Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-06-04, n. 201402856

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-06-04, n. 201402856
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201402856
Data del deposito : 4 giugno 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 09354/2007 REG.RIC.

N. 02856/2014REG.PROV.COLL.

N. 09354/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9354 del 2007, proposto da:
B V (nella qualità di erede di B R), rappresentata e difesa dall'avv. A M, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;
B F (nella qualità di erede di B R), Arduini Nelli' (nella qualità di erede di B R);
Come mai B F e A N stanno a parte (se sono ricorrenti)?

contro

Provincia di Reggio Emilia, Regione Emilia-Romagna;
Comune di Casalgrande, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'avv. F Gualandi, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. dell’ EMILIA-ROMAGNA –Sede di BOLOGNA - SEZIONE I n. 01625/2007, resa tra le parti, concernente modificazione destinazione urbanistica di terreni – risarcimento del danno.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Casalgrande;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 maggio 2014 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Pafundi, per delega dell'Avv. Morello, e Pappalepore, per delega dell'Avv. Gualandi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata, il Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia Romagna - sede di Bologna - ha parzialmente accolto il ricorso di primo grado proposto dalla odierna parte appellante, volto ad ottenere l’annullamento della Variante Generale al PRG – Piano Regolatore Generale del Comune di Casalgrande, approvata con delibera della Giunta della Regione Emilia-Romagna n. 5351/120 in data 5.11.1986 ed adottata con delibera del Consiglio comunale di Casalgrande n. 69 del 19.4.83, nonché degli atti procedimentali, presupposti, inerenti e conseguenti e comunque connessi, quali le delibere consiliari di deduzioni alle osservazioni pervenute, i pareri del Comitato Consultivo Regionale, della Provincia di Reggio Emilia e dell’Amministrazione G.C. e Forestale, le delibere consiliari di controdeduzioni al parere del C.C.R. e gli atti tecnici (norme tecniche di attuazione, relazione illustrativa, tavole di azzonamento etc.).

La originaria parte ricorrente aveva altresì, proposto, successivamente, domanda risarcitoria.

In punto di fatto era accaduto che, in sede di approvazione della variante generale 1986 al PRG del Comune di Casalgrande, il lotto di pertinenza della parte qui appellante (ed ulteriori tre lotti di pertinenza di altri soggetti che parimenti avevano ricorso al T), facente parte di una lottizzazione (“Podere Saladino” o ex lottizzazione Valentini) approvata in base al PRG 1978, lotti, tutti, destinati a completamento residenziale, era stato classificato, in preteso accoglimento del parere 27 febbraio 1986, n. 19, del Comitato Consultivo Regionale, come “zona agricola a vincolo idrogeologico”.

Parte appellante – unica, unitamente agli altri tre soggetti che avevano proposto analoghi ed identici ricorsi di primo grado, compresa nella lottizzazione, a non avere ancora realizzato la previsione edificatoria – era insorta lamentando tra l’altro il difetto di motivazione della scelta posta in essere in violazione del loro legittimo affidamento sulla realizzazione della precedente destinazione e del conforme piano di lottizzazione (IV motivo e punto E del IX motivo del mezzo di primo grado).

Il T ha ricostruito l’iter procedimentale, rammentando che il Comune di Casalgrande, con la deliberazione consiliare n. 69 del 19 aprile 1983, aveva adottato la variante generale del Piano regolatore vigente al tempo, con la quale veniva avviato il procedimento di aggiornamento dei contenuti della pianificazione urbanistica per il territorio comunale;
successivamente all’avvio dell’iter procedimentale in questione, si era pronunciato il Comitato Consultivo Regionale, che, con il parere n. 19 del 27 febbraio 1986, aveva trasmesso alla Amministrazione comunale la propria analisi del progetto di variante al PRG, esprimendo parere favorevole, condizionato, tuttavia, al rispetto di riserve e rilievi puntualmente indicati.

In particolare, quanto alla lottizzazione di terreni nel Comune di Casalgrande identificati come “ex lottizzazione Valentini”, avevano assunto rilevanza specifica le prescrizioni poste dalla Regione circa la necessarietà di indagini geologiche e geotecniche, da compiersi in sede di approvazione dello strumento urbanistico generale e non al momento della successiva fase di attuazione dello stesso (come invece previsto dall’art. 20.8 delle NTA adottate).

Sul tema della idoneità geologica e geotecnica del sito prescelto per la “lottizzazione Valentini”, peraltro, si era già espresso, nella fase istruttoria di predisposizione della Variante Generale al P.R.G., il geologo incaricato dal Comune, dott. Luigi Zirotti, che, nelle conclusioni della propria perizia (datata 1 febbraio 1983), aveva rilevato molteplici aspetti di criticità connessi alle ipotesi edificatorie progettate (sottolineando tanto i differenti gradi di stabilità delle aree in esame, quanto le differenti capacità portanti di alcuni dei terreni ricompresi nella lottizzazione: nella perizia si era richiamata la necessità di compiere “una approfondita indagine geognostica” per valutare la possibilità di costruire sulle aree non edificate della lottizzazione, tra le quali vi erano tuttora quelle di proprietà della parte originaria ricorrente e degli altri tre soggetti che pure avevano presentato ricorso al T, “verificando volta per volta la stabilità del versante e prevedendo le opportune opere drenanti e di contenimento”).

Alla sopramenzionata prescrizione posta dal Comitato Consultivo Regionale, il Comune di Casalgrande aveva ottemperato, disponendo, in mancanza degli approfondimenti richiesti, lo stralcio dei lotti residenziali e la classificazione delle aree relative a zona “agricola a vincolo idrogeologico”.

La motivazione dello stralcio dell’area di parte appellante dalla precedente previsione di edificabilità era quindi genericamente individuabile nella esistenza di dubbi sulla stabilità dei terreni, e quindi sulla loro effettiva idoneità alla edificazione.

Così ricostruita in fatto la vicenda, il T ha, tuttavia, stigmatizzato tale modus procedendi.

