TAR Catania, sez. IV, sentenza 2012-02-09, n. 201200354

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Catania, sez. IV, sentenza 2012-02-09, n. 201200354
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Catania
Numero : 201200354
Data del deposito : 9 febbraio 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 02812/2011 REG.RIC.

N. 00354/2012 REG.PROV.COLL.

N. 02812/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2812 del 2011, proposto da:
D P S, rappresentato e difeso dagli avv. B C, G C, con domicilio eletto presso B C in Catania, viale Raffaello Sanzio 60;

contro

Comune di San Marco D'Alunzio, rappresentato e difeso dall'avv. E C, con domicilio eletto presso la Segreteria del Tribunale;

nei confronti di

Alak srl, non costituita,

per l'ottemperanza

alla sentenza di questa Sezione n. 1013 del 21 aprile 2011, emessa nel giudizio n. 2688/2010, passata in giudicato, avente ad oggetto l'annullamento del verbale di gara con cui la società Alak srl era stata ammessa alla gara indetta per l'affidamento dei lavori di “Sistemazione itinerario escursionistico, c.da Canale – Port.lla Lampedusa – C.da ASA – Magnanò, in agro di San Marco D'Alunzio (Me)” - Ambito 3, Linea A, Azione 2”, del provvedimento dell'8 settembre 2010 con il quale la suddetta gara è stata aggiudicata alla società Alak srl, nonché della nota prot. 3387UTC/5749 del 22 settembre 2010, con cui Il Responsabile Unico del Procedimento ha confermato l'ammissione e la conseguente aggiudicazione alla Alak s.r.l., nonché il risarcimento di tutti i danni subiti a causa della mancata aggiudicazione, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di San Marco D'Alunzio;

Viste le memorie difensive;

Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 26 gennaio 2012 il dott. D T e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il Comune di San Marco D'Alunzio indiceva un pubblico incanto per l'affidamento dei lavori di “Sistemazione itinerario escursionistico, c.da Canale – Port.lla Lampedusa – C.da ASA – Magnanò, in agro di San Marco D'Alunzio (Me)” - Ambito 3, Linea A, Azione 2”, per un importo a base d'asta pari a € 90.307,32.

All'esito delle operazioni di gara è risultata aggiudicataria l'impresa Alak s.r.l., mentre l'odierna ricorrente è risultata seconda in graduatoria, con un ribasso pari al 7,3152.

Avverso l'aggiudicazione nei confronti della Alak srl l'impresa Divita Paolo proponeva il ricorso n. 2688/10.

Con sentenza n. 1013 del 21 aprile 2011 questa Sezione ha accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati e condannando il Comune “ad aggiudicare i lavori…alla ditta Divita Paolo”, e Comune e controinteressata, in solido, “a corrispondere alla parte ricorrente euro tremila/00 oltre accessori e rimborso del contributo unificato”.

Non avendo né il Comune resistente né la ditta controinteressata, dopo l’avvenuta notifica della sentenza, proposto appello nei termini di legge, la sentenza è passata in giudicato.

Nella ritenuta inerzia del Comune, con ricorso notificato il 04.10.2011, depositato nella medesima giornata, la ricorrente ha proposto il ricorso in esame, chiedendo a questa Sezione di “ordinare al Comune di S. Marco D'Alunzio l’adozione degli atti necessari per la piena e conforme esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza in oggetto”;
e “ove l'esecuzione in forma specifica non dovesse essere possibile, trattandosi di un lavoro che, a quanto appreso in via informale, è stato eseguito, si chiede volersi condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni per equivalente”.

Con ordinanza n. 2632 del 07.11.2011 questa Sezione ha “ritenuto necessario, al fine di decidere, acquisire dal Comune intimato una relazione, accompagnata dai documenti che comprovino quanto in essa specificato, che chiarisca le seguenti circostanze:

in quale data il Comune ha ricevuto comunicazione o notificazione della sentenza di questa Sezione n.1013 del 21.04.2011;

in quale misura, al momento della comunicazione o notificazione della sentenza, erano stati eseguiti i lavori, ed in quale misura sono stati eseguiti dopo quel momento;

per quali ragioni non è stata data esecuzione alla citata sentenza, in particolare nella parte in cui condannava il Comune “ad aggiudicare i lavori di cui trattasi alla ditta Divita Paolo””.

A tale ordinanza il Comune ha adempiuto il 14.12.2011.

All’udienza camerale del 26.01.2012 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

1) Nel ricorso n. 2688/10, proposto avverso l’originaria aggiudicazione alla Alak srl, con ordinanza n. 1424 dell’11.11.2010 questa Sezione, pur ritenendo, “a una prima sommaria delibazione, fondato il ricorso principale e infondato il ricorso incidentale”, ha deciso che dovesse “rigettarsi l’istanza cautelare in esame…, fissando per il merito l’udienza pubblica del 14.04.2011”.

