Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2022-11-02, n. 202209493
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Pubblicato il 02/11/2022
N. 09493/2022REG.PROV.COLL.
N. 00325/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 325 del 2017, proposto da
A A, rappresentato e difeso dagli avvocati G G, G C D G, con domicilio fisico eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, piazza Mazzini, n. 27;
contro
COMUNE DI MARCIANA, PROVINCIA DI LIVORNO, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza) n. 1823 del 2016;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza smaltimento del giorno 10 ottobre 2022 il Cons. D S e udita per le parti l’avvocata Ilaria Greco, in sostituzione dell’avvocato G G, in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l’utilizzo della piattaforma “Microsoft Teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Ritenuto che il giudizio può essere definito con sentenza emessa ai sensi dell’art. 74 c.p.a.;
Rilevato in fatto che:
- il signor Alberto Auricchio è proprietario di una villa in Comune di Marciana, località Procchio, in ordine alla quale, con permesso di costruire 24 giugno 2011 n. 37, l’Amministrazione comunale approvava un progetto di ristrutturazione edilizia con aumento del volume (di mq 23,35 per mc 56,22) in sopraelevazione di una piccola porzione del preesistente piano seminterrato;
- con istanza protocollata il 29 marzo 2012, il signor Auricchio chiedeva, ai sensi dell’art. 140 della legge regionale n. 1 del 2005, la sanatoria per alcune difformità esecutive rispetto al permesso di costruire n. 37 del 2011;
- con la determinazione n. 410 del 2014, l’Amministrazione comunale annullava il titolo edilizio precedentemente rilasciato motivando che «nel reale stato dei luoghi l’ampliamento in progetto ricade ad una distanza inferiore di ml 10,00 dall’argine del Fosso di Vallegrande»;
- seguivano poi, in relazione al medesimo manufatto, l’ordinanza di demolizione n. 1 del 2015 ed il diniego di sanatoria prot. n. 412 del 2015, sempre motivati con il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 96 del regio decreto n. 523 del 1