TAR Roma, sez. 2T, sentenza 2019-11-08, n. 201912874
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Testo completo
Pubblicato il 08/11/2019
N. 12874/2019 REG.PROV.COLL.
N. 07782/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7782 del 2019, proposto da
Cenci S.r.l.s, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato A I, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato M M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Ministero dello Sviluppo Economico non costituito in giudizio;
per l'annullamento
-della Determinazione Dirigenziale CA/CA/1767/2019 del 07/06/2019 recante "Ordine di Cessazione attività di somministrazione abusivamente intrapresa.... " entro 15 giorni dalla notificazione del provvedimento;
-ove occorrer possa, del rapporto amministrativo prot.VA/19/12367/RHADC del 23.01.2019, menzionato e non comunicato;
-ove occorrer possa, della nota prot.CA/32365 del 15/02/2019,recante comunicazione di avvio del procedimento;
-ove occorrer possa, della nota prot. CA/77301 del 05/04/2019, menzionata e non comunicata;
-ove occorrer possa, per l'annullamento e/o disapplicazione dell'articolo 5 della Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n° 47 del 17 aprile 2018, laddove interpretato in senso ostativo alla ricorrente;
-ove occorrer possa, per la disapplicazione e/o l'annullamento delle cdd. "Risoluzioni del Ministero dello Sviluppo Economico n. 146342/14, 86321/15, 174884/15, 372321 del 28/11/2016";
-nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente ai provvedimenti impugnati che possa interpretarsi ostativo all'esercizio dell'attività commerciale della ricorrente
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 luglio 2019 il dott. Fabio Mattei e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Considerato che il ricorso è definibile ai sensi dell’art. 74 c.p.a. e che su tale prospettazione rappresentata alle parti le stesse hanno manifestato piena adesione rinunciando espressamente ai termini a difesa.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
La Cenci s.r.l.s., con sede a Roma, titolare di laboratorio di gastronomie e di vicinato alimentare, ha adito questo Tribunale per l’annullamento della determinazione dirigenziale del 7 giugno 2019, recante “ordine di cessazione dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande, in quanto abusivamente intrapresa presso il locale sito in Roma, Corso Vittorio Emanuele II, n. 22, avendo di fatto attivato, all’esito di sopralluoghi svolti da funzionari di Roma Capitale “un esercizio di somministrazione privo della prescritta autorizzazione amministrativa o SCIA”, essendo stato rilevato “il locale ingombro di arredi….piani di appoggio e tavoli alti con sedute abbinabili e relative modalità di utilizzo che consentono la consumazione come seduti al tavolo, con caratteristiche di richiamo quantitativo e qualitativo per la clientela e permanenza nel luogo di consumo”.
In particolare, dal verbale redatto dai funzionari di Roma Capitale in data 5 aprile 2019 è risultato che: ““per quanto riguarda l’attività di somministrazione abusivamente intrapresa, è da notare che la maggior parte dell’area del locale è arredata con piani d’appoggio e sedute abbinabili, circa mq 70 su mq 98,per la somministrazione;oltre che la parte di locale situata al piano terra è presente anche una saletta al piano superiore dell’immobile, anch’essa completamente arredata con piani d’appoggio e sedute abbinabili. Detti arredi impediscono anche il normale afflusso della clientela al banco di servizio, in quanto si estendono da davanti alla porta per tutta la lunghezza dell’esercizio correndo parallelamente al banco di servizio per poi allargarsi dopo la fine di quest’ultimo.
All’interno dell’esercizio la vendita degli alimenti viene effettuata a porzione e non a peso. L’indicazione del peso delle porzioni poste sui menù non è negoziabile. I piatti escono dalla cucina già pronti per essere serviti. Una delle caratteristiche che differenziano i laboratori dalle somministrazioni è proprio quella che il cliente può decidere, in base al proprio appetito o alla propria disponibilità economica, la quantità del cibo da asporto da acquistare. All’interno di
questo esercizio si può acquistare la porzione da 170 gr. o da 250 gr., non sono previste deroghe, come nei ristoranti, dove si può ordinare una o mezza porzione. Anche i dolci vengono venduti a pezzo e non a peso, del resto la vendita a peso sarebbe difficoltosa considerando che il locale non è dotato di regolare bilancia! Un cartellone all’esterno del locale pubblicizza la disponibilità di tavoli e posti a sedere all’interno, chiarendo oltre ogni ragionevole dubbio che l’attività è incentrata soltanto sulla somministrazione, e non come previsto dal titolo autorizzativo sulla produzione di
pasta all’uovo fresca e, in subordine, la vendita di questa una volta cotta”.
Avverso la determinazione comunale, nell’epigrafe indicata, la Società ricorrente ha dedotto le seguenti censure:
a)Violazione dell’art. 5 della deliberazione comunale n. 47/2018;difetto d’istruttoria, difetto di motivazione, travisamento dei fatti, illogicità, arbitrarietà ed ingiustizia manifesta, per inapplicabilità alla fattispecie de qua della disposizione di cui all’art. 5 della deliberazione comunale n. 47/2018 recante indicazione del limite della superficie del locale (25%) da destinare al cd. consumo sul posto.
b)Violazione dell’art. 3, comma 1, lett. f) bis del d.l. n. 223/2006, dell’art. 7, comma 3 del decreto legislativo n. 114/1998;eccesso di potere sotto differenti profili, non prevedendo le disposizioni normative ora evocate alcun divieto di collocazione all’interno dell’esercizio commerciale di punti d’appoggio o di sedute abbinabili, ma prescrivendo solo il divieto di servizio assistito di somministrazione ai tavoli, dovendo con ciò l’Amministrazione svolgere specifici accertamenti caso per caso, in alcun modo rinvenuto all’atto degli accertamenti istruttori eseguiti dagli addetti comunali.
c)Violazione dell’art. 1 del d.l. n. 1/2012;eccesso di potere sotto differenti profili;
d) Violazione dell’art. 117 della Costituzione;eccesso di potere.
e) Violazione e falsa applicazione della deliberazione comunale n. 47/2018.
f) Illegittimità dell’art. 5 della deliberazione consiliare n. 47/2018;eccesso di potere.
g) Violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Si è costituita in giudizio Roma Capitale che ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza delle doglianze.
Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Difatti, il ricorso introduttivo dell’odierno giudiziosi rivela infondato in ordine ai profili censori dedotti per le ragioni che trovano declinazione e sviluppo nei paragrafi seguenti.
II.1) Il contenzioso in esame riapre una problematica il cui punto nodale si incentra sulla difficoltà di definire le attrezzature utilizzabili affinchè si rimanga nell’ambito della legittimità del consumo del posto senza che ciò configuri l’esercizio abusivo dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande: problematica scaturente da nuove tendenze ed abitudini alimentari dei consumatori, che i comuni si sono trovati a fronteggiare pur senza avere a disposizione – come di seguito verrà meglio chiarito - strumenti giuridici chiari ed incontrovertibili con conseguente proliferare di un contenzioso che ha impegnato le energie degli enti locali e dei Tribunali.
La Sezione, consapevole di tali criticità, con proprie decisioni (sent. n. 11516/2018 e 11897/2018) non ha mancato di operare una – sia pur sintetica - ricostruzione dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento, anche avvalendosi di precedenti decisioni della Sezione (sentenze nr. 100/2016 e n. 4695/2017) e considerando altresì le indicazioni offerte dalla prassi amministrativa, incluse in particolare le circolari del MISE che possiede specifiche competenze di coordinamento inerenti la tutela della concorrenza (anche con riguardo alle interrelazioni con la materia del commercio) alle quali risulta essersi attenuto nell’enucleare criteri applicativi della disciplina: competenze che non consentono, di ritenere che le espressioni del relativo esercizio (quali circolari interpretative ovvero risposte ad appositi quesiti) detengano una dignità giuridica di livello inferiore ovvero (come ancora una volta si richiama in gravame) gerarchicamente sotto-ordinata alle Risoluzioni dell’Agcom.
