Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-03-10, n. 202302529

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-03-10, n. 202302529
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202302529
Data del deposito : 10 marzo 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 10/03/2023

N. 02529/2023REG.PROV.COLL.

N. 05128/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5128 del 2017, proposto da
L F, rappresentato e difeso dall'avvocato R M, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Monte delle Gioie 24;

contro

Comune di Arcole, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati S G e R R, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato S G in Roma, via di Monte Fiore 22;

nei confronti

C C, D D C e N M, non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 121/2017, resa tra le parti, per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Arcole 26 luglio 2005 prot. n. 10641, che ha ingiunto al ricorrente di demolire, in quanto abusive, le opere realizzate in località Volpino, via Crosara, su area distinta al catasto al foglio 3 mappali 334, 336, 338 e 355, ex 100, e consistenti in baracche con pareti in struttura plastificata e tetto metallico;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Arcole;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2023 il Cons. Thomas Mathà e uditi per le parti gli avvocati R M e Renzo Cuonzo in sostituzione dell'avvocato R R;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Oggetto di questo contenzioso di secondo grado è un manufatto realizzato senza previo titolo edilizio nel Comune di Arcole, che le odierne parti appellanti descrivono “ una struttura di modeste dimensioni in legno ad uso pollaio ”. Le opere per le quali si litiga risultano essere state realizzate dal Signor L F, proprietario del rispettivo terreno, sito nel Comune di Arcole, località Volpino, via Crosara (censito nel catasto al foglio 3, mappale 100, successivamente frazionato nei mappali 334-336-338-355).

2. Il Comune di Arcole, a seguito di un sopralluogo della Polizia Municipale e del tecnico comunale, ha accertato l’esecuzione di opere abusive di “ baracche con pareti in struttura plastificata e tetto metallico ” e ha pertanto adottato l’ordinanza di ripristino prot. n. 10641 del 26.7.2005, ai sensi dell’articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001.

3. Il provvedimento è stato impugnato innanzi al TAR per il Veneto affidando il ricorso ai seguenti motivi:

a) violazione di legge in relazione alla disciplina di apertura e di conduzione del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241/1990 (sostanzialmente la conclusione del procedimento in termini ragionevoli, la lesione dei diritti partecipativi ed il difetto d’istruttoria);

b) motivazione carente del provvedimento in merito alla data di realizzazione del pollaio;

c) contraddittorietà della motivazione e travisamento dei fatti (sempre in riferimento alla data di realizzazione del manufatto ed all’abusività);

d) eccesso di potere per comportamento irrituale dell’amministrazione, insussistenza dell’interesse pubblico perseguito;

e) erroneità del provvedimento in relazione alla necessità di una concessione edilizia, che nel caso di specie sarebbe da negare.

4. L’adito TAR ha accolto l’istanza di sospensione interinale del provvedimento gravato (ordinanza n. 838/2005), ma poi – con sentenza n. 121 del 2017 emessa ai sensi dell’art. 71-bis c.p.a. – ha respinto il ricorso, contro la quale la parte appellante ha frapposto appello, affidandolo ad un’unica complessa doglianza, corrispondente secondo logica a quattro motivi.

4.1 Con il primo di essi, deduce violazione degli artt. 71 bis e 74 c.p.a., perché il procedimento, a suo dire, data la sua asserita complessità, non si sarebbe potuto definire con sentenza breve, così come fatto dal primo Giudice.

4.2 Con il secondo motivo, deduce una presunta incompletezza dell’istruttoria, anche per omissione dell’avviso di cui all’art. 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241.

4.3 Con il terzo motivo, deduce insufficiente motivazione in ordine all’epoca di costruzione delle opere, non essendo a suo dire provato che esse siano posteriori al 1967.

4.4 Con un quarto motivo, deduce infine la mancanza di motivazione in ordine all’interesse pubblico a disporne la demolizione.

5. Si è costituito in giudizio il Comune di Arcole, chiedendo la reiezione dell’appello.

6. La Sezione, con ordinanza n. 3782 del 2017, ha respinto l’istanza cautelare, rilevando che “ all’esame caratteristico della fase cautelare l’appello appare sfornito di fumus. Va premesso che nel processo amministrativo le dichiarazioni rese da terzi nelle forme dell’atto di notorietà o affini non assumono valore di prova in senso proprio, come ritenuto, fra le molte, da C.d.S. sez. V 4 agosto 2014 n. 4137, e quindi non possono essere valutate quelle, oltretutto contraddittorie fra loro, dalle quali il ricorrente appellante argomenta. Va ancora premesso che la causa civile fra il ricorrente appellante ed il vicino confinante, cui la difesa del ricorrente appellante stesso si richiama, non ha per diretto oggetto la data di costruzione delle opere di cui si tratta, e non ha comunque come parte il Comune, e quindi non si può sostenere un’automatica utilizzabilità delle prove offerte in tal sede, impregiudicata la loro eventuale valutazione nel merito. Ciò posto, allo stato le uniche prove attendibili sono le aerofotogrammetrie già valorizzate dal Comune, da cui si desume che il pollaio in questione, fotografato nel 1997, nel 1981 ancora non esisteva (doc 2 in I grado Comune, copie fotografie citate) ”.

