TAR Firenze, sez. I, sentenza 2021-10-07, n. 202101283
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Pubblicato il 07/10/2021
N. 01283/2021 REG.PROV.COLL.
N. 01686/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1686 del 2015, proposto da
Francesco D'Isanto, rappresentato e difeso dall'avvocato G V, con domicilio digitale come da PEC risultante da Pubblici registri e domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, viale G. Mazzini n. 60;
contro
INPS - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentato e difeso dagli avvocati M G, S I, I M, M F, con domicilio digitale come da PEC risultante da Pubblici registri e domicilio eletto presso lo studio - Ufficio Legale I.N.P.S. in Firenze, viale Belfiore, 28/A;
per l'annullamento
dell'atto n. 5097 del 25.03.2015 contenente il prospetto di liquidazione del TFS emesso dall'INPS trasmesso in data 01.04.2015 che ha consolidato i suoi effetti a seguito del diniego tacito formatosi per silenzio-rigetto sul ricorso amministrativo al Comitato di Vigilanza INPS in data 20.04.2015 prot. n. 738035;
del diniego tacito formatosi per silenzio-rigetto sul ricorso amministrativo al Comitato di Vigilanza INPS in data 20.04.2015 prot. n. 738035;
dii ogni atto preparatorio, presupposto, inerente, conseguente e/o comunque connesso.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di INPS - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 settembre 2021 il dott. Luigi Viola e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il ricorrente era un Consigliere della Corte dei Conti di nomina governativa in servizio, al momento del pensionamento, presso la Sezione Giurisdizionale per la Toscana della Corte dei Conti;a seguito del pensionamento, l’I.N.P.S. corrispondeva allo stesso un T.F.S. commisurato su 9 anni, 8 mesi e 3 giorni di servizio e non su 10 anni, 8 mesi e 9 giorni come avrebbe dovuto essere sulla base del semplice calcolo cronologico del servizio prestato presso la Corte (iniziato il 28 aprile 2004 e concluso il 6 gennaio 2015).
Con ricorso al Comitato di vigilanza della Gestione competente, il ricorrente chiedeva genericamente la considerazione anche del periodo non incluso nella liquidazione;essendo maturato il termine per il silenzio rigetto del gravame di cui all’art. 6 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, presentava il ricorso oggi in decisione, impugnando il prospetto di liquidazione del T.F.S. (atto 25 marzo 2015 n. 5097), per: 1) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, 14 e 41 del d.P.R. 28 dicembre 1973 n. 1032, eccesso di potere per travisamento dei fatti, irrazionalità, illogicità e contraddittorietà manifeste;2) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 della l. 7 agosto 1990, n. 241, eccesso di potere per carenza di istruttoria, irragionevolezza e illogicità manifeste;3) illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489 della l. 147/2013 in relazione agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, 4) illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489 della l. 147/2013 in relazione agli artt. 3 e 117 della Costituzione;5) illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489 della l. 147/2013 in relazione agli artt. 3, 4, 36, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.
Si costituiva in giudizio l’I.N.P.S., controdeducendo sul merito del ricorso ed articolando eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso.
In via preliminare, la Sezione deve rilevare come non possa trovare accoglimento la richiesta preliminare di sospensione del giudizio articolata dalla difesa del ricorrente.
Al proposito risulta, innanzitutto, manifestamente assente una qualche pregiudizialità con i ricorsi definiti dalla prima Sezione del T.A.R. Lazio, con le sentenze 3 febbraio 2021 nn. 1403 e 1405 (impugnate in appello con i ricorsi R.G. n. 4662/2021 e 4664/2021), che riguardano altri interessati e non il ricorrente.