Nel ripercorrere le tappe dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento la Sezione ha segnalato:
1) che la somministrazione di alimenti e bevande reca nella sua definizione legislativa ( ex art. 1 della legge n.287 del 1991) il riferimento a locali all'uopo attrezzati. Connaturale a tale attività è l’assistenza al servizio di somministrazione della quale prova concreta (ma non unica) è data dalla presenza di personale di sala che serve gli utenti ai tavoli;
2) che il d.lgs n.114 del 1998 consente (ex art.7 c.3), per la prima volta, ad alcuni esercenti alimentari il consumo immediato sul posto dei medesimi prodotti venduti, subordinandolo alla condizione che “siano esclusi il servizio di somministrazione e le attrezzature ad esso direttamente finalizzati". Viene, dunque, indirettamente ma inequivocamente, introdotta una distinzione tra arredi ed allestimenti funzionali alla somministrazione sub 1) e quelli utilizzabili nel caso di consumo sul posto;
3) che con il decreto B appare superarsi il limite relativo agli allestimenti dei locali, prevedendosi dall’art. 3, comma 1, lett. f-bis), d.l. n.223 del 2006, che “le attività commerciali, come individuate dal d.lgs n.114 del 1998…… sono svolte senza: f-bis: il divieto o l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie”. La norma si riferisce alla facoltà accordata ai soli esercizi di vicinato alimentare (id est: detentori di Scia alimentare) di consumare sul posto - con esclusione del servizio assistito di somministrazione - i prodotti di gastronomia ( e non quelli di, eventuale, propria produzione artigianale: a tale facoltà si riferiscono altre norme estranee alla disciplina sul commercio e sulle quali appresso si tornerà);
4) che l’innovazione apportata dal decreto B - che ha introdotto il richiamo espresso all'utilizzo dei locali e degli arredi dell'azienda, eliminando il riferimento alle attrezzature finalizzate alla somministrazione (che compariva nel decreto n.114/1998) lasciando invariata l'esclusione del servizio assistito di somministrazione – ha posto il problema di individuare in cosa potessero consistere questi arredi. Visto che tale locuzione non era presente nel testo normativo che disciplinava la materia prima dell'avvento del decreto B, si è ipotizzato che gli arredi potessero coincidere con quelli in uso presso i locali della somministrazione, nella specie, tavoli e sedie. Il MISE si è fatto carico di dare indicazioni in proposito, pervenendo ad escludere "la possibilità di contemporanea presenza di tavoli e sedie associati o associabili, fatta salva solo la necessità di un'interpretazione ragionevole di tale vincolo, che non consente di escludere, ad esempio, la presenza di un limitato numero di panchine o altre sedute non abbinabili ad eventuali piani di appoggio";tesi questa a più riprese contrastata dall’Agcm che soffermandosi sul punto centrale della questione, e cioè l'individuazione del criterio-guida per distinguere la somministrazione di alimenti e bevande dalla vendita con consumo sul posto, anziché identificarlo, come fa il MISE, nelle dotazioni strutturali (arredi), lo circoscrive alla presenza o meno del servizio assistito, sulla falsariga di quanto definito nel testo della legge B. Secondo l'Autorità, non sussistono ragioni oggettive per mantenere una discriminazione anticoncorrenziale di tale portata tra operatori, peraltro in contrasto con il quadro normativo in tema di liberalizzazioni delle attività economiche e in grado di limitare ingiustificatamente le possibilità di scelta del consumatore, anche alla luce delle più recenti evoluzioni delle abitudini di acquisto;
5) che mentre la tesi patrocinata dal MISE impone un giudizio valutativo in concreto (e tanto in sintonia con la giurisprudenza della Sezione che ha sostenuto sempre l’esigenza di un accertamento caso per caso), la diversa interpretazione sostenuta dall’Agcom genera proprio gli effetti che si prefigge di contrastare comportando essa, come meglio si chiarirà in prosieguo, una discriminazione anticoncorrenziale tra gli operatori degli esercizi di vicinato (che beneficerebbero della possibilità di svolgere, di fatto, attività di somministrazione senza munirsi di alcun titolo autorizzativo) e gli altri operatori della ristorazione che necessitano di un titolo abilitativo ancorato a più gravosi requisiti e presupposti e la cui attività viene, in alcune Città come la capitale, ad essere interdetta nelle zone ricadenti in ambiti di tutela ove non è consentito il rilascio di nuove autorizzazioni. Non solo. Una tal esegesi, raccordando l’unico elemento distintivo tra la somministrazione ed il consumo sul posto alla presenza del cameriere (che assicurerebbe il servizio assistito), imporrebbe decine di sopralluoghi fin quanto le ditte non vengono “colte” sul fatto. E dunque un proliferare senza fine di contenziosi;
6)- che, a ben vedere, nella lingua italiana si definisce “arredo”: “ogni mobile o suppellettile complementare all’uso di una casa o di un pubblico locale, secondo criteri di funzionalità o di gusto”. Un locale dunque, pur avendo i medesimi arredi (divani, mobili, quadri, lampadari ecc), può essere utilizzato sia per l’attività di somministrazione che per il consumo sul posto. Ciò su cui va messo l’accento è il rapporto di complementarietà e non di necessarietà che consente di qualificare un dato mobile quale componente dell’arredo di una casa o di un locale pubblico. Ben diversi dagli elementi di arredo sono però i mobili necessari, insostituibili e non complementari, per svolgere una data attività professionale: mobili che nel caso di specie sono le attrezzature necessarie (e non solo funzionali) all’attività di ristorazione. A tale constatazione segue che il locale “all’uopo attrezzato” (come dice l’art.1 della l.n.287/1991) è un locale in cui sono presenti i mobili tipici della somministrazione. Sostenere che il servizio senza cameriere non è mai assistito si traduce in una asserzione che appare smentita da una valutazione equilibrata dei fatti riscontrabili non potendosi dubitare che rinvenire in un ambiente tavoli da quattro o da sei con sedie abbinate, coperti da tovaglie in stoffa, e con piatti, stoviglie, bicchieri, acqua e vino sistemati sul tavolo sia indice serio e concreto per sostenere che in quell’ambiente si svolge (anche se il cliente deve recarsi al banco per prendersi la pietanza) un’attività di somministrazione e non il mero consumo sul posto dei prodotti venduti. E d’altro canto, il decreto B:
- in nessun punto afferma che è da ritenersi assistito il solo servizio di ristorazione condotto con presenza di personale di sala (camerieri e/o altri dipendenti che ti portano il prodotto al tavolo);
- in nessun punto modifica il concetto di somministrazione ritraibile dall’art.1 della legge n.287 del 1991 (ove si fa riferimento a locali “all’uopo attrezzati”) e si sofferma solo sugli “arredi”, legittimando di conseguenza l’interprete ad apprezzare le differenze insite nei due tipi di consumo traendo argomento dalla presenza delle attrezzature proprie, necessarie e non complementari, al servizio di ristorazione;
