TAR Palermo, sez. I, sentenza 2022-03-24, n. 202201030

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Palermo, sez. I, sentenza 2022-03-24, n. 202201030
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Palermo
Numero : 202201030
Data del deposito : 24 marzo 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/03/2022

N. 01030/2022 REG.PROV.COLL.

N. 01467/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SNTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1467 del 2017, proposto da -O-, rappresentato e difeso dall'avv. D-O-, con domicilio digitale come da indirizzo di PEC estratto dai registri del Ministero della Giustizia;

contro

- il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, con domicilio fisico in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6;

per la condanna

- al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali “ per omessa comunicazione durante il servizio da parte dell’amministrazione di una infermità in tale sede contratta e riscontrata e non comunicata nonostante tempestivamente rilevata, con valutazione di idoneità del ricorrente al servizio prestato e conseguente compromissione del Suo stato di salute ”;


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive e di replica;

Visto il decreto n. 110 del 26 maggio 2017 di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, da parte della competente Commissione;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore la dott.ssa A P;

Uditi, nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2022, per le parti i difensori presenti così come specificato nel verbale;


FATTO

Con atto notificato il 22 maggio 2017 e depositato il 13 giugno seguente, il ricorrente, ex Caporal Maggiore dell’esercito, ha esposto in fatto:

- di avere assolto il servizio di leva in data 22.11.1999 e poi, in quanto idoneo, arruolato nell’Esercito;

- di avere svolto servizio nel periodo compreso tra il 14 dicembre 2004 e il 20 marzo 2008, anche all’Estero, precisamente in Bosnia Erzegovina-Sarajevo, Afghanistan-Kabul e Kossovo;

- che successivamente, in data 16 maggio 2008, è stato sottoposto dai sanitari militari a un regime di convalescenza, allo scopo di effettuare degli approfondimenti legati alla contestuale comunicazione di positività ai marcatori dell’-O- che fino a quel momento non era stata ritenuta causa di inidoneità allo svolgimento del servizio;

- che a seguito di un ultimo ricovero, è stato giudicato non idoneo permanentemente al Servizio Militare, motivo per il quale ha avanzato una richiesta di riconoscimento della pensione privilegiata;

- che è stato dimesso riformato e collocato in congedo assoluto in data 11 dicembre 2009 per l’infermità riscontrata di: “-O- CORRELATA A LIEVE ATTIVITA’”;

- che con decreto n.458 dell’11.10.2012, il Ministero della difesa, nel richiamare il parere espresso dal Comitato di Verifica per le cause di servizio n. 42592/11, reso nell’adunanza n.255/2012 del 01.06.2012, rigettava l’istanza di dipendenza da causa di servizio della suddetta infermità e respingeva pertanto la domanda di pensione privilegiata.

Riferisce di avere proposto ricorso innanzi alla Corte dei Conti di Palermo, sez. Giurisdizionale per la Regione Sicilia, avverso il predetto decreto negativo n.458 dell’11.10.2012 del Ministero della Difesa.

Ciò premesso, precisa che l’amministrazione non mai ha contestato l’“an” del risarcimento tant’è che ha formulato “diverse” offerte di risarcimento del danno che però non sono state accettate perchè incongrue rispetto ai danni subiti;
in particolare viene contestata la scelta del calcolo secondo le tabelle del Tribunale di Milano in materia di risarcimento del danno non patrimoniale e non con le Tabelle INAIL.

Il ricorrente Chiede, quindi, la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla “menomazione della capacità lavorativa, affettiva, sociale, danni che riguardano tutte le attività realizzatrici della persona umana ” arrecatogli a titolo di responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di garantire l’integrità psicofisica del lavoratore durante il servizio (art. 2087 c.c.): il Ministero della difesa pur conoscendo dal dicembre 2004 la patologia diagnosticata, ha ugualmente deciso di assegnarlo a diverse missioni determinando così «un aggravamento dello stato di salute».

Lamenta che, a causa della suddetta infermità e quindi per mancanza del requisito dell’idoneità fisica, è stato escluso dal concorso per titoli per l’immissione nel ruolo dei volontari di truppa in servizio permanente dell’Esercito (in G.U.R.I. n. 69 del 8 settembre 2009), comunicatagli in data 3 giugno 2010 (all. n.13).