Per quello che riguarda la sentenza 3 febbraio 2021, n. 1404 della Prima Sezione del T.A.R. Lazio (che effettivamente vede tra i ricorrenti anche il Consigliere D’Isanto e definisce un giudizio in cui era stata proposta una domanda di ricostruzione della posizione retributiva e previdenziale del ricorrente che potrebbe incidere sul presente giudizio), deve trovare applicazione l’orientamento giurisprudenziale ormai stabilizzato (per la giurisprudenza amministrativa, si vedano T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 2 dicembre 2020, n. 2368 e Cons. Stato, VI, ord. 30 dicembre 2019, n. 8901;per la giurisprudenza civilistica: Cass. civ., sez. un., 29 luglio 2021, n. 21763) che, nell’ipotesi in cui la causa pregiudicante sia stata ormai decisa con sentenza non ancora passata in giudicato, ha prospettato l’applicazione, ad evitare l’ingiustificato prolungamento dei tempi di giudizio, non della sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c., ma della sospensione facoltativa di cui all’art. 337, 2° comma c.p.c.;nel caso di specie, parte ricorrente non ha dato neanche prova di avere proposto appello al Consiglio di Stato avverso la sentenza 3 febbraio 2021, n. 1404 della Prima Sezione del T.A.R. Lazio (che, a questo punto, deve ritenersi passata in giudicato) e, comunque, la Sezione ritiene che la manifesta infondatezza delle ragioni poste a base del ricorso renda del tutto superflua e defatigante, soprattutto nell’ottica della celere definizione del contenzioso, la richiesta di sospensione articolata in ricorso e ribadita in memoria conclusionale.
L’infondatezza nel merito del ricorso rende poi del tutto inutile l’esame dell’eccezione preliminare di inammissibilità proposta dalla difesa dell’I.N.P.S.
In particolare, il primo motivo di ricorso attiene al presunto “errore di calcolo” compiuto dall’I.N.P.S. nella liquidazione del T.F.S., che sarebbe stata commisurato ad un servizio di 9 anni, 8 mesi e 3 giorni e non di 10 anni, 8 mesi e 9 giorni come avrebbe dovuto essere sulla base del semplice calcolo cronologico del servizio prestato presso la Corte (iniziato il 28 aprile 2004 e concluso il 6 gennaio 2015) dal ricorrente.
A questo proposito, già le successive deduzioni del ricorrente evidenziano come la problematica che ha originato il ricorso sia completamente diversa e nasca dalla mancata corresponsione della retribuzione (e dei corrispondenti oneri previdenziali e di accantonamento), relativamente al periodo intercorrente tra il 1° gennaio 2014 ed il 6 gennaio 2015 in cui ha trovato applicazione, anche nei confronti del ricorrente e per effetto del trattamento pensionistico già in godimento da parte dello stesso, del divieto di erogare trattamenti economici onnicomprensivi superiori al massimale di € 240.000,00 previsto dall’art. 1, 489° comma della l. 27 dicembre 2013, n. 147;del resto, si tratta di una conclusione facilmente desumibile dal modello PL1 inviato dal Segretariato generale della Corte dei Conti all’I.N.P.S. (depositato in giudizio, sia dal ricorrente che dall’I.N.P.S.), che chiaramente esplicita, a pag. 2, come relativamente al periodo intercorrente tra il 1° gennaio 2014 ed il 6 gennaio 2015, non siano stati versati contributi previdenziali, per effetto della mancata corresponsione della retribuzione.
Il problema posto a base del ricorso è pertanto altro e diverso dal presunto “errore di calcolo” posto a base del primo motivo di ricorso ed investe la legittimità della mancata corresponsione del T.F.S. relativamente ad un periodo in cui il ricorrente ha sostanzialmente prestato servizio senza retribuzione e con riferimento al quale non sono stati correlativamente versati contributi previdenziali da parte del datore di lavoro;una problematica che la difesa dell’I.N.P.S. ha esattamente riportato allo stretto rapporto di correlatività tra contribuzioni e prestazioni previdenziali che la Corte costituzionale ha recentemente riaffermato in materia pensionistica, ma sulla base di una sistematica che risulta pienamente estensibile anche alla problematica che ci occupa: “va quindi ribadito, in conclusione, che in nessun caso - salvo disposizioni a carattere straordinario e derogatorio … è possibile ottenere un trattamento pensionistico che prescinda dalla contribuzione effettivamente versata” (Corte cost. 27 luglio 2020, n. 167, punto n. 9 della motivazione).
Anche il secondo motivo di ricorso relativo al presunto difetto di motivazione dell’atto di liquidazione del T.F.S. non può poi trovare accoglimento, alla luce della tradizionale qualificazione dell’atto di liquidazione del T.F.S. in termini di atto paritetico (Cons. Stato sez. VI, 7 maggio 1988, n. 571;7 luglio 1981, n. 386) e della conseguenziale non necessità che il relativo atto di liquidazione risulti assistito dall’esplicitazione delle ragioni giuridiche dell’atto prevista dall’art. 3 della l. 7 agosto 1990, n. 241.