7. Alla pubblica udienza del 23 febbraio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

8. Il Collegio conferma la decisione resa in sede cautelare, rilevando che il ricorso resta infondato anche a seguito dell’approfondimento nella sede di merito.

9. Partendo dal primo motivo di ricorso, l’appellante critica il TAR che avrebbe disposto una camera di consiglio in luogo di un’udienza pubblica, sottolineando che il previo accoglimento in sede cautelare e la presenza di numerosi punti controversi non legittimasse una definizione in camera di consiglio e poi la redazione della sentenza in forma semplificata, anche perché la controversia non sarebbe stata ancora completamente istruita.

9.1 La censura non merita di essere condivisa.

Prima di tutto, è evidente che non è certo possibile accertare un deficit di contraddittorio o una lesione dei diritti di difesa, visto che il ricorso era di 57 pagine e sono stati prodotti dal ricorrente ben 52 documenti. Risulta pure che la decisione di merito è stata assunta dal Collegio veneto con tutte le parti costituite e sentiti i difensori (l’estratto del verbale della camera di consiglio recita: “Sono presenti gli avvocati: D C S e D C S per la parte ricorrente e M S per il Comune resistente. La prima deposita documentazione. Su accordo delle parti e con rinuncia ai termini Il Collegio trattiene la causa in decisione. ”). Contrariamente a quanto sostiene l’odierno appellante, l’art. 71- bis richiede per la fissazione dell’udienza di merito la presentazione di un’istanza di prelievo, ma il Codice del processo non esige una verifica di ragioni d’urgenza per poter definire la causa in camera di consiglio, che abbisogna esclusivamente dell’accertamento della completezza del contraddittorio e dell’istruttoria. Questo Collegio è dell’avviso che invece in questo caso c’erano tutti i presupposti: oltre alla valutazione discrezionale da parte della seconda sezione del TAR del Veneto sulla loro sussistenza, risulta che le parti sono state sentite sul punto e nel verbale emerge pure il loro accordo.

9.2 Si ritiene che il presente caso aveva tutti i requisiti per essere definito in forma semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., ovvero la manifesta infondatezza ovvero la “situazione manifesta” e il rispetto del principio del contraddittorio. È pacifico il carattere latamente discrezionale del potere del Giudice in ordine alla prospettazione della manifesta inaccoglibilità del ricorso. L’eventuale vizio di motivazione per l’erronea valutazione dei presupposti per addivenire ad una decisione in forma semplificata da parte del primo giudice non costituisce nemmeno un vizio invalidante della sentenza, essendo più che altro una contestazione della motivazione che è irrilevante nel giudizio d’appello, in quanto, per l’effetto devolutivo, consente al Consiglio di Stato di decidere l’impugnazione, integrando eventualmente la motivazione mancante o difettosa (Cons. Stato, sez. V, n. 3189/2017).

Nel presente caso sono comunque non convincenti gli argomenti dell’appellante: la circostanza che in sede di sommaria delibazione il Collegio abbia deciso di conservare la res adhuc integra , ma, in sede di merito, abbia poi rilevato l’infondatezza del ricorso, non è né straordinaria, né rappresenta un caso insolito, oltre che essere pienamente legittima. Né si riesce ad apprezzare il rilievo che si tratterebbero di numerosi punti controversi, rilevando invece che l’unico vero punto dubbio era la risalenza delle opere, che però in sede di contraddittorio ed in seguito ad un necessario approfondimento si è rilevato del tutto infondato. Il motivo non può dunque trovare accoglimento.

10. Con il secondo ordine di censure, l’appellante sostiene che la sentenza non sarebbe condivisibile laddove ha respinto l’eccezione dell’incompletezza dell’istruttoria e dell’omissione dell’avviso di cui all’art. 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241.