Sostiene che la terapia effettuata con ribivarina e interferone, oltre a non avere sortito effetti, avrebbe determinato invece effetti sfavorevoli e oggettivamente visibili tali da impedirgli la vita di relazione quali la caduta di capelli, febbre alta e impossibilità di svolgere attività lavorativa e di relazione. La presenza di fibrosi significativa dall’esame di fibroscan eseguito recentemente dimostrerebbe lo stato di salute precaria (all. n. 7).

Riguardo alla quantificazione della pretesa risarcitoria azionata, chiede la condanna del Ministero della Difesa a un risarcimento del danno non inferiore a euro cinquantamila, da determinare in corso di causa o, in mancanza, in via di equità;
sulla predetta somma andrebbe calcolata e corrisposta, la maggior somma tra interessi legali e rivalutazione monetaria, a decorrere dalla data del fatto e sino a quella del soddisfo, secondo le regole civilistiche.

Unitamente alla memoria del 21 dicembre 2021, il ricorrente ha depositato la sentenza della Corte dei Conti, sez. Giurisdizionale di Palermo, n. 380/2017, pubblicata il 21 giugno 2017 e passata in giudicato con cui è stata riconosciuta la dipendenza da causa di servizio delle patologie lamentate, con riconoscimento del diritto al trattamento di privilegio di settima categoria.

Insiste nell’accoglimento delle richieste istruttorie di acquisizione della documentazione, riservata e non, detenuta dall’amministrazione e nell’ammissione della C.T.U. medico-legale al fine di accertare l’entità del danno biologico;
in subordine, chiede l’accoglimento della richiesta risarcitoria come formulata in ricorso, non avendo parte resistente contestato l’ an , né il quantum della pretesa azionata in giudizio;
vinte le spese da distrarsi in favore del procuratore antistatario ex art. 93, c.p.c..

Il Ministero della difesa, con la memoria del 3 gennaio 2022, ha controdedotto che:

- sotto il profilo del nesso causale, non può configurarsi alcuna violazione dell’art. 2087, c.c., non essendo stato dimostrato il nesso causale tra l’aggravamento della patologia e lo svolgimento delle missioni tra il 2004 e il 2008.

- sotto il profilo soggettivo, nessuna regola cautelare è stata violata, né ricorre il requisito della prevedibilità ed evitabilità dell’evento data la minor esperienza circa i dosaggi delle cure cui sottoporre i soggetti colpiti dalla patologia in questione;
in subordine, rappresenta come il danno invocato sia indimostrato e che il quantum richiesto sia manifestamente sproporzionato rispetto alle lesioni asseritamente subite.

Ha depositato la nota del 27 settembre 2017, n. 141712, indirizzata dal Collegio Medico legale all’Ispettorato generale della sanità militare nella quale si conclude che “ Alla luce delle sovraesposte considerazioni il ritardo di comunicazione non può aver determinato alcun danno biologico clinicamente o strumentalmente obiettivabile né alcuna perdita di chances di cura (chances che peraltro, allo stato attuale, sono prossime al 100% - sempre che la cura non sia già stata eseguita sottoponendosi ai nuovi trattamenti)”.

Il ricorrente, con memoria del 19 gennaio 2022, ha replicato diffusamente;
in particolare ha evidenziato che lo Stato Maggiore della Difesa ha formulato due proposte di risarcimento del danno di cui l’ultima del 16.12.2015 e prodotta in atti (all. n.9 al ricorso) con cui non ha negato la propria responsabilità, e perciò formulato una proposta di risarcimento del danno biologico permanente, temporaneo e morale, e insistendo anche nella CTU medico-legale al fine della quantificazione del danno non patrimoniale subito articolato nelle voci del danno biologico permanente, temporaneo e morale;

All’udienza del 10 febbraio 2022, il ricorso è stato posto in decisione.