All’esito di quella udienza, con la citata sentenza n. 1013 del 21.04.2011 la Sezione ha accolto il ricorso principale, “condannando il Comune di S. Marco d’Alunzio ad aggiudicare i lavori di cui trattasi alla ditta Divita Paolo”.

Nel frattempo, in mancanza di accoglimento dell’istanza cautelare, in data 23.11.2010 il Comune ha proceduto a stipulare il contratto con la Alak, che il 24.11 ha iniziato i lavori, la cui ultimazione era prevista entro il 23.05.2011.

Una volta venuto a conoscenza, il 19.04.2011, del dispositivo della citata sentenza, pubblicato il 18.04, con nota n. 963/UTC2239 del 22.04.2011, pervenuta il 03.05.2011, il Comune ha invitato il Direttore dei lavori a “sospendere i lavori, ed a non fare eseguire ulteriori opere all’impresa Alak srl”.

Con telegramma inviato nella medesima data del 03.05, il Direttore ha provveduto a sospendere i lavori, e con successiva nota fatta pervenire al Comune il 22.07.2011 ha inviato una propria relazione, agli atti di causa, dalla quale risulta che alla data del 03.05 i lavori “risultavano completati per il 92,55%, con una rimanenza di lavori da realizzare pari ad una percentuale del 7,45%”.

Ciò posto, la questione sottoposta all’esame di questo Collegio attiene alla spettanza oppure no, alla ricorrente, per la parte di lavori già eseguiti, del risarcimento danni per equivalente, posto che per i lavori ancora da eseguire il ricorso per ottemperanza va senz’altro accolto, avendo la ricorrente chiesto specificamente di subentrare nei lavori, e risultando possibile tuttora la loro esecuzione, ai sensi dell’art. 2058 c.c.

In sostanza, la ricorrente ha chiesto la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno in forma specifica, mediante affidamento dell’appalto alla ricorrente, o, in via subordinata, in forma generica, per equivalente monetario, con la condanna del Comune al pagamento delle somme che sarebbero state quantificate in corso di causa, ovvero da liquidarsi in via equitativa ex art. 1226 c.c., con interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge.

La ricorrente ha anche specificato la richiesta di risarcimento per equivalente, chiedendo la liquidazione dell’utile in modo forfettario, nella misura del “10% dell’importo del prezzo d’appalto offerto in gara”, nonché il riconoscimento del c.d. “danno curriculare”, cioè quello derivante dall’impossibilità di vantare nel proprio curriculum d’impresa quello specifico appalto, e delle spese sostenute per partecipare alla gara.

2) Preliminarmente, va precisato che al ricorso in esame trova applicazione la previsione di cui all’509-5495-93cf-d1294e9bf17a::LRC52020E1986E0A1F0338::2011-11-23">art. 112, comma 3, del D.Lgs. n. 104/2010, come sostituito dall’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2011, secondo cui “può essere proposta anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonchè azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità e comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”.

Alla domanda della ricorrente si applica anche l’art. 124 del citato D.Lgs. 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente”, ai sensi del quale “l’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile”.

Ora, c’è da dire che la citata sentenza di questa Sezione n. 1013 del 21.04.2011, di annullamento dell’aggiudicazione a favore della Alak, ha accolto la domanda di “aggiudicazione dei lavori”, e cioè di subentro nella loro esecuzione, proposta dalla attuale ricorrente, nel presupposto esplicito, seppure errato, che il relativo contratto non fosse stato stipulato (mentre invece la stipula era avvenuta il 23.11.2010). Di conseguenza, in quella sede la Sezione non si è pronunciata sull’efficacia del contratto, ma a tale mancanza può ora sopperire questo Collegio, trovandosi di fronte ad una domanda di esecuzione in forma specifica di quella sentenza.

Infatti, anche secondo l’art. 30 del D.Lgs. 104/2010 “sussistendo i presupposti previsti dall'articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”.

Il citato art. 121, relativo alla “inefficacia del contratto nei casi di gravi violazioni”, al comma 1 prevede che “il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto nei seguenti casi, precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva:

a) se l’aggiudicazione definitiva è avvenuta senza previa pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

b) se l’aggiudicazione definitiva è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l’omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

c) se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall’articolo 11, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento;

d) se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva, ai sensi dell’articolo 11, comma 10-ter, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento”.

