Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-03-21, n. 201801821

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-03-21, n. 201801821
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201801821
Data del deposito : 21 marzo 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 21/03/2018

N. 01821/2018REG.PROV.COLL.

N. 04468/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4468 del 2016, proposto da:
O G S, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati A C, Francesca Isgro', G D P, con domicilio eletto presso lo studio A C in Roma, via Principessa Clotilde, 2;

contro

Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

O F S, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Gian Luca Zampa, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazza del Popolo 18;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 02669/2016, resa tra le parti, concernente irrogazione sanzione pecuniaria.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato e di O F S;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2018 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Leonardo per delega di Clarizia, Zampa e, dello Stato Stigliano Messuti.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con l’appello in esame la società odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 2669 del 2016 con cui il Tar del Lazio respingeva l’originario gravame. Quest’ultimo era stato proposto dalla stessa società Olmo al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento n. 25512 - pubblicato nel bollettino dell'Autorità n. 23/15 - con cui l’Autorità odierna appellata riscontrava la sussistenza di una violazione dell'art. 101 TFUE, diffidando le società coinvolte a non porre in essere futuri comportamenti analoghi e condannando la Olmo al pagamento di una sanzione pecuniaria pari a 7.184.755 euro.

Dalla ricostruzione dell’iter concluso dal provvedimento impugnato, così come desumibile dalla documentazione in atti, emerge che l’avvio del procedimento 11776 in oggetto risaliva alla comunicazione di avvio di istruttoria del 3 aprile 2014, adottata nei confronti delle società Olmo e Orsa, nonché delle società Vefer S.p.A., Pelma S.p.A. e Sitab P.E. S.p.A. operanti nel mercato della produzione e commercializzazione di poliuretano espanso flessibile a base polietere, al fine di accertare l'esistenza di violazioni dell'art. 2 della legge n. 287/90 e dell'art. 101 cit..

In particolare, il procedimento, avviato a seguito di una segnalazione anonima, mirava ad accertare l’eventuale esistenza di un'intesa anticoncorrenziale tra tutte le predette società, che si sarebbero incontrate periodicamente (anche nell'ambito delle riunioni dell'associazione dei produttori di poliuretano espanso flessibile AIPEF) al fine di scambiarsi i listini prezzo, decidere la tempistica degli aumenti dei prezzi e disincentivare la mobilità della clientela mediante offerte concertate volte a favorire i fornitori abituali di taluni clienti.

In tale contesto l'Autorità effettuava una serie di accertamenti ispettivi presso le sedi delle medesime società, oltre che presso le sedi delle società Cires S.p.A. e IMPE S.p.A. e presso la sede dell'associazione AIPEF, e sentiva in audizione i rappresentanti di Orsa, Olmo, Vefer, Sitab e Pelma;
in tale ambito chiedeva a più riprese ad Olmo una serie di informazioni, che la ricorrente forniva, ed inviava e richieste di informazioni ad alcuni produttori italiani ed esteri (Chemical Resine S.a.S., Broggini S.r.l., Lareg2 S.n.c., Me. Res. S.r.l., Vitafoam Ltd., Carpenter Ltd., FIex2000 S.A.), nonché a un campione di clienti delle società parti del Procedimento.

Di conseguenza, l'Autorità contestava un intenso scambio di informazioni sensibili tra le sole Olmo e Orsa, realizzato tramite le tre imprese comuni dalle stesse detenute Storm S.r.l., NIR S.r.l. e SIP S.r.l., e mediante l'accordo di cessione della clientela del 2006, nonché la sussistenza di un esplicito .accordo per la gestione congiunta della propria clientela del centro-sud, attraverso il quale era stata eliminata la concorrenza reciproca nei confronti dei clienti localizzati in tali aree geografiche, con la volontà di garantire la cristallizzazione della propria clientela, configurandosi un’ intesa unica e complessa restrittiva della concorrenza, in violazione dell'art. 101 cit., in quanto volti a sostituire, ad una corretta dinamica concorrenziale, forme di concertazione delle proprie politiche commerciali capaci di falsare sensibilmente il gioco della concorrenza sul mercato rilevante, considerando che Olino ed Orsa, anche per il tramite delle loro imprese comuni, controllavano circa il 45% del mercato di riferimento.

La presunta intesa veniva inoltre qualificata come "molto grave", essendo stata ravvisata la sussistenza di un'intesa unica e complessa, idonea a restringere la concorrenza, realizzata tramite un intenso scambio di informazioni sulle principali leve concorrenziali, nonché tramite condotte collusive finalizzate alla ripartizione del mercato, protrattesi per un lungo periodo di tempo, fin dal gennaio 2003.

Ad istanza delle interessate l’Autorità prorogava i termini per la conclusione dell’istruttoria ma non quello per la presentazione di impegni, quindi adottava e notificava il provvedimento impugnato.

Avverso tale provvedimento la società odierna appellante proponeva ricorso dinanzi al TAR del Lazio;
all’esito del relativo giudizio il ricorso veniva respinto con la sentenza n. 2669\2016.

Avverso tale sentenza parte appellante formulava i seguenti motivi di appello:

- omessa pronuncia e difetto assoluto di motivazione, violazione degli artt. 24 e 111 comma 6 Cost., 6 Tue, 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, 1, 3 e 134 cod proc amm e del principio di effettività della tutela giurisdizionale, in quanto la sintetica pronuncia del Tar non avrebbe risposto alle doglianze della società ricorrente (non rispondendo ai motivi II e IV), limitandosi (in generale e sui restanti motivi) ad una complessiva e sommaria valutazione priva di correlazione ai motivi di ricorso;

- erronea individuazione del mercato rilevante, per violazione dell’art. 101 Trattato Ue e degli artt. 1 e 3 l. 241\1990, 97 Cost. e 41 Cdfue, eccesso di potere per sviamento, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, contraddittorietà, manifesta irragionevolezza e carenza di motivazione, sotto i profili geografici e merceologici e sulla determinazione della quota di mercato di Olmo;

- analoghi vizi in relazione al presunto scambio di informazioni tra Olmo e Orsa, per mancato esercizio da parte del Tar Lazio di un sindacato di legittimità indipendente concreto e dettagliato sul provvedimento, avendo il provvedimento e la sentenza errato sul presunto scambio di informazioni relative alla quantità delle materie prime complessivamente acquistate nonché alle quantità ai prezzi ed ai clienti, mediante le imprese comuni, sull’accordo di cessione della clientela e sulla non lesività delle informazioni eventualmente scambiate;