DIRITTO

1. Va preliminarmente affermata la sussistenza della giurisdizione amministrativa.

Il personale militare rientra nel novero dei pubblici dipendenti esclusi dal processo di privatizzazione che ha interessato il pubblico impiego a partire dagli anni novanta (cfr. art. 2, l. n. 421/1992;
art. 2, d.lgs. n. 29/1993;
art. 2, d.lgs. n. 5646/1993;
art. 2, d.lgs. n. 80/1998;
e art. 3, d.lgs. n. 165/2001), con conseguente sottoposizione di tutte le controversie relative al rapporto di lavoro alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr. art. 63, d.lgs. n. 165/2001 e artt. 133, c. 1, lett. i) c.p.a.).

Tale giurisdizione esclusiva – in forza del combinato disposto degli articoli sopra richiamati, così come costantemente interpretati dalla giurisprudenza amministrativa – si estende a tutte « le controversie attinenti ai diritti patrimoniali connessi » (cfr. art. 63, c. 4, d.lgs. n. 165/2001), nonché alla cognizione delle azioni inerenti al risarcimento del danno derivante dalla violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c. ( ex multis , TAR Lazio, Roma, 15 dicembre 2021, n. 12956;
cfr. Cass. Civ, SS. UU. n. 9573/2014).

L’affermazione della giurisdizione esclusiva del G.A. (sulle cui ragioni e limiti, v. Corte costituzionale, 6 luglio 2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191) in tali controversie, ha come presupposti:

- il fatto che il rapporto di lavoro dei dipendenti esclusi dalla privatizzazione è regolato dalla legge, o, sulla base di essa, da altre fonti unilaterali;

- la circostanza che gli atti datoriali con cui l’amministrazione di appartenenza (nel caso dei militari, il Ministero della Difesa) gestisce il rapporto di servizio hanno la qualità di provvedimenti amministrativi.

Le controversie in materia di pubblico impiego non contrattualizzato sono quindi naturalmente assegnate alla cognizione del giudice amministrativo in quanto – al pari delle altre materie sottoposte alla giurisdizione esclusiva – sono contrassegnate della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo (cfr. Corte costituzionale, n. 204/2004).

2. Ciò posto, il Collegio ritiene di aderire al prevalente orientamento giurisprudenziale, seguito dalla Corte di Cassazione e condiviso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, secondo il quale la responsabilità del datore di lavoro ha natura contrattuale e rinviene la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374, cod. civ., è integrato dall’art. 2087, cod. civ., ove sono previsti doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore (v. Ad. plen., n. 1 del 2018).

L’incorporazione dell’obbligo di sicurezza all’interno della struttura del rapporto obbligatorio “ è fonte (...) di obblighi positivi (e non solo di mera astensione) del datore, con possibilità per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e di rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 c.c.) ” (Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2018, n. 6952).

L’articolo 2087, cod. civ., prevede, infatti, che “ L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ”.

La formulazione “aperta” dell’articolo 2087 ha indotto la giurisprudenza ad assegnare alla suddetta previsione “ una funzione di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole antinfortunistiche ”, con la conseguenza che l’obbligo di sicurezza deve essere definito facendo riferimento alle misure disponibili tecnologicamente più avanzate, “ imponendo il continuo adattamento e aggiornamento delle misure di prevenzione ai nuovi ritrovati dell’esperienza e della tecnica, in modo che siano prevenuti non solo i rischi conosciuti ma anche quelli ancora ipotetici e non del tutto noti, mentre non sono opponibili in senso contrario considerazioni di carattere puramente economico ” (così ancora Cons. Stato, n. 6952 del 2018, cit.).

Sul piano strutturale, la qualificazione dell’illecito come ascrivibile alla responsabilità da inadempimento del datore di lavoro “ implica, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., che: il lavoratore deve provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza;
il datore di lavoro deve provare l’assenza di colpa e pertanto di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 15 giugno 2017, n. 14865)
” (Ad. plen. n. 1 del 2018).

Sul lavoratore che lamenta di avere subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa svolta, quindi incombe “ l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro. Solo se il lavoratore ha fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi ” (Cons. Stato, n. 6952 del 2018, cit.).

