”, che indi imputet sibi.
Peraltro, gli incarichi autorizzati vanno svolti al di fuori dell’orario di lavoro, fermi restando il diritto alle ferie ed ai riposi (art. 36, commi 2° e 3°, Cost.;d.lgs 8 aprile 2003 n. 66, di attuazione di direttive U.E.), spettanti a tutti i lavoratori, anche se con qualifica dirigenziale, onde consentire il recupero delle energie psico-fisiche spese, anche a tutela della correttezza delle prestazioni lavorative, motivo per cui l’amministrazione datrice di lavoro va informata in ordine allo svolgimento degli incarichi esterni, a maggior ragione quando siano numerosi.
3.- Con un terzo motivo , il ricorrente contesta l’esistenza dell’elemento oggettivo della violazione di cui all’art. 53, comma 7, della legge 30 marzo 2001 n. 165, nella misura in cui lo stesso dipendente ha provveduto ad auto-valutare come insussistente alcun conflitto di interesse in concreto tra l’attività lavorativa propria di docente universitario e gli incarichi esterni non autorizzati ma svolti, dal che fa derivare una presunta carenza di fondamento della contestazione mossagli dall’amministrazione, anche perché nessuna censura agli obblighi di servizio gli è mai stata mossa, quando era in servizio.
Tale assunto va respinto proprio perché non è il singolo dipendente, che deve valutare la compatibilità dell’incarico esterno con l’attività lavorativa svolta, bensì l’amministrazione presso cui è incardinato, la quale invero valuta non solo la compatibilità e l’assenza di conflitti di interesse, anche potenziali, bensì anche la proficuità dell’incarico stesso, quale arricchimento professionale, a vantaggio diretto del dipendente ed indiretto per la stessa amministrazione, a patto che gli stessi incarichi non divengano numerosi, assorbenti e preponderanti rispetto l’attività lavorativa normale (T.A.R. Emilia-Romagna, sez. dist. Parma, sez. I, 17 luglio 2017 n. 263). Inoltre, l’amministrazione è tenuta a valutare la conformità della richiesta di incarico ai divieti posti, ai sensi dell’art. 1, comma 42, lett. a) , della legge 6 novembre 2012 n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione).
Ergo , l’amministrazione va comunque notiziata circa l’incarico, per il quale è previsto un compenso pecuniario, che si vuole assumere, anche perché diverge il regime autorizzatorio, a seconda dell’ente conferente, che è del tipo silenzio-assenso, quando l’incarico anelato deve essere svolto a servizio di un ente pubblico, mentre è del tipo silenzio-diniego, quando l’incarico richiesto è nell’interesse di un ente privato (art. 53, comma 10, d.lgs n. 165 cit.).
Fanno eccezione i soli compensi indicati al comma 6 dell’art. 53 d.lgs n. 165 del 2001 (circolare del Dipartimento della funzione pubblica del 16 dicembre 1998 n. 10), che più che inerire ad incarichi esterni in senso proprio, afferiscono ad attività limitate e/o strettamente correlate all’esplicazione della libertà di pensiero e di scienza (artt. 21 e 33 Cost.), che si pongono, per la loro intrinseca natura, al di fuori dal perimetro di qualsivoglia incompatibilità.
Fanno eccezione inoltre le peculiari condizioni di dipendente pubblico a tempo parziale (cd. part time ) a non oltre il 50% del tempo di lavoro e, per la docenza universitaria, di professore a tempo definito, per le quali trovano applicazione disposizioni normative diverse di maggior favore rispetto ai doveri di incompatibilità. Ma, nel caso di specie, è incontroverso che il prof. G.M. abbia ricoperto il suo ruolo di docente universitario sempre a tempo pieno, accedendo alle alte cariche interne per le quali costituisce requisito essenziale, per l’appunto, tale regime.
Così ricostruito il quadro delle norme vigenti, che prevedono pure regimi speciali in correlazione ad altre particolari tipologie e qualifiche di lavoratori pubblici, non rilevanti nel caso di specie, è indubbio che gli incarichi accertati dall’ufficio ispettivo della Guardia di Finanza svolti negli anni 2008-2009, oltre l’autorizzazione concessa, o non rendicontati, o non affatto autorizzati, comportino la conseguenza di legge dell’obbligo di riversamento all’amministrazione.
Per altro verso, va ricordato che la giurisprudenza pacifica non qualifica in termini di diritto del dipendente l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi esterni, bensì ritiene sussista un potere discrezionale di apprezzamento dell’amministrazione, la quale deve quindi valutare la sussistenza dei presupposti, di norma in via preventiva, ai fini della concessione dell’autorizzazione.
Il fatto di aver ricevuto autorizzazioni in passato, poi, non costituisce elemento per far presumere alcuna forma di autorizzazione implicita o generale, perché l’autorizzazione allo svolgimento di un incarico esterno è invece specifica per un dato incarico e va richiesta appositamente e pure va rendicontata negli emolumenti effettivamente percepiti, come peraltro si evince abbastanza chiaramente dalla lettura della disciplina, di cui all’art. 53 del d.lgs 165 del 2001 applicabile a tutti i pubblici dipendenti.
4.- Con un quarto motivo , in parte a dimostrazione dell’assolvimento dei doveri di servizio ed in parte al fine di elidere la pretesa creditoria, il ricorrente lamenta l’espletamento in favore dell’Università, del quale è stato pubblico dipendente, di una pluralità di incarichi interni ed attività, anche a titolo gratuito, ovvero per le quali l’attività pur remunerata con compensi accessori o rimborsi, non abbia mai richiesto o incamerato alcuna indennità o retribuzione, delle quali ora rivendica invece in asserita “compensazione” la pretesa creditoria, in via sostanzialmente riconvenzionale.
Purtuttavia, anche tale argomentazione ed eccezione va respinta, in quanto indeterminata nell’ an e nel quantum debeatur , non potendosi nel processo amministrativo introdursi richieste creditorie non specifiche. Tanto in quanto, per principio generale, è il creditore, anche se prestatore di lavoro, a dover dimostrare la fonte dell’obbligazione (art. 1173 c.c.) e la pretesa creditoria (artt. 99 e 115 c.p.c.), né potendo la stessa essere introdotta dalla parte in via ipotetica o generica, oppure pretesa d’ufficio la dimostrazione, essendo una simile azione esplorativa in toto estranea ad un qualsiasi processo tra parti.
In conclusione, il ricorso va respinto perché infondato in diritto. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate, come in dispositivo. Il contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 6- bis , del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, rimane a carico del ricorrente soccombente.