Ha in proposito rilevato che:

.- la perizia del 1983 non aveva affatto escluso la utilizzabilità edificatoria dei terreni considerati, ma la aveva subordinata ad una previa “approfondita indagine geognostica”. da svolgersi “verificando volta per volta la stabilità del versante e prevedendo le opportune opere drenanti e di contenimento”, in relazione alle differenti capacità portanti e ai differenti gradi di stabilità delle aree;

.- il Comitato Consultivo Regionale, nel parere 27 febbraio 1986, n. 19, aveva, poi, ritenuto di dover anticipare tale indagine geologica al momento della approvazione dello strumento urbanistico generale, anziché rinviarla alle fasi attuative dello stesso, “al fine di definire” subito “se vi è compatibilità tra siti ed opere previste nel PRG”. Il Comune di Casalgrande – invece - aveva apoditticamente affermato la impossibilità di “fornire in questa sede ulteriori indagini geologiche e geotecniche per rispondere a quesiti che giustamente le norme tecniche di attuazione del PRG rinviano alla fase esecutiva degli interventi edificatori” (impugnata deliberazione di controdeduzioni 9 giugno 1986, n. 75).

Ne conseguiva una contraddizione insanabile: il Comune, in sede di adozione della variante, aveva ritenuto sufficiente a recepire le risultanze della perizia il rinvio alla fase attuativa del suggerito approfondimento geologico, mentre il C.C.R. aveva ravvisato la necessità di acquisirlo al procedimento di formazione della variante, per farne dipendere la destinazione da imprimere alle aree considerate.

Immotivatamente, e con evidente omissione di un ineludibile passaggio logico, il Comune aveva invece proseguito l’iter procedimentale, eliminando le aree stesse dalla previsione di edificabilità adottata, senza alcun ulteriore approfondimento - risultato non consequenziale alla premessa - di far dipendere la destinazione dei terreni dall’esito dell’indagine geologica.

Rispetto all’orientamento “adottato”, nel senso della destinazione edificatoria delle aree, e a quello espresso dall’organo consultivo, nel senso di imprimere tale destinazione solo subordinatamente all’esito della previa indagine geologica, risultava immotivata la decisione di stralciare tale previsione e di adottare in sua vece una destinazione agricola, che contraddiceva la previsione adottata, e non poteva nemmeno essere motivata per “relationem” al parere del CCR (che aveva soltanto preteso il previo accertamento della idoneità dei suoli).

Il Comune non aveva in alcun modo spiegato le ragioni della assunta impossibilità di “fornire in questa fase ulteriori indagini”: non era quindi comprensibile perché il Comune si fosse discostato sia dal suo orientamento (destinazione edificatoria), sia da quello emerso in sede regionale (destinazione compatibile con le risultanze di una previa indagine geologica).

Peraltro, doveva essere considerato che trattavasi di area contraddistinta dalla precedente approvazione di un piano di lottizzazione comprendente le aree di pertinenza della parte qui appellante (e di altri tre originari ricorrenti, parimenti appellanti avverso ulteriori tre sentenza del T identiche a quella in commento) già realizzato nelle altre: l’ affidamento sulla attuazione della precedente destinazione residenziale dei terreni era particolarmente qualificato da tale circostanza e pertanto sussisteva il lamentato difetto di motivazione.

Accolto quindi il mezzo nel merito, con assorbimento delle altre censure, il T ha vagliato – e respinto - il petitum risarcitorio (relativo al danno consistente nella differenza tra valore del suolo edificabile e valore agricolo).

Ciò in quanto dall’annullamento discendeva l’obbligo della riedizione del potere, ed il positivo riconoscimento della fondatezza del petitum avrebbe presupposto – almeno - un giudizio ragionevolmente probabilistico su una effettiva idoneità edificatoria dei suoli, che non poteva discendere dall’annullamento per difetto di motivazione dell’atto che aveva omesso di confermarla.

Il T ha peraltro precisato che sussistevano indici indiziari escludenti detto positivo giudizio probabilistico, in quanto, successivamente alla proposizione del ricorso, si erano verificati eventi dimostrativi della inidoneità geologica del sito:

-la conferma della destinazione agricola nella successiva variante generale approvata nel 2000 e non impugnata e l’osservazione dell’odierna appellante era stata disattesa;

-l’inclusione, ex art. 22 del PTCP provinciale 1997/99, nelle “Zone di tutela agronaturalistica” con indicazione nell’”Inventario del Dissesto” di ben tre piane attive;

-il verificarsi successivo di eventi franosi interessanti alcune vie adiacenti i lotti interessati, con frane, fessurazioni del manto stradale, cedimenti differenziali.

Detto petitum risarcitorio è stato, quindi, respinto.

L’ odierna parte appellante, già ricorrente rimasta parzialmente soccombente nel giudizio di prime cure, ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe, chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha in primo luogo ripercorso il contenzioso infraprocedimentale instaurato con il comune e sostenuto che la sentenza di primo grado era viziata, in quanto contraddittoria.

Quanto alle censure di merito, il diniego del riconoscimento del petitum risarcitorio era del tutto illegittimo: il T aveva annullato il diniego (così accogliendo il nono motivo del mezzo di primo grado) non soltanto per carenza di motivazione, ma anche per la intrinseca contraddittorietà ed illogicità della delibera gravata.

Risultava quindi inspiegabile la reiezione del petitum risarcitorio: il T aveva ritenuto che il depauperamento (consistente nella differenza tra valore del suolo edificabile e valore agricolo) non potesse ex se nascere dall’annullamento per difetto di motivazione. Senonché, laddove si consideri che il suolo per cui è causa era già edificabile, era evidente che il pregiudizio nasceva dal non avere rispettato la vocazione (edificatoria, appunto) del suolo predetto.

Non v’era quindi ragione alcuna per interrogarsi, per di più sotto il profilo probabilistico, sulla effettiva idoneità edificatoria del fondo.