7)- che una tal esegesi non appare contraddetta e/o confliggente con la disciplina liberalizzatrice succeduta al decreto B;e difatti, per pacifica e radicata giurisprudenza, detta disciplina della liberalizzazione del mercato dei servizi non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l'attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali (cfr., ex multis, Cons.St. sez. IV, 4 maggio 2017, n. 2026);mentre e pacificamente l’art.1 del d.l. n.1 del 2012 nel liberalizzare le attività commerciali, fa comunque salvi i limiti giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante, ritenuti in apicibus compatibili con l'ordinamento comunitario purché proporzionati alle finalità pubbliche perseguite. A tal riguardo la più accreditata giurisprudenza non ha mancato di rilevare che “gli stessi principi costituzionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa economica e di tutela della concorrenza non escludono che esigenze di tutela di valori sociali di rango parimenti primario possano suggerire condizionamenti e temperamenti al dispiegarsi dei diritti individuali” (cfr., ex plurimis, Cons. St. 10 maggio 2010 n. 2758);“Pertanto, l'affermazione di principio secondo cui in ambito economico “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge” non può disgiungersi dalla fondamentale considerazione per cui il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell'attività economica volte a garantire, tra l'altro, il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica, nonché della sicurezza, della libertà e della dignità umana: ciò in vista di una regolazione ispirata a ragionevolezza che da un lato elimini gli ostacoli che si rivelino inutili e sproporzionati, dall'altro mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale come richiesto dall’art. 41 della Costituzione” (Cons. St. n.2758 cit. e da ultimo n.4663 del 30.7.18). Anche a tutto per ipotesi concedere circa il preteso primato assoluto dell’attività di impresa (prescindendo dai limiti costituzionali ad es. dell’art. 41, secondo comma, Cost. – per il quale l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» – e da considerazioni di sistema, che non accorda preferenza all’iniziativa economica su qualsivoglia altro interesse), quella stessa specifica normativa – la cui finalità è di garantire le libertà di stabilimento e di circolazione dei servizi – afferma che la liberalizzazione dell’attività di impresa incontra limitazioni o deroghe che ben possono essere giustificate dalla prevalenza dell’interesse generale, che è espresso mediante l’icastica e ritornante – nella stessa produzione giurisprudenziale e normativa dell’Unione europea – formula dei “motivi imperativi di interesse generale”, ancorché “nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione” (v. ad es. Considerando 40 della Direttiva;artt. 8, lett. h) e 12 l.lgs. n.59 del 2010;cfr. Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 291). Non si tratta dunque di un diritto soggettivo assoluto: ma di un’attività che ben può cedere a fronte dei detti interessi generali (in termini Cons.St. 17 novembre 2016 n. 4794);
8)- che, a ben guardare, rileva la Sezione come non vi siano differenze sostanziali di contenuto, per quanto qui interessa, nella legislazione nazionale e comunitaria susseguitasi nel tempo. Ciò a far data dal d.l. n. 223/2006, dalla direttiva 2006/123/CE e dalla relativa legge di recepimento (decreto legislativo n. 59/2010) fino ai decreti legge del 2011, ed in particolare il d.l. n. 138/2011, nonché, da ultimo, dal d.l. n. 1/2012, convertito con legge n. 14/2012. In tutta la legislazione, in particolare, viene posto in rilievo, costantemente, la tutela della concorrenza, da un lato, e il carattere preminente di altri valori costituzionalmente garantiti, di salvaguardia del patrimonio ambientale, storico- artistico e culturale del Paese, che possono portare al sacrificio motivato del primo anche in relazione ad ambiti territoriali delimitati. Le autorità pubbliche, cioè, possono porre limiti e restrizioni all’attività economica per evitare danni alla salute, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale;ma non possono farlo per asseriti interessi di categoria non meglio esplicitati come parrebbe essere richiesto nel caso di specie in cui il problema è quello di non rendere fonte di disparità del tutto ingiustificate i vantaggi di semplificazione nell’acquisizione di un titolo autorizzatorio per gli esercizi in cui si pratica il consumo sul posto rispetto ai normali pubblici esercizi, in presenza di caratteristiche di servizio sostanzialmente assimilabili e di pari impatto. In altre parole, se entrambe le tipologie di esercizi fossero assoggettate a Scia, ed ai medesimi requisiti sanitari e di sorvegliabilità, la distinzione non avrebbe ragion d’essere;ma così non è. Inoltre, e sotto concomitante profilo, in caso di aree del territorio comunale assoggettate a maggior tutela [ed in cui l’attività dei pubblici esercizi viene sottoposta (non a Scia, ma) ad autorizzazione e può essere contingentata o le nuove attività del tutto vietate (anche in relazione ad interessi come quelli sopra richiamati)], diviene ulteriore e aggiuntiva fonte di ingiustificata disparità (e non di positiva apertura concorrenziale) consentire, senza alcuna limitazione, lo svolgimento di analoghe attività ad esercizi abilitati al consumo sul posto senza differenziarne le modalità di svolgimento delle relative attività in modo da limitarne l’impatto e mantenere ragionevolezza alla disposizione di favore rispetto agli esercizi di somministrazione in senso stretto.
II.2)- Deve comunque darsi conto del fatto che, recentissimamente, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (ai cui precedenti cautelari la difesa dei ricorrenti si richiama), ha espresso una opzione ermeneutica diversa, sostanzialmente adesiva alla posizione dell’AGCM (di contrario avviso alle circolari e note del MISE richiamate da Roma Capitale ed anche nelle sentenze di questa Sezione) e favorevole alla parte ricorrente (si veda la segnalazione AGCM S2605 del 27 ottobre 2016), ritenendo che il tratto distintivo del servizio assistito vada ricondotto alla semplice esistenza di “un vero e proprio servizio al tavolo – ulteriore e distinto rispetto alla vendita al banco dei prodotti alimentari – offerto dal gestore dell’attività” (Consiglio di Stato, V, 8 aprile 2019, nr. 2280). Si tratta di una decisione della quale va dato conto ma che non ha indotto il Collegio a mutare indirizzo per le ragioni che, per mera comodità espositiva, verranno rassegnate nei paragrafi successivi ivi dando atto anche della giurisprudenza cautelare del Giudice di appello.
III)- Il Collegio, dunque, si può ora trattenere sull’indirizzo seguito dal Consiglio di Stato ed al precedente cautelare che la ditta ricorrente evoca a sostegno della tesi patrocinata in gravame.
Si tratta dell’ordinanza n. 2572/2018 recante riforma di una pronuncia cautelare di questa Sezione che nella sua articolata componente motiva dava atto sia della presenza di indici (quantomeno apparentemente) univoci nel deporre per un servizio di somministrazione (consumo dei prodotti alimentari nei locali dell’esercizio a tal fine attrezzati, e tanto in presenza ed utilizzo di tavoli, sedute, calici per le bevande, servizio assistito con mescita del vino, menù e consumo cibi in loco anche in rapporto alla superficie del locale destinata allo scopo) che della concreta insussistenza di un danno munito dei classici requisiti della gravità ed irreparabilità (potendo tanto l’attività di vendita quanto quella di consumo, quest’ultima una volta adattata e regolarizzata, proseguire lecitamente). Ebbene detta pronuncia è stata riformata dalla predetta ord. n.2572/2018 sulla base della ivi ritenuta “sussistenza del pericolo del grave pregiudizio discendente dall’atto gravato per l’attività di laboratorio e vicinato esercitata dall’impresa, e ulteriormente tenuto conto della non univocità degli elementi emergenti dall’accertamento ai fini della individuazione della fattispecie di abusivo esercizio di attività di somministrazione di alimenti e bevande”;motivazione questa sostanzialmente riprodotta in successiva ordinanza del Giudice di appello n.5502/2018 pubblicata il 16.11.2018 che, ancorandosi identicamente alla “non univocità degli elementi emergenti dall’accertamento, ai fini dell’individuazione della fattispecie di abusivo esercizio di attività di somministrazione di alimenti e bevande”, ha accolto l’appello cautelare, esclusivamente “quanto al dedotto periculum in mora” .