- analoghi vizi in relazione al presunto andamento parallelo dei prezzi medi e dei margini, non avendo il Tar risposto al motivo di primo grado, per apprezzabile differenza dei prezzi medi di vendita di Olmo e Orsa, sia in termini di valore assoluto che in termini percentuali, anche per l’innegabile correlazione tra il costo delle materie prime ed il prezzo di vendita, per la comparazione tra i margini e la pretermissione dei dati relativi ai prezzi ed ai margini medi di Sitab, Velfer e Perma;

- violazione dell’art. 101 cit. e delle norme relative ai principi di proporzionalità e graduazione della pena in funzione dell’elemento soggettivo, assente nel caso di specie;

- violazione del principio del contraddittorio e dei diritti della difesa, dei principi di buon andamento e correttezza dell’azione amministrativa e del giusto procedimento, difetto assoluto di motivazione, violazione degli artt. 14 e 14 ter l. 287\1990, erroneo rigetto degli impegni;

- illegittimità ed iniquità della sanzione, violazione degli artt. 15 e 31 l. 287 cit., 3 e 11 l. 689\1981, 3 e 27 Cost., 49 Cffue e dei criteri di quantificazione delle sanzioni antitrust fissate dai punti 7 ss. delle linee guida dell’autorità e del punto 37 degli orientamenti della Commissione Ue per il calcolo delle ammende, violazione dei principi di proporzionalità e non discriminazione, contraddittorietà e difetto di motivazione.

L’Autorità appellata si costituiva in giudizio e, controdeducendo punto per punto, chiedeva il rigetto dell’appello.

La società Orsa si costituiva in giudizio e, in relazione all’ultimo motivo di gravame nella parte concernente la riduzione della sanzione applicata a proprio carico, chiedeva la declaratoria di inammissibilità ed il rigetto del gravame.

Alla pubblica udienza del 15\2\2018, in vista della quale le parti depositavano memorie, la causa passava in decisione.

DIRITTO

1. La presente controversia ha ad oggetto il provvedimento con cui l’Autorità odierna appellata ha sanzionato la società appellante al pagamento di una sanzione pecuniaria pari a 7.184.755 euro per aver riscontrato la sussistenza di una violazione dell'art. 101 TFUE, diffidando altresì a non porre in essere futuri comportamenti analoghi a quelli oggetto dell'infrazione. Il provvedimento è stato adottato anche nei confronti della società odierna appellata Orsa, rispetto alla quale peraltro veniva applicata una riduzione del 75% della relativa sanzione.

2. Preliminarmente, occorre svolgere un inquadramento relativo al quadro giurisprudenziale comunitario e nazionale formatosi in materia di intese restrittive della concorrenza vietate dal diritto antitrust, al fine di delibare in merito ai vizi dedotti avverso una procedura, quale quella conclusa con il provvedimento impugnato, che dall’analisi della documentazione versata ina tti appare accompagnata da una adeguata istruttoria e da un complesso probatorio non frequente in ambito di antitrust.

2.1 Come noto, l’intesa restrittiva (vietata dall’art. 101, paragrafo 1, TFUE al fine di evitare che tra le imprese interessate abbiano luogo contatti con lo scopo di eliminare in anticipo ogni incertezza relativa al futuro comportamento dei concorrenti) può realizzarsi sia mediante un ‘accordo’ – che, in materia antitrust, non si esaurisce nell’istituto civilistico del contratto, ma comprende anche le fattispecie che, senza poter essere qualificate ‘contratti’, non si risolvono neanche in mere ‘pratiche’, sia pure concordate, ma si presentano come manifestazioni di volontà impegnative (sul piano sociale, e non necessariamente anche sul piano giuridico) di due o più soggetti, nelle quali resta irrilevante la forma, così come non rileva che l’accordo sia stato concluso, o meno, da soggetti muniti di potere di rappresentanza delle imprese partecipanti (cfr. ad es. Corte Giust. UE, 7 febbraio 2013, C-68/12;
Trib. I° grado CE, 24 ottobre 1991, T-1/89), essendo sufficiente che esponenti aziendali abbiano, di fatto, impegnato le rispettive imprese all’attuazione dell’intesa –, sia mediante una ‘pratica concordata’.

Sempre in via generale va ricordato che l'art. 2 della legge 287 cit. punisce le intese restrittive della concorrenza, frutto dell'incontro di più volontà. È quindi sufficiente la violazione del precetto secondo cui - ferma la libertà di scelta da parte delle imprese, incluso il diritto a reagire in maniera intelligente al comportamento, constatato o atteso dei concorrenti - è sempre vietato ogni contatto, diretto o indiretto, tra gli operatori che abbia per oggetto o per effetto di influenzare il comportamento sul mercato di un concorrente o di informare tale concorrente sulla condotta che l'impresa stessa ha deciso di porre in atto. Ciò che risulta vietata è, quindi, l'iniziativa che, volta a «concordare» tramite accordi espressi, pratiche concordate, o deliberazioni di associazioni di imprese ed altri organismi similari le linee di azione delle singole imprese, anche in funzione dell'eliminazione di incertezze sul reciproco comportamento, finisce con il sostituire all'alea della concorrenza il vantaggio della concertazione, così erodendo i benefici che in favore dei consumatori derivano dal normale uso della leva concorrenziale. Per la sussistenza dell'illecito, è sufficiente la presenza dell'oggetto anticoncorrenziale, non anche necessariamente dell'effetto (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 12 ottobre 2017 n. 4733).

2.2 Sempre in linea generale è stata approfondita (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI 04 settembre 2015 n. 4123) la distinzione fra accordi e pratiche concordate: mentre la fattispecie dell'accordo tra imprese ricorre qualora le imprese abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un determinato modo, la pratica concordata, invece, corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere spinta fino all'attuazione di un vero e proprio accordo, costituisce, in modo consapevole, un'espressa collaborazione fra le stesse per sottrarsi ai rischi della concorrenza.

Nel caso di specie emerge prima facie dalla contestazione e dalle relative produzioni che oggetto della contestazione è un vero e proprio accordo, la cui formalizzazione è emersa in termini evidenti sulla base dell’acquisizione di numerosa documentazione attestante la conclusione di accordi formali, lo scambio di informazioni rilevanti sul mercato di riferimento e la rispettiva attività di impresa, fino alla condivisione di informazione sulla clientela a fini di spartizione della stessa.

2.3 Sempre in via generale, vanno richiamati i principali orientamenti in merito al delicato ambito probatorio della dimostrazione dell’accordo o della pratica contestata.