Con la quarta censura, parte appellante ha partitamente contestato i tre elementi di giudizio che avevano indotto il T a ritenere insussistente la idoneità edificatoria del terreno.

Quanto alla omessa impugnazione della variante del 2000 (ma anche quanto al riferimento agli altri tre “elementi”, rispettivamente risalenti agli anni 1997/1999 e 2003 e 2007), laddove si consideri che il proposto gravame risaliva al 1986, era evidente che parte appellante, ove non fosse stato emesso l’atto annullato dal T, avrebbe avuto a disposizione un lasso temporale di (almeno) 11 anni per edificare: era del tutto illogico non fare da ciò discendere l’accoglimento del petitum risarcitorio.

In ogni caso nessuno dei detti tre elementi possedeva consistenza: quanto alla omessa impugnazione della variante del 2000, quest’ultima risultava soltanto adottata al momento in cui era stato proposto il petitum risarcitorio.

Una volta approvata, essa venne gravata dalla odierna parte appellante innanzi al T (ricorso n. 362/2001): in ogni caso tale evento non poteva incidere su una lesione verificatasi nel torno di tempo 1983/1986.

Quanto alla inclusione del fondo, ex art. 22 del PTCP provinciale 1997/99, nelle “Zone di tutela agronaturalistica” con indicazione nell’”Inventario del Dissesto” di ben tre piane attive, essa era ininfluente rispetto alla supposta in edificabilità, posto che l’art. 22 comma 9 del PTCP ammetteva la previsione di “nuove” zone D anche se classificate quali “Zone di tutela agronaturalistica”.

Quanto all’asserito “ verificarsi successivo di eventi franosi interessanti alcune vie adiacenti i lotti interessati, con frane, fessurazioni del manto stradale, cedimenti differenziali”, si trattava, in realtà di modesti movimenti del terreno “sistemati” dal Comune nel 2003 con una modestissima spesa: essi non potevano considerarsi ostativi alla possibilità di edificare.

Sussisteva anche la colpa dell’Amministrazione, pienamente provata;
e pertanto l’appello dovrebbe essere accolto previa disposizione, se ritenuta necessaria, di una Ctu per la quantificazione del danno subito.

L’amministrazione comunale ha depositato una memoria contenente un appello incidentale, chiedendo la reiezione dell’appello principale e la riforma della prima parte della gravata decisione, sostenendo che l’azione amministrativa spiegata era scevra da qualsivoglia illegittimità.

L’appellante principale ha poi depositato una memoria, chiedendo che l’appello incidentale venga dichiarato inammissibile perché tardivo, mentre il Comune ha chiesto che la detta eccezione venga dichiarata infondata.

Alla pubblica udienza del 20 maggio 2014 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.L’appello è infondato e va disatteso nei termini della motivazione che segue.

1.1.Ritiene il Collegio di esaminare in primo luogo, per pregiudizialità logica, il segmento relativo al proposto appello incidentale del Comune avverso il capo della sentenza che ha accertato la illegittimità dell’azione amministrativa.

Si ritiene a tale proposito superfluo interrogarsi sulla ritualità e tempestività dell’appello incidentale, in quanto lo stesso è palesemente infondato.

La contraddittorietà dell’azione amministrativa spiegata dal comune appare palese, sol che si consideri che, ipotizzata una destinazione edificatoria, ed emersa la necessità di ulteriori accertamenti, il Comune ebbe a disporre lo stralcio prescindendo dall’espletamento dei detti prescritti accertamenti.

Non è dubbio – ovviamente – che, a fronte di deliberazioni e valutazioni incidenti sulla edificabilità in concreto dell’area per problematiche di idoneità geologica, la cautela sia d’obbligo;
e che l’interesse del privato a lottizzare sia recessivo;
quest’ultimo non vanta altro “diritto” che quello alla correttezza del procedimento accertativo.

Ma questo è del tutto mancato, perché inopinatamente il Comune non procedette a disporre l’approfondimento che esso stesso, prima (vedasi nota del proprio geologo, pure richiamata nella memoria del Comune), ed il CCR, successivamente, avevano reputato necessario.

Tale modus procedendi è del tutto illegittimo, perché – non avendo sciolto il dubbio sulla attitudine dell’area – il Comune soprassedette all’accertamento e stralciò l’area, con ciò non rispettando il principio-cardine della pianificazione urbanistica per cui la destinazione di un’area dovrebbe rispettarne la vocazione, salvo l’emergere di profili ostativi.

Nel dubbio (agevolmente risolvibile, peraltro), il Comune optò per lo stralcio, in totale carenza istruttoria: nel merito, poi, che l’indagine de qua dovesse precedere e non già essere conseguente alla fase attuativa, è perfino scontato: né è dato vedere quali impedimenti in fatto od in diritto vi ostassero, se non una “comodità d’azione del Comune”, che, però, non può certo dequotare la ravvisata necessità di procedere ad accurate indagini in fase preliminare rispetto a quella attuativa

L’appello incidentale va senz’altro disatteso.

1.2. Accertata, quindi, la illegittimità dell’azione amministrativa spiegata e confermato, in parte qua, il primo caposaldo della gravata decisione, va rilevato, in via preliminare, che nessuna parte ha proposto alcuna doglianza con riferimento alla esatta individuazione del plesso dotato di giurisdizione e che quest’ultima è pertanto incontestabile in questa sede.