L’indirizzo cautelare avviato dal Consiglio di Stato non ha indotto questo Tribunale a mutare il proprio orientamento in materia, perlomeno nei casi in cui gli elementi emergenti dall’accertamento condotto dalla Polizia locale non si presentavano “equivoci” conducendo, ove congiuntamente apprezzati, a ritenere plausibile e ragionevole il convincimento manifestato dall’amministrazione capitolina. Questa Sezione, inoltre, ha continuato ad affidarsi al concetto “classico” di danno ( e cioè a quello i cui requisiti sono dati dalla gravità ed irreparabilità del pregiudizio lamentato) escludendone la pertinenza alle fattispecie in trattazione laddove nessun concreto pregiudizio subiva “l’attività di laboratorio e vicinato esercitata dall’impresa” essendo stata interdetta la sola “attività di somministrazione di alimenti e bevande abusivamente intrapresa…..”. Pertanto si è ritenuto che l’orientamento patrocinato da questa Sezione non venisse inciso da dette pronunce del Giudice di appello avendo lo stesso Giudice, pur indirettamente, mostrato di non ritenere l’assenza di personale di sala che serve ai tavoli (camerieri) quale unico elemento distintivo tra la somministrazione in senso stretto ed il consumo sul posto e trattandosi di pronunce rese all’esito di una delibazione sommaria. Nondimeno, perseverando la riforma (ved. Cons. St. ordd., 5579 e 8255 del 2018) delle pronunce cautelari di questo Tribunale (qualunque fosse la loro ampiezza e consistenza motiva), la Sezione è intervenuta con due distinte e articolate decisioni di merito (nn. 11516/2018 e 462/2019), l’ultima delle quali manifesta, col dovuto garbo, il dissenso dall’indirizzo cautelare del Giudice di ultima istanza sottolineando, quanto alle relative e sopra citate pronunce, che <<entrambe con forzata sintesi si imperniano sulla “non univocità degli elementi emergenti dall’accertamento” senza spendere accenno alcuno aggiuntivo e di fatto venendo a privilegiare - in un assetto normativo non dotato, come nel caso di specie, di disposizioni chiare e puntuali - un’esegesi che conduce a discriminazioni anticoncorrenziali tra l’operatore cui, per le ragioni sopra richiamate, è interdetto (all’interno della Città Storica) l’esercizio di un’attività di somministrazione, e l’operatore che di fatto svolge la stessa servendosi dello schermo del laboratorio di gastronomia calda e fredda, venendo altresì a penalizzare, ove non confermata nel merito, quegli interessi costituzionalmente rilevanti a tutela dei quali l’amministrazione capitolina si è determinata a contingentare e/o non consentire l’avvio di determinate attività commerciali all’interno del sito Unesco>>.
Anche tali decisioni non hanno ricevuto miglior sorte. Con le ordd. nn. 578 e 1297 del 2019, il Giudice di appello le ha sospese, nell’un caso traendo argomento anche “dal pregiudizio grave ed irreparabile, conseguente all’ingiunta cessazione dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande” (?), e, nell’altro caso, sensibile esclusivamente al “grave pregiudizio discendente dall’atto gravato per l’attività di gastronomia calda e vicinato esercitata dall’impresa”;entrambe dette pronunce nessun accenno contengono in ordine all’iscrizione, o meno, all’Albo dell’imprenditore ricorrente e cioè a quel requisito fondamentale sul quale, volutamente, nella presente decisione, ci si soffermerà sul successivo par. III.1).
Sennonchè recentissimamente, il Giudice di appello ha reso noto il proprio orientamento in materia privilegiando una opzione ermeneutica (dell’art. 3, comma 1, lettera f-bis del d.l. 4 aprile 2006, n. 223) sostanzialmente adesiva alla posizione dell’AGCM (di contrario avviso alle circolari e note del MISE richiamate da Roma Capitale ed anche nelle sentenze di questa Sezione) e favorevole alla parte ricorrente (si veda la segnalazione AGCM S2605 del 27 ottobre 2016), ritenendo che il tratto distintivo del servizio assistito vada ricondotto alla semplice esistenza di “un vero e proprio servizio al tavolo – ulteriore e distinto rispetto alla vendita al banco dei prodotti alimentari – offerto dal gestore dell’attività” (Consiglio di Stato, V, 8 aprile 2019, nr. 2280). Si tratta di una decisione della quale, pertanto, va dato conto pur se la stessa non induce la Sezione a mutare il proprio indirizzo per le ragioni diffusamente espresse nelle proprie recentissime decisioni nn.5195 e 5231 del 2019 alle quale, onde evitarne la ripetizione, può rinviarsi. Nondimeno la presente sede è propizia per ulteriori commenti solo adombrati in dette decisioni e che ora torna utile chiarire e rimarcare con maggior fermezza.
A tal riguardo un primo appunto che si può cogliere è che la sent. n. 2280/2019, dopo aver menzionato gli artt. 3 comma 1, lett. f-bis) e 4 comma 2 bis del d.l. n.223 del 2006 (B) afferma la valenza del <<principio, di carattere generale, secondo cui negli esercizi di vicinato, allorché legittimati alla vendita dei prodotti appartenenti al settore merceologico alimentare, è ammesso il consumo sul posto di prodotti di gastronomia, purché in assenza del servizio “assistito” di somministrazione>>per poi giungere, senza ulteriori riflessioni degne di rilievo, alla conclusione <<alla luce della testuale previsione normativa – che in assenza di un vero e proprio servizio al tavolo da parte di personale impiegato nel locale, il mero consumo in loco del prodotto acquistato, sia pure servendosi materialmente di suppellettili ed arredi – anche dedicati – presenti nell’esercizio commerciale (ossia, in primis, tavoli e sedie, ma a rigore anche tovaglioli o stoviglie, la cui generale messa a disposizione per un uso autonomo e diretto di per sé non integra un servizio di assistenza al tavolo, ben potendo essere utilizzati anche dagli acquirenti che decidano di non fermarsi nel locale), non comporta un superamento dei limiti di esercizio dell’attività di vicinato>>.
La lettura di detta decisione suscita due notazioni (che tengono anche conto dell’orientamento cautelare del medesimo Giudice).
III.1)- La prima origina dal riscontro che la fattispecie su cui il Giudice di ultima istanza si è determinato aveva riguardo, al pari di altre cautelarmente affrontate, ad un soggetto giuridico titolare di licenza di vicinato e di distinto titolo di laboratorio di gastronomia calda e fredda, e dunque abilitato dalla relativa Scia alla “preparazione di pietanze tramite processi di cottura. Le materie prime utilizzate sono prodotti da forno, salumi, formaggi, prodotti ittici, carne, ortaggi, salse gastronomiche”;(id est: abilitato alla sola vendita per asporto, e non anche al consumo sul posto, anche di prodotti totalmente diversi da quelli propri della gastronomia fredda).. Dunque quello che appare potersi scorgere è che l’Alto Consesso (preoccupandosi, e ripetutamente in sede cautelare, che non venga arrecato danno per l’attività di gastronomia calda e vicinato esercitata dall’impresa”) non apprezzi puntualmente la distinzione tra la vendita ed il consumo sul posto dei prodotti di propria produzione (che il Legislatore ha riservato agli artigiani alimentari iscritti all’Albo statale ovvero a quello regionale;nonché ai panificatori di cui dell’art.4 c.2 bis dello stesso decreto B) e la vendita ed il consumo sul posto dei prodotti di gastronomia che è consentito agli esercenti di vicinato alimentare dall’art. 3, comma 1, lett. f-bis), d.l. n.223 del 2006 (B), convertito con modificazioni dalla L.n. 248 del 2006. Al riguardo, e scendendo ulteriormente nel dettaglio occorre rammentare che l’attività delle imprese artigiane è esclusa dalla disciplina che regola il commercio sia a livello statale che a livello regionale. E difatti:
- Nella normativa statale l’artigiano è colui che (“esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo” e che) è iscritto all’Albo previsto dall’art.5 della Legge n.443 del 1985 e nei cui confronti (ex art.5 c.7) “Per la VENDITA nei locali di produzione, o ad essi contigui, dei beni di produzione PROPRIA, ovvero per la fornitura al committente di quanto strettamente occorrente all'esecuzione dell'opera o alla prestazione del servizio commessi, non si applicano alle imprese artigiane iscritte all'Albo di cui al primo comma le disposizioni relative all'iscrizione al registro degli esercenti il commercio o all'autorizzazione amministrativa di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426 , fatte salve quelle previste dalle specifiche normative statali”. L’esclusione nei confronti di detta categoria di operatori professionali della disciplina commerciale trova puntuale riferimento del d.lgs n.114 del 1998 ex art.4 c.2 lett.”f” (“Il presente decreto non si applica: f) agli artigiani iscritti nell'Albo di cui all'articolo 5, primo comma, della legge 8 agosto 1985, n. 443, per la VENDITA nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti dei beni di produzione PROPRIA, ovvero per la fornitura al committente dei beni accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio”). Il decreto B, poi, dispone all’art. 3, comma 1, lett. f-bis), d.l. n.223 del 2006, che “le attività commerciali, come individuate dal d.lgs n.114 del 1998…… sono svolte senza …….” ;e dunque non ha riguardato le attività artigianali ma le sole attività commerciali già individuate dal d.lgs n.114 del 1998 che, come appena riscontrato, non si applica alle imprese artigianali;
- Nella normativa regionale in materia (L.R. n.33 del 1999) l’attività dell’artigiano iscritto all’Albo citato è esclusa dalla disciplina delle attività commerciali dall’art.3 c.2 lett. “f”. Analoghe previsioni si riscontrano nella L.R. Lazio n.3 del 2015 (“Disposizioni per la tutela, la valorizzazione e lo sviluppo dell'artigianato nel Lazio”) che prevede, all’art. 6, l’esclusione nei confronti delle imprese artigiane delle disposizioni vigenti in materia di esercizio di attività commerciali, e cioè delle disposizioni relative alla VENDITA sul posto (comma 5. “Per la VENDITA nei locali di lavorazione, o in quelli adiacenti, dei beni di produzione PROPRIA, ovvero per la fornitura al committente dei beni strumentali o complementari all'esecuzione delle opere o alla prestazione dei servizi, non si applicano alle imprese artigiane le disposizioni vigenti in materia di esercizio di attività commerciali), aggiungendo però la seguente previsione al c. 6 “Le imprese artigiane del settore alimentare possono effettuare l'attività di VENDITA dei prodotti di PROPRIA produzione per il CONSUMO immediato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie, in materia di inquinamento acustico e di sicurezza alimentare”. Tali imprese artigiane facoltizzate al CONSUMO sul posto devono essere iscritte all’Albo di cui all’art.15 della stessa novella regionale (“1. È istituito l'Albo regionale delle imprese artigiane articolato, su base territoriale provinciale e metropolitana, in due sezioni: a) nella prima sono tenute ad iscriversi tutte le imprese in possesso dei requisiti di cui agli articoli 6 e 7….”).