Dalla connotazione comportamentale e non formalistica della nozione di «intesa» deriva che la sussistenza dell'accordo anticoncorrenziale non richieda la prova documentale (o altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali), atteso che la volontà convergente delle imprese volta alla restrizione della concorrenza può essere idoneamente provata attraverso qualsiasi congruo mezzo

Ordinariamente, considerata la rarità dell'acquisizione della prova piena (c.d. «smoking gun», come testo dell'intesa, documentazione inequivoca, confessione dei protagonisti), e della conseguente vanificazione pratica delle finalità perseguite dalla normativa antitrust che scaturirebbe da un atteggiamento troppo rigoroso, si ritiene sufficiente e necessaria in questa materia l'emersione di indizi, purché seri, precisi e concordanti, circa l'intervento di forme illecite di concertazione e di coordinamento. Il fatto che non sia rintracciabile, da parte dell'investigatore, un accordo espresso, è ben comprensibile, ove si consideri che gli operatori del mercato, qualora intendano porre in essere una pratica anticoncorrenziale, ed essendo consapevoli della sua illiceità, tenteranno con ogni mezzo di celarla, evitando accordi scritti, e anche accordi verbali espressi, e ricorrendo invece a segnali reciproci volti ad addivenire ad una concertazione di fatto. Dal che la conclusione che la prova della pratica concordata, oltre che documentale, può essere indiziaria, purché gli indizi siano seri, precisi e concordanti. E la circostanza che la prova sia indiretta (o indiziaria) non comporta necessariamente che la stessa sia meno forte (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 11 luglio 2016 n. 3047).

Invero, anche su tale versante la fattispecie in esame appare caratterizzata da una peculiare evidenza della prova, avente natura documentale e tale da poter qualificare alcuni elementi, fra i numerosi acquisiti e citati dall’Autorità, in termini di “pistola fumante”, a fronte dell’emergenza di specifici accordi, comprensivi di diretti scambi di informazioni e di comunicazioni riguardanti la clientela tali da evidenziarne l’accordo di spartizione, come ad esempio emerge dall’espressa rinuncia a formulare proposte di vendita a clienti in quanto considerati assegnati all’impresa concorrente.

Sempre in termini di evidenza probatoria, nel caso de quo è emersa la prova di incontri e riunioni fra le imprese concorrenti, estese anche oltre le mere occasioni associative, all’esito delle quali risultano formalizzati accordi anticoncorrenziali nonché l’adozione di comportamenti conseguenti. In tale ottica va ricordato che, secondo la giurisprudenza della sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 18 maggio 2015 n. 2513), per quanto riguarda gli accordi di natura anticoncorrenziale che si manifestano nel corso di riunioni di imprese concorrenti, un'infrazione all'art. 81, n. 1, CE è integrata allorché tali riunioni hanno l'oggetto di limitare, impedire o falsare il gioco della concorrenza e mirano, in tal modo, ad organizzare artificialmente il funzionamento del mercato. In un caso del genere, è sufficiente che la Commissione dimostri che l'impresa interessata ha partecipato a riunioni nel corso delle quali sono stati conclusi accordi di natura anticoncorrenziale per provare la partecipazione della detta impresa all'intesa.

Qualora, come nel caso di specie, sia stata dimostrata la partecipazione a riunioni di questo tipo, incombe all'impresa dedurre indizi atti a provare che la sua partecipazione alle dette riunioni era priva di qualunque spirito anticoncorrenziale, comprovando che essa aveva dichiarato alle sue concorrenti di partecipare alle riunioni in un'ottica diversa dalla loro.

2.4 Inoltre, sempre in termini di inquadramento, una volta che risulti acquisita la prova degli accordi e dei comportamenti contrari al corretto esplicarsi della concorrenza, occorre verificare la consistenza dell’intesa. In proposito la giurisprudenza europea (cfr. ad es. Corte giustizia UE sez. II 13 dicembre 2012 n. 226) ha ricordato come, in generale, le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri possano applicare le disposizioni del diritto nazionale che vietano le intese ad un accordo tra imprese che sia idoneo a pregiudicare il commercio tra Stati membri, ai sensi dell'art. 101 cit., soltanto se tale accordo costituisce una restrizione sensibile della concorrenza nel mercato interno.

L'esistenza di una restrizione siffatta deve essere valutata con riferimento al contesto concreto nel quale si colloca l'accordo in questione;
a tal fine, occorre far riferimento al tenore delle disposizioni di tale accordo, agli obiettivi da esso perseguiti, nonché al contesto economico e giuridico in cui esso si colloca. Va presa altresì in considerazione la natura dei beni o dei servizi coinvolti e le condizioni reali del funzionamento e della struttura del mercato in questione

Nel caso in esame invero emergono tutti gli elementi appena ricordati, concernenti sia la sussistenza degli accordi che il contesto specifico e dettagliato del mercato di riferimento, sia economico che giuridico, coinvolgendo i diversi produttori del medesimo mercato, relativo ad uno specifico bene oggetto di concorrente commercializzazione.

Invero, per quanto qui interessa, la circostanza che la costituzione di imprese e lo scambio di informazioni e la spartizione di clienti costituiscano negozi giuridici tipizzati, non esclude la loro contrarietà al diritto antitrust, allorché risulti che la concreta funzione socio-economica dell’affare sia illecita in quanto volta a contrassegnare un assetto contrario a norme imperative, essendo molteplici istituti civilistici ‘neutri’ sotto profili antitrust e dovendo essere verificato in concreto il loro utilizzo a fini anticoncorrenziali: ciò che rileva a fini antitrust, infatti, non è la legittimità o meno di una specifica condotta, ma la portata anticoncorrenziale di una serie di atti, in tesi anche in sé legittimi (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 giugno 2016, n. 2947 e 15 maggio 2015, n. 2479).

A conferma della gravità della fattispecie in esame va altresì ricordato, in termini di inquadramento, che le intese finalizzate alla ripartizione dei mercati hanno un oggetto restrittivo della concorrenza in sé e appartengono a una categoria di accordi espressamente vietati dall’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, poiché un siffatto oggetto non può essere giustificato mediante un’analisi del contesto economico e giuridico in cui si inscrive la condotta anticoncorrenziale di cui trattasi (Corte Giust. UE, 19 dicembre 2013, cause riunite C-239/11 P, C 489/11 P e C 498/11 P).

2.5 Infine, in relazione all’ambito e ai limiti del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Autorità antitrust, nella giurisprudenza nazionale (v., per tutte, Corte Cass., Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013) è stato puntualizzato che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’AGCM comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento: ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità – come ad esempio nel caso della definizione di mercato rilevante –, detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini.