Le citate previsioni non possono trovare applicazione al caso in esame:

quelle di cui alle lett. a) e b), perché il bando della gara de qua è stato pubblicato;

quella di cui alla lett. c), perché l’art. 11, comma 10, del D.Lgs. 163/2006 (“il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva”) risulta essere stato rispettato, in quanto l’aggiudicazione è stata regolarmente comunicata, ed il contratto è stato stipulato solo il 23.11.2010, dopo il rigetto dell’istanza cautelare;

quella di cui alla lett. d), in relazione alla previsione del comma 10-ter del citato art. 11 (“se è proposto ricorso avverso l'aggiudicazione definitiva con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all'udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva”), in quanto il contratto è stato stipulato, come detto, dopo il rigetto dell’istanza cautelare;

Quindi, nel caso in esame, non può che statuirsi la non applicabilità dell’art. 121, comma 1, relativo alle “violazioni gravi” descritte, e, di conseguenza, anche dell’art. 123, relativo alle “sanzioni alternative”, perché per il comma 4 dell’art. 121 tali sanzioni si applicano (solo) nei casi in cui il contratto sia considerato efficace o l’inefficacia sia temporalmente limitata, “nonostante le violazioni” considerate dallo stesso art. 121, cioè, appunto, quelle gravi.

3) Va però verificata la possibilità di applicare il successivo art. 122, relativo alla “inefficacia del contratto negli altri casi” (cioè quelli che concernono le violazioni “non gravi”, o meno gravi), ai sensi del quale “fuori dei casi indicati dall’art. 121, comma 1, e dall’art. 123, comma 3” (relativo all’applicazione di sanzioni alternative in caso di violazione dei citati termini dilatori), “il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta”.

In sostanza, la citata disposizione attribuisce innovativamente al giudice il potere di decidere se dichiarare oppure no inefficace il contratto, in base ad una serie di parametri che, seppure oggettivi, sono però da combinare in vario modo tra loro, in relazione alle specifiche e variabili caratteristiche della situazione di fatto di volta in volta in esame.

Infatti, nel prendere tale decisione sulla sorte del contratto in esito all’annullamento dell’aggiudicazione, nell’esercizio di una funzione imparziale e terza che deve però considerare la rilevanza pubblicistica degli interessi perseguiti attraverso il contratto, il giudice deve tenere conto, in particolare:

degli interessi delle parti;

dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati;

e, conseguentemente, dello stato di esecuzione del contratto e della correlata possibilità di subentrare nel contratto, sempreché il vizio dell’aggiudicazione non comporti invece il mero obbligo di rinnovare la gara, e la domanda di subentrare sia stata proposta.

Ora, con specifico riferimento ai parametri indicati, la ricorrente ha esplicitato che il proprio interesse prioritario era quello di ottenere il risarcimento del danno in forma specifica, mediante l’affidamento dell’appalto, e solo in via subordinata quello in forma generica, per equivalente;
dimostrando oltretutto che se l’impresa controinteressata fosse stata esclusa, l’aggiudicazione avrebbe dovuto essere disposta in proprio favore.

Ma, come già precisato, il contratto è stato ormai quasi interamente eseguito, e tale circostanza fa sì che la ricorrente possa subentrare nell’esecuzione dello stesso contratto solo in parte, cioè per il rimanente 7,45%. Per la parte di lavori già eseguita, pertanto, l’efficacia del contratto non può quindi che essere mantenuta.

Ora, stando alla lettera del citato art. 122, si potrebbe ritenere che, in casi come quello in esame, il giudice, pur dopo aver proceduto all’annullamento dell’aggiudicazione, possa non dichiarare inefficace il contratto, escludendo così a priori tutti gli altri effetti tipici (di ripristinazione e conformazione) della pronuncia costitutiva di annullamento.

Infatti, per quanto riguarda il soddisfacimento del precisato interesse prioritario a subentrare nel contratto, dall’avvenuto annullamento dell’aggiudicazione in quanto tale alla ricorrente non deriva più alcuna utilità, residuando l’interesse alla sola azione risarcitoria.

E d’altra parte, tale principio può essere desunto in generale anche dall’art. 34, comma 3, del D.Lgs. 104/2010, ai sensi del quale “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.

Di conseguenza, il Collegio intende utilizzare l’ormai avvenuto annullamento del provvedimento di aggiudicazione al fine di pronunciarsi sulla eventuale fondatezza della domanda risarcitoria, per la quale permane certamente l’interesse. Considerato anche che, come già precisato, l’art. 112, comma 3, del D.Lgs. 104/2010 dispone ormai che “può essere proposta anche in unico grado dinanzi al giudice dell'ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonchè azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità e comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”.

4.1) Per quanto riguarda il risarcimento del danno, appunto, in giurisprudenza si specifica tradizionalmente che esso non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 28 maggio 2004 n. 3465).

Vale a dire che in caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti di una pubblica Amministrazione, al fine di stabilire se la fattispecie concreta integri una ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si è sempre affermato che il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso;
b) stabilire se il danno accertato sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo e dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di tutela in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori;
c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta dell’Amministrazione;
d) stabilire se l’evento dannoso sia riferibile a dolo o colpa dell’Amministrazione

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, in particolare, in precedenza la giurisprudenza sosteneva che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall’Amministrazione al privato – a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo – la presenza dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini dell’imputabilità, fosse di per sè ravvisabile nell’accertata illegittimità del provvedimento (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 9 giugno 1995 n. 6542);
e anzi che il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dell’atto spettasse a prescindere dall’indagine sulla colpa dell’Amministrazione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 22 ottobre 1984 n. 5361).