Gli obblighi di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute dei lavoratori che ricadono sull’Amministrazione militare in relazione all’invio di militari all’estero sono stati puntualizzati dalla giurisprudenza – in materia di danno causato dall’esposizione del militare a uranio impoverito ma adattabile alla dinamica della patologia in esame – che ha avuto modo di chiarire che “ Al dovere del militare di esporsi al pericolo stricto sensu bellico (...) si contrappone lo speculare dovere dell’Amministrazione di proteggere il cittadino-soldato da altre forme prevedibili e prevenibili di pericoli non strettamente dipendenti da azioni belliche, in primis apprestando i necessari presidi sanitari di prevenzione e cura e dotandolo di equipaggiamento adeguato o, quanto meno, non del tutto incongruo rispetto al contesto ” (Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2020, n. 7560 e n. 7564).

In particolare, “ nell’ipotesi di missioni all’estero (cosiddette “missioni di pace”) l’Amministrazione della difesa versa in una condizione di responsabilità lato sensu di posizione, cui fa eccezione il solo rischio oggettivamente imprevedibile - giuridicamente qualificabile alla stessa stregua del caso fortuito - ma in cui, viceversa, rientra il rischio da esposizione ad elementi che, benché non ancora scientificamente acclarati come sicuro fattore eziopatogenetico, ciononostante lo possano essere, secondo un giudizio di non implausibilità logico-razionale. (...) La diligentia cui è tenuta l’Amministrazione si situa dunque, in tali casi, ad un livello massimo ” (cfr. ancora Cons. Stato, n. 7560 e n. 7564 del 2020, cit.).

Ancora più in dettaglio, “ allorché, su disposizione dei competenti Organi della Repubblica, invia uomini in missione all’estero, l’Amministrazione della difesa è giuridicamente tenuta:

- ad informarsi preventivamente della concreta ed effettiva situazione (militare, politica, sociale, sanitaria, ambientale) del contesto operativo;

- ad accertarsi della piena idoneità psico-fisica dei militari, adottando tutte le opportune profilassi;

- a fornire al personale tutti gli strumenti di protezione individuale ragionevolmente utili al fine di prevenire i possibili rischi, ivi inclusi quelli connotati da una bassa probabilità statistica ” (così ancora le sentenze richiamate da ultimo).

Quanto al nesso di causalità tra attività lavorativa e malattia professionale, la giurisprudenza ha chiarito che “ trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., con la conseguenza che il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza nel nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni (Cass., 26 marzo 2015, n. 6105). La valutazione sul punto deve tenere adeguatamente in considerazione l’attività lavorativa svolta dal lavoratore, con riguardo all’esposizione a fattori nocivi in relazione alla malattia contratta, e il tempo della stessa. ” (Cons. Stato, n. 6952 del 2018, cit.).

Deve, peraltro, tenersi presente che “ in tema di illecito civile, il nesso causale ha veste probabilistico-statistica (“più probabile che non”) e non richiede, dunque, quella certezza di contro propria dell’accertamento penale ” (Cons. Stato, n. 7560 e n. 7564 del 2020, cit.).

Inoltre, “ Tale strutturale carattere per così dire “attenuato” della prova richiesta in ordine all’elemento eziologico del danno civile è, se possibile, ancor più pregnante e giuridicamente necessario allorché:

- i danni lamentati afferiscano alla dimensione della tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore;

- questi svolga un servizio (la “difesa della Patria”) di vitale importanza per la Repubblica (“sacro dovere del cittadino”, art. 52 Cost.);

- sia in gioco la preservazione della salute e della stessa vita del militare;

- siano concretamente disponibili e ragionevolmente implementabili mezzi di protezione individuale ” (Cons. Stato, n. 7560 e n. 7564 del 2020, cit.).

3. Facendo applicazione delle coordinate ermeneutiche ora richiamate, il Collegio ritiene che, nel caso oggetto della presente controversia, debba ritenersi sussistente la responsabilità del Ministero della difesa per la patologia, e il suo progressivo aggravarsi, del ricorrente, tardivamente reso edotto del suo stato di salute.

