TAR Catania, sez. I, sentenza 2015-06-11, n. 201501644

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Catania, sez. I, sentenza 2015-06-11, n. 201501644
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Catania
Numero : 201501644
Data del deposito : 11 giugno 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 03114/2001 REG.RIC.

N. 01644/2015 REG.PROV.COLL.

N. 03114/2001 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3114 del 2001, proposto da:
R L, rappresentato e difeso dall'avv. E T, con domicilio eletto presso l’avv. Santi Pappalardo in Catania, viale XX Settembre, 28;

contro

Comune di Avola (Sr), in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. P B, con domicilio ex lege presso la Segreteria di questo T.A.R. Catania;

per l'annullamento

- della delib. G.M. numero 437 del 30 luglio 1998 di approvazione del progetto di costruzione di un collettore fognario nel comune di Avola;

- dell’ordinanza sindacale numero 151 del 2 settembre 1998 di occupazione temporanea ed urgenza del terreno di proprietà del ricorrente;

- dell’ordinanza sindacale del 2 settembre 1998 di immissione in possesso;

- dell’ordinanza sindacale numero 197 del 13.11.1998 di determinazione indennità di espropriazione;

- di tutti gli atti della procedura espropriativa in questione;

per la declaratoria di apprensione illecita o, in subordine, illegittima del terreno di cui alla partita ex 7184 (ora 29.958) foglio 51 particelle 78,80, 83,84 e 290 sito in Avola;

per l’accertamento dell’irreversibile trasformazione del terreno sopra descritto;

e per la condanna del comune di Avola al risarcimento dei danni da occupazione acquisitiva di tale terreno.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Avola (Sr);

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 maggio 2015 la dott.ssa Maria Stella Boscarino e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso notificato il 31 luglio 2001 e depositato il 28 agosto 2001, il ricorrente, premettendo di essere nudo proprietario (per successione testamentaria apertasi il 9 ottobre 1995 ) di un lotto di terreno sito nel Comune di Avola, partita ex 7184 (ora 29958), foglio 51 particelle (fra le altre) 78,80, 83,84 e 290, esponeva che nell’anno 1999 si accorgeva (essendo residente in Roma) che il comune di Avola si era immesso nel possesso del suo terreno, realizzandovi un collettore fognario, senza aver mai notificato alcun atto della relativa procedura espropriativa.

A seguito di diffida da parte del ricorrente volta ad acquisire notizia circa gli atti della procedura in questione, il Comune rispondeva con una comunicazione estremamente generica, senza rilasciare alcun documento.

Una volta ottenuti comunque gli atti, il ricorrente proponeva il ricorso in epigrafe, lamentando, con il primo motivo, l’illegittimità del decreto di occupazione temporanea ed urgenza (emesso di seguito alla dichiarazione di pubblica utilità contenuta nella deliberazione di Giunta Municipale numero 437 del 30 luglio 1998) per incompetenza assoluta, essendo stato emanato dal sindaco anziché dal dirigente.

Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente deduceva l’illegittimità degli atti espropriativi per non essere mai stati notificati al ricorrente, risultando, al riguardo, irrilevante che l’avviso di immissione in possesso fosse stato comunicato impersonalmente agli eredi della precedente proprietaria, in quanto, essendosi la successione aperta nel 1995, la notificazione agli eredi presso l’ultimo domicilio del defunto avrebbe potuto essere legittimamente eseguita soltanto entro l’anno dal decesso, non certo tre anni dopo.

Con il terzo motivo il ricorrente lamentava illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità per violazione dell’articolo 13 della legge numero 2359 del 1865, sotto il profilo della mancata indicazione dei termini di inizio e fine lavori, illegittimità tale da travolgere tutto il procedimento espropriativo.

Con ordinanza numero 154/01, questa Sezione disponeva una consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare l’estensione delle aree di proprietà del ricorrente occupate ed irreversibilmente trasformate per l’esecuzione dell’opera pubblica, il relativo valore venale e quantificare il danno, ai sensi dell’articolo 3 comma 65 della legge numero 662/1996.

Il consulente tecnico d’ufficio in data 16 marzo 2002 depositava la propria relazione con allegati, precisando l’esatta estensione delle aree del ricorrente occupate ed irreversibilmente trasformate per l’esecuzione dei lavori di costruzione delle collettore fognario e la stima del valore del terreno.

Con memoria depositata il 22 ottobre 2002 il ricorrente chiedeva il richiamo del consulente tecnico d’ufficio sulla base di una serie di rilievi contenuti in una consulenza di parte, congiuntamente depositata.