Da tali coordinate normative discende che, nella regione Lazio, l’artigiano alimentare iscritto al citato Albo, se intende vendere i PROPRI prodotti non necessita di specifico titolo commerciale e dunque non necessita il possesso dei distinti e più stringenti requisiti richiesti agli esercenti il vicinato alimentare. Inoltre, e senza ulteriore autorizzazione, egli può - sempre a condizione che sia iscritto all’Albo della regione Lazio - utilizzare i locali e gli arredi dell’azienda per il CONSUMO sul posto dei prodotti di PROPRIA produzione: concetto questo di significativa importanza perché va distinto dalla vendita di prodotti alimentari NON PROPRI o dal CONSUMO di altri generi alimentari di NON PROPRIA produzione dovendo in tal caso munirsi del relativo titolo ( e cioè di una Scia di vicinato alimentare). Per converso agli esercenti attività di vicinato alimentare è stato consentito il CONSUMO sul posto (non dei prodotti di PROPRIA produzione ma, ben diversamente) dei soli prodotti di GASTRONOMIA [l’art. 3, comma 1, lett. f-bis), d.l. n.223 del 2006 (B), convertito con modificazioni dalla L.n. 248 del 2006 così dispone: “le attività commerciali, come individuate dal d.lgs n.114 dl 1998…… sono svolte senza: f-bis: il divieto o l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il CONSUMO immediato dei prodotti di GASTRONOMIA presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie”].
All’identificazione di tali prodotti torna d’ausilio la giurisprudenza in materia. Si tratta di Cassazione civ. sez. I, 5 maggio 2006, n. 10393 ( e, in campo giurisdizionale amministrativo, Cons. St. Sez. V, 04/05/1998, n. 499;Tar SA I, 15/10/2018, n.1430;Tar CA, nn.3 e 273 del 2011;Tar Lazio, II, 26 novembre 2004, n. 14141;T.A.R. Toscana Sez. II, 17/09/2003, n. 5100) secondo la quale <<la distinzione tra attività di ristorazione e attività di somministrazione di prodotti di GASTRONOMIA, posta dall'art. 5 della legge 25 agosto 1991, n. 287, pur non sicura e quindi fonte di continue incertezze sul piano applicativo, viene ricondotta all'accertamento che la cottura o la manipolazione dei cibi sia effettuata, o non, all'interno dei locali dedicati all'attività dell'esercizio pubblico, attraverso la predisposizione di idonea attrezzatura. Solo ove ricorra la prima alternativa si può parlare di attività di ristorazione, che ricade nell'ambito dell'autorizzazione per la tipologia A del citato art. 5 della legge n. 287/1991. Mentre nel caso in cui le pietanze siano predisposte in locali diversi o la manipolazione in loco sia costituita da operazioni di composizione dei piatti con materie prime che non debbono subire trasformazioni (cottura) o per le quali sia sufficiente il semplice riscaldamento prima del servizio al cliente, deve ritenersi integrata l'ipotesi della somministrazione di prodotti di GASTRONOMIA, consentita ai titolari di autorizzazione di tipo B (fatta salva la particolare ipotesi della predisposizione e somministrazione di piatti che richiedono complesse manipolazioni per le quali si impongono particolari requisiti di igiene dei locali e delle attrezzature utilizzate, circostanze che fanno optare per l'inquadramento di tali attività nell'ambito della ristorazione: si pensi alle portate di pesce crudo servite nei ristoranti che si ispirano alla cucina giapponese)>>.
Dunque e dovendo tener conto della modalità organizzativa della somministrazione si deve rilevare che nella GASTRONOMIA - per adottare lettura coerente con la vocazione dell'esercizio (che offre una celere e semplice opportunità di assumere bevande ed alimenti) - si possono comprendere tutti gli alimenti che siano stati altrove confezionati e che vengano offerti, pronti al CONSUMO, previa quella semplice operazione di riscaldamento (a piastra od a forno) che è l'unica consentita in quel genere di esercizi, nel mentre dalla species dei prodotti in questione dovranno certamente esulare tutte le ipotesi di cibi che siano cucinati nel locale, e non rileva se preventivamente od a richiesta del cliente, posto che la presenza di una organizzazione per la preparazione dei pasti (locali, macchinari, personale) è PROPRIA e peculiare dell'esercizio di ristorazione di cui all'art. 5, comma 1, lett. A. Quindi il titolare di vicinato alimentare che intende servirsi del CONSUMO sul posto non può somministrare pietanze che lui cuoce o cui riserva una preparazione diversa dal semplice riscaldamento. Se lo fa siamo, per insegnamento della Suprema Corte (preceduto e seguito, sino ad oggi, da quello del G.a.), fuori dal consumo dei prodotti di gastronomia, per ricadere nell’ambito del servizio di somministrazione: e tanto anche sul solco di un criterio di giudizio del tutto analogo a quello praticato dal Cons. Stato nella sent. n.93 del 13.2.1987 che, pur se datata, conserva, per la correlazione col caso in trattazione, perdurante attualità nonché, più recentemente, da Cass. Civ.II, n.10411 del 2010. E difatti di dette due decisioni:
a) la prima ha regolamentato il caso “se la accertata vendita di gelato effettuata dall’appellante in coni, cialde e bicchieri muniti di cucchiaini di plastica costituiscono meno somministrazione al pubblico di alimenti per la quale è prevista l’autorizzazione amministrativa ex art.19 d.P.R. n.616/1977, di cui è sprovvisto l’artigiano appellante al quale, proprio in conseguenza di tale mancanza, è stata notificata la diffida impugnata”. Tale pronuncia conserva la sua attualità in quanto, in quel processo, l’appellante ha sostenuto che l’intervenuta legge-quadro per l’artigianato n.443 del 1985, avrebbe fatto cessare la materia della controversia di cui trattasi consentendo detta legge all’artigiano di somministrare al pubblico dei suoi prodotti (alimenti e bevande) allorquando la somministrazione stessa non è oggetto principale dell’impresa ma è strumentale ed accessoria all’esercizio della medesima. A tale argomentazione difensiva il Consiglio di Stato ha replicato nei termini seguenti: <<L’assunto non può essere condiviso perché nella specie non trattasi di somministrazione strumentale od accessoria all’attività artigiana. Invero, il primo comma dell’art.3 della l.n.443/1985 (Ndr: TUTTORA VIGENTE) definisce artigiana l’impresa che, esercitata dall’imprenditore artigiano dei limiti dimensionali della stessa legge, abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un’attività di produzione di beni, anche semilavorati o di prestazioni di servizi. La norma, però, esclude dalla sua definizione alcune attività tassativamente indicate, tra cui appunto, quelle predette di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo che le attività stesse siano, come sopra specificato, “solamente strumentali ed accessoria all’esercizio dell’impresa”. Ora nel caso in esame, non risulta logicamente, né dagli atti di causa emerge alcun elemento probante, che la vendita del gelato mediante somministrazione al pubblico, così come accertata dai vigili urbani, era solamente strumentale ed accessoria all’esercizio dell’impresa artigiana gestita dall’appellante. Infatti la modalità di vendita del gelato non era preordinata all’asporto del prodotto, ma alla sua consumazione in loco, risultando il prodotto stesso non confezionato per essere trasportato, ma anzi, fornito in modo da essere subito consumato come in effetti avveniva nella normalità dei casi. Non ricorre quindi nella fattispecie l’ipotesi di una somministrazione strumentale alla produzione artigiana, ovvero accessoria, quale potrebbe essere il mero passaggio del prodotto ai fini promozionali o di scelta, ma vera e propria finalizzazione primaria dalla produzione alla somministrazione, come tale estranea dalla legittimazione normativa dell’attività artigiana e ricadente nell’ambito della disciplina commerciale>>;