10.1 La censura è destituita di fondamento, alla luce delle seguenti considerazioni:

- la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato su questo punto ha chiarito che, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, per quanto riguarda l’onere dell’amministrazione di motivare sull’interesse pubblico alla demolizione, nell'ipotesi di opere eseguite in assenza o difformità del titolo edilizio, il carattere doveroso e vincolato della sanzione edilizia implica che l'ordine di demolizione non richieda una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell'abuso, neppure qualora la demolizione venga disposta a distanza di tempo dal momento di realizzazione dell'abuso (da ultimo Cons. Stato, sez. VI, n. 1955/2023);

- irrilevante per il caso de quo è la questione della distanza dal confine, che secondo l’appellante avrebbe indotto il TAR in errore, essendo in primis stata contestata dal Comune l’assenza di un qualsiasi previo titolo legittimante;

- dall’esame della copiosa documentazione risulta pienamente condivisibile l’affermazione del TAR secondo cui non era stata violata la disposizione prevista dall’art. 7 della legge n. 241/1990 in merito alla partecipazione del privato al procedimento, considerando i molteplici documenti che ha depositato, i numerosi accessi accordati e le convocazioni dell’amministrazione comunale (vedasi anche infra sub 10);

- come già rilevato in sede cautelare, l'insufficienza della produzione, da parte del richiedente, della sola dichiarazione sostitutiva di atto notorio, in difetto di ulteriori riscontri di natura oggettiva e documentale, idonei a comprovare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione dell'opera, e ricordato che è onere del privato di provare una valida ragione per l’assenza del titolo edilizio, non si può sostenere che l'amministrazione comunale abbia il compito di verificare e dimostrare il contrario;
alla luce della suddetta regola di distribuzione dell'onere della prova, nel caso che occupa la Sezione, è evidente che il ricorrente non ha fornito oggettivi elementi suscettibili di un positivo apprezzamento al fine di comprovare l'effettiva esistenza e consistenza del fabbricato alla data prescritta per l'ammissione al beneficio;

- non coglie quindi nel segno la critica che il Comune non avrebbe completato l’istruttoria, ed inconferenti sono i numerosi tentativi di confutare, attraverso testimonianze o altre circostanze, l’abusività delle opere, che risultano specificamente accertate con l’ordinanza di demolizione;

- l’esame delle opere da parte del Comune (e del TAR successivamente) deve avvenire nel suo complesso e non atomisticamente, potendo rilevare che l’art. 21- octies della legge n. 241/1990 impone la valutazione della natura vincolata dell’atto e solo successivamente eventuali vizi procedimentali: è pacifico che la ratio del DPR n. 380/2001 non contiene una generale presunzione di regolarità dei manufatti solo perché esistenti laddove i medesimi non siano in possesso di un titolo edilizio, ma semmai è vero proprio il contrario. Ad avviso del Collegio il Comune, respinta la risalenza delle opere contestate, doveva procedere con l’adozione dell’ordinanza di demolizione, in base all’evidente effetto trasformativo e permanente del territorio con il pollaio, che per le sue caratteristiche di realizzazione necessita del permesso di costruire (cfr. sulla fattispecie del pollaio Cons. Stato, Sez. VI, nn. 7621/2022;
5614/2022;
5539/2022;
id., sez. II, n. 1606/2021);

- in tal senso il Collegio deve rilevare che non sussiste nessuna contraddittorietà tra il rigetto dei motivi procedimentali ed il convincimento dell’abusività dei manufatti (in quanto ritenuti realizzati dopo il 1967). Una volta che è stata accertata la realizzazione successiva all’entrata in vigore della “Legge Ponte” del 1967 e l’assenza di un titolo edilizio, l’ordinanza di demolizione assume natura vincolata, che, come ha più volte affermato questo Consiglio di Stato, esclude, in applicazione dell’art. 21- octies , secondo comma, primo periodo, della legge n. 241 del 1990, che la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento possa comportarne l’annullabilità (da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, n. 2005/2023);

- non è neppure fondata la tesi dell’appellante, secondo cui la circostanza che il procedimento sia stato avviato più volte (senza essere mai definito) costituisce un’anomalia (per il quale il legislatore non ha poi previsto un effetto caducatorio), ma dev’essere vista come una maggiore partecipazione procedimentale a beneficio della parte privata. Parimenti, si ritiene che l’inizio del procedimento (1999 ovvero nel 2001) non costituisce una circostanza rilevante, avendo il Comune dovuto, da un lato, approfondire molteplici aspetti sulla vicenda, e dall’altro lato emerge che, per una parte non irrilevante, anche il privato ha contribuito a dilungare e rendere più complicata la vicenda;

- inconferenti sono anche le critiche in merito alla relazione tecnica da parte del Comune (conclusa dopo un certo lasso di tempo), necessaria proprio per eseguire l’istruttoria, o che il procedimento si protraeva per alcuni anni (non essendo previsto un termine per l’adozione di un provvedimento repressorio).