Con ordinanza numero 498 del 12 novembre 2002 questa Sezione richiedeva chiarimenti al consulente tecnico d’ufficio il quale vi provvedeva depositando, il 21 dicembre 2002, una relazione integrativa.

Il 26 febbraio 2004 parte ricorrente depositava ulteriori rilievi e critiche al supplemento di consulenza tecnica d’ufficio, e, con istanza depositata in pari data, richiedeva una provvisionale per l’importo di euro 81.299,74, che veniva accordata con ordinanza numero 610/04 dell’8 aprile 2004, confermata in appello dal C.G.A. (ordinanza numero 755/04 del 3 settembre 2004).

In data 16 aprile 2004 si costituiva in giudizio il Comune di Avola che eccepiva, in rito, la tardività del ricorso e la carenza di legittimazione del ricorrente, essendo il padre usufruttuario unico beneficiario dell’indennità di espropriazione, e, nel merito, l’infondatezza del ricorso.

In data 12 novembre 2004 il Comune di Avola chiedeva la revoca dell’ordinanza numero 610/04;
l’istanza veniva respinta con ordinanza numero 1902/04.

Da ultimo, con memoria depositata il 9 aprile 2015, il Comune di Avola ha insistito nelle eccezioni in rito, deducendo altresì che l’emissione, medio tempore, del decreto di esproprio, ancorché non notificato al ricorrente, avrebbe legittimamente e validamente concluso la procedura espropriativa.

All'udienza pubblica del giorno 14 maggio 2015, esaurita la discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.- Va anzitutto esaminata la procedibilità del ricorso, sotto il profilo della presentazione di rituale istanza di manifestazione di interesse alla decisione del ricorso (ultraquinquennale).

Il ricorso risulta procedibile, atteso che dall’esame dell’elenco degli atti del fascicolo (consultabile dalla “schermata” intranet relativa al ricorso) risulta acquisita (con il n. prot. 3011/2010 del 7.5.2010) domanda di fissazione di udienza “ex art.9”, cioè conseguente ad avviso di perenzione c.d. ultradecennale, introdotta dall'art. 9 L. n. 205 del 2000, poi divenuta quinquennale per effetto dell'art. 54, d.l. n. 112 del 2008, convertito con L. n. 133 del 2008.

La disposizione in questione stabiliva che "a cura della segreteria è notificato alle parti costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell'udienza con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell'avviso medesimo. I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti con le modalità di cui all'ultimo comma dell'art. 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente articolo. Se, in assenza dell'avviso di cui al primo periodo, è comunicato alle parti l'avviso di fissazione dell'udienza di discussione nel merito, i ricorsi sono decisi qualora almeno una parte costituita dichiari, anche in udienza a mezzo del proprio difensore, di avere interesse alla decisione;
altrimenti sono dichiarati perenti dal presidente del collegio con decreto, ai sensi dell'articolo 26, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034".

Il ricorrente ha assolto agli oneri sullo stesso incombenti, atteso che risulta essere stata tempestivamente presentata istanza “ex art.9”, cioè art. 9 L. n. 205 del 2000 (sebbene attualmente l’originale dell’istanza non sia stato rinvenuto nel fascicolo, fatto tuttavia che non può essere imputato al ricorrente), in data 7.5.2010, quindi entro il termine semestrale dalla comunicazione dell’avviso, avvenuta con raccomandata (agli atti) pervenuta il 16.2.2010;
l’istanza risulta tempestiva anche a tenere conto del dimezzamento del termine di sei mesi, quale rito abbreviato, ai sensi dell'art. 23 bis, l. 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall'art. 4 comma 2, l. 21 luglio 2000 n. 205.

D’altra parte, risulta pure rispettato il disposto di cui agli artt. 82 C.P.A. e 1 delle norme transitorie, risultando agli atti una domanda di prelievo, con contestuale dichiarazione di interesse al ricorso, sottoscritta sia dal difensore che dalla parte personalmente.

2.- La causa è devoluta alla cognizione di questo giudice , in conformità alla (pacifica) giurisprudenza secondo la quale appartengono alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo o a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità e dell'occupazione in via temporanea e d'urgenza senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, ovvero per l'ipotesi di successivo annullamento giurisdizionale degli atti ablatori, atteso che in entrambi i casi trattasi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della Pubblica amministrazione e che solo per accidenti successivi hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica (Cons. St., sez. IV, 28 novembre 2012, n. 6012).

3.- Viene in rilievo l’eccezione di tardività del ricorso sollevata dalle difese dell’Ente.

L'eccezione è tuttavia infondata, atteso che il Comune non comprova una conoscenza anteriore (rispetto la data di proposizione del ricorso) della delib. G.M. 437/98 di riapprovazione del progetto con contestuale dichiarazione di pubblica utilità, la quale avrebbe dovuto essere individualmente notificata ai proprietari espropriandi, destinatari diretti ed immediati dell'atto ablatorio.