Va rilevato, altresì, dal Collegio che neppure può porsi alcun problema circa la procedibilità della domanda medesima, in convinta adesione al principio ancora di recente riaffermato (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 08-04-2008, n. 9040 602751) secondo il quale “la possibilità di agire per il risarcimento del danno ingiusto causato da atto amministrativo illegittimo senza la necessaria pregiudiziale impugnazione dell'atto lesivo, sussistente già prima che l'art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, concentrasse nella cognizione del giudice amministrativo la tutela demolitoria e quella risarcitoria, comporta che il termine di prescrizione dell'azione di risarcimento decorre dalla data dell'illecito e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento da parte del giudice amministrativo, non costituendo l'esistenza dell'atto amministrativo un impedimento all'esercizio dell'azione. Peraltro, la domanda di annullamento dell'atto proposta al giudice amministrativo prima della concentrazione davanti allo stesso anche della tutela risarcitoria, pur non costituendo il prodromo necessario per conseguire il risarcimento dei danni, dimostra la volontà della parte di reagire all'azione amministrativa reputata illegittima ed è idonea ad interrompere per tutta la durata di quel processo il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice ordinario, dovendosi al riguardo fare applicazione del principio, affermato da Corte cost. n. 77 del 2007, per cui la pluralità dei giudici ha la funzione di assicurare una più adeguata risposta alla domanda di giustizia e non può risolversi in una minore effettività o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale.

Ne consegue che l’eccezione avanzata dal Comune di prescrizione del petitum risarcitorio richiesto da parte odierna appellante va decisamente disattesa nel merito (e ciò, in disparte ogni considerazione sulla asserita “novità” e tardività della medesima, dedotta da parte appellante nella propria memoria di replica).

2. Ciò premesso, e venendo al merito della problematica sollevata nell’appello principale, ritiene il Collegio che esattamente è stata denegata dal T la richiesta tutela risarcitoria.

2.1.Armonicamente con le conclusioni raggiunte dalla recente giurisprudenza, (ex aliis, Cons. Stato Sez. IV n. 45/2014), si rappresenta che, “caduto”, a cagione dell’intervenuto annullamento giurisdizionale, un argomento reiettivo, bisogna accertare (ai soli fini risarcitori) se – secondo il criterio della prognosi postuma - ove non fosse stato frapposto l’ostacolo dichiarato giudizialmente illegittimo, il detto permesso di costruire sarebbe stato rilasciato o meno.

Id est: il nesso di causalità determinativo tra la motivazione della reiezione annullata in sede giurisdizionale ed il contestato diniego.

E ciò proprio in relazione alle difese articolate dal Comune;
e prescindendo in toto dall’andamento del contraddittorio procedimentale, al massimo rilevante per un giudizio di graduazione dell’ipotetica condotta colposa dell’amministrazione, ma certamente non rilevante ai fini della dimostrazione del nesso di causalità tra condotta ed evento.

Ciò che la parte privata non dimostra di avere inteso, infatti, è che l’accertamento della piena prova del pregiudizio risarcitorio subìto debba vertere proprio su tale profilo.

Secondo il metodo “sublata causa tollitur effectus”, si deve chiarire se non vi fossero altri motivi ostativi alla realizzazione dell’auspicato intervento edificatorio (nel caso di specie: su una la effettiva idoneità edificatoria dei suoli).

L’appellante contesta tale approdo, ipotizzando che di eventuali ulteriori motivi ostativi non si dovrebbe tenere alcun conto, in quanto non illo tempore esternati e tenuto conto della labilità degli indizi in contrario senso positivamente affermati dal T.

Così non è.

2.2.La tematica rende necessaria una breve disamina.

Va rilevato, infatti, che, sebbene sia preferibile ed auspicabile che le Amministrazioni, provvedendo sulle istanze del privato, esternino in prima battuta tutti i motivi asseritamente ostativi, la prassi di indicare soltanto il “principale” motivo reiettivo non è ex se preclusiva a che, nel prosieguo del procedimento ed anche a seguito di un eventuale annullamento giurisdizionale regiudicato attingente il provvedimento reiettivo, ne emergano (una volta soltanto, peraltro, per quel che di seguito si espliciterà) di ulteriori.

Allo stesso modo, ravvisata una illegittimità procedimentale sottesa alla reiezione, ciò non esclude che, in realtà, la reieizione medesima fosse, nella sostanza, esatta, e potesse essere ribadita (ovviamente emendata dal vizio procedimentale riscontrato).

Il principio generale è quindi quello, per cui, a seguito dell’adozione di una statuizione demolitoria (soprattutto ove incidente su un interesse c.d. “pretensivo”, volto, cioè, al rilascio di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato), la potestà di provvedere viene restituita nuovamente all’ Amministrazione perché essa si ridetermini.

Come è noto e come lucidamente affermato da qualificata dottrina, il principio di continuità dell’azione amministrativa e la tendenziale “inesauribilità” del potere esercitato comporterebbe, in teoria, che l’Amministrazione possa (e debba) riprovvedere in relazione alla “res” attinta da un giudicato annullatorio.

E soprattutto comporterebbe che ciò possa avvenire un numero non predeterminato di volte (sulla “inesauribilità” del potere, vedasi: Cons. Stato Sez. VI, 23-11-2011, n. 6162: “nonostante l'art. 15, comma 2, della legge n. 241 del 1990 non menzioni in modo espresso il comma 4 dell'art. 11 - in tema di esercizio del potere di recesso da parte della P.A. dagli accordi - fra le disposizioni applicabili anche agli accordi fra amministrazioni pubbliche di cui all'art. 15, nondimeno è da ritenersi che la effettiva sussistenza di tale potere di recesso emerga quale corollario del principio di inesauribilità del potere pubblico, che caratterizza l'esercizio delle pubbliche funzioni. Il provvedimento che sia espressione di un tale potere di recesso va adeguatamente motivato, tenendo conto delle circostanze avvenute e delle esigenze di spesa, e se del caso anche della illegittimità della originaria determinazione, ma comunque valutando gli interessi pubblici - e privat i- sui quali si va ad incidere.”).

In via di principio, quindi, nulla osterebbe a che, rideterminandosi, l’Amministrazione fosse libera di porre a sostegno del proprio convincimento elementi “nuovi” non oggetto della propria antecedente delibazione vulnerata dal giudicato e, per tal via, riconfermasse il contenuto dispositivo annullato.