In primo luogo, infatti, va dato atto che la tardività nella comunicazione al ricorrente dell’infezione da HCV è circostanza non contestata (anzi, è espressamente riconosciuta nella nota del 27 settembre 2017, n. 141712 indirizzata dal Collegio Medico legale all’Ispettorato generale della sanità militare, ove si legge che: “ La tardiva comunicazione dell'infezione da HCV (avvenuta nell'aprile 2008 mentre era nota dal dicembre 2004) è fatto acclarato e non discutibile (e si evince chiaramente dalla stessa relazione del Capo Servizio Sanitario Ten. Co. Sa. (me) Luca Interisario del 26.10.2009)”.

In secondo luogo, appare dirimente il parere favorevole del Ministero della Salute- Ufficio Medico-legale in relazione al nesso di causalità tra l’attività lavorativa e l’infermità epatica contratta che è stata ritenuta ascrivibile alla 7^ ctg Tab A annessa DPR : “ Da quanto sopra ricordato, avendo svolto il sig.-O- mansioni di militare sottufficiale di carriera, a partire dall'anno 1999 fino al 2008, espletando anche missioni all'estero (Ungheria, Afghanistan, Kossovo) si può comprendere come egli sia stato esposto ad un altissimo rischio di ammalare di detta forma di epatite, considerata la promiscuità della vita di caserma (stesso barbiere, utilizzo di servizi comuni). Il contagio è infatti possibile anche con il semplice contatto con liquidi " biologici (contagio parenterale inapparente) con il passaggio dei virus attraverso le mucose o piccole ferite cutanee, risultando il ricorrente, per le considerazioni sopra ricordate, in una condizione di rischio generico aggravato. Pertanto si esprime il parere che sia possibile ammettere un nesso di causalità tra attività lavorativa svolta e l'infermità epatica in esame ”).

Tale parere è stato reso nel corso del giudizio conclusosi con la sentenza della Corte dei Conti sez. Giurisdizionale di Palermo, n. 380/2017, pubblicata il 21 giugno 2017 e passata in giudicato, con cui è stata riconosciuta la dipendenza da causa di servizio delle patologie lamentate con riconoscimento del diritto al trattamento di privilegio di settima categoria.

Al riguardo, va premesso che “ è principio consolidato nella giurisprudenza civile che rientra nei poteri del giudice in tema di disponibilità e valutazione delle prove anche quello di fondare il proprio convincimento su accertamenti compiuti in altri giudizi fra le stesse od anche fra altre parti, quando i risultati siano acquisiti nel giudizio della cui cognizione egli è investito, poiché le parti che vi hanno interesse possono sempre contestare quelle risultanze ovvero allegare prove contrarie (cfr. Cass. civ., sez. lav., 3 aprile 2017, n. 8603;
III. 4 marzo 2002, n. 3102;
II, 30 maggio 1996, n. 5013). Non v’è dubbio che detto principio possa trovare applicazione anche nel processo amministrativo considerato che il giudice amministrativo dispone dei medesimi poteri in punto di disponibilità e valutazione delle prove riconosciuti al giudice ordinario
” (Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2019, n. 8653).

E, al riguardo, deve tenersi presente che l’Amministrazione della difesa, in considerazione della posizione rivestita in qualità di datore di lavoro, per di più preposto ad attività pericolose, quali sono le operazioni in un teatro bellico, non potrebbe limitarsi a invocare un fattore causale ignoto, ma dovrebbe “ spingersi sino a provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno ” (Cons. Stato, n. 7560 e n. 7564 del 2020, cit.).

Non risulta, invece, che all’epoca in cui il ricorrente è stato inviato in missioni all’estero, pur essendo noto all’Amministrazione il rischio elevato al quale sarebbe stato sottoposto il lavoratore - peraltro non informato della patologia contratta – siano state predisposte le necessarie e/o opportune cautele (cfr. TAR Lazio, Sez. I bis, 11 dicembre 2018, n. 11985).

In terzo luogo, il ricorrente ha depositato in atti due proposte transattive da parte dello Stato maggiore della Difesa, al fine del risarcimento del riconosciuto danno, la prima del 17 marzo 2015 riguardante la sola voce del danno biologico, permanente e parziale, per un importo di € 3.630,23 e la successiva del 16 dicembre 2015 riguardante invece oltre la voce del danno biologico permanente e parziale, anche la voce del danno morale nella misura di un terzo del danno biologico, per un importo di € 4.840,30, che però non sono state accettate in quanto reputate incongrue rispetto ai danni subiti.