I residui motivi di ricorso risultano poi sostanzialmente riproduttivi delle censure di incostituzionalità sollevate nel ricorso già definito dalla sentenza 3 febbraio 2021, n. 1404 della Prima Sezione del T.A.R. Lazio e che ha già visto una rimessione alla Corte costituzionale ed una rimessione alla Corte Giustizia UE (dichiarata inammissibile da C.G.U.E., VII Sez., ord. 15 maggio 2019 in cause riunite C-798 e C-790/18);analogamente a quanto già ritenuto da T.A.R. Lazio, I, sez., 3 febbraio 2021, n. 1404, appare pertanto del tutto sufficiente il richiamo della struttura motivazionale della sentenza della Corte costituzionale che ha già concluso per l’infondatezza delle censure di incostituzionalità proposte dal ricorrente: “occorre muovere, in via prioritaria, dall'analisi della disciplina del limite massimo alle retribuzioni (artt. 23- ter del d.l. n. 201 del 2011 e 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014), censurata con l'ordinanza iscritta al n. 211 del reg. ord. 2016. Tale disciplina, difatti, rappresenta il paradigma generale, cui ricondurre anche le previsioni in tema di cumulo tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche.
8.1.- La disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente.
8.2.- Il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Anche la disciplina del cumulo tra pensioni e retribuzioni «interferisce con molteplici valori di rango costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all'effettivo stato di bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro (art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano» (sentenza n. 241 del 2016, punto 5. del Considerato in diritto).
8.3.- Nel settore pubblico non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole.
In tale ottica, si richiede il rispetto di requisiti rigorosi, che salvaguardino l'idoneità del limite fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate.
8.4.- L'indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge con i princìpi appena richiamati.
La disciplina in esame, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo. Pertanto, la circostanza che la relazione tecnica non computi i risparmi attesi non è di per sé sintomatica dell'irragionevolezza della norma.
Le molteplici variabili in gioco precludono una valutazione preventiva ponderata e credibile. Non a caso, nel dibattito parlamentare, che prelude all'approvazione dell'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, si è attribuito alla norma censurata un impatto quantificabile solo «a consuntivo».
L'impossibilità di quantificare preventivamente la riduzione della spesa non implica, tuttavia, l'insussistenza di tali effetti, da stimare nella lunga durata, e non contraddice la ratio dell'intervento normativo, volto a perseguire obiettivi di interesse generale.
In questa prospettiva si deve considerare il vincolo di destinazione che il legislatore imprime alle risorse derivanti dall'applicazione delle norme censurate, stabilendo che siano destinate annualmente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilità speciale di tesoreria.
La disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche, peraltro, si configura come misura di contenimento della spesa, assimilabile agli altri capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli àmbiti più disparati (decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11;decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135;decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale», convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari», convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114).
Tale contenimento della spesa è avallato dalla Corte dei conti nella Relazione sul lavoro pubblico dell'anno 2012.
L'imposizione di un limite massimo alle retribuzioni pone rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d'essere, fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell'amministrazione.
Inoltre, sin dalle prime applicazioni, riferibili all'art. 3, commi 43 e seguenti, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», le disposizioni sui limiti retributivi si affiancano ad obblighi penetranti di pubblicità degli incarichi. Il contenimento della spesa non è mai perseguito quale fine in sé, ma in concomitanza con obiettivi a più ampio spettro, che mirano a rendere trasparente la gestione delle risorse pubbliche.
La disciplina oggi scrutinata persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate.
8.5.- La non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi (sentenza n. 153 del 2015, con riguardo all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali).
Il limite retributivo, dapprima riferito alle amministrazioni statali, in base all'art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2008)», ha via via attratto nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali, le autorità amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e 475, della legge n. 147 del 2013), le società partecipate in via diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del d.l. n. 66 del 2014).
Infine, a conferma di tale linea evolutiva della legislazione, il limite massimo retributivo di 240.000 euro annui è stato esteso anche agli amministratori, al personale dipendente, ai collaboratori e ai consulenti del soggetto affidatario della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198, recante «Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria e dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti. Procedura per l'affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale»).
L'elemento della valenza generale è stato già considerato da questa Corte di importanza dirimente nel vaglio di altre misure (sentenze n. 178 del 2015 e n. 310 del 2013).