In termini conseguenti la giurisprudenza, anche della sezione, ha avuto modo di ribadire che il giudice amministrativo, in relazione ai provvedimenti dell’AGCM, esercita un sindacato di legittimità che non si estende al merito, salvo per quanto attiene al profilo sanzionatorio: pertanto deve valutare i fatti, onde acclarare se la ricostruzione di essi operata dall’Autorità risulti immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate, mentre, laddove residuino margini di opinabilità in relazione ai concetti indeterminati, il giudice amministrativo non può comunque sostituirsi all’AGCM nella definizione di tali concetti, se questa sia attendibile secondo la scienza economica e immune da vizi di travisamento dei fatti, da vizi logici e da vizi di violazione di legge (in tal senso , ex plurimis , Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 giugno 2016, n. 2947 e 13 giugno 2014, n. 3032;
peraltro, tali principi giurisprudenziali sono stati di recente recepiti dal legislatore con il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, in G.U. n. 15 del 19 gennaio 2017, entrata in vigore il 3 febbraio 2017 – inapplicabile ratione temporis in via diretta al presente processo –, il cui art. 7, comma 1, per quanto qui interessa, testualmente recita: « […] Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima […]»). Orbene nel caso di specie il giudice di prime cure risulta essersi mosso nell’ambito dei principi appena richiamati.

3. Sulla scorta di tale inquadramento generale, è possibile procedere all’esame dei motivi di appello.

3.1 Con il primo ordine di rilievi, parte appellante lamenta l’omessa pronuncia ed il difetto assoluto di motivazione della sentenza appellata in quanto il Tar non avrebbe risposto alle doglianze della società ricorrente (non rispondendo ai motivi II e IV), limitandosi (in generale e sui restanti motivi) ad una complessiva e sommaria valutazione priva di correlazione ai motivi di ricorso.

La censura appare infondata a fronte della sussistenza, nell’ambito della pronuncia appellata, di argomenti che, seppure in maniera sintetica e non del tutto organica e consequenziale rispetto all’ordine delle censure, hanno affrontato tutti i rilievi dedotti. In ogni caso avendo parte appellante riproposto le censure nella presente sede, occorre procedere al relativo esame. Al riguardo, va ribadito il principio a mente del quale nel processo amministrativo di primo grado l'omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, definendo nel merito la causa (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. IV 20 marzo 2017 n. 1230).

3.2 Con il secondo ordine di censure parte appellante muove una serie di rilievi con cui contesta l’erronea individuazione del mercato rilevante, sotto i profili geografici e merceologici e sulla determinazione della quota di mercato di Olmo.

In tema di mercato rilevante va in linea generale ricordato che, nelle ipotesi di intese restrittive della concorrenza, la relativa definizione è direttamente correlata al contesto in cui si inquadra il comportamento collusivo tra le imprese coinvolte: diversamente dai casi di concentrazioni e di accertamenti della posizione dominante, in cui la definizione del mercato rilevante è presupposto dell’illecito, la definizione del mercato rilevante è successiva rispetto all'individuazione dell'intesa poiché l'ampiezza e l'oggetto dell'intesa medesima circoscrivono il mercato (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 21 giugno 2017 n. 3016 e 2 luglio 2015 n. 3291).

In tale contesto deve anche essere inquadrato l’ambito di sindacabilità della relativa valutazione. in proposito la sezione (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI 14 ottobre 2016 n. 4266 e 11 luglio 2016 n. 3047) ha già avuto modo di evidenziare che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità odierna appellata comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità, come appunto nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza, nel qual caso il sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità.

In definitiva, quindi, l'individuazione del mercato rilevante, nel caso di intesa restrittiva della concorrenza vietata dall'art. 2, in questione è funzionale alla delimitazione dell'ambito nel quale l'intesa stessa può restringere o falsare il meccanismo concorrenziale, e la relativa estensione e definizione spetta all'Autorità nella singola fattispecie, all'esito di una valutazione non censurabile nel merito da parte del giudice amministrativo, se non per vizi di illogicità estrinseca.

Più in dettaglio, la definizione di mercato rilevante non è connotata in senso meramente geografico o spaziale, ma è relativa anche e soprattutto all'ambito nel quale l'intento anticoncorrenziale ha, o avrebbe, capacità di incidere e attitudine allo stravolgimento della corretta dinamica concorrenziale, sicché, nelle ipotesi di intese restrittive della concorrenza, la definizione del mercato rilevante è direttamente correlata al contesto in cui si inquadra il comportamento collusivo tra le imprese coinvolte. Infatti, in tali ipotesi l'individuazione e la definizione del mercato rilevante è successiva rispetto all'individuazione dell'intesa nei suoi elementi oggettivi, in quanto sono l'ampiezza e l'oggetto dell'intesa a circoscrivere il mercato su cui l'abuso è commesso (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 04 novembre 2014 n. 5423).

Alla luce di tali consolidati principi le deduzioni di parte appellante sul punto appaiono prive dell’invocato rilievo ed infondate.

Nella prima direzione, infatti, il carattere funzionale predetto e le relative conseguenze, anche in tema di individuazione successiva e di limiti di sindacato, escludono in radice la sostenibilità del tentativo di mutare (ovviamente in senso ampliativo, al fine di ridurre le imputate quote di mercato) l’ambito di coinvolgimento, sia con riferimento alla produzione, estendendo a fasi successive (al prodotto lavorato), sia in relazione alla commercializzazione, estendendo il raggio di vendita fino ai mille km dallo stabilimento e quindi a tutte le regioni.

Nella seconda direzione, se per un verso la ricostruzione del mercato rilevante effettuata nel provvedimento impugnato appare frutto di una adeguata ed approfondita istruttoria (non a caso neppure in concreto censurata) nonché del tutto logica e coerente negli esiti, per un altro verso il tentativo di estensione di parte appellante appare una forzatura, sia in termini merceologici (non evidenziando l’omogeneità fra prodotti che sono indubbiamente diversi, specie a fronte della palese diversità della lavorazione rispetto al mercato preso in esame dall’autorità), sia in termini geografici (stante l’assenza di calcoli analoghi a quelli dettagliati posti a fondamento del raggio di sostenibilità del trasporto entro gli 800 km).

In definitiva, anche a voler superare il carattere non funzionale predetto e la rilevanza successiva del mercato rilevante, nel caso di specie le critiche alle conclusioni raggiunte dall’Autorità appaiono del tutto infondate: il poliuretano grezzo, oggetto del mercato in contestazione, viene correttamente individuato come un prodotto diverso da quello lavorato, anche per la logica considerazione che la lavorazione impone uno specifico e distinto processo produttivo, che richiede personale e strumentazione diversa ed adeguata, in relazione al quale è stata dimostrata l’esistenza di una domanda distinta (cfr. ad es. doc nn. 7 e 11 del fascicolo di primo gradi di parte odierna appellata);
il raggio di azione considerato dà rilievo al mercato nazionale del prodotto, in termini coerenti con i dati raccolti anche in merito alla limitata rilevanza del mercato estero (cfr. ad es. doc n. 6 ss. del fascicolo di primo grado di parte appellata).