Per le superiori argomentazioni e non essendovi stata alcuna allegazione contraria da parte dell’Avvocatura dello Stato circa l’adozione di tutte le cautele necessarie a evitare il danno (risultando anzi la tesi del ricorrente avvalorata dal fatto che le menomazioni sono state riconosciute come dipendenti da causa di servizio) deve essere ritenuto sussistente il nesso di causalità tra la prestazione lavorativa, avvenuta senza l’apprestamento delle necessarie cautele, e il pregiudizio che è derivato all’odierno ricorrente.

Alla luce di quanto sin qui esposto, va dichiarata la responsabilità del Ministero della difesa per il danno di cui ha sofferto il ricorrente e il diritto di quest’ultimo al risarcimento dei danni subiti per i pregiudizi conseguenti alla predetta patologia: il danno risarcibile, tuttavia, è soltanto quello biologico e morale, restando escluso quello “patrimoniale” genericamente lamentato e rimasto indimostrato.

4. Quanto alla concreta determinazione del risarcimento del danno diverso da quello patrimoniale, innanzitutto occorre ricordare che per giurisprudenza da lungo tempo consolidata, le prestazioni indennitarie riconosciute dalla legge in favore dei pubblici dipendenti affetti da patologie contratte per cause di servizio, concorrano con il diritto al risarcimento del danno da responsabilità contrattuale dell’amministrazione per il medesimo pregiudizio all’integrità psicofisica patito dal dipendente: l’importo di quelle prestazioni non può, cioè, venire detratto da quanto spettante per il diverso titolo risarcitorio, dovendosi escludere che ricorra un’ipotesi di compensatio lucri cum damno , e questo perché l’illecito, quale fatto genetico e costitutivo della pretesa al risarcimento, rappresenta una mera occasione rispetto alla spettanza dell’indennità, che sorge per il solo fatto che la lesione sia avvenuta nell'espletamento di un servizio di istituto del soggetto, indipendentemente dalla responsabilità civile dell’amministrazione datrice di lavoro e in misura autonoma dall’effettiva entità del pregiudizio subito dall’interessato, ciò che ne rivela l’assenza della finalità compensativo-sostitutiva propria del risarcimento (così, sui rapporti fra risarcimento del danno ed equo indennizzo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 365;
sui rapporti fra risarcimento e speciale elargizione in favore dei militari infortunati o caduti in servizio e dei loro superstiti, cfr. Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14483).

Al ricorrente spetta, dunque, anche il risarcimento del danno alla persona subito a causa dell’attività di servizio, nelle due componenti del danno biologico coincidente con la patologia contratta e del connesso danno morale.

In proposito va ricordato che costituisce punto fermo nella giurisprudenza del giudice ordinario l’unitarietà del danno non patrimoniale da lesione della salute, insuscettibile di essere frazionato in autonome sottocategorie: la suddivisione nelle voci del danno “morale”, “biologico”, “esistenziale”, “alla vita di relazione”, ecc., risponde, infatti, a mere esigenze descrittive dei diversi profili in cui il danno alla persona può articolarsi e dei quali il giudice deve tenere conto onde pervenire alla integrale riparazione del pregiudizio sofferto, evitando indebite duplicazioni;
in questa prospettiva, per quel che interessa ai fini di causa, il c.d. danno morale può rappresentare un’autonoma componente del più ampio danno alla persona a condizione che si tratti di sofferenza soggettiva in sé considerata, e non la sofferenza fisica e -O- che ordinariamente si accompagna alla malattia e che concorre a integrare il c.d. danno biologico, al cui interno deve essere valorizzata (cfr. Cass. civ., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972 e le altre decisioni in pari data, conosciute come “sentenze di San Martino”;
Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2011, n. 21999;
da ultimo, e per tutte, Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2014, n. 2413).