Cass. Civ., Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500 ha modificato il precedente tradizionale orientamento, affermando che non è più invocabile il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo (cfr. anche Cass., sez. I civ., 22 febbraio 2008 n. 4539), poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., non è conciliabile con la lettura di tale disposizione svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo;
e l’imputazione non può quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi, e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.

Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonchè, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall’Amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse, dei precedenti giurisprudenziali, delle condizioni concrete e dell’apporto dato dai privati nel procedimento.

Pertanto, si è precisato che la responsabilità vada affermata quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, e che viceversa vada negata quando l’indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 13 aprile 2010 n. 2029).

Tale nozione della colpa di tipo oggettivo, del resto, derivava dal recepimento di analogo orientamento della giurisprudenza comunitaria, secondo cui:

gli Stati membri sono responsabili per i danni derivati ai singoli a causa di violazioni del diritto comunitario;

tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la violazione sia riferibile al legislatore nazionale;

il risarcimento dei danni per la violazione di diritti riconosciuti ai singoli dalla normativa comunitaria non può essere subordinato a comportamenti dolosi o colposi dell’organo statale, essendo sufficiente che l’inadempimento sia grave e manifesto e in connessione diretta con i danni derivati (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 5 marzo 1996 n. 46).

In altri termini, secondo il diritto comunitario perché sussista responsabilità extracontrattuale dello Stato è necessario che sia stata compiuta una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, e una violazione va considerata tale anche quando lo Stato membro interessato (e, se del caso, l’ente pubblico substatale) dispone di un margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, nel porre in essere l’atto all’origine del danno. L’esistenza e l’ampiezza di questo margine di discrezionalità devono essere determinate con riferimento esclusivo al diritto comunitario, e per stabilire se la violazione del diritto comunitario sia qualificabile come grave e manifesta il giudice nazionale deve tener conto di tutti gli elementi che la caratterizzano, tra cui figurano il carattere intenzionale o involontario della violazione e del conseguente danno, la scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, il fatto che i comportamenti di un’istituzione comunitaria abbiano concorso all’adozione o al mantenimento in vigore del provvedimento contrario al diritto comunitario (cfr. Corte giustizia CE, 4 luglio 2000 n. 424).

Tali criteri sono stati in tutti questi anni utilizzati sia nella materia degli appalti, nell’ambito della quale vengono più facilmente in rilievo disposizioni comunitarie da applicare che riconoscono diritti ai singoli, e sia in qualsiasi altra materia in cui fosse da accertare la responsabilità di una pubblica Amministrazione a fini risarcitori.

Tale orientamento ha visto modificare i suoi principi cardine ad opera della pronuncia della Corte Giustizia CE, sez. III, 30 settembre 2010 (causa C-314/2009), a seguito della quale il profilo dell’accertamento della sussistenza della colpa, sebbene nel senso oggettivo sopra chiarito, è destinato a perdere ogni importanza (in applicazione di tale pronuncia vedi TAR Lombardia – Brescia, sez. II 04.11.2010 n. 4552), essendosi affermato che “la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonchè sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.

In sostanza, la Corte ha ritenuto che gli Stati membri non possono subordinare la concessione di un risarcimento al riconoscimento del carattere colpevole della violazione della normativa sugli appalti pubblici commessa dall’amministrazione aggiudicatrice.

In primo luogo la Corte, dopo aver premesso che la direttiva 89/665 impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire l’esistenza di procedure di ricorso efficaci e, in particolare, quanto più rapide possibile contro le decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici che abbiano «violato» il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o le norme nazionali di trasposizione di quest’ultimo, e che per quanto riguarda, in particolare, il mezzo di ricorso inteso ad ottenere il risarcimento dei danni, la direttiva 89/665 stabilisce che gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi prevedano i poteri che permettano di accordare tale risarcimento ai soggetti lesi da una violazione, ha chiarito che, tuttavia, la direttiva 89/665 stabilisce solamente i requisiti minimi che le procedure di ricorso istituite negli ordinamenti giuridici nazionali devono rispettare al fine di garantire l’osservanza delle prescrizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, e che in mancanza di una disposizione specifica in merito spetta all’ordinamento giuridico interno di ogni Stato membro determinare le misure necessarie per garantire che le procedure di ricorso consentano effettivamente di accordare un risarcimento ai soggetti lesi da una violazione della normativa sugli appalti pubblici.

Ora, per la Corte “il tenore letterale degli artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, 5 e 6, nonché del sesto ‘considerando’ della direttiva 89/665 non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella di non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità”. E tale conclusione sarebbe suffragata, da un lato, dal fatto che gli Stati membri possono prevedere per questo tipo di ricorsi termini ragionevoli da osservarsi a pena di decadenza, e ciò per evitare che i candidati e gli offerenti possano in qualsiasi momento allegare violazioni della normativa suddetta, e dall’altro dalla circostanza che gli stessi hanno la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.