La Giurisprudenza ha fin di recente ribadito che ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione dell'approvazione del progetto di un'opera pubblica, avente valore di dichiarazione di pubblica utilità, non è sufficiente la mera pubblicazione dell'atto ma è necessaria la notifica o, almeno, la piena conoscenza dello stesso, quante volte esso abbia effetti specifici e circoscritti all'area da espropriare per l'esecuzione dell'opera e, quindi, sia rivolto a soggetti determinati anche se non esplicitamente nominati, con la conseguenza che è dalla piena conoscenza che decorre il termine di proposizione del gravame (Consiglio di Stato, sez. IV, 11/11/2014 n.5526).

In detti termini la Giurisprudenza di questo Tribunale, secondo la quale "il termine per l'impugnazione degli atti della procedura espropriativa decorre dalla conoscenza individuale che ne abbia ricevuto il proprietario;
è onere di chi eccepisce la tardività dell'impugnazione fornire la prova di tale conoscenza individuale e tale prova, in assenza di notificazione individuale, non può essere surrogata dall'intervenuta pubblicazione (T.A.R. Sicilia, sez. I Catania , 4/3/2013 n.708;
Idem, Sez.III, 26 maggio 2009 n. 950, e giurisprudenza ivi richiamata)".

Nel caso specifico, nessuna prova è stata raggiunta circa la piena conoscenza degli atti impugnati, in quanto la diffida inoltrata dal ricorrente, di cui si è dato conto nelle premesse di fatto, non denota una conoscenza dei provvedimenti emessi ai fini dell’esproprio in questione;
d’altra parte, in risposta a tale diffida il Comune non ha trasmesso alcuno degli atti della procedura espropriativa.

Ne consegue la tempestività del ricorso, che non viene in alcun modo compromessa dalla notifica di alcuni degli atti espropriativi effettuata collettivamente ed impersonalmente agli eredi della defunta Calabrò Wanda nel suo ultimo domicilio, in carenza di una norma espressa che estenda al settore la disposizione processuale che consente la notificazione degli atti giudiziari, entro un anno dalla morte, collettivamente ed impersonalmente agli eredi, nell'ultimo domicilio del defunto (art. 303, secondo comma, cod. proc. civ.);
senza tralasciare che, in ogni caso, la notificazione è avvenuta il 18 settembre 1998, ben oltre l’anno dalla data di morte della de cuius.

4.- Anche l’eccezione di carenza di legittimazione risulta infondata: il ricorrente ha dato la prova, depositando idonea documentazione (cfr. perizia allegata al ricorso introduttivo), del diritto dominicale da egli affermato sul fondo e dal quale lo stesso intende trarre conseguenze giuridiche favorevoli, quali il diritto ad ottenere il controvalore del bene irreversibilmente trasformato dall'Amministrazione comunale e, quindi, definitivamente sottrattogli.

Non risulta, al riguardo, ostativa la circostanza che il ricorso sia stato proposto solo del ricorrente e non anche dell’usufruttuario (padre del ricorrente).

Quest’ultimo, infatti, non ha impugnato alcuno degli atti della procedura espropriativa, ivi incluso il decreto di esproprio (ordinanza numero 3 dell’11 agosto 2003, depositata in giudizio dal Comune il 16 aprile 2004), sicché nei suoi riguardi trova applicazione il principio secondo il quale l'emissione del decreto di esproprio (per lui divenuto inoppugnabile ) determina l'estinzione dei diritti incidenti sul fondo, i quali, ai sensi dell'art. 52 della legge n. 2359 del 1865, possono essere fatti valere solo sull'indennità.

Ne consegue quindi la piena legittimazione del ricorrente ad impugnare gli atti della procedura espropriativa (ciò che esime dall’indagare se sia o meno intervenuto, nelle more del giudizio, il decesso dell'usufruttuario, per come sembrerebbe desumibile dall’estinzione del procedimento di opposizione alla stima incardinato dallo stesso davanti la Corte d’appello di Catania, secondo quanto segnalato dal Comune).

5.- Nel merito il ricorso risulta fondato sotto l’assorbente e pregiudiziale profilo sottoposto con il terzo motivo di ricorso (illegittimità della deliberazione dichiarativa della pubblica utilità, primo atto della procedura espropriativa).