La portata generale della disciplina, che non si indirizza specificamente alla magistratura, quale «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.), e non mira a delinearne il rapporto con lo Stato nei termini di una mera dialettica contrattuale o a compromettere le garanzie di una retribuzione adeguata all'importanza della funzione svolta (sentenza n. 223 del 2012), fa perdere consistenza alle censure di violazione dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giurisdizionale.
A fronte di una disciplina che persegue obiettivi generali di razionalizzazione dell'intero comparto pubblico e individua il limite ai compensi nella retribuzione del Primo Presidente della Cassazione, non si ravvisa alcuna indebita interferenza con l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, presidiate dalla Carta fondamentale anche per quel che attiene agli aspetti retributivi (sentenza n. 1 del 1978).
8.6.- Tale limite, costante sin dagli esordi delle discipline restrittive - art. 1, comma 593, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2007)» - è oggi ancorato a un parametro fisso (240.000 euro annui), svincolato dal mutevole cursus honorum della persona chiamata di volta in volta a ricoprire la carica di Primo Presidente. La conformazione della disciplina, che supera l'aleatorietà di un parametro imprevedibile, rivela l'intenzione del legislatore di porre un limite generale, conoscibile ex ante , tale da assicurare una sollecita - e tendenzialmente stabile - pianificazione delle risorse.
Il limite, così previsto dal legislatore, non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l'apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate.
Nell'esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell'economia.
9.- Neppure le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 sono fondate.
9.1.- La non irragionevolezza delle scelte operate dal legislatore si riscontra anche con riguardo alla disciplina del cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, che rappresenta lo sviluppo della disciplina del limite retributivo fin qui esaminata.
La norma in esame si armonizza con altre misure di contenimento dei trattamenti economici nel settore pubblico e si contraddistingue per la particolare latitudine. Essa si rivolge alla vasta categoria delle amministrazioni inserite nell'elenco ISTAT e menziona anche gli organi costituzionali, chiamati ad attuarla nel rispetto dei propri ordinamenti.
Dal punto di vista oggettivo, la norma censurata include tutte le pensioni erogate nell'àmbito di gestioni previdenziali obbligatorie, gli stessi vitalizi e tutte le voci del trattamento economico (stipendi, altre voci del trattamento fondamentale, indennità, voci accessorie, eventuali remunerazioni per consulenze, incarichi o collaborazioni a qualsiasi titolo conferiti a carico di uno o più organismi o amministrazioni enumerati nell'elenco ISTAT).
Qualora il limite di 240.000,00 euro annui sia superato, la riduzione dovrà essere operata dall'amministrazione che eroga il trattamento economico e non dall'amministrazione che si occupa del trattamento previdenziale.
Le censure si incentrano sulla violazione dell'art. 36 Cost., che determinerebbe, di riflesso, una violazione anche dell'art. 38 Cost. In questa prospettiva, il contrasto con il principio di ragionevolezza, di buon andamento dell'amministrazione, la lesione del diritto al lavoro, il vulnus all'autonomia e all'indipendenza della magistratura, corroborano tale censura, che rappresenta il fulcro delle argomentazioni delle ordinanze di rimessione pervenute a questa Corte.
9.2.- Anche con riguardo al cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, il legislatore è chiamato a garantire una tutela sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali in gioco. In questo orizzonte si colloca anche il principio di proporzionalità tra la retribuzione e la quantità e la qualità del lavoro prestato.
È pur vero che può corrispondere ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità particolarmente qualificate, che già fruiscono di un trattamento pensionistico.
Tuttavia, il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva - e modellata su un parametro prevedibile e certo - delle risorse che l'amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni.
Tale ratio ispira, del resto, anche le disposizioni dell'art. 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, che vietano l'attribuzione di incarichi di studio o di consulenza ai lavoratori pubblici o privati collocati in quiescenza e a tali lavoratori consente di ricoprire incarichi dirigenziali o direttivi o in organi di governo delle amministrazioni solo a titolo gratuito.
Il principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto deve essere valutato, dunque, in un contesto peculiare, che non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico.
Inquadrata in queste più ampie coordinate e ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, la norma censurata attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto” (Corte cost., 26 maggio 2017, n. 124, punti 8 e ss. della motivazione).
In definitiva, il ricorso deve pertanto essere respinto;le spese seguono la soccombenza e devono essere liquidate, come da dispositivo.