b) la decisione della Suprema Corte ha scrutinato un caso in cui era stato ingiunto ad una società il pagamento della somma di Euro 5.681,00 a titolo di sanzione amministrativa per violazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, art. 7, comma 1, e art. 22, commi 1 e 4, (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma della L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 4, comma 4), per avere esercitato attività di commercio al minuto su area privata in esercizio di vicinato delle merci appartenenti al settore merceologico "alimentare" (bibite in lattina e acqua in bottiglia offerte in omaggio ai clienti che acquistavano determinati menù tra quelli posti in vendita), presso l'attività artigianale sita in via (OMISSIS) (all'interno del centro commerciale "(OMISSIS)"), senza avere effettuato la prescritta comunicazione al Comune. Il Giudice di pace aveva annullato l’ordinanza ingiunzione rilevando che, in ogni caso, comunque le disposizioni del richiamato d.lgs. non erano applicabili alla predetta società, che, svolgendo attività artigianale, poteva cedere ai propri clienti, a titolo gratuito ed anche a titolo oneroso, beni accessori rispetto alla propria attività principale di produzione e vendita di pollo allo spiedo ed altri alimenti. Di diverso avviso è stata la Corte avendo ritenuto:
- “che, infatti, rientra nella nozione di commercio al dettaglio, ai sensi del D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 4, comma 1, lett. b), la cessione diretta al consumatore finale di bibite in lattina e di acqua in bottiglia quando essa - ancorchè avvenuta a titolo gratuito, senza un diretto pagamento di una somma di danaro -non sia dettata da spirito di liberalità, ma sia diretta a perseguire un obiettivo di natura promozionale e di fidelizzazione della clientela, volta ad incrementare i profitti aziendali derivanti dalla vendita dei prodotti (pollo allo spiedo ed altro) preparati e cucinati dal cedente”;
- “che il D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 4, comma 2, lett. f), nel prevedere la non applicabilità dello stesso decreto agli artigiani iscritti nell'apposito albo "per la vendita nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti dei beni di produzione propria, ovvero per la fornitura al committente dei beni accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio", richiede una stretta connessione tra il bene di produzione propria ed il bene ad esso accessorio (come nel caso del falegname che, per consegnare la porta commissionatagli, debba utilizzare ed installare cerniere, maniglie e serrature)”;
- “che tale stretta connessione non è ravvisabile nelle ipotesi di mera complementarità economica, come nel caso di somministrazione di bibite e bevande che accompagna la preparazione e la vendita per l'asporto di prodotti di rosticceria;….>>.
Volendo ora sintetizzare i postulati sinora delineati ne esce il seguente schema:
a) l’artigiano alimentare iscritto all’Albo svolge attività non soggetta alla disciplina sul commercio ma regolamentata da apposite disposizioni legislative (statali e regionali) che gli consentono, senza munirsi di alcun titolo commerciale ( Scia, Dia, autorizzazione, ecc.) di effettuare l'attività di VENDITA, nei locali di lavorazione, o in quelli adiacenti, dei beni di produzione PROPRIA. La medesima disciplina gli permette il CONSUMO sul posto, immediato, dei medesimi beni utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie, in materia di inquinamento acustico e di sicurezza alimentare. Non può, anche se iscritto all’Albo, vendere o consentire il consumo sul posto di beni alimentari (gastronomia compresa) che non siano di propria produzione. Nessuna norma gli permette tanto. Per superare tale limite deve munirsi di una licenza di vicinato alimentare ( oggi Scia);
b) l’artigiano alimentare non iscritto all’Albo altro non è che un soggetto che svolge attività di produzione e trasformazione alimentare per la quale necessita di una Scia di laboratorio di gastronomia. Detta Scia non permette assolutamente il consumo sul posto di prodotti di propria produzione ed è, ben diversamente, il titolo necessario per avviare un’attività di produzione e trasformazione alimentare (e non per vendere i relativi prodotti e men che mai per farli consumare);
c) l’esercente attività di laboratorio NON iscritto all’Albo, ma detentore di una licenza di vicinato alimentare è soggetto, giuridicamente, equiparato a detto esercente di vicinato e la cui attività, conseguentemente, è sottoposta alla disciplina commerciale. Può vendere prodotti alimentari (compresi, ai soli fini di asporto, quelli prodotti e trasformati in sede) ma il decreto B gli permette di far consumare sul posto i soli prodotti di GASTRONOMIA. Non può far consumare sul posto i prodotti alimentari di PROPRIA produzione. Nessuna norma lo abilita a tanto e la violazione di detto precetto – utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda e pur con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione - – si traduce in una attività di somministrazione non consentita in quanto non detentore di una licenza di cui alla lett.a) dell’art.5 della L. n.287 del 1991;
d) l’esercente di vicinato alimentare, oltre a poter vendere tutti i prodotti alimentari che vuole, può far consumare sul posto solo i prodotti di GASTRONOMIA. Non è a lui consentito, in alcun modo, il CONSUMO sul posto dei prodotti che eventualmente produce a livello artigianale avvalendosi della Scia di laboratorio;ed anche qui la violazione del precetto - utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda e pur con l'esclusione del servizio assistito– genera un servizio di somministrazione che, in assenza della relativa abilitazione ( e dunque di luna licenza di tipo a) sopra richiamata) , deve ritenersi abusivamente condotto.
III.2)- La seconda notazione si incentra esclusivamente sul postulato esegetico, ormai affermato dal Giudice di appello, secondo il quale l’assenza “di un vero e proprio servizio al tavolo” circoscrive, in ogni caso ( e cioè qualunque sia la modalità praticata) l’attività di cui trattasi al “consumo sul posto” impedendole di classificarla quale servizio di somministrazione.
Ed è questo il tratto che (per le considerazione sopra descritte) lascia più perplessi ;e tanto perché l’approdo a tale convincimento non è mediato – come forse sarebbe stato il caso – da un’interpretazione sistematica della normativa che distingue chi offre un servizio di somministrazione dall’artigiano alimentare, dal mero esercente un laboratorio di gastronomia e dall’esercente un vicinato alimentare. Per essere più chiari basta porre l’accento sui requisiti, soggettivi ed oggettivi, richiesti per aprire un esercizio di vicinato e per avviare un’attività di somministrazione.