Occorre premettere che l'adozione della deliberazione G.M. 437/98 di riapprovazione del progetto con contestuale dichiarazione di pubblica utilità è anteriore all'entrata in vigore dell'art. 13 del comma 3 d.p.r. 327/01, vigente in Sicilia ai sensi dell'art. 36 della L.r. 2 agosto 2002, n. 7, come integrato dall'art. 24 della L.r. 19 maggio 2003, n. 7, che, sotto la rubrica "Procedure per le espropriazioni e le occupazioni", dispone:

"1. Le disposizioni riguardanti le espropriazioni per pubblica utilità di cui al D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 e successive modificazioni, si applicano nell'ordinamento regionale contestualmente all'entrata in vigore della presente legge ovvero, ove successive, con le decorrenze previste nel citato decreto. ……..".

Quindi, indipendentemente dalla data di adozione del decreto di esproprio, nella vicenda in esame non trova applicazione la disciplina di cui al d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, secondo quanto disposto dal successivo art. 57 dello stesso corpus legislativo, alla cui stregua «le disposizioni del presente testo unico non si applicano ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza. In tal caso continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data».

Il rilievo è fondamentale ai fini della decisione circa l’eccezione sollevata dal ricorrente con il terzo motivo di ricorso, in considerazione del fatto che la predetta dichiarazione di pubblica utilità contiene, in violazione dell’articolo 13 della legge n. 2359 del 1865, solo i termini iniziali e finali entro i quali compiersi la procedura espropriativa, ma non i termini di inizio e fine dei lavori.

Ora, con l'entrata in vigore del d.P.R. n. 327/2001 (30 giugno 2001) ha perso ogni rilievo la fissazione dei termini relativi ai lavori, mentre, relativamente ai termini per le espropriazioni, all'art. 13 si prevede unicamente la facoltà (non l'obbligo) dell'autorità espropriante di indicare "il termine entro il quale il decreto di esproprio va emanato (comma 3)", aggiungendo che, in difetto dell'indicazione del termine, "il decreto di esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità (comma 4)".

Pertanto, secondo la giurisprudenza pacificamente formatasi sul testo unico in materia di espropriazioni, alla stregua della nuova normativa: a) il termine (iniziale e finale) dei lavori è privo di ogni rilievo pratico, prima ancora che giuridico, atteso che, se esso poteva avere un senso nei casi di occupazione anticipata ed urgente preordinata all'esproprio, in alternativa con la procedura espropriativa, ora, con la previsione come eccezionale dell'occupazione d'urgenza, ammissibile unicamente nelle ipotesi previste dall'art. 23 bis del D.P.R. n. 327/2001, i lavori possono iniziarsi e compiersi senza alcun vincolo, ma unicamente allorquando l'espropriante è divenuto proprietario con l'esecuzione del decreto di esproprio;
b) priva di conseguenze giuridiche è anche la mancata indicazione dei termini espropriativi: ma ciò non perché si tratti di termini inutili ma in quanto l'espropriante non può, comunque, superare il termine massimo quinquennale stabilito per legge;
c) è la legge stessa a prevedere il termine quinquennale per l'emanazione del definitivo decreto di esproprio ed a cui occorre riferirsi anche quando l'amministrazione non indica alcun termine;
d) la scadenza del termine de quo senza che sia stato emesso il decreto di esproprio determina l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.

Viceversa, la legittimità della procedura espropriativa per cui è causa deve essere valutata alla stregua della normativa precedente all’entrata in vigore del testo unico.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, la Giurisprudenza ha costantemente affermato la necessità della fissazione dei termini per l'inizio ed il compimento delle espropriazioni e dei lavori, richiesta dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13 in quanto la funzione dei predetti termini, consistente nell'assicurare che l'esercizio del potere espropriativo risponda ad un interesse generale concreto ed attuale, e non già ad esigenze meramente future ed ipotetiche, esige che gli stessi siano chiaramente indicati fin dall'inizio della procedura, in modo da evitare che il diritto di proprietà resti esposto a tempo indeterminato alla vicenda ablatoria (cfr. Cass., Sez. Un., 4 marzo 1997, n. 1907;
Cass., Sez. 1, 9 gennaio 2004, n. 120;
26 giugno 2000, n. 8669).

E con specifico riferimento a casi in cui, pur essendo stati indicati nella dichiarazione di pubblica utilità i termini per inizio e fine degli espropri, mancassero, tuttavia, i termini di inizio e fine dei lavori, la giurisprudenza ha ritenuto illegittima la dichiarazione di pubblica utilità proprio a causa della mancata indicazione dei termini per lo svolgimento dei lavori (Cassazione civile sez. un., 29/11/2013 n.26778).

Infatti, la contestuale indicazione dei termini di inizio e di compimento dei lavori e delle espropriazioni, ai sensi dell'art. 13, l. 25 giugno 1865 n. 2359, assolve alla funzione garantistica di provare l'attualità dell'interesse pubblico che si intende soddisfare, nonché l'effettività e la serietà del progetto che si intende realizzare.