E’ ben ovvio, tuttavia, che, potendo, in teoria, l’Amministrazione pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del “nuovo” provvedimento fatti “nuovi” (in quanto non precedentemente esaminati), verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa delle decisioni del G.A..

Ogni controversia sarebbe destinata, in potenza, a non concludersi mai, con un definitivo accertamento sulla spettanza – o meno - del “bene della vita”.

Tuttavia – hanno rilevato la giurisprudenza e la dottrina - occorre che la controversia fra l'Amministrazione e l'amministrato trovi ad un certo punto una soluzione definitiva;
e dunque occorre impedire che l'Amministrazione proceda più volte all'emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli all’originario ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato.

Interrogandosi su come conciliare dette –opposte – esigenze, rappresentate dalla garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e dalla portata cogente del giudicato, il punto di equilibrio è stato individuato in via empirica dalla giurisprudenza imponendo all'Amministrazione - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo - di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per sempre, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili prima non esaminati.

Questo principio costituisce jus receptum in giurisprudenza (tra le tante, si veda Consiglio di Stato Sez. VI, 09-02-2010, n. 633;
per completezza espositiva e rigore logico si segnala Consiglio di Stato sez. V, 06-02-1999, n. 134, laddove, intervenendosi sul tema del difetto di motivazione e del giudicato, ha ritenuto che, una volta passata in giudicato la sentenza di annullamento di un diniego di concessione edilizia, non è ammesso il ricorso per l’esecuzione del giudicato se l’amministrazione abbia rinnovato il diniego sulla base di diversa motivazione, affermando, comunque, che “è onere dell’amministrazione, dopo il giudicato, esaminare la pratica nella sua interezza, con la conseguenza che, una volta rinnovato il diniego, non può più assumere ulteriori provvedimenti sfavorevoli per profili non ancora esaminati.”).

Esso appare equo contemperamento (o quantomeno il migliore che sia stato sinora individuato) tra esigenze all’apparenza inconciliabili: la “forza”della res iudicata e la stessa funzione ed utilità di quest’ultima, la continuità del potere amministrativo ex art. 97 della Costituzione ed il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 della Costituzione medesima.

Pertanto, se la prima rieffusione del potere è tendenzialmente “libera”, le eventuali ulteriori valutazioni che seguano ad un giudicato demolitorio non possono giovarsi di materiale cognitivo prima non esaminato, né fondarsi su motivazione “diversa”.

Nell’ ordinamento italiano, quindi, per costante elaborazione pretoria, non trova riconoscimento la teoria c.d. del "one shot" (viceversa ammessa in altri ordinamenti).

Detta regola prevede che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato.

Nel sistema italiano il principio è stato “temperato”, accordandosi all’Amministrazione due chances: si è, infatti, costantemente affermato che l'annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale, che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo, non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l'amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza.( ex multis,T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 23-04-2009, n. 4071).

Alla stregua dei sopramenzionati principi, appare evidente che, laddove l’appellante avesse nuovamente ripresentato la istanza a seguito del giudicato intervenuto, non sarebbe stato impedito all’Amministrazione (per l’ultima volta, per quanto si è fin qui posto in luce) motivare sulla inaccoglibilità della medesima a cagione di circostanze ostative non dedotte nel “primo” provvedimento reiettivo annullato e/o successivamente o coevamente emerse (tutt’altro discorso, è ovviamente, accertare la fondatezza o meno di tali asseriti “nuovi” argomenti reiettivi).

2.4. Se così è, però, si rivela fallace l’argomento dell’appellante (che, per circostanze sopravvenute, come è noto, non ha ripresentato la detta seconda istanza, identica alla prima, e successiva al giudicato formatosi), secondo cui tali asseriti “nuovi argomenti reiettivi” non potrebbero essere delibati in sede di attribuzione della tutela risarcitoria.

2.5. Il danno risarcibile, infatti, postula un pregiudizio patrimoniale e, a date condizioni, anche non patrimoniale: esso può sussistere, laddove si accerti che il bene della vita sarebbe certamente spettato a parte appellante. Eventualmente accertata la non spettanza, esso va escluso.

2.6. Non si nega che il principio possa non essere assoluto e risentire della eventuale interferenza di problematiche nascenti dalla articolazione di eventuali elementi ostativi in sede di “primo” processo.

Ciò che si vuol dire, a tale proposito, è che potrebbe accadere che in sede di accertamento della illegittimità del diniego, fossero stati veicolati ulteriori elementi ostativi, dichiarati però inammissibili, irricevibili, etc (si immagini, nel caso di specie, un eventuale ricorso incidentale, proposto da un controinteressato e fondato sulla inidoneità geologica del sito, dichiarato inammissibile).

In una simile ipotesi, dato che il principio processuale della formazione del giudicato che copre dedotto e deducibile preclude la riproposizione di questioni dichiarate inammissibili, potrebbe argomentarsi in ordine alla non delibabilità di questioni identiche a quelle dedotte e dichiarate inammissibili, in sede di vaglio del petitum risarcitorio.

Nulla di tutto ciò, però, è accaduto nel caso di specie, laddove il petitum demolitorio e quello risarcitorio successivamente proposto sono stati esaminati congiuntamente, e dove le circostanze ostative alla elargizione del risarcimento sono state introdotte tempestivamente dal Comune in sede di vaglio della detta domanda ex art. 2043 cc.

Insomma l’articolazione della doglianza non può essere accolta.

3. I motivi di censura proposti da parte appellante non paiono avere meditato tali circostanze, e si incentrano su elementi, in parte, inconferenti e, in parte, addirittura poco comprensibili, mentre soltanto in minor misura (che sarà comunque partitamente analizzata) si dedicano a censurare gli elementi centrali della motivazione reiettiva.

3.1. Al fine di sgombrare il campo da censure manifestamente pretestuose od inaccoglibili, appare utile, in via assolutamente preliminare, precisare alcuni convincimenti.