Il primo riferimento è all’art.71 del d.lgs n.59 del 2010 che, nel primo comma, detta dei requisiti di onorabilità comuni alle due figure professionali prescrivendo, al secondo comma, dei requisiti aggiuntivi per i soli esercenti l'attività di somministrazione di alimenti e bevande. A costoro detta attività è preclusa se “hanno riportato, con sentenza passata in giudicato, una condanna per reati contro la moralità pubblica e il buon costume, per delitti commessi in stato di ubriachezza o in stato di intossicazione da stupefacenti;per reati concernenti la prevenzione dell'alcolismo, le sostanze stupefacenti o psicotrope, il gioco d'azzardo, le scommesse clandestine, nonché per reati relativi ad infrazioni alle norme sui giochi”.
Il secondo riferimento concerne i gravosi requisiti di sorvegliabilità, esterna ed interna, che, a mente del d.m. n.564 del 1992, devono essere osservati da parte di tutti i locali e le aree adibiti, anche temporaneamente o per attività stagionale, ad esercizio per la somministrazione al pubblico di alimenti o bevande (si pensi alla necessità che tanto le vie di accesso quanto quelle d’uscita abbiano avere caratteristiche costruttive tali da non impedire la sorvegliabilità;le porte o altri ingressi devono consentire l'accesso diretto dalla strada, piazza o altro luogo pubblico e non possono essere utilizzati per l'accesso ad abitazioni private;e che anche In caso di locali parzialmente interrati, gli accessi devono essere integralmente visibili dalla strada, piazza o altro luogo pubblico;ecc).
Il terzo riferimento riguarda poi i servizi igienici per i quali valgono le norme contenute ai punti 4.1.6. e 8.1.6. del decreto del Ministro dei lavori pubblici 14 giugno 1989, n. 236 richiamato dal d.P.R. 24.7.1996, n.503 (Regolamento recante norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici). Con riguardo a tale d.m. vanno segnalate oltre alle norme dianzi richiamate, gli artt. 2 lett. “g” ed “h” che rendono la definizione di “accessibilità” e “visitabilità”;l’art.3 laddove, in particolare, al punto 3.4. lett. “b” chiarisce, con specifico riguardo anche agli esercizi di ristorazione, che il requisito della visitabilità ( da intendersi quale “livello di accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa dell'edificio o delle unità immobiliari, che consente comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla persona con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale”) si intende soddisfatto se almeno una zona riservata al pubblico, oltre a un servizio igienico, sono accessibili;il che significa che gli esercizi di ristorazione devono essere strutturati in maniera tale da consentire a persone portatrici di handicap di accedere, senza limitazione di barriere, ad un servizio igienico di capienza tale da consentire l’ingresso con sedia a rotelle.
Il quarto riferimento concerne la regolamentazione delle attività commerciali nel Centro Storico di Roma che prevede, per gli esercizi di somministrazione, sin dall’introduzione della DAC nr. 35/2010, specifiche restrizioni informate a contemperare sia il diritto alla libero esercizio dell’attività dell’imprenditore, sia l’interesse della collettività (intesa sia come popolazione residente che popolazione fluttuante, ovvero costituita dal flusso dei non residenti) ad un servizio commerciale adeguato per diffusione e per qualità dei prodotti, salvaguardando il pregio artistico, storico, architettonico, archeologico e, più in generale, ambientale del comprensorio. A tali fini, sono state stabilite delle inibizioni all’apertura di nuovi esercizi di somministrazione (artt. 10 ed 11 DAC nr. 35/2010);quelli esistenti sono soggetti a determinati requisiti tipologici e strutturali relativi ai locali e requisiti di qualità riferiti ai titolari dell’attività (art. 4 DAC nr. 35/2010), alle caratteristiche dell’offerta e dei prodotti (art. 9 DAC nr. 35/2010) e così via (in generale, vedasi artt. 5 e ss. DAC 35/2010 e la giurisprudenza sul punto, per tutte le sentenze TAR Lazio, II ter, nn. 1802/2013 e 3802/2014;nonché le decisioni del Cons. Stato sopra richiamate che, tutte, sino ad oggi, hanno affermato e ribadito la legittimità di tali restrizioni).
Attesi i requisiti così rigorosi, l’esigenza di una attenta perimetrazione della diversa fattispecie del consumo sul posto di prodotti alimentari presso rivendite di generi alimentari e laboratori artigianali di produzione di generi alimentari è chiaramente ed intuitivamente rivolta a prevenire fenomeni elusivi che utilizzino l’esercizio di vendita come un vero e proprio ristorante o esercizio di somministrazione, sottraendosi sia ai requisiti soggettivi e strutturali cui quest’ultimo è soggetto, sia e soprattutto alle limitazioni quantitative ed alle restrizioni di apertura e trasferimento di attività di somministrazione nei diversi ambiti di cui agli artt. 10 ed 11 della DAC nr. 35/2010.
III.3)- Il disegno concepito dal Legislatore, che ha avuto la luce nel decreto B, ha, se ci si pensa bene, una sua logica e razionalità. Poiché l’alimentarista può incentivare la sua clientela se non si limita solamente a cedere agli avventori prodotti da banco, ma se offre loro anche un minimo di arredi per consumarli in loco, il Legislatore, bene ha pensato, di consentirgli detta modalità di esercizio;e tale facoltà non veniva assolutamente a generare disparità con l’altra categoria (formata da operatori svolgenti un’attività completamente diversa) dei ristoratori. E difatti, mentre i primi potevano al massimo fornire prodotti, da consumare in sede, di gastronomia, per converso gli altri, venendo a somministrare pietanze da loro preparate, cotte, e servite, nessuna sostanziale discriminazione di trattamento subivano dall’ingresso sul mercato degli esercenti di vicinato alimentare i quali potevano somministrare (e cioè consentire il consumo) solo di una stretta e angusta tipologia di prodotti. In tale contesto - poiché in ogni caso la somministrazione dei prodotti di gastronomia era (ed è) prevista dall’art.5 lett. b) della l.n.287 del 1991 (che richiede una licenza di somministrazione, oltre all’autorizzazione di cui all’art.86 Tulps) - ha imposto che la somministrazione di prodotti di gastronomia avvenisse senza un “servizio assistito”;e tanto sostanzialmente bastava. In fondo, pur se venivano utilizzati gli arredi presenti nel locale, i due servizi rimanevano completamente diversi: nell’un caso si trattava di consumare prodotti di gastronomia senza potersi avvalere di quelle altre modalità del servizio praticate nel caso della somministrazione (la spillatrice della birra alla spina, il caffè fornito dalla macchina professionale, il consumo di vini e altre bevande alcoliche o non;ecc.).
Un discorso analogo aveva fatto anni prima il legislatore nel delineare la figura dell’artigiano alimentare (le norme sono note) ed ha fatto, anni dopo (con lo sviluppo dell’agriturismo: ved. art.4 c. 8 bis d.lgs n.228/2001), nei confronti dell’imprenditore agricolo. A costoro è stato consentito non solo di vendere sul posto i legumi, la frutta, la carne che producevano i propri animali, il vino che producevano le proprie viti, ma anche (gli è stato permesso) il consumo sul posto di tutti detti prodotti di propria produzione (anche se abbinati alla pasta, al sale, e ad altre spezie che certamente non erano di loro produzione). Anche in tal caso nessuna discriminazione si veniva a creare con gli altri operatori della somministrazione;e ciò in quanto tanto l’imprenditore agricolo quanto l’artigiano alimentare potevano somministrare solo una ristretta cerchia di prodotti (per l’appunto quelli di propria produzione) e non anche altri. Dunque tanto l’imprenditore agricolo, quanto l’artigiano alimentare vennero esclusi dall’ambito applicativo della disciplina del commercio.