Dall’illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità per la mancata indicazione dei termini per lo svolgimento dei lavori discende quindi l’illegittimità dell’occupazione delle aree disposta con i provvedimenti impugnati: infatti, non si può emettere un decreto di occupazione temporanea di un fondo in carenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, rispetto la quale la procedura di occupazione d’urgenza assume carattere strettamente consequenziale, sicchè sulla stessa si ripercuotono necessariamente tutte le successive vicende del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità.

Al riguardo, fin di recente si è osservato che dichiarazione di p.u. ed occupazione temporanea d’urgenza assolvono a due funzioni diverse: la prima consente che la potestà espropriativa attui il fine di rendere possibile la realizzazione di un’opera di riconosciuto interesse pubblico e, quindi, di porre il proprietario del bene da espropriare in condizione di subire un procedimento ablativo legittimo, mentre la seconda costituisce titolo per l’apprensione o il godimento del bene altrui, attraverso cui la P.A. può ottenere l’anticipata presa di possesso dell’immobile, al fine di iniziare i lavori necessari, in vista della futura espropriazione. Ne consegue che i termini fissati per l’occupazione d’urgenza delle aree soggette ad esproprio (e le relative proroghe) non interferiscono sui termini fissati dalla dichiarazione di p.u. (T.A.R. Lazio, Sez. I di Latina, n. 383/2015 del 12/05/2015), sia in quanto si tratta di termini strumentali ad esigenze differenti e non sovrapponibili, sia in quanto, costituendo la dichiarazione di pubblica utilità un presupposto indefettibile dell’occupazione d’urgenza, il relativo decreto risulta travolto dall’annullamento della dichiarazione.

Ne consegue l’illegittimità sia delle impugnate ordinanze di occupazione d’urgenza ed immissione in possesso, in virtù delle quali l’immobile del ricorrente è stato appreso e l’opera pubblica è stata eseguita anteriormente all’emissione del decreto di esproprio, sia di quest’ultimo.

Al riguardo, la Giurisprudenza ha condivisibilmente affermato che l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio che pertanto resta travolto, come del resto tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa. Infatti, la rimozione delle determinazioni che ab origine hanno dato l'abbrivio alla procedura ablatoria, oltre a comportare l'illegittimità dell'occupazione dei suoli avvenuta sine titulo, produce un effetto "domino", con l'invalidazione dei successivi atti del procedimento espropriativo ivi compreso quello conclusivo, rappresentato dal decreto finale di esproprio che viene anch'esso travolto (T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, 21/01/2014, n. 385;
Consiglio di Stato, sez. IV, 03/10/2012, n. 5189, 19/03/2009, n. 1651, 05/02/2009, n. 650, 29/01/2008, n. 258 e 12/07/2007, n. 3984).

Deve conclusivamente ritenersi che il ricorso sia fondato e (previo assorbimento degli ulteriori profili di censura, al cui esame parte ricorrente non mantiene alcun interesse ) da accogliere, con il consequenziale annullamento degli atti della procedura espropriativa impugnati e, derivatamente, del decreto di esproprio.

6.- Venendo ora all’esame della domanda di risarcimento dei danni da perdita della proprietà del bene oggetto dell’occupazione e della cd. trasformazione irreversibile (con la realizzazione, sul bene occupato, dell’opera pubblica), presentata dal ricorrente, occorre svolgere alcune considerazioni.

Nel caso in questione sussistono (ai fini del configurarsi della responsabilità aquiliana):

- il danno ingiusto, stante lo spossessamento e il mancato godimento dell'area in seguito a dichiarazione di p.u. ed occupazione illegittime;

- il nesso causale, stante la oggettiva connessione tra l'occupazione abusiva di cui sopra e la realizzazione di opere da parte del Comune odierno resistente;

- l’elemento soggettivo, per avere quest'ultimo agito in virtù di un procedimento ablativo viziato ab origine.

Ciò posto, occorre ulteriormente rilevare che nel tempo si è affermato l’orientamento giurisprudenziale per il quale l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venir meno l’obbligo della P.A. di restituire al privato il bene appreso in maniera illegittima, superando, in relazione al diritto comune europeo, l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica effetti preclusivi e/o limitativi della tutela in forma specifica del privato;
per conseguenza, secondo tali orientamenti, il proprietario del terreno illegittimamente occupato dall’Amministrazione, una volta ottenuta la declaratoria dell’illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare sia la restituzione del fondo, sia la sua riduzione in pristino, ma non anche il risarcimento del danno, giacché la proprietà del suolo è rimasta sin dall’origine in capo a lui, sicché nessun danno può profilarsi in relazione alla sua perdita (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV 27 gennaio 2014, n. 359;
T.A.R. Campania, Napoli, Sez, V, 7 luglio 2014, n. 3768;
T.A.R. Sardegna, Sez. II, 11 gennaio 2014, n. 15), e salva l’applicazione dell’istituto dell’acquisizione sanante.