Tali conclusioni sono state recepite dalla giurisprudenza amministrativa, che ha condiviso la nozione unitaria del danno alla salute, comprensivo di tutti gli aspetti con ricadute negative sull'integrità psico-fisica e relazionale della persona lesa, inclusa quindi la sofferenza soggettiva – fisica che necessariamente si accompagna alla lesione della salute, da valutare in modo unitario e globale in un'ottica di personalizzazione con riguardo al caso concreto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2015, n. 1945).

5. Alla stregua di tali precisazioni, nel caso di specie, la quantificazione del danno non patrimoniale lamentato va rimessa all’accordo delle parti che, ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., dovrà muovere dall’offerta formulata dall’amministrazione in ossequio ai criteri di seguito indicati, salvo l’eventuale, successivo intervento di questo stesso giudice in sede di ottemperanza, per il caso di mancato raggiungimento dell’accordo.

Per la valutazione del danno biologico esistono, nell’ordinamento italiano, diversi sistemi tabellari, dalla cui applicazione discendono differenze percentuali, talvolta anche sostanziali, pur per analoghe tipologie di danno.

In linea generale, occorre osservare che le tabelle di riferimento per i diversi ambiti di valutazione medico-legale comprendono la quantificazione del danno biologico in responsabilità civile (ad esempio la responsabilità civile per la circolazione dei veicoli o quella generale), l’assicurazione contro la invalidità permanente da malattia e l’assicurazione contro gli infortuni (tabelle ANIA e INAIL).

Tali tabelle medico-legali propongono una serie di menomazioni “tipiche” (in termini diagnostici e/o sinteticamente descrittivi), a ciascuna delle quali è correlata un’indicazione valutativa che esprime la permanente diminuzione, in percentuale, rispetto al “valore totale”: quest’ultimo va inteso in modo differente a seconda che si tratti di stima in responsabilità civile (danno biologico) ovvero nell’ambito di assicurazione privata contro l’invalidità permanente cagionata da infortunio o da malattia.

La ragione principale di tale differenziazione è nella natura della provvidenza.

Nel sistema dell’assistenza sociale le tabelle prevedono percentuali di danno generalmente più alte rispetto alla responsabilità civile in ragione della natura stessa della provvidenza, per l’appunto di tipo assistenziale;
in tale ambito rientra, ad esempio, la normativa per gli “invalidi civili” che utilizza un proprio sistema tabellare (cfr. Decreto del Ministero della Sanità 5 febbraio 1992, “ approvazione della nuova tabella indicativa delle percentuali d'invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti ”).

Differenti tabelle sono, poi, utilizzate nell’ambito delle assicurazioni sugli infortuni sul lavoro, caratterizzato da diverse percentuali di danno e indennizzi (non si parla di “risarcimento”) sia rispetto agli invalidi civili, sia alla responsabilità professionale;
tabelle che implicano una quantificazione del danno biologico non già mediante valutazioni di pertinenza medico-legale, bensì attraverso l’applicazione di prefissati coefficienti (le tabelle di riferimento per la quantificazione in tale ambito sono previste dal Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale 12 luglio 2000, “ approvazione di "Tabella delle menomazioni";
"Tabella indennizzo danno biologico";
"Tabella dei coefficienti", relative al danno biologico ai fini della tutela dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali
”).

Infine, le tabelle da utilizzare per stabilire la percentuale di danno biologico nell’ambito della responsabilità civile sono da ricondurre al Decreto del Ministero della Salute 3 luglio 2003 (tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità) e al Decreto del Ministero dello Sviluppo economico 25 giugno 2015 (“ aggiornamento annuale degli importi per il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, anno 2015 ”);
anche in questi ambiti la quantificazione economica avviene mediante l’applicazione di coefficienti in relazione all’entità del danno biologico, ma il calcolo viene effettuato tramite le c.d. “tabelle di Milano”, ove sono sintetizzati i criteri tradizionalmente elaborati nella civilistica e che sono state aggiornate in modo da includere anche quella componente “morale” del danno biologico, che, in passato, veniva liquidata separatamente (cfr. Cass., III, n. 5243/2014, cit.;
Cons. Stato, VI, n. 1945/2015, cit.).