3.2. Appare al Collegio irrilevante, se non inutile, interrogarsi in ordine alla struttura motivazionale della sentenza, sulle eventuali affermazioni contraddittorie in essa contenute, e sulla “causale” della statuizione demolitoria.

La sentenza di prime cure, all’evidenza, ha annullato le determinazioni amministrative gravate, avendo ritenuto che lo stralcio dei lotti residenziali e la classificazione delle aree relative a zona “agricola a vincolo idrogeologico” risultassero frutto di un modus procedendi errato.

Si rammenterà, infatti, che il Comune, in sede di adozione della variante, aveva ritenuto sufficiente a recepire le risultanze della perizia il rinvio alla fase attuativa del suggerito approfondimento geologico, mentre il C.C.R. aveva, invece, ravvisato la necessità di acquisirlo al procedimento di formazione della variante, per farne dipendere la destinazione da imprimere alle aree considerate. Insomma, era stato richiesto/suggerito/imposto un supplemento di istruttoria sul punto. Fraintendendo detta “indicazione”;
in contrasto con quanto prima ipotizzato;
e, in sostanza, procedendo “ultra petita”, l’Amministrazione aveva proseguito l’iter procedimentale, eliminando le aree stesse dalla previsione di edificabilità adottata, senza alcun ulteriore approfondimento.

Il proprium dell’annullamento quindi, è sostanzialmente triplice:

a) omessa conformazione rispetto alla indicazione di disporre ulteriore istruttoria;

b) immotivato stralcio delle aree: ma non in sé e per sé, ma proprio a cagione che esso era stato disposto in carenza della detta istruttoria, ed apparendo il detto stralcio soltanto una delle possibili opzioni praticabili, condizionata, peraltro, alla eventuale emergenza di risultante che ciò consigliassero/imponessero;

c) contrasto con la precedente destinazione ipotizzata.

Di tale triplice motivazione, ovviamente, quella centrale è quella descritta sub a) e b), perché, ove fosse stata disposta la necessaria istruttoria, quale che fosse stato l’esito di quest’ultima (purché “legittimo”, in quanto fondato su dati scientifici inoppugnabili ed incontestati), il Comune si sarebbe dovuto conformare a quest’ultima;
il che avrebbe determinato, alternativamente:

.- che, se l’esito fosse stato negativo per le aspirazioni parte appellante, nessuna contraddittorietà con la precedente destinazione edificabile sarebbe stata riscontrabile (in quanto la nuova valutazione, fondata su un supplemento di istruttoria, che avrebbe consentito l’acquisizione di dati “nuovi” e più approfonditi, non sarebbe stata “raffrontabile” alla prima);

.- che, in ipotesi opposta, ovviamente, si sarebbe dovuta “confermare” la precedente valutazione di edificabilità, confortata da tale supplemento istruttorio.

3.3. Il T non ha mai affermato, né avrebbe potuto affermare, che l’area fosse – o meno - edificabile: ha solo rilevato che il Comune aveva escluso l’edificabilità, ma immotivatamente (nel senso già precisato, id est: in carenza della doverosa istruttoria).

3.4. Così perimetrato il contenuto del decisum e dato atto che una non irrilevante particolarità della controversia riposa nella circostanza che la causa è stata scrutinata a distanza di un rilevante lasso temporale rispetto alla proposizione del ricorso, ritiene in primo luogo il Collegio la inaccoglibilità (se non la inconferenza) delle prime due censure.

3.5. Con la prima di esse (punto n. 2), di ordine “metodologico”, parte appellante si duole della circostanza che il T abbia incentrato la propria analisi sul dato relativo alla edificabilità “in concreto” dell’area in questione (seppur sotto un criterio probabilistico), muovendo dal concetto per cui il depauperamento dovesse discendere nella differenza tra suolo edificabile ed agricolo: secondo parte appellante, invece, si sarebbe dovuta valutare la circostanza che il fondo in esame aveva già natura edificabile, per come ritenuto dallo stesso Comune, e tener conto del fatto che la parte privata aveva prodotto una perizia tecnico geologica dimostrativa che, alla data del 18.10.1993, l’area era idonea alla edificazione.

3.5.1. Senza indulgere in ripetizioni, l’infondatezza della doglianza si percepisce appieno, sol che si consideri che, se è vero che l’area in precedenza era considerata edificabile, è altresì vero che l’incombente istruttorio omesso dal Comune era proprio finalizzato a verificare se sussistesse/permanesse l’idoneità ad edificare.

Accertata quest’ultima in senso negativo, naturalmente il fondo non avrebbe potuto mantenere detta destinazione: ed è ovvio che sarebbe stato carente il presupposto stesso di una responsabilità risarcitoria, perché sarebbe mancato l’eventus damni.

Appare evidente, quindi, che il T abbia correttamente indagato in ordine alla sussistenza di detto presupposto;
ed altrettanto corretto appare (ma le ragioni di quest’ultima affermazione verranno chiarite nel capo 4 della presente decisione) che non sia stata ritenuta all’uopo probante la perizia di parte risalente al 1993.

3.5.2. Non miglior sorte merita la seconda sfaccettatura della detta censura (punto n. 3), con la quale si “denuncia” che la edificabilità sarebbe stata, in realtà, ammessa anche dal Comune con la nota assessorile 13.11.1993 (che, secondo l’appellante, assumerebbe anche natura confessoria della “colpa” dell’Amministrazione ex art. 2043 cc, la quale si era impegnata alla presentazione di una variante al PRg per ripristinare la natura edificabile del sito).

Si ripete, infatti, che da detto comportamento “ondivago” del Comune (indubbiamente sussistente e per questo stigmatizzato dal T, che ha correttamente annullato gli atti gravati, con statuizione confermata da questo Collegio laddove ha prima respinto l’appello incidentale proposto dallo stesso Comune) non potesse trarsi, in assenza dell’omesso approfondimento istruttorio, alcun serio e definitivo convincimento sulla idoneità edificatoria del fondo.