Secondo altra parte della Giurisprudenza, invece, allorquando il ricorrente si sia limitato a domandare il risarcimento del danno da perdita della proprietà del fondo (per l’irreversibile trasformazione di quest’ultimo), detta domanda equivarrebbe a rinuncia alla proprietà del fondo illegittimamente occupato e cagionerebbe in capo al privato la perdita della proprietà dello stesso.

Secondo tale orientamento (in linea con Cass. 16.5.2003 n. 7643 e T.S.A.P. 20.7.2004 n.84, secondo le quali, ove il proprietario non intenda ottenere la restituzione del terreno irreversibilmente trasformato, ma preferisca abdicare al diritto di proprietà, egli ha diritto al risarcimento integrale del danno per la perdita terreno, con riferimento alla data di abdicazione del diritto di proprietà, e cioè la notifica dell'atto di citazione;
nonché con Cass. 24.11.2005 n. 24819 , secondo la quale il risarcimento per la perdita della proprietà equivale al "valore di mercato" del bene alla data della citazione), la richiesta di risarcimento formulata dal privato e diretta ad ottenere il mero controvalore del fondo, compromesso dall’opera pubblica, va interpretata quale manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del terreno.

In sostanza, la proposizione della domanda di risarcimento per equivalente sarebbe un negozio abdicativo della proprietà dell’immobile occupato dalla P.A., e la rinuncia avrebbe effetto dal momento della proposizione della suddetta domanda di risarcimento (di recente T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 16 settembre 2014, n. 1111).

In particolare, secondo il Giudice d’appello, il valore del bene ai fini del risarcimento dei danni derivanti da occupazione illegittima e dalla intervenuta trasformazione del bene deve essere determinato con riguardo al momento della proposizione da parte del proprietario della domanda risarcitoria in luogo di quella restitutoria, poiché l'abdicazione del diritto dominicale sulle aree si verifica per effetto di detta domanda (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 10/11/2010, n. 1410).

Recentemente, tale orientamento è stato riaffermato da Cass. Civ. (sent. n. 735/2015), secondo la quale si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato;
tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione, che può avvenire per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall'Amministrazione, ai sensi dell'art. 42 bis del t.u. di cui al d.p.r. n. 327/2001 (sebbene la decisione dubiti circa l'applicabilità dell'acquisizione sanante per le occupazioni anteriori al 30 giugno 2003), ovvero mediante un accordo transattivo o la compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato.

In particolare, la richiamata pronuncia ha chiarito che «l'illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno».

Il Collegio, dato atto che le varie Sezioni interne di questa Sezione Staccata hanno, nel tempo, motivatamente sposato, di volta in volta, entrambi gli orientamenti sopra descritti (si vedano, tra le tante, Sez.II nn. 755/15, 1572/14, 705/14 e Sez. III, nn. 1085/09, 3837/10, 312/11 e 2102/11), ritiene che al caso in questione, avuto riguardo alla peculiarità dello stesso, si attagli la seconda delle ricostruzioni, anche in considerazione della (inequivoca) formulazione delle domande introduttive e conclusive, rivolte unicamente all’ottenimento del risarcimento dei danni e proposte allorquando già con precedente diffida il ricorrente aveva manifestato la volontà di ottenere il risarcimento dei danni e pervenire all’abbandono della proprietà ovvero ad una cessione volontaria.

Al ricorrente spetta pertanto il risarcimento per la perdita del terreno determinato con riguardo alla data di proposizione del ricorso, quale atto abdicativo del diritto di proprietà.

7.- Il Collegio ritiene sostanzialmente corrette le valutazioni in tema operate dal consulente tecnico d’ufficio, ad eccezione di quando si dirà infra.

Occorre in primo luogo precisare che per accertare la natura e il valore venale del bene il consulente d’ufficio ha ritenuto doversi tener conto delle destinazioni urbanistiche di cui al piano regolatore vigente (ove il terreno in questione ricadeva in zona agricola ) e a quello adottato e trasmesso alla Regione al momento di redazione della perizia (ove all’area era stata impressa una destinazione edificatoria, sebbene esprimendo una densità territoriale abbastanza ridotta, pari a 0,75 mc/mq).

