TAR Genova, sez. II, sentenza 2011-04-19, n. 201100640

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Genova, sez. II, sentenza 2011-04-19, n. 201100640
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Genova
Numero : 201100640
Data del deposito : 19 aprile 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00586/2010 REG.RIC.

N. 00640/2011 REG.PROV.COLL.

N. 00586/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 586 del 2010, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv. I G, F M, con domicilio eletto presso F M in Genova, via Roma 11/1;

contro

Ministero della Difesa, Direzione Generale Per il Personale Militare del Ministero della Difesa, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata per legge in Genova, v.le Brigate Partigiane 2;

per l'annullamento

DECRETO DI IRROGAZIONE SANZIONE DISCIPLINARE DELLA PERDITA DEL GRADO.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Dirazione Generale Per il Personale Militare del Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 febbraio 2011 il dott. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il ricorrente, maresciallo dell’esercito in servizio presso la scuola telecomunicazioni delle Forze Armate di Chiavari, ha impugnato la sanzione disciplinare della perdita di grado per rimozione comminata dal Direttore della Direzione Generale per il personale militare.

L’illecito disciplinare scaturisce dai medesimi fatti già oggetto di procedimento penale, articolatosi nella custodia cautelare dell’imputato, sostituita dall’arresto domiciliare e conclusosi infine con la sentenza (d. 16 giugno 2009) di condanna patteggiata alla pena di anni due di reclusione e 600,00 euro di multa, per i reati di concorso in sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione.

Condanna cui ha fatto seguito la richiesta di revisione-revoca della condanna definita con ordinanza d’inammissibilità del 13.07.2010 dalla Corte d’Appello di Torino.

A fondamento del gravame il ricorrente ha dedotto le seguenti censure:

- Violazione dell’art. 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990 n. 19. Difetto di presupposto. Violazione del principio del giusto procedimento;

- Violazione e falsa applicazione dell’art. 120 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3;

- Violazione degli artt. 65 e 66 l. 31 luglio 1954 n. 599. Incompetenza.

- Violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 29, 37 e 61 l. 31 luglio 1954 n. 599. Violazione dei principi di irretroattività delle sanzioni. Eccesso di potere sotto vari profili. Violazione dell’art. 24 cost.

Per omogeneità d’argomenti, i vizi denunciati si collocano, condensandosi, lungo quattro assi: violazione delle norme che disciplinano la tempistica del procedimento disciplinare;
difetto di competenza dell’organo che ha adottato la sanzione;
illegittima estensione della sentenza di condanna patteggiata al procedimento disciplinare;
violazione del principio di irretroattività della sanzione.

L’amministrazione si è costituita chiedendo la reiezione del ricorso siccome infondato.

Alla pubblica udienza del 17.02.2011 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.




DIRITTO

È impugnata la sanzione disciplinare della perdita di grado per rimozione comminata dal Direttore della Direzione Generale per il personale militare al ricorrente, maresciallo dell’esercito.

I medesimi fatti già oggetto di procedimento penale, articolatosi nella custodia cautelare sostituita dall’arresto domiciliare, conclusosi infine con la sentenza (d. 16 giugno 2009) di condanna patteggiata alla pena di anni due di reclusione e 600,00 euro di multa, per i reati di concorso in sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, sono stati posti a fondamento della sanzione disciplinare qui impugnata.

Le numerose censure si condensano intorno a quattro poli: violazione delle norme che disciplinano la tempistica del procedimento disciplinare;
difetto di competenza dell’organo che ha adottato la sanzione;
illegittima estensione della sentenza di condanna patteggiata al procedimento disciplinare;
violazione del principio di irretroattività della sanzione.

Nell’ordine.

Il procedimento disciplinare ha preso le mosse dall’acquisizione della sentenza patteggiata di condanna avvenuta il 10 agosto 2009;
nel rispetto del termine di 180 giorni previsto dall’art. 9, comma 2, l. n. 19del 1990, ha fatto quindi seguito la contestazione degli addebiti, verificatasi il 2 ottobre 2009;
per poi, infine, concludersi con il decreto ministeriale impugnato, adottato il 27 aprile 2010 ossia entro il termine di 270 giorni previsto per la definizione del procedimento disciplinare.

Contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, l’atto impugnato, di destituzione, non ha affatto natura recettizia: è infatti riconducibile all’esercizio di una potestà espressamente disciplinata da legge speciale, secondo i principi di (stretta) tipicità e legalità in senso sostanziale.

La disciplina normativa regolamenta infatti non solo i tipi di sanzione adottabili ma anche la composizione degli organi chiamati a prenderne parte, le fasi rispettivamente destinate alla contestazione degli addebiti e alla difesa, la scansione temporanea di essi e degli istituti posti a garanzia dell’incolpato, in cui si articola il procedimento, complessivamente considerato.