La prova in tal senso non può certo riposare nel soggettivo convincimento del Comune (immotivato, come era stato immotivata la contraria condotta di stralciare l’area sic et simpliciter).

4. Vanno adesso esaminate le ulteriori doglianze proposte da parte appellante in via subordinata, che, invece, assumono, per quanto si è prima detto, un rilievo centrale nell’economia della controversia.

4.1. La prima di esse riveste, anche in questo caso, natura “metodologica”;
la seconda macrocensura investe in concreto i tre elementi che sono stati dal T assunti a sostegno del proprio convincimento circa la insussistenza di elementi probabilistici atti ad affermare che l’area era in concreto idonea per la edificazione.

4.2. Quanto alla prima, ritiene il Collegio che, seppur abilmente formulata, essa meriti convinta reiezione.

La stessa si fonda sul dato (certamente innegabile) che la causa è stata decisa a distanza di un rilevante lasso temporale rispetto alla proposizione del ricorso.

Il ragionamento su cui è incentrata la doglianza è il seguente: posto che la domanda fu proposta nel 1987 e che gli “elementi ostativi” ravvisati dal T emergono e si concretano in un periodo di gran lunga successivo (1997/1999, 2000, 2003, 2007), il T non poteva prenderli in considerazione.

E comunque avrebbe dovuto tenere conto del fatto che, nel tempo intercorso tra la proposizione del mezzo di primo grado (1987) ed il verificarsi (o l’emergere) del primo in ordine temporale degli “elementi ostativi” ravvisati dal T, erano trascorsi circa 11 anni, per cui l’appellante, in detto arco temporale, avrebbe ben potuto definire il proprio programma costruttivo.

4.2.1. Osserva il Collegio, in contrario senso, quanto segue. Vi sono ben tre elementi che si oppongono all’accoglimento della detta obiezione logica.

In primo luogo il petitum risarcitorio fu proposto soltanto nel 2000 (all’evidenza in coincidenza temporale con la “svolta giurisprudenziale di cui alle sentenze gemelle delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 550/1999 e 501/1999 recepita dal Legislatore ex lege m. 205/2000);
a detta data gli elementi valutativi tenuti in considerazione dal T si erano già verificati, per cui appare perfettamente logico che se ne potesse tenere conto.

Secondariamente – e più radicalmente - se anche il petitum risarcitorio fosse stato proposto nel 1987, non è dato comprendere perché il T non avrebbe potuto tenere in considerazione detti elementi visto che essi erano noti al momento in cui la causa venne decisa.

In termini più ampi: l’attribuzione della tutela risarcitoria non avviene sulla base di una “gara” tra le parti incentrata su quale sia il soggetto processuale più “bravo” a dimostrare la propria tesi.

Dovrebbe svolgersi sulla base di una valutazione oggettiva, tesa ad accertare, in primis, se “danno” vi sia stato.

Nel valutare un simile elemento, il Giudice può utilizzare ogni elemento probatorio, anche atipico, e pure sopravvenuto e/o conosciuto successivamente: con il limite della irrefragabilità del giudicato formatosi.

Ne discende che (per contestualizzare detti principi, facendo un esempio che ben può attagliarsi alla presente vicenda processuale) è ad esempio ben possibile che ove Tizio intenda edificare su un area e riceva un diniego inesattamente od insufficientemente motivato con esigenze ambientali, archeologiche, etc, questi potrà chiedere tutela risarcitoria. Eventualmente ottenutala con sentenza passata in giudicato, la successiva scoperta di una antica necropoli sull’area non potrà intaccare il giudicato formatosi, ma, semmai, potrà soltanto consentire che l’Amministrazione gli inibisca l’attività edificatoria, ove medio tempore non realizzata.

Allo stesso modo, però, se la causa non sia stata ancora definita con sentenza passata in giudicato, sarebbe incongruo che il Giudice non potesse prendere in considerazione detto elemento, per affermare che, seppur “scorrettamente motivata” la scelta di denegare l’edificazione era “oggettivamente” corretta e che, quindi, non spettava all’istante la richiesta tutela risarcitoria.

Ciò è proprio quel che si è verificato nel caso di specie (dove, per giunta, il sostanziale diniego era stato annullato soltanto per vizi afferenti l’omesso svolgimento di un incombente istruttorio necessario, come si è visto), per cui la doglianza incentrata sulla “non valutabilità, in quanto successivi temporalmente”, degli elementi considerati dal T, appare, senza tema di smentite, inaccoglibile.

4.3. Meritano invece più articolate valutazioni le partite obiezioni che l’appellante pone ai singoli elementi utilizzati dal T in chiave probabilistica per disattendere la domanda risarcitoria.

4.3.1. Quanto al primo di essi (poggiante sulla conferma della destinazione agricola nella successiva variante generale approvata nel 2000 e non impugnata, mentre l’osservazione dell’odierna appellante era stata disattesa), coglie nel segno l’obiezione di parte appellante.

In disparte la circostanza che essa ha dimostrato di avere gravato la variante al momento della definitiva approvazione e che, pertanto, la considerazione del T attribuita a tale elemento è fallace in punto di fatto, nessuna considerazione circa la obiettiva edificabilità del fondo poteva ricavarsi dalla scelta soggettiva della parte di non impugnare l’atto programmatorio sopravvenuto.

Le conseguenze di quest’ultimo riposavano – unicamente - nella impossibilità per l’appellante di chiedere tutela risarcitoria per l’epoca successiva alla “nuova” destinazione agricola impressavi con il”nuovo” atto programmatorio: ma ove fosse stata pienamente dimostrata la vocazione edificatoria del fondo, l’atto programmatorio superveniens non poteva certo essere valutato in senso contrario;
ed in ciò la considerazione che parte appellante non l’avesse gravato non poteva assumere alcun rilievo.

Tale profilo dell’appello – non dirimente, però - appare condivisibile, per cui la motivazione va in parte qua corretta.