In tale contesto, ha precisato la Corte, “il rimedio risarcitorio può costituire un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all’obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva […], soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata – così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso… – alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice”.

Da questo punto di vista, la Corte ha rimarcato che, come rilevato dalla Commissione europea, poco importa al riguardo che la disciplina di riferimento “non faccia gravare sul soggetto leso l’onere della prova dell’esistenza di una colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, bensì imponga a quest’ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, limitando i motivi invocabili a tal fine”, perché “quest’ultima normativa genera anch’essa il rischio che l’offerente pregiudicato da una decisione illegittima di un’amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l’amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante”.

In definitiva, secondo la Corte di Giustizia l’accertamento, a fini risarcitori, della responsabilità di una pubblica Amministrazione per violazione del diritto comunitario deve prescindere da qualsiasi forma di colpevolezza, anche laddove tale accertamento sia, come era finora, di tipo oggettivo, in quanto legata alla gravità della violazione stessa (vedi le precisazioni di Cons. St., sez. VI, 9 marzo 2007 n. 1114, secondo cui dalla sentenza della Corte di Giustizia [14 ottobre 2004, C-275/03] – che ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regola la materia dei pubblici appalti all’allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente – non può trarsi la conclusione che non sia più richiesto il requisito della colpa della P.A., dal momento che la decisione del giudice comunitario pare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della P.A., e non all’esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’Amministrazione, perché nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della P.A. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari).

Ora, c’è da dire che, nel caso in esame, un problema di applicazione in senso stretto di norme comunitarie attributive di diritti ai singoli, di cui valutare l’eventuale violazione nell’espletamento della procedura di gara, non si porrebbe, perché l’importo dell’appalto era di € 90.307,32, e quindi ben al di sotto della c.d. “soglia comunitaria”, che, come è noto – dopo le modifiche apportate dal regolamento CE della Commissione n. 1422 del 4 dicembre 2007 ad alcuni articoli della direttiva n. 2004/17 (settori c.d. speciali) e della direttiva n. 2004/18 (settori c.d. ordinari) – è ora di € 5.150.000 per quanto riguarda i contratti aventi ad oggetto i lavori, e, per quanto riguarda servizi e forniture, di € 133.000 in relazione ai contratti stipulati dalle amministrazioni centrali dello Stato, e di € 206.000 per i contratti stipulati dagli altri soggetti tenuti all’osservanza delle direttive comunitarie.

Tuttavia, il Collegio osserva che in numerose occasioni la stessa giurisprudenza comunitaria ha affermato che anche se le procedure specifiche e rigorose previste dalle direttive comunitarie che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia espressamente prevista, e che pertanto le disposizioni di tali direttive non si applicano agli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da queste ultime, ciò non significa che questi appalti siano del tutto esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario, in quanto le amministrazioni aggiudicatrici sono comunque tenute a rispettare le norme fondamentali del trattato Ce, con particolare riferimento al principio di parità di trattamento e non discriminazione (cfr. Tribunale I grado CE, sez. V, 20 maggio 2010 n. 258;
vedi anche Corte giustizia CE, sez. I, 14 giugno 2007 n. 6;
Id., sez. IV, 23 dicembre 2009 n. 376).

In base a tali affermazioni, il Collegio ritiene che il principio espresso dalla citata sentenza della Corte di Giustizia 30 settembre 2010 – circa l’irrilevanza, al fine di riconoscere il risarcimento in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, della colpevolezza della riscontrata violazione di legge – non possa che essere applicato anche in relazione agli appalti il cui importo si collochi al di sotto della c.d. soglia comunitaria;
pena una ingiustificabile disparità di trattamento tra imprese che partecipano a gare sopra la soglia, che si vedrebbero riconoscere il risarcimento in base a tale nuovo principio, ed imprese che, partecipando a gare sotto quella soglia, se lo vedrebbero invece negare a causa di difficoltà interpretative della normativa, o della riscontrata esistenza di un qualsivoglia errore scusabile dell’Amministrazione (in termini vedi già TAR Catania, Sez. IV, 07.12.2010 n. 4624).

In verità, per la stessa necessità di garantire la parità di trattamento, nonché l’uguaglianza tra situazioni giuridiche soggettive aventi pari consistenza e dignità, il principio di cui sopra non può che essere esteso anche ad ambiti diversi da quelli concernenti le procedure di affidamento di appalti nei vari settori.

D’altra parte, nell’ordinamento giuridico italiano un fenomeno interpretativo analogo si è già riscontrato, ad esempio con riferimento alla risarcibilità del danno da violazione di interessi legittimi, che, come è noto, è stata sempre tradizionalmente negata dalla giurisprudenza, per la quale non era configurabile un diritto al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, con conseguente improponibilità della relativa domanda per difetto assoluto di giurisdizione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 21 gennaio 1988 n. 436).