Trattandosi di disciplina speciale non trova pertanto applicazione la normativa generale del procedimento amministrativo, e con essa l’art. 21-bis l. n. 241/90 che predica il carattere ricettizio degli atti che incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario.

Sicché il termine perentorio per la conclusione del procedimento coincide, come nel caso che ne occupa, con l’adozione dell’atto, non con la comunicazione all’incolpato.

Alla medesima conclusione deve giungersi per quanto riguarda il rispetto dei termini c.d. interni del procedimento disciplinare, di cui alla censura rubricata sotto la violazione dell’art. 111 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.

La giurisprudenza (cfr., Cons. St., ad. plen., 25 gennaio 2000 n. 4) ha chiarito che detti termini seguono il criterio della “idoneità allo scopo” nel senso che, garantita la piena ed effettiva difesa dell’incolpato, l’amministrazione al fine di concludere il procedimento nel termine (esso sì) perentorio di 270 giorni, può ridurre, a sua discrezione, i termini concernenti gli atti interni.

Sicché la riduzione del termine ordinatorio di preavviso della convocazione della Commissione di disciplinare non integra alcuna violazione attesoché il ricorrente ha potuto comunque esercitare il diritto di difesa.

Quanto alla competenza mette conto sottolineare che la Scuola di telecomunicazione delle forze armate di Chiavari, presso la quale il ricorrente prestava servizio, è presidio militare d’interforze.

È alle dipendenze del Capo di Stato maggiore della Difesa, che ha delegato il controllo disciplinare e tecnico-amministrativo allo Stato maggiore della Marina Militare: correttamente quindi il Capo del dipartimento della marina Militare, ossia il Comandante, ha deferito il ricorrente, ai sensi dell’art. 69, comma 10, l. 599/1954, alla commissione disciplinare.

Il quale, ancorché cessato dal servizio permanente per infermità, era ed è (comunque) assoggettabile, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 21 e 48 l. n. 599/1954, a procedimento disciplinare, per fatti addebitati in costanza di servizio.

Né, venendo ad altro polo di censure, nel definire il procedimento disciplinare l’amministrazione ha acriticamente assunto i fatti posti a fondamento della sanzione penale inflitta al ricorrente.

Ciò per due concorrenti ordini di ragioni

In punto di fatto, gli organi procedenti hanno evidenziato il nocumento recato al corpo militare d’appartenenza dal comportamento delittuoso del ricorrente.

I principi che conformano l’ordinamento militare, quali quelli di correttezza e fedeltà dei militari al corpo d’appartenenza, s’estrinsecano in primo luogo nell’assumere un comportamento improntato a requisiti morali in grado di salvaguardare il prestigio del Corpo (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 21 agosto 2009 n. 5001).

Che viene invece è irrimediabilmente pregiudicato allorché, come nel caso in esame, l’incolpato sia autore di reati particolarmente odiosi per la pubblica morale, quali lo sfruttamento ed il favoreggiamento della prostituzione.

In punto di diritto, non va passata sotto silenzio la pronuncia della Corte costituzionale n. 336 del 2009 laddove ha precisato che la sentenza patteggiata è pur sempre espressione dell’ammissione dei fatti da parte dell’imputato: quei fatti, come “negozialmente accertati”, non sono più suscettibili di essere rimessi in discussione.

Nemmeno nel procedimento disciplinare ad essi conseguente.

Di converso, venendo ad altro profilo su sui è impostato il gravame, costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato a cui va dato continuità non sussistendo ragioni per qui discostarsi, che la valutazione della gravità dei fatti esercitata dall’amministrazione nella fase di irrogazione e quantificazione della sanzione è espressione di discrezionalità riservata, immune dal sindacato di legittimità ad eccezione delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere per travisamento dei fatto o illogicità manifesta.

Vizi nel caso in esame affatto assenti.

Va invece accolta la censura relativa al recupero degli emolumenti percepiti dal ricorrente dal 6 aprile 2009.

Il decreto dirigenziale che lo ha sospeso cautelarmente dal servizio dal 6 aprile 2009 è stato annullato dal Tar, sez. II, con sentenza 5 marzo 2010 n. 973: sicché, allo stato degli atti, salvo gli effetti dell’eventuale pronuncia d’appello (di cui è parola nella memoria depositata in giudizio dall’amministrazione resistente), la destituzione non dispiega i propri effetti ex tunc ossia fin dal momento della disposta misura cautelare.

Conseguentemente va annullato l’atto, limitatamente, in parte qua, nonché la conseguente richiesta di restituzione di 9.719,67 euro.

La natura della controversia e le censure dedotte inducono a ritenere che sussistano giustificati motivi per compensare le spese di lite.









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