Il problema si è posto quando, nell’esperienza pratica, si è tentato di eludere il limite previsto dalla norma. Ed è così capitato che l’esercente di vicinato alimentare, acuito l’ingegno, ha pensato di superare il limite derivante dai prodotti di gastronomia avvalendosi dello schermo della Scia di laboratorio di gastronomia calda e fredda. L’amministrazione (e non solo essa), forse perchè tradita dal significato – nell’accezione comune – della parola “gastronomia”- non ha colto tale stratagemma;e quindi tale Scia è stata intesa, del tutto impropriamente, non quale titolo col quale si avviava un’attività di produzione e trasformazione alimentare ma quale titolo che consentiva anche il consumo sul posto di detti prodotti così superando l’ambito dei prodotti di gastronomia – (unici somministrabili dall’esercente di vicinato).
E qui le differenze, prima vistose, fra la somministrazione dell’artigiano alimentare ovvero dell’esercente il vicinato alimentare e la ristorazione, si sono, di fatto, annullate.
Se il cittadino può recarsi presso l’esercente di vicinato alimentare abilitato anche all’attività di laboratorio e ivi non solo consumare il classico panino ovvero un prodotto cotto e confezionato altrove, ma può mangiare e bere quello che gradisce fruendo di un servizio che, di fatto, nessuna distinzione ha col classico self-service, allora il problema diventa rilevante e il giurista ha il compito primario di accedere, fra più interpretazioni consentita, a quella coerente con i noti parametri costituzionali e, quale logico precipitato, prendere in considerazione tutti gli elementi che l’amministrazione gli rappresenta onde evitare il manifesto aggiramento della norma che riserva ai ristoratori la possibilità di offrire un servizio che si distingue da quello degli altri operatori del consumo anche in forza dei diversi prodotti somministrabili. L’impiego di un criterio esegetico differente è, ad avviso del Collegio, certamente foriero di quella chiara discriminazione (non colta, all’evidenza, nelle Risoluzioni dell’AGCOM richiamate dal Giudice di appello) che la Sezione, nelle proprie pronunce aveva già evidenziato laddove, manifestando la propria perplessità sull’iniziale indirizzo cautelare assunto dal Cons. Stato, aveva affermato che quelle pronunce privilegiavano <<- in un assetto normativo non dotato, come nel caso di specie, di disposizioni chiare e puntuali - un’esegesi che conduce a discriminazioni anticoncorrenziali tra l’operatore cui, per le ragioni sopra richiamate, è interdetto (all’interno della Città Storica) l’esercizio di un’attività di somministrazione, e l’operatore che di fatto svolge la stessa servendosi dello schermo del laboratorio di gastronomia calda e fredda, venendo altresì a penalizzare, ove non confermata nel merito, quegli interessi costituzionalmente rilevanti a tutela dei quali l’amministrazione capitolina si è determinata a contingentare e/o non consentire l’avvio di determinate attività commerciali all’interno del sito Unesco>>.
Si è già detto che la presenza di personale di sala che serve gli utenti ai tavoli, costituisce prova concreta ma non unica di un servizio di ristorazione assistito e che l’indirizzo giurisprudenziale che la Sezione segue – e che intende mantenere, per le ragioni in precedenza diffusamente argomentate – richiede un accertamento caso per caso da condurre su un complesso di elementi di fatto (che sono quelli emergenti dalle verifiche condotte dalla p.a. e dagli atti di causa) che esigono apprezzamento unitario da svolgersi secondo la comune esperienza. Più puntualmente questo Tribunale, in ripetute occasioni, ha affermato che ai fini della qualificazione dell’attività (se di somministrazione o consumo sul posto), deve procedersi ad “una valutazione caso per caso delle singole fattispecie anche sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. f bis) d.l. n. 223/06 secondo cui il consumo immediato di prodotti da asporto all’interno di esercizi abilitati si distingue dalla ristorazione (e dunque non è soggetto ai relativi presupposti e requisiti abilitanti) secondo un criterio sostanziale di accessorietà rispetto alla vendita da asporto, che deve mantenere un carattere prevalente e funzionale. In questo senso, l’assenza di servizio assistito, che la norma prefigura quale parametro di riferimento per la identificazione della fattispecie, va intesa come criterio “funzionale”, che non si esaurisce nella semplice presenza o meno di camerieri ma che rinvia ad un concreto assetto dell’organizzazione dell’offerta, da accertarsi caso per caso, rivolto a mantenere il consumo sul posto come una semplice facoltà della clientela (TAR Lazio n. 1641/19;nello stesso senso anche TAR Lazio – Roma n. 11897/18, n. 11516/18, n. 4695/17). In tale contesto, certamente, assume valenza indiziaria la circostanza che l’esercente di vicinato alimentare sia anche abilitato alla produzione e trasformazione alimentare (id est: detenga anche una licenza, oggi Scia, di laboratorio di gastronomia ovvero, come nel caso di specie, di laboratorio artigianale). Ma tanto non consente di dare per scontato, sic et simpliciter, che il solo riscontro di tavoli e sedie abbinati da parte di un titolare di Scia di laboratorio e di vicinato alimentare sia indice inequivoco della presenza di un servizio di somministrazione. Nulla, difatti, autorizza a ritenere che i prodotti di laboratorio vengono, oltre che legittimamente venduti per asporto, anche (illegittimamente) consumati sul posto;e, si aggiunge, nulla esclude che, per ventura, detto titolare sia anche un artigiano iscritto all’Albo. Dunque la sola presenza di “tavoli e sedie abbinabili” costituenti (come sovente, con farse di stile, la Sezione riscontra in determinazioni analoghe a quella oggetto della corrente impugnativa) “arredi e modalità di utilizzo che consentono le consumazioni seduti al tavolo con caratteristiche di richiamo quantitativo della clientela e permanenza nel luogo di consumo” non concretizza, in maniera univoca, (anche se il titolare dell’esercizio sia un esercente di laboratorio di gastronomia), quel contesto organizzativo comprovante, secondo la giurisprudenza in precedenza indicata, lo svolgimento dell’attività di somministrazione specie se si considera se gli organi accertatori non hanno specificato il numero di tavoli e sedie utilizzati per il consumo sul posto, la tipologia degli stessi, l’entità della superficie destinata al consumo sul posto rispetto a quella complessiva, la presenza o meno di avventori, la presenza di un menù di tipo ristorativo (che è quello, ovviamente, che indica anche le pietanze elaborate e approntate sul posto prima di essere consumate) e la presenza di altri elementi ( ad es. vino ed alcolici di varia gradazione messi disposizione per il consumo) comprovanti un contesto organizzativo funzionale ad una vera e propria somministrazione più che ad un consumo sul posto.
Orbene, riguardo al caso all’esame del Collegio deve darsi atto di un’attività istruttoria e di verifica compiuta dall’amministrazione che ha favorito l’emersione di una pluralità di indici congiuntamente (la maggior parte dell’area del locale è arredata con piani d’appoggio e sedute abbinabili circa 70 mq. su 98 mq;per la somministrazione ……è presente anche una saletta al piano superiore dell’immobile anch’essa completamente arredata;detti arredi impediscono anche il normale afflusso della clientela al banco di servizio in quanto si estendono davanti alla porta per tutta la lunghezza dell’esercizio correndo parallelamente al banco di servizio per poi allargarsi dolo la fine di quest’ultimo;la vendita degli alimenti viene effettuata a porzione e non a peso e l’indicazione del peso delle porzioni poste sul menù non è negoziabile;i piatti escono dalla cucina già pronti per esser serviti;si può acquistare la porzione da 170 gr. A 250 gr. E non sono previste deroghe;anche i dolci vengono venduti a pezzo e non a peso…..il locale non è dotato di regolare bilancia…..un cartellone all’esterno del locale pubblicizza la disponibilità di tavoli e posti a sedere all’interno chiarendo….che l’attività è incentrata sulla somministrazione e non come previsto dal titolo autorizzativo sulla produzione di pasta fresca all’uovo e in subordine la vendita di questa una volta cotta) tutti convergenti nel ritenere praticata una non consentita attività di somministrazione.
Pertanto, per le considerazioni che precedono, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di giudizio possono essere compensate, fra le parti in causa, tenuto conto della peculiarità della materia trattata, vieppiù alla luce delle riferite oscillazioni giurisprudenziali.