La L. 19.02.92 n. 142, recante “disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1991)”, all’art. 13, relativo proprio alle “violazioni del diritto comunitario in materia di appalti e forniture”, aveva però previsto che i soggetti che avessero “subìto una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento” potessero “chiedere all’Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno”, e che la domanda di risarcimento fosse “proponibile dinanzi al giudice ordinario”, da chi avesse ottenuto l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo.

Ma pur dopo tale disposizione, la giurisprudenza continuava a sostenere che il principio generale della irrisarcibilità della lesione dell’interesse legittimo non potesse ritenersi superato a seguito dell’entrata in vigore del citato art. 13 della L. n. 142/92, “trattandosi di innovazione espressamente limitata al settore della aggiudicazione degli appalti, come confermato dalla successiva legislazione in materia ed in particolare dall’art. 32 comma 3, della l. 11 febbraio 1994 n. 109 (legge quadro in materia di appalti pubblici) – che estende espressamente il principio innovativo alle lesioni derivanti da atti compiuti in violazione della nuova legge sui lavori pubblici e del relativo regolamento – e dall'art. 11 lett. i) della l. 22 febbraio 1994 n. 146 (legge comunitaria per il 1993), che testualmente estende la disposizione anche agli appalti di servizio” (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 16 dicembre 1994 n. 10800;
vedi anche Cons. St., sez. IV, 11 dicembre 1998 n. 1627, secondo cui l’art. 13 L. 142/92, introducendo nell’ordinamento la possibilità del risarcimento per la lesione dell’interesse legittimo in materia di appalti, avesse natura sostanziale, ed in quanto tale non potesse trovare applicazione relativamente a fattispecie realizzatesi prima della sua entrata in vigore, perchè all’applicazione retroattiva della norma ostava “la mancanza di una disposizione in tal senso e la non sussistenza nell'ordinamento di un principio generale in ordine alla reintegrazione per equivalente pecuniario della lesione di interessi legittimi”).

Per la prima volta, e ben prima del suo riconoscimento normativo generalizzato, Cass. Civ., Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500, ha però affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e quindi dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima dell’Amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. E questo perché ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, visto che la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.

Tale principio, come è noto, è stato consacrato in via generale dal legislatore, dapprima con l’art. 7 della L. n. 205/2000, che, nel sostituire l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98, ha previsto che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”, e, nel sostituire il primo periodo del terzo comma dell'art. 7 della L. n. 1034/71 ha previsto che “il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.

E, da ultimo, con il D.Lgs. n. 104/2010, di approvazione del codice del processo amministrativo, che all’art. 7, commi 4 e 5, dispone che “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”.

E il successivo art. 34, comma 1, lett. c), prevede che “in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda,…condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile”.

Vale a dire che nel tempo la giurisprudenza, ma anche il legislatore, si sono sempre orientati nel senso di evitare le disparità di trattamento che potrebbero derivare dal differenziare, all’interno di un genere più ampio quale può essere quello degli appalti, quelle fattispecie alle quali alcune normative, come quelle comunitarie, trovano applicazione solo in ragione di presupposti quali l’importo dell’appalto;
differenziazione che non può essere ritenuta giuridicamente ammissibile quando a venire in rilievo non sono le normative in senso stretto, ma i principi di cui quelle sono espressione, o che sono finanche esplicitati nello stesso Trattato istitutivo della Comunità Europea.

È proprio sulla base di considerazioni di questo tipo, ad esempio, che in giurisprudenza si afferma spesso che, introdotto il principio della risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi nel campo degli appalti pubblici disciplinati dal diritto comunitario, risulterebbe in insanabile contrasto con il principio di uguaglianza il mantenimento di un orientamento di segno negativo in merito alla tutelabilità aquiliana delle stesse posizioni soggettive coinvolte in procedure di gara regolate dalle norme di diritto interno, in quanto concernenti lavori o forniture di livello economico anche lievemente inferiore rispetto allo standard che rende operante la disciplina comunitaria;
per cui le procedure di evidenza pubblica vanno applicate anche se l’importo è al di sotto della soglia comunitaria, in rispetto dei principi del trattato CE a tutela della concorrenza (cfr. Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2009 n. 3829).

Sembra utile rilevare, in quest’ottica, che il D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”), all’art. 27, relativo ai “principi relativi ai contratti esclusi”, dispone che (anche) “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto (…)”.

Da tutto quanto premesso, consegue che, non essendoci la necessità di riscontrare nella fattispecie in esame l’elemento soggettivo, solitamente richiesto per la configurabilità di un danno risarcibile, deve essere verificata la sussistenza degli altri requisiti richiesti per il risarcimento del danno, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito.