Tale criterio è stato contestato dal consulente di parte, il quale ritiene che si sarebbe dovuto far riferimento esclusivo al piano regolatore adottato;
tuttavia, ribadito che ai fini della stima del valore del bene occorra avere riguardo alla data di proposizione del ricorso, allorquando, per quanto si desume dalla consulenza tecnica, la deliberazione di Consiglio Comunale numero 74 del 7 dicembre 2000 non era stata ancora trasmessa all’Asessorato regionale territorio ed ambiente, deve ritenersi condivisibile il criterio adottato dal consulente tecnico, il quale ha altresì tenuto conto dei vincoli di zona, con particolare riferimento alle porzioni ricadenti nella fascia di cui all’articolo 15 della legge regionale numero 78/76.

Deve ritenersi non condivisibile la critica alla CTU relativa al criterio di stima, assumendosi, da parte del consulente del ricorrente, una pretesa maggior propensione della giurisprudenza per il metodo sintetico comparativo.

Come noto, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la determinazione del valore del fondo può avvenire sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad accertare il valore di trasferimento del fondo stesso;
sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall'analisi del mercato il valore commerciale del bene;
l'adozione di uno di tali metodi rende superflua l'analisi degli elementi su cui si fonda l'altro (Cassazione civile, sez. I, 26/05/2010 n. 12877).

La determinazione del valore del fondo è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito che sceglie se utilizzare il metodo analitico-ricostruttivo, teso ad accertare il valore di trasferimento del fondo, o il metodo sintetico-comparativo, volto invece a desumere dall'analisi del mercato il valore commerciale attraverso il riferimento alle aree omogenee. In particolare, ove venga utilizzato il criterio sintetico-comparativo, si deve tenere conto delle condizioni apprezzate dal mercato immobiliare che, in base alla destinazione urbanistica della zona in cui l'immobile è compreso, possano incidere sulla sua edificabilità di fatto ed indurre alla determinazione del suo effettivo valore venale, mentre, ove venga prescelto il metodo analitico-ricostruttivo, diretto ad accertare il valore di trasformazione del suolo edificabile, dovrà considerarsi anzitutto la densità volumetrica esprimibile in base agli indici di fabbricabilità della zona omogenea in cui l’immobile è incluso, al netto degli spazi assegnabili a standards, nonché delle spese di urbanizzazione relative alle opere che, poste in essere dall'amministrazione, assicurano l'immediata utilizzazione edificatoria dell'area (Cassazione civile, sez. I, 22/03/2013 n.7288).

Ciò posto, contrariamente a quanto ritenuto dal consulente di parte, l'evoluzione del sistema normativo induce a negare valore preminente al metodo sintetico-comparativo, congeniale ad un sistema, oggi abbandonato, governato dal principio dell'edificabilità di fatto, mentre il metodo analitico-ricostruttivo, che muove dalle caratteristiche specifiche del fondo espropriato, depurando il valore dell'edificato del costo di costruzione per pervenire al valore dell'area secondo l'entità volumetrica esprimibile dalla superficie a disposizione, dipende dalla qualificazione urbanistica dell'area, secondo il principio dell'edificabilità legale, conseguendone che il giudice che accolga le conclusioni del consulente tecnico secondo il metodo analitico, non è tenuto a motivare la mancata adozione del metodo sintetico (Cassazione civile, sez. I , 19/01/2007 n.1161).

Nel caso specifico, l’orientamento del consulente d’ufficio appare condivisibile, in quanto, come già esposto sopra, a differenza del metodo sintetico-comparativo (idoneo ad esprimere il valore di un determinato terreno nel contesto della microzona da cui si desumevano indizi di sfruttabilità edilizia, a prescindere dalle indicazioni dello strumento urbanistico), quello analitico-ricostruttivo consente di valutare il bene in maniera più aderente alla destinazione urbanistica della zona.

Quanto alla comparazione tra i dati desumibili dalla consulenza tecnica disposta da questo Tribunale e quelli relativi al giudizio di opposizione alla stima di cui ad altra procedura espropriativa che ha interessato le medesime parti in giudizio, definito con la sentenza della Corte d’Appello di Catania numero 320 del 23 febbraio 2012, prodotta in giudizio da parte ricorrente, deve rilevarsi che la stessa Corte, nell’esaminare lo scostamento delle valutazioni tra le consulenze tecniche in quel giudizio ed in questo, precisa giustamente che le stime non appaiono comparabili, poiché la c.t.u. depositata in questo ricorso esprime un dato risalente a circa otto anni prima e riferito ad aree inedificate apprezzatesi fortemente nel tempo;
ragionamento ancor più condivisibile se si riguarda la circostanza che la data cui far riferimento per il calcolo del valore del terreno è ancora anteriore, dovendosi aver riguardo, come detto, alla data di proposizione del ricorso.