A dette ultime tabelle farà riferimento, l’Amministrazione resistente nel quantificare il risarcimento da offrire al ricorrente. La quantificazione così ottenuta non necessiterà di ulteriore personalizzazione, non avendo il ricorrente allegato – altre alla loro labiale affermazione - specifiche componenti di danno alla vita di relazione che non possano considerarsi comprese nella sofferenza morale direttamente originata dalla malattia e, come tale, già inclusa nella liquidazione tabellare del danno biologico, a differenza di quanto si verifica per le diverse tabelle che presiedono alla liquidazione delle prestazioni indennitarie, le quali considerano separatamente la componente “biologica” da quella “morale” (è perciò ai soli fini indennitari che si giustifica la liquidazione autonoma del “danno morale”).

La giurisprudenza (cfr., tra le più recenti, Corte di Cassazione, sez. III civile, ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513) ha, sul punto, rilevato che la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza di una menomazione fisica, non può sfuggire da una stringente alternativa: o si tratta di una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), e allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico;
ovvero è una conseguenza peculiare, e allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”), ma in tal caso sarà necessario allegare circostanze specifiche atte a comprovare l’ulteriore pregiudizio patito.

Al fine della quantificazione del danno non patrimoniale, con i criteri di calcolo appena enunciati (cd. taxatio ), l’Amministrazione dovrà provvedere entro il termine di novanta giorni (90) dalla notificazione e/o comunicazione della presente sentenza ai sensi dell’art.34, comma 2, c.p.a. e, in caso di accettazione da parte del ricorrente, dovrà procedere al relativo pagamento nei successivi sessanta (60) giorni decorrenti dall’accettazione.

Sulla somma come liquidata a seguito della taxatio, e dunque a seguito della trasformazione dell’obbligazione da debito di valore in debito di valuta, saranno poi dovuti gli interessi nella misura legale, a far data dalla liquidazione secondo i criteri innanzi indicati e fino al soddisfo.

Nei termini e nei limiti illustrati in motivazione, il ricorso va perciò accolto.

6. Alla stregua della documentazione versata in atti, il collegio ammette in via definitiva il ricorrente al patrocinio delle spese dello Stato, onerando la Segreteria sezionale di trasmettere copia della presente sentenza e della documentazione a corredo, relativa alla domanda di che trattasi, alla competente Agenzia delle entrate per le opportune verifiche circa il mantenimento dei requisiti di legge per il beneficio in parola.

7. Atteso il parziale accoglimento, le spese di lite possono essere compensate nella misura di ½ e liquidate come da dispositivo, avuto riguardo alla natura della controversia e alla complessità delle questioni trattate.

8. Occorre precisare che, nel caso di specie, trova applicazione l'art. 133 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (testo unico in materia di spese di giustizia) secondo cui " Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato": pertanto, si dispone che le spese del presente giudizio siano versate direttamente sul bilancio della Giustizia Amministrativa, dotata di autonomia finanziaria, quale soggetto titolare ex lege del diritto di rivalsa.

9. Va rilevato, altresì, che il procuratore del ricorrente ha chiesto la loro distrazione a favore di sé stesso dichiaratosi anticipatario delle stesse.

Osserva, però, il Collegio che la Corte di Cassazione civile (Sez. Un., 26.03.2021, n. 8561) ha osservato che “ la presentazione dell'istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non costituisce rinuncia implicita al beneficio da parte dell'assistito, attesa la diversa finalità ed il diverso piano di operatività del gratuito patrocinio e della distrazione delle spese - l'uno volto a garantire alla parte non abbiente l'effettività del diritto di difesa e l'altra ad attribuire al difensore un diritto in rem propriam - con la conseguenza che il difensore è privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, compreso il diritto soggettivo all'assistenza dello Stato per le spese del processo, potendo la rinuncia allo stesso provenire solo dal titolare del beneficio, e tenuto conto, peraltro, che l'istituto del gratuito patrocinio è revocabile solo nelle tre ipotesi tipizzate nell’art. 136 del d.P.R. n. 115 del 2002, norma eccezionale, come tale non applicabile analogicamente ”.

Conseguentemente, la richiesta di distrazione non può trovare accoglimento.

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