Per quanto riguarda la situazione soggettiva, l’operato dell’Amministrazione ha violato l’interesse legittimo della ricorrente ad un corretto svolgimento della gara, al quale era sotteso l’interesse pretensivo al c.d. “bene della vita”, rappresentato, in questo caso, dall’aggiudicazione della gara stessa.

Il nesso causale sussiste anch’esso, perché con una corretta applicazione delle disposizioni regolatrici della procedura, la ricorrente si sarebbe vista aggiudicare la gara. E tale violazione ha poi determinato un sicuro danno patrimoniale alla ricorrente, perchè avrebbe lucrato il c.d utile d’impresa.

4.2) Si tratta allora di liquidare concretamente il danno, cioè determinare la misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta in sostituzione del bene della vita perduto.

Appare utile, a tal riguardo, rammentare che, in generale, il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione dell’art. 1223 cod. civ., del danno emergente e del lucro cessante, e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.

Se per la prima voce di danno non si pongono particolari problemi nell’assolvimento dell'onere della prova, perchè è sufficiente documentare le spese sostenute, che in questo caso non sono state provate, e che comunque il Collegio non ritiene risarcibili (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.09.2010 n. 6485), per la seconda si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.

Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.

In precedenza, sia il legislatore che la giurisprudenza hanno sentito l’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno.

Il primo ha individuato un preciso canone per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, definendo, con l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98 (ora abrogato dal n. 20 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104), un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati.

La giurisprudenza amministrativa ha invece individuato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., un riferimento positivo, applicato analogicamente in materia di appalti sia di servizi che di forniture, prima nell’art. 345 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, poi nell’art. 122 del D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, nell’art. 37 septies, comma 1, lett. c, della l. 11 febbraio 1994 n. 109, e infine nell’art. 134 del D.Lgs. 163/2006;
tutte disposizioni che quantificano nel 10% “dell’importo delle opere non eseguite” l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 6 luglio 2004 n. 5012;
Id., sez. V, 30 luglio 2008 n. 3806).

Tale orientamento, peraltro molto diffuso, non era però seguito in maniera unanime, sostenendosi anche che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il soggetto che avanza la domanda di risarcimento deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. Inoltre, nel processo amministrativo non sarebbero ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c., e il ricorso alla c.d. "sentenza sui criteri" – ex art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998 – di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell'offerta da parte della P.A. (cfr. Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967).

Alla luce di quanto ora disposto dall’art. 124 del citato D.Lgs. 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente”, ai sensi del quale “se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subìto e provato”, il Collegio ritiene che tale orientamento più rigoroso vada condiviso, ma che esso non sia incompatibile con il precedente indirizzo.

Vale a dire che secondo il Collegio la ricorrente ha assolto l’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, poiché l’esistenza ("an") del danno è stata provata in modo univoco, dato che con la corretta applicazione delle regole di gara la ricorrente sarebbe stata l’aggiudicataria, e avrebbe quindi lucrato il c.d utile d’impresa, visto che deve darsi come dato acquisito quello per cui ogni impresa esercita la propria attività perchè vi realizza un guadagno.

E gli elementi prodotti in giudizio sono quindi sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul "quantum" spettante a titolo di riparazione pecuniaria, tenendo conto del fatto che, in materia di illeciti civili in generale, la prova del danno può essere articolata con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2008 n. 15986, con la precisazione che la relativa dimostrazione deve comunque risultare idonea a consentire al giudice, in applicazione della regula iuris di cui all'art. 116 c.p.c., una valutazione in concreto – e cioè caso per caso, anche a prescindere da mere regole statistiche – dell’assunto attoreo, rappresentato in termini consequenziali di verificazione dell’evento di danno/conseguenza ingiustamente dannosa, secondo la regola di inferenza probatoria del «più probabile che non»).

Pertanto, per quanto già precisato, il Collegio ritiene che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso, e in particolare di quello derivante dal mancato guadagno inevitabilmente derivante dalla mancata esecuzione dei lavori, e anche del danno legato all’impossibilità di vantare in futuro quello specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, cioè la mancata acquisizione di requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare.

C’è anche da dire che nel caso in cui le circostanze di fatto relative ad una fattispecie sottoposta a sindacato giurisdizionale siano state analiticamente ricostruite da una delle parti in causa, e non siano state espressamente contestate dall’altra nella loro veridicità, tali circostanze possono anche essere considerate argomenti di prova, alla luce del principio di necessaria valutazione del contegno globale delle parti e delle loro tesi difensive, ex art. 116, comma 2, c.p.c.: infatti, il comportamento processuale della parte può costituire unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice, e non soltanto elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo (cfr. Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967).

Pertanto, per quanto riguarda il mancato utile d’impresa in relazione alla parte di lavori non eseguiti, il Collegio ritiene di dover riconoscere, ai sensi del citato art. 1226 c.c., un risarcimento del danno nella misura del 10% dell’importo delle stesse, come determinato a seguito del ribasso offerto dalla ricorrente.