11. Per quanto riguarda la terza doglianza di questo ricorso in appello, che verte sull’asserito errore del TAR in merito alla motivazione dell’inquadramento temporale delle opere contestate, il Collegio non può non richiamare quanto è stato utilmente dimostrato anche in sede civile dalla Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 1050/2014 (confermato dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. II, n. 12132/2018), accertando che “ Gli appellanti lamentano, poi, un’omessa valutazione sulla data di costruzione dei manufatti in questione e sul regime delle distanze esistente al momento della costruzione. Anche questo motivo d’appello è infondato. La CTU è chiarissima nell’evidenziare che le baracche non rispettano le distanze legali dal confine. Era onere degli appellanti provare che le baracche erano state costruite in epoca precedente al 1967. Osserva questa Corte che non solo gli appellanti non hanno provato tale circostanza, ma vi è in atti la prova contraria. Dai rilievi aerofotogramma del 1967 e del 1981 si evince che i manufatti sono stati costruiti in epoca successiva. I rilievi aerofotogrammetrici sono entrati a pieno titolo nella formale documentazione tecnica regionale (legge n. 68 del 2.2.1960), e fa parte del notorio che ad essi si appoggiano le amministrazioni per perseguire l’abusivismo edilizio, nonché le Agenzie del Territorio per trovare gli immobili sconosciuti al Catasto e combattere l’evasione fiscale. È, infine, circostanza nota che tali rilievi possono più facilmente errare, per una questione di ombre, nel far ritenere esistente un edificio che in realtà non c’è, mentre è quasi impossibile che accada il contrario (v. teste Laita). La giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che “A fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, il responsabile dell’abuso è gravato dall’onere di provare, mediante elementi certi (quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via) l’effettiva realizzazione dei lavori … non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi” (v. sentenza n 3844 del 15 luglio 2013 del Consiglio di Stato). La versione degli appellati è poi supportata da quanto osservato dal Gm. B, autore della foto scattata nel 1982 e dal Gm. B (autore del frazionamento del 1981) che concordemente hanno rilevato l’assenza di tali edifici all’epoca dei rispettivi interventi ”.

11.1 Le conclusioni del giudice ordinario, tra l’altro in seguito all’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio e vertente (anche) sulla questione della determinazione dell’epoca della realizzazione delle medesime opere, coincidono con quello del TAR del Veneto, che ha rilevato che “ È vero che ai fini cautelari la non visibilità del medesimo nel 1981 non è stata ritenuta inequivoca (cfr. ordinanza 838/05 di questa Sezione), ma si trattava appunto di una valutazione necessariamente precauzionale, che doveva lasciare impregiudicata la possibilità di un diverso giudizio di merito, realmente satisfattivo per l’attore a lui favorevole. Da allora ad oggi, i rilievi aerei sono ormai entrati a pieno titolo nella formale documentazione tecnica regionale, cui si appoggiano le amministrazioni per perseguire l’abusivismo, e le Agenzie del Territorio per contrastare l’evasione. ” Il TAR Veneto ha invece ritenuto plausibile la documentazione del Comune, sottolineando che “ il Comune ha anche acquisito, “ad abundantiam”, elementi, indiziari ma non inattendibili, nel senso della edificazione successiva al 1981/82 .” Questo non è stato confutato dall’appellante in sede di appello con prove oggettive, univoche e specifiche. I rilievi aerofotogrammetrici del Comune costituiscono prova privilegiata sia per la precisione, sia per l’obiettività dei soggetti rilevatori (Cons. Stato, Sez. V, n. 3844/2013), che può essere confutata solo fornendo prove concrete e rilevanti (assenti nel caso di specie).

11.2 Al contrario, la non univocità delle testimonianze prodotte dall’appellante, valutate nel loro complesso dal TAR, hanno avuto come esito complessivo il mancante accertamento di una prova concreta e il fallito assolvimento dell’onere della prova. Questa decisione è scevra di vizi di illogicità o irrazionalità e va condivisa.

12. Con l’ultima doglianza il signor F si lamenta della mancata motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico, ma è sufficiente richiamare, al fine di dover rigettare tale censura, che è pacifica la giurisprudenza su questo profilo e che l’ordine di demolizione disciplinato all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 è un atto dovuto. Una volta accertata l’abusività dell’opera realizzata senza titolo non occorre pertanto alcuna ulteriore motivazione diretta a dimostrare la sussistenza di specifiche ragioni di interesse pubblico (da ultimo Cons. Stato, Sez. VII, n. 151/2023). Questo non cambia neanche quando l’ordine repressivo è stato adottato dopo un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione alle situazioni contra legem (Cons. Stato, A.P., n. 9/2017).

13. In considerazione di quanto sin qui esposto il ricorso, siccome infondato, va respinto.

14. Vista la soccombenza, parte appellante deve essere condannata a rifondere le spese di lite del Comune appellato.

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