3.3 Con il terzo ordine di rilievi parte appellante contesta il provvedimento impugnato e la sentenza appellata con riferimento al presunto scambio di informazioni rilevanti fra le due imprese coinvolte.

In linea di fatto, la fattispecie in esame si caratterizza (come già evidenziato in sede di inquadramento) per una non comune produzione di documentazione attestante il legame fra le due società, sia in termini conclusione di un accordo a monte cui consegue lo scambio di informazioni rilevanti, sia in termini di conseguente aggiornamento ed utilizzo delle stesse informazioni.

In linea di diritto, se in astratto già il mero scambio di informazioni ancorché non correlato ad altra pratica anticoncorrenziale può costituire un'autonoma infrazione antitrust (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 08 febbraio 2008 n. 422), la relativa rilevanza è stata più volte evidenziata anche dalla giurisprudenza della sezione (cfr. in specie Consiglio di Stato sez. VI 29 dicembre 2010 n. 9565).

In linea generale, la concentrazione oligopolistica del mercato rilevante non è necessaria per ravvisare il carattere pregiudizievole dello scambio di informazioni tra competitori, dato che la concentrazione più o meno accentuata del mercato di riferimento ha una diretta interferenza sul fronte dell'efficacia anticoncorrenziale dello scambio informativo di dati sensibili. In un mercato oligopolistico, lo scambio di informazioni su dati sensibili tra i pochi offerenti è considerato un illecito in sé, a differenza di ciò che accade in un mercato meno concentrato

Pertanto, in tema di pratica concordata avente ad oggetto uno scambio di informazioni rilevanti, non si giunge a richiedere che essa abbia prodotto in concreto effetti restrittivi, ma è sufficiente che abbia l'attitudine a produrne. Essa, inoltre, costituisce una fattispecie di illecito a forma libera, nel senso che, ai fini dell'integrazione dell'intesa vietata, non è richiesta una particolare modalità di condotta, dato che la pratica concordata e il sotteso animus concertativo può essere desunta anche dal comportamento omogeneo e convergente tenuto, uti singuli , dagli operatori economici concorrenti. In proposito, la pratica concordata avente ad oggetto uno scambio di informazioni rilevanti integra una fattispecie di pericolo, nel senso che, ai fini dell'integrazione della fattispecie vietata, il vulnus al libero gioco della concorrenza può essere di natura soltanto potenziale e non deve necessariamente essersi già consumato.

Nel caso di specie la contestazione e la connessa prova appare aver raggiunto un connotato di ulteriore gravità, non a caso logicamente sanzionato con la ulteriore qualifica specifica di molto grave, in quanto l’accertato scambio di informazioni è risultato essere stato seguito dall’utilizzo a fini anticoncorrenziali delle stesse.

In dettaglio, assume rilievo preminente anche la pluralità di ambiti interessati dallo scambio di informazioni nonché la dimostrazione dei meccanismi che hanno consentito tale ampio ed approfondito scambio.

Nella prima direzione, emergono sia il fondamentale ambito dei dati sugli acquisti (effettuati tramite la comune centrale di acquisto) che quelli concernenti la quantità e qualità dell’offerta, i prezzi ed i clienti.

In definitiva, tutti gli ambiti di rilevanza per l’attività di impresa coinvolta appaiono essere stati oggetto di scambio ed informazione reciproca.

In merito all’effettiva dimostrazione dell’avvenuto scambio, oltre all’individuazione dei luoghi di scambio, emergono elementi documentali diretti, come ad esempio il listino prezzi (doc 14 n. 52 del fascicolo di primo grado di parte appellata) che evidenzia lo scambio diretto di informazioni dei prodotti da ciascuna comprati dalla società Nir e dei relativi prezzi.

Altrettanto evidente è la prova relativa allo scambio di informazioni sui clienti, cui pare conseguire in termini concreti la relativa spartizione (cfr. ad es. lo scambio di comunicazioni di posta elettronica fra agenti e responsabili commerciali, indicate nel provvedimento ed allegate agli atti di causa).

Nella seconda direzione, oltre a quanto appena richiamato, emerge evidente la condivisione del personale dirigente e la prova degli incontri. Al riguardo, assume rilievo preminente la coincidenza delle persone che rivestivano la qualifica di amministratori dell’impresa comune di acquisto Storm ed i rappresentanti legali e membri del consiglio di amministrazione di Olmo ed Orsa.

3.4 Con il quarto ordine di rilievi parte appellante contesta le conclusioni del provvedimento impugnato in primo grado in merito al presunto andamento parallelo dei prezzi.

Anche tale prospettazione appare infondata.

Preliminarmente, va ricordato quanto già evidenziato in sede ricostruttiva, cioè come per la sussistenza dell'illecito sia sufficiente la presenza dell'oggetto anticoncorrenziale, non anche necessariamente dell'effetto;
inoltre, le deduzioni in tema di prezzi, in quanto fondate su una diversa lettura di merito dei dati, si scontrano con la sussistenza di una adeguata ed approfondita istruttoria svolta dall’Autorità, rispetto alla quale da parte appellata non viene fornito alcun elemento concreto tale da evidenziare un travisamento dei fatti ovvero una manifesta illogicità delle valutazioni e delle relative conclusioni, così come riportate nel provvedimento conclusivo.

Nel caso di specie la dimostrazione della sussistenza dell’intesa vietata emerge dalle prove documentali che hanno evidenziato la presenza di accordi e scambi di informazioni fondamentali nonché dalla conseguente ripartizione della clientela.

La connessa analisi svolta in merito all’andamento dei prezzi costituisce conferma a valle della sussistenza dell’intesa, attraverso una adeguata istruttoria consistita nell’acquisizione dei dati (rispetto ai quali nessuna concreta contestazione viene mossa, risultando le deduzioni relative all’ambito della valutazione di merito dei dati stessi, in termini estranei al sindacato predetto) e nella conseguente valutazione (che risulta scevra da vizi di manifesta illogicità, contraddittorietà o violazione di regole economiche).

Anche scendendo all’esame del dettaglio dell’andamento dei prezzi, emerge con evidenza quanto posto a base del provvedimento e della sentenza appellata;
risulta infatti un andamento simile e costante dei relativi prezzi, senza la prevedibile variazione in concomitanza con il periodo caratterizzato dall’abbattimento del costo della materia prima nel periodo che va da fine 2008 a metà del 2009.

Privo di rilievo appare il richiamo ad un precedente della sezione (sent n. 4123\2015), avente ad oggetto il ben diverso dato del ricavo medio unitario per passeggero, secondo un’analisi coerente al mercato di riferimento di quella fattispecie (trasposto marittimo passeggeri) rispetto al settore in questione. Piuttosto, nel caso de quo è provato l’andamento del tutto simile dei prezzi formulati dalle imprese in questione, in termini contraddittori anche rispetto all’andamento dei costi del mercato e superiori rispetto agli altri concorrenti, oltre che coerenti rispetto all’intesa illecita contestata.

3.5 Con il quinto ordine di rilievi, parte appellante contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo.

L’infondatezza della censura emerge prima facie dall’applicazione dei principi da tempo consolidati nella giurisprudenza (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 8 novembre 2001 n. 5733 e 30 agosto 2002 n. 4362), secondo cui nella pratica concordata l'esistenza dell'elemento soggettivo, volontaristico della concertazione può essere desunta con procedimenti logico-probatori in via indiziaria da elementi oggettivi, quali la durata e l'uniformità dei comportamenti aziendali, l'esistenza di incontri fra imprenditori e l'adozione di strategie imprenditoriali comuni, le informative reciproche anche mediante segnali anticoncorrenziali ed il successo di condotte di mercato conseguibile soltanto previa concertazione fra imprese. Nella presente fattispecie risultano provati tutti gli elementi appena indicati.

Se in linea generale, pertanto, nel procedimento antitrust, ai fini della dimostrazione dell'elemento soggettivo è sufficiente la consapevolezza da parte dell'impresa della rilevanza anticoncorrenziale del comportamento tenuto, nel caso di specie la stipula di specifici accordi, lo scambio di informazioni e la ripartizione predeterminata dei clienti escludono in radice la dimostrazione della mancanza della stessa consapevolezza.

In materia va ribadito che a fondare il giudizio di “intenzionalità” di un'infrazione alle norme del Trattato sulla concorrenza è sufficiente la constatazione che la società non potesse ignorare che il suo comportamento aveva come scopo la restrizione della concorrenza, senza che sia anche richiesta la sicura consapevolezza di trasgredire le norme indicate (Consiglio di Stato sez. VI 20 aprile 2011 n. 2438 e le decisioni ivi richiamate, Corte Giust. CE, 8 novembre 1983, cause riunite da 96/82 a 102/82, 104/82, 105/82, 108/82 e 110/82, IAZ, punto 45;
Trib. Ce, 6 aprile 1995, causa T-141/89, Trefileurope, punto 176, e 14 maggio 1998, causa T-310/94, Gruber + Weber, punto 259;
12-7-2001, British Sugar cit. punto 127).

Nel caso in esame, assumono rilievo dirimente sia la ricostruzione del mercato rilevante e delle relative quote, la prova di accordi incontri e scambi di informazioni. Al riguardo, come opportunamente valorizzato dal giudice di primo grado, la documentazione acquisita nel corso del procedimento condotto dall’Autorità attesta la piena consapevolezza dei vertici aziendali (oltretutto in parte coincidenti, secondo uno schema tanto noto quanto evidente in termini di prova dell’intesa) in ordine agli effetti anticoncorrenziali della strategia relativa alle intese sugli acquisti delle materie prime e sulla ripartizione della clientela.

3.6 Con il sesto ordine di rilievi parte appellante contesta lo svolgimento della procedura con particolare riferimento all’erroneo rigetto degli impegni.

In linea generale, la lamentata non perfetta coincidenza fra la contestazione iniziale ed il contenuto del provvedimento finale, appare fisiologica rispetto alla ratio della stessa esistenza di un procedimento amministrativo in cui è garantito il contraddittorio;
è quindi pienamente coerente al potere correttamente esercitato che il definitivo accertamento dell’illecito e della sanziona avvenga all’esito dell’istruttoria procedimentale, in cui l’acquisizione dei dati rilevanti della fattispecie potranno portare ad un esito non del tutto coincidente con quello ipotizzato in sede di avvio.

E nel caso di specie è avvenuto proprio questo: nell’atto n. 24856 del 3 aprile 2014 recante l’avvio dell’istruttoria l’Autorità aveva ipotizzato l’esistenza di un coordinamento tra le società Olmo, Orsafoam, Vefer, Pelma e Sitab “volto a limitare il confronto concorrenziale attraverso la definizione concertata dei prezzi di vendita e la ripartizione della clientela”. La comunicazione di avvio era quindi coerente ai consolidati principi, sia generali sia specifici del procedimento antitrust, secondo cui nel dettaglio l’estensione dell’accertamento non potrà che definirsi nel corso dell’istruttoria e con il fondamentale apporto partecipativo delle imprese.

Nel caso di specie, l’Autorità nella comunicazione del 3 aprile 2014 aveva individuato da subito una fattispecie di grave illecito anticoncorrenziale attraverso un coordinamento orizzontale illecito tra più imprese volto alla “ripartizione della clientela” e realizzatosi anche attraverso “scambi di informazioni”;
all’esito dell’istruttoria la contestazione risulta, oltre che adeguata e coerente agli elementi acquisiti anche in contraddittorio, oggetto di adeguamento soggettivo (nel senso che l’intesa accertata ha riguardato solo due delle cinque imprese inizialmente considerate) ed oggettivo (nel senso della precisazione delle modalità).

Per ciò che concerne poi lo specifico versante degli impegni, va premesso che nel caso di specie, contrariamente ai precedenti richiamati da parte appellante e dal relativo inquadramento, il rigetto in contestazione ha avuto ad oggetto la richiesta (peraltro tardiva, rispetto ad un termine che, seppur ordinatorio, risulta fissato ex lege e nel caso di specie è stato superato) di proroga in vista di una futura (ed eventuale) presentazione di ulteriori impegni.

Nel merito poi la valutazione negativa svolta dall’Autorità odierna appellata, oltre che priva di elementi di illogicità e di travisamento dei fatti, risulta pienamente corrispondente agli elementi della fattispecie di illecito accertati, in piena coerenza con i principi affermati anche dalla giurisprudenza della sezione in materia.

A quest’ultimo proposito va ricordato che la presentazione di impegni e la loro accettazione non integrano una sorta di accordo bilaterale tra impresa e autorità, ma introducono nell’ambito di un procedimento antitrust una fase costituita dalla valutazione degli impegni. Quest’ultima è rimessa all’Autorità e, lungi dal configurare un accordo tra le parti, integra, piuttosto, un provvedimento unilaterale, che valuta positivamente e rende giuridicamente efficace un atto endoprocedimentale di parte.

Di conseguenza, l’Autorità conserva inalterato il proprio potere di valutazione, ma nell’ambito di tale potere deve limitarsi ad accettare gli impegni e chiudere l’istruttoria o non accettarli e dare seguito al procedimento. Tale alternativa, quindi, non include anche la possibilità di intervenire per modificare gli impegni proposti dalle parti;
in quanto tale facoltà non è prevista dal legislatore ed è incompatibile con la natura dell’istituto (Consiglio di Stato sez. VI 19 novembre 2009 n. 7307). Nel caso di specie la valutazione svolta, nei limiti di sindacato ammessi nel presente giudizio, appare del tutto coerente alla fattispecie di illecito in contestazione nonché alla consistenza degli impegni assunti (in specie rispetto anche alla parte relativa all’istanza di proroga del termine, senza indicazione di alcun impegno concreto).

Come già evidenziato in altri precedenti, allorché la stessa Autorità ritenga di dovere irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria in considerazione della natura e dell'entità dell'intesa, correttamente può respingere gli impegni, senza che sia tenuta ad osservare ulteriori obblighi motivazionali. Detto altrimenti, l'accettazione degli impegni è sconsigliata nei casi di intese che appaiano, al momento in cui va assunta la decisione di rilevante gravità (cc.dd. violazioni hard core ). È quanto verificatosi nel caso di specie laddove l'Autorità ha rimarcato che l'intesa in esame si configura quale intesa orizzontale riguardante restrizioni di estrema gravità della concorrenza.

In relazione al termine, anche laddove non si ritenesse di applicare l’orientamento prevalente più rigoroso in termini di natura del termine (Consiglio di Stato sez. VI 09 agosto 2011 n. 4737 secondo cui “la perentorietà del termine di presentazione degli impegni ben si inquadra con la funzione deflattiva dell'istituto, in quanto anche la funzione lato sensu premiale dell'istituto - che si accompagna a quella deflattiva - appare coerente con la previsione di un termine perentorio, stimolando il destinatario dell'istruttoria dell'Autorità, laddove possa preconizzare un esito a sè sfavorevole del procedimento, a presentare tempestivamente gli impegni idonei a rimuovere gli effetti della propria condotta, inibendo la prosecuzione dell'istruttoria), valgono le considerazioni sopra svolte in merito alla natura e consistenza della richiesta di proroga ed alla valutazione logica e coerente di rigetto della stessa nei termini correttamente formulati dall’Autorità.

3.7 Con il settimo ed ultimo ordine di rilievi, parte appellate contesta sotto diversi profili l’illegittimità e l’iniquità della sanzione, sia in relazione alla gravità, sia alla congruità rispetto all’incidenza ed alla riduzione accordata ad Orsa, nonché alla mancata valutazione delle misure adottate in termini di attenuante.

Preliminarmente, va respinta l’eccezione di inammissibilità, formulata sul punto dalla difesa della società controinteressata Orsa;
infatti, sul punto parte appellante fa valere la contestata riduzione in favore di Orsa non in sé – in relazione alla quale non avrebbe interesse - ma in quanto tertium comparationis rispetto alla sanzione subita, in termini quindi di illegittimità di quest’ultima.

Peraltro la censura è infondata nel merito.

Se in ordine alla accertata particolare gravità dell’intesa valgono le considerazioni sopra svolte, sia in sede di inquadramento che di analisi delle singole censure, in merito alla congruità dell’importo rispetto ai profili dedotti va ricordato quanto segue,

L’art. 15 l. 287 cit. prevede, come noto, che nei casi «di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione» si applica «una sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida».

Le linee guida dell’Autorità, ai fini del calcolo della sanzione, prevedono quanto segue:

- «affinché la sanzione abbia un’effettiva efficacia deterrente, è almeno necessario che essa non sia inferiore ai vantaggi che l’impresa si attende di ricavare dalla violazione»;
«tali vantaggi, dipendendo dalla tipologia di infrazione posta in essere, sono funzione del valore complessivo delle vendite interessate dalla condotta illecita»;
«per questa ragione, l’Autorità ritiene che le sanzioni applicabili agli illeciti antitrust debbano essere calcolate a partire dal valore delle vendite dei beni o servizi oggetto, direttamente o indirettamente, dell’infrazione, realizzate dall’impresa nel mercato/i rilevante/i nell’ultimo anno intero di partecipazione alla stessa infrazione (di seguito, valore delle vendite) » (par. 8);

- «la percentuale da applicarsi al valore delle vendite cui l’infrazione si riferisce sarà determinata in funzione del grado di gravità della violazione. Tale percentuale non sarà superiore al 30% del valore delle vendite» (par. 11);

- «nel valutare la gravità della violazione, l’Autorità terrà conto in primo luogo della natura dell’infrazione»;
«l’Autorità ritiene che le intese orizzontali segrete di fissazione dei prezzi, di ripartizione dei mercati e di limitazione della produzione costituiscano le più gravi restrizioni della concorrenza»;
«al riguardo, l’eventuale segretezza della pratica illecita ha una diretta relazione con la probabilità di scoperta della stessa e, pertanto, con la sanzione attesa» (part. 12);

- per le infrazioni da ultimo indicate «la percentuale del valore delle vendite considerata sarà di regola non inferiore al 15%» (par. 12, ult. cpv).

Le stesse linee guida dispongono che quando l’importo finale della sanzione superi il massimo edittale del 10 per cento del fatturato «esso è ridotto nella misura eccedente tale limite»;
in questi casi la base di calcolo del massimo edittale è rappresentata dal «fatturato totale realizzato a livello mondiale nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, da parte di ciascuna impresa partecipante all’infrazione» (par. 29).

Alla luce di quanto esposto risulta che le linee guida hanno previsto che, nell’applicazione delle sanzioni pecuniarie, da un lato, non occorre superare il limite massimo del 10% del fatturato in attuazione di quanto prescritto dall’art. 15 della legge n. 287 del 1990, dall’altro, il limite minimo del 15% del valore delle vendite.

Le due prescrizioni hanno una portata differente e rispondono a finalità diverse.

Il limite massimo del 10% persegue una finalità di garanzia per l’impresa e ha ad “oggetto” il fatturato globale. Il limite minimo del 15% persegue una finalità punitiva per l’impresa e ha ad “oggetto” il valore delle vendite relativi all’intesa illecita. Tale normativa, quando vengono in rilievo imprese multiprodotto, implica, in relazione alla parte di attività oggetto dell’intesa illecita, l’applicazione del limite minimo del 15% che, spostato sull’intero fatturato, non deve comunque superare il 10%. Nel caso di imprese monoprodotto l’applicazione del minimo edittale del 15% implica l’applicazione sempre del massimo edittale del 10%.

Come già evidenziato in recenti precedenti della sezione (cfr. ad es. sez. VI 21 dicembre 2017 n. 5998), tale conseguenza non può però ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza e proporzionalità con discriminazioni non consentite rispetto alle imprese multiprodotto. Il Collegio ritiene, infatti, che la diversità delle fattispecie giustifica una applicazione diversa alle due tipologie di imprese che può condurre ad una modulazione di effetti per le imprese multiprodotto ed una applicazione rigida per le imprese monoprodotto. La stessa Corte di Giustizia UE ha avuto modo di affermare che è legittimo applicare, per le restrizioni più gravi, come quelle in esame , «un tasso di almeno il 15% del valore delle vendite, che costituisce il minimo del “valore più alto”, di cui al punto 23 degli orientamenti del 2006, per tale tipo d’infrazione» (Corte di Giustizia UE, sentenza del 27 aprile 2017, causa C-469/15 ).

Fermo quanto esposto su un piano generale, nella specifica fattispecie all’esame del Collegio

l’Autorità risulta aver fatto corretto uso dei parametri di riferimento per l’individuazione della sanzione, per cui dall’analisi della documentazione versata in atti risulta confermata la valutazione generale svolta dalla sentenza appellata sul punto (paragrafo 30).

In particolare, dopo aver individuato l’importo iniziale per il calcolo delle sanzioni, prendendo come riferimento il valore delle vendite dei beni interessati dall’infrazione per il 2014 (c.d. fatturato specifico) ha moltiplicato tale importo per una percentuale che riflette la gravità dell’infrazione. Quindi, nel rilevare che l’illecito configurava un’infrazione molto grave dell’articolo

101 del TFUE, per la quale il punto 12 delle Linee guida prevede, come detto, una forbice del

15-30%, con motivazione adeguata (cfr. paragrafi 158 ss del provvedimento conclusivo) l’Autorità applicava nel caso di specie una percentuale del 15%. Gli importi risultanti da tale prima fase di calcolo venivano quindi moltiplicati per il periodo di durata dell’intesa, correttamente individuato nei termini altrettanto adeguatamente esplicati. Infine, in coerenza con la norma generale predetta di cui all’art. 15, comma 1, l. n. 287 cit., si teneva conto della soglia legale massima pari al 10% del fatturato relativo all’anno 2014.

All’esito dell’approfondita analisi svolta dall’Autorità emerge quindi anche la palese infondatezza della generica censura di violazione dell’art. 11 l. 689\1981, avendo la p.a. fatto corretta applicazione dei parametri di riferimento in relazione ai caratteri di gravità propri della fattispecie concreta.

Parimenti manifestamente infondata è la contestazione inerente la riduzione applicata all’impresa controinteressata, anche in termini di c.d. inability to pay e cioè la incapacità contributiva di cui all’art. 31 delle linee guida dell’Autorità (che riprendono il par. 35 degli Orientamenti della Commissione per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell'articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003).

Il par. 35 degli Orientamenti della Commissione, cit. prevede che «in circostanze eccezionali la Commissione può, a richiesta, tener conto della mancanza di capacità contributiva di un'impresa in un contesto sociale ed economico particolare. La Commissione non concederà alcuna riduzione di ammenda basata unicamente sulla constatazione di una situazione finanziaria sfavorevole o deficitaria. Una riduzione potrebbe essere concessa soltanto su presentazione di prove oggettive dalle quali risulti che l'imposizione di un'ammenda, alle condizioni fissate dai presenti orientamenti, pregiudicherebbe irrimediabilmente la redditività economica dell'impresa e priverebbe i suoi attivi di qualsiasi valore».

Il par. 31 delle linee guida dell’Autorità, nel regolare la cd. «Capacità contributiva», dispone che: i) l’Autorità considera le condizioni economiche dell’impresa responsabile dell’infrazione;
ii) su motivata e circostanziata istanza di parte avanzata entro il termine di chiusura della fase di acquisizione degli elementi probatori, l’Autorità può ridurre la sanzione per tener conto dell’effettiva limitata capacità contributiva della stessa;
iii) «l’impresa che intende avanzare tale istanza deve produrre evidenze complete, attendibili e oggettive da cui risulti che l’imposizione di una sanzione, determinata secondo quanto delineato nelle presenti linee guida, ne pregiudicherebbe irrimediabilmente la redditività economica, potendo pertanto determinarne l’uscita dal mercato»;
iv) «l’Autorità non prenderà in considerazione istanze basate unicamente su perdite di bilancio negli ultimi esercizi o di crisi generalizzata del settore interessato».

Alla luce di tale quadro regolatorio deve rilevarsi come sia corretta, nei limiti di ammissibilità della censura sopra evidenziati, l’applicazione dell’istituto all’impresa Orsa, in quanto basata su di una approfondita analisi della diversa situazione facente capo a tale società. Al riguardo, va evidenziato che, se in generale disparità di trattamento presuppone situazione uguale, nel caso de quo il provvedimento evidenzia la sussistenza di evidenti profili di differenza, tali da giustificare il diverso esito favorevole alla Orsa.

Parimenti infondata appare la contestata mancata applicazione dell’attenuante.

Preliminarmente, sul punto appare condivisibile la considerazione posta a base della sentenza appellata che ha reputato l’invocata attenuante come in ogni caso assorbita dalla riduzione disposta alla conclusione dell’iter di calcolo della sanzione, nel rispetto del limite edittale del 10%.

Nel merito vanno altresì richiamati alcuni principi, già evidenziati dalla sezione (cfr. ad es. sez. VI 12 ottobre 2017 n. 4733), nel senso che la mera interruzione del comportamento illecito successivamente all'avvio dell’attività istruttoria non costituisce di per sé una circostanza attenuante;
inoltre, la collaborazione nel corso del procedimento con l'Autorità per essere valutata come circostanza attenuante deve andare al di là di quanto richiesto dagli obblighi di legge e deve manifestarsi in maniera particolarmente efficace e nel caso de quo non risulta che la condotta della società appellante sia stata tale da rendere più agevole il compito di accertare l’infrazione o di inibirla;
nè (credo che la negazione, accentata, renda il senso della proposizione) risulta, che la società appellante abbia svolto un ruolo marginale nella partecipazione alla infrazione, tale da giustificare l’applicazione di circostanze attenuanti. Ciò che all’evidenza non è avvenuto nel caso di specie, in cui la società appellante è risultata la principale responsabile di una intesa di particolare rilevanza e gravità, oggetto di puntuale e documentale riscontro probatorio.

4. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è infondato e va quindi respinto.

Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

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