C’è poi da dire che l’impresa ingiustamente privata dell’esecuzione di un appalto può rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell’incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 27 novembre 2010 n. 8253).

In particolare, il danno che l’impresa riceverà in futuro dal mancato inserimento di questo specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, cioè il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio, e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità;
a tal fine, il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2010 n. 10072).

Probabilità che, in fattispecie come quella in esame, è certamente elevata, essendo legata alla normale attività d’impresa, fondata su una necessaria costante partecipazione alle gare d’appalto.

Motivo per il quale il Collegio ritiene che la voce di danno in questione possa essere ragionevolmente quantificata in misura pari al 3% dell’offerta economica avanzata.

4.3) Spesso la giurisprudenza afferma che in caso di annullamento dell’aggiudicazione, e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se il ricorrente dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell’aggiudicazione;
in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, e di qui la decurtazione del risarcimento (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 21 settembre 2010 n. 7004). Si tratta di un’applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, dall’importo dovuto a titolo risarcitorio va detratto quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.

In sostanza, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum viene fatto gravare non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae utili (cfr. Cons. St., sez. VI, 9 giugno 2008 n. 2751).

Ma come già precisato da questa Sezione (vedi sentenza 07.12.2010 n. 4624), in base all’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”.

Quindi, non è condivisibile che debba essere l’impresa a fornire tale dimostrazione, perché in generale l’attore-danneggiato deve provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare che non ricorrono, nel caso, fatti impeditivi, modificativi o estintivi (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 1998 n. 9588);
e questo sia perché l’onere di provare i fatti estintivi e modificativi del credito spetta alla parte debitrice, cioè nella fattispecie al Comune, nei cui confronti è stata indirizzata la domanda di risarcimento, sia perché la regola di giudizio seguita di solito dalla giurisprudenza conduce a manifeste aporie applicative.

Infatti, il principio messo a punto dalla giurisprudenza, qualora portato alle estreme conseguenze logiche, finirebbe per precludere in ogni caso il risarcimento del danno per mancato utile, e ciò perché, anche nell’ipotesi in cui l’impresa non avesse percepito alcunché per attività lucrative diverse da quelle derivanti dall’esecuzione del contratto non aggiudicato, la stessa non potrebbe mai sperare nell’attribuzione giurisdizionale di un qualunque ristoro in ragione dell’impossibilità, o quanto meno della eccessiva difficoltà, di provare un fatto negativo (consistente, per l’appunto, nel non aver beneficiato di alcun aliunde perceptum).

Inoltre, si perverrebbe al riconoscimento di una legittimazione sostanziale al risarcimento soltanto in capo a quelle imprese le quali, durante l’intero svolgimento della vicenda procedimentale e del processo, siano rimaste del tutto inattive, o, peggio, siano fallite, perchè soltanto in questo caso sarebbe, forse, dimostrabile il mancato guadagno (cfr. in termini Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez giurisd., 21 settembre 2010 n. 1226).

E d’altra parte, anche in materia di determinazione dei danni conseguenti a licenziamento illegittimo, in cui frequentemente viene in rilievo il problema di eventuale guadagno aliunde perceptum, si afferma che è il datore di lavoro, che eccepisca l’"aliunde perceptum" in relazione a redditi del lavoratore maturati dopo la proposizione della domanda, ad avere l’onere della allegazione e della relativa prova (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 1 settembre 2000 n. 11487;
Id., sez. lav., 19 gennaio 2006 n. 945).

Ciò non toglie che nel valutare il danno il giudice ha il potere – in base a contrari elementi acquisiti al giudizio o eventualmente anche a dati di comune conoscenza – di negare il risarcimento, o di ridurlo, nella misura in cui ritenga dimostrato, rispettivamente, che con l’uso dell’ordinaria diligenza questa perdita avrebbe potuto essere in tutto o in parte evitata, o lo è stata effettivamente (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 1998 n. 9588).

Pertanto, in conclusione, il Comune resistente è tenuto a far eseguire alla ricorrente la parte di lavori non eseguita, e a risarcirle il danno, secondo i criteri sopra indicati, nel termine di 60 giorni, decorrente dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.

Su detto importo, il Comune dovrà poi computare la rivalutazione monetaria maturata, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dalla notifica del ricorso introduttivo fino alla data di deposito della presente decisione, giacché con la pubblicazione si verifica la trasformazione del debito di valore in debito di valuta.

Saranno altresì corrisposti dal Comune gli interessi legali sulle somme sopra indicate, a decorrere dalla data di pubblicazione sopra indicata fino all’effettivo soddisfo.

Tra ricorrente e Comune le spese seguono la soccombenza, e sono liquidate in dispositivo, mentre tra ricorrente e controinteressata sussistono le eccezionali ragioni che consentono di compensarle.

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