4.4. Quanto agli ulteriori elementi, invece (che possono essere congiuntamente esaminati), evidenzia il Collegio che essi si fondano sulla inclusione dell’area, ex art. 22 del PTCP provinciale 1997/99, nelle “Zone di tutela agronaturalistica”, con indicazione, nell’”Inventario del Dissesto”, di ben tre piane attive, nonché sul verificarsi successivo di eventi franosi interessanti alcune vie adiacenti i lotti interessati, con frane, fessurazioni del manto stradale, cedimenti differenziali.

4.5. Le radicali contestazioni mosse da parte appellante a detti elementi non persuadono il Collegio.

Ivi viene svalutata la portata di dette due emergenze processuali (delle quali, ovviamente, quella maggiormente importante è la seconda elencata);
ma le affermazioni di parte appellante appaiono apodittiche.

4.6. Il dato probante dal quale occorre muovere è quello per cui effettivamente, nell’area, è incontestabile si siano verificati movimenti franosi, come già colto dal T in riferimento alle asserzioni del Comune, rimaste – è bene evidenziarlo - incontestate nel corso del giudizio di primo grado. La seconda considerazione che occorre svolgere è quella per cui, operando in materia il principio di cautela e prevenzione, che deve necessariamente accompagnare le valutazioni di un Ente pubblico, controvertere in ordine alla portata ed ampiezza del movimento franoso riscontrato è del tutto non condivisibile.

Ciò per elementari ragioni di protezione della collettività, e per altrettanto chiare motivazioni facenti capo alle possibili responsabilità gravanti sull’Ente pubblico (Cass. pen. Sez. IV, 11-03-2010, n. 16761: “nel caso di eventi o calamità naturali che si sviluppino progressivamente, il giudizio di prevedibilità dell'evento dannoso - necessario perché possa ritenersi integrato l'elemento soggettivo del reato sia nel caso di colpa generica che in quello di colpa specifica - va compiuto non solo tenendo conto della natura e delle dimensioni di eventi analoghi storicamente già verificatisi, ma valutando, anche sulla base di leggi scientifiche, la possibilità che questi eventi si presentino in futuro con dimensioni e caratteristiche più gravi o addirittura catastrofiche. In mancanza di leggi scientifiche che consentano di conoscere preventivamente lo sviluppo di eventi naturali calamitosi, l'accertamento della prevedibilità dell'evento va compiuto in relazione alla verifica della concreta possibilità che un evento dannoso possa verificarsi e non secondo criteri di elevata credibilità razionale - che riguardano esclusivamente l'accertamento della causalità-.”. fattispecie in tema di responsabilità di un Sindaco per omicidio colposo plurimo, verificatosi a causa di un disastro naturale in zona qualificata dalla protezione civile ad "alto rischio" di frane e valanghe;, detta verifica non può certo fondarsi nella maggiore o minore ampiezza e gravità del possibile evento dannoso -nel caso di specie movimento franoso).

Si rammenta in proposito che, per costante e condivisibile giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. Sez. III, 29-04-1996, n. 3939), “la responsabilità della p.a. per il risarcimento dei danni cagionati da una condotta omissiva sussiste non soltanto nel caso in qui questa si concretizzi nella violazione di una specifica norma istitutiva dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza, di cui è espressione l'art. 2043 c.c.”. In quella specie, sancendo il principio di cui alla riportata massima, la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di merito in cui si condannava la p.a. al risarcimento dei danni prodotti a dei privati da un evento franoso a causa della mancata verifica della concreta edificabilità dei terreni prima dell'approvazione della lottizzazione.

Alla stregua di tali dati, ove gli eventi franosi verificatisi fossero stati già noti al Comune al momento della emissione del provvedimento gravato, sarebbe stata ben censurabile una ipotetica condotta di questi sfociata nella emissione di un provvedimento ampliativo, in quanto distonica rispetto ai detti canoni prudenziali.

A fortiori, si deve ritenere che la sola circostanza che l’area sia stata in effetti interessata da movimenti franosi (e per le chiarite ragioni non appare né utile né condivisibile soffermarsi, ad oggi sulla consistenza degli stessi e sulla asserita “modestia”del fenomeno franoso riscontrato, circostanza, questa, peraltro, che potrebbe essere malauguratamente anche smentita in futuro) elide del tutto qualsiasi pretesa risarcitoria: bene ha fatto, in senso oggettivo, l’Amministrazione a non accordare l’ambìto atto ampliativo. E, seppur ex post, il diniego si legittima e giustifica a cagione del sopravvenuto accadimento;
sicché può affermarsi che, avuto riguardo alla natura dell’area ed alla condizione geologica della stessa l’appellante non poteva legittimamente aspirare al bene della vita.

La insussistenza di tale condizione (seppur probatoriamente acquisita attraverso un evento verificatosi ex post, rispetto alla adozione dell’atto ed alla proposizione dell’azione demolitoria) elide, sotto il profilo oggettivo, la ravvisabilità di un danno risarcibile (il “danno”, semmai, vi sarebbe stato laddove superficialmente la parte appellante fosse stata autorizzata a costruire un manufatto in area franosa) ed implica la reiezione del mezzo.

Il sopravvenuto fatto, insomma, comprovante in negativo, escludendola, la spettanza del bene della vita, è valutabile dal Giudice in chiave reiettiva della domanda ex art. 2043 cc, anche se successivo alla proposizione del petitum risarcitorio: a fortiori se lo precede temporalmente (come avvenuto nel caso di specie).

5. Conclusivamente, alla stregua di tali, assorbenti, considerazioni, l’appello principale va disatteso e parimenti va respinto l’appello incidentale, con conseguente conferma dell’appellata decisione con le integrazioni motivazioni in precedenza rese, mentre – alla stregua delle valutazioni prima riportate, certamente di natura assorbente - tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

6. La natura e particolarità della controversia legittimano la compensazione integrale tra le parti delle spese di giudizio sostenute.

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