Il predetto valore può quindi essere assunto a fondamento del calcolo risarcitorio, risultando non condivisibili i rilievi di cui al terzo punto della CTP, anche alla stregua delle argomentazioni sviluppate dal consulente d’ufficio nella seconda relazione.

Deve, invece, condividersi il secondo rilievo alla consulenza di ufficio sviluppato dal consulente di parte, vale a dire l’inapplicabilità della decurtazione del valore venale ai sensi dell'art.5 bis, comma 7 bis, D.L. n. 333/1992.

Sebbene, come giustamente rilevato dal tecnico d’ufficio nel supplemento di consulenza, la decurtazione sia stata da egli calcolata in ottemperanza al mandato ricevuto con l’ordinanza di nomina, effettivamente tale disposizione non è applicabile al caso in esame, e ciò per più ragioni: a) perchè questa norma riguardava, per sua espressa previsione, soltanto le espropriazioni divenute illegittime prima del 30.9.1996, mentre quella in esame è di data successiva (cfr. Corte Cost. 30.4.1999 n.147);
e infatti la giurisprudenza ha pacificamente confermato che la decurtazione non si applica alle occupazioni divenute illegittime dopo il 30.9.1996 (Cass. I 7.12.2004 n. 22963);

b) perchè l'art. 5 bis, comma 7 bis, D.L. 333/1992, è stato dichiarato incostituzionale con la sent. 24.10.2007 n. 349 della Corte Costituzionalein quanto lesivo del diritto del proprietario al pieno risarcimento, che pertanto non può essere più negato in nessun caso di occupazione illegittima della proprietà (cfr. Cass. I 28.7.2008 n.20543 e 18.2.2008 n.3935);
a seguito di tale decisione, è stato ripristinato l'originario criterio di stima dell'indennizzo dovuto al proprietario che ha subito l'espropriazione illegittima, corrispondente al valore venale pieno dell'immobile espropriato.

Pertanto, non è più possibile applicare il predetto criterio riduttivo, a meno che il rapporto non sia esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia di incostituzionalità, atteso quanto previsto dagli art. 136 cost. e 30, comma 3, l. 11 marzo 1953 n. 87 (Cassazione civile, sez. I, 21/06/2012 n.10379).

Il valore venale del bene oggetto del presente giudizio non deve quindi essere soggetto alla citata decurtazione.

Quanto al quarto punto della relazione del consulente di parte depositata il 26 febbraio 2004 (relativo alla mancata valutazione da parte del consulente d’ufficio della superficie temporaneamente impegnata per la realizzazione dell’opera, delle porzioni occupate di fatto, del danneggiamento di due fasce laterali poste all’esterno dell’area irreversibilmente trasformata, della perdita delle coltivazioni, della mancata delimitazione con recinzioni delle predette aree, dei danni da servitù di passaggio dei mezzi e degli operai), si tratta di questioni che non hanno costituito oggetto di rituale domanda in giudizio, sicché non possono trovare ingresso mediante la consulenza di parte;
in disparte, peraltro, l’assoluta carenza di prova di tali supposti danni.

La C.T.U. poi ha calcolato l'estensione dell’area irreversibilmente trasformata (salvo eventuali scostamenti in seguito al frazionamento catastale, ove nelle more intervenuto), che dovrà in conclusione essere moltiplicata per il valore venale desumibile dai criteri indicati dal consulente, rapportati alla data di proposizione del ricorso, e senza la decurtazione di cui sopra si è detto.

All’importo così calcolato vanno aggiunti svalutazione ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata dalla predetta data e fino al soddisfo.

E' infatti pacifico che nell'ipotesi di occupazione illegittima sulla somma liquidata a titolo risarcitorio per la perdita del terreno siano dovuti la svalutazione e gli interressi legali da calcolarsi sulla somma rivalutata anno per anno (cfr. Cass. 21.4.2006 n. 9410 e 19.4.2002 n. 5728).

La somma a titolo risarcitorio (detratti ovviamente gli acconti ricevuti anche in ottemperanza all’ordinanza di questa Sezione) dovrà essere liquidata dal Comune nel termine di giorni 120 dalla comunicazione della presente sentenza o dalla sua notifica, ai sensi dell’art. 34, comma 4, del cod. proc. amm.

8.- In conclusione, il ricorso in epigrafe viene accolto, nei limiti e nei termini su precisati.

Le spese di giudizio (liquidate in dispositivo) seguono la soccombenza, così come le spese di c.t.u. (acconto disposto nell’ordinanza di nomina e competenze definitivamente liquidate con il decreto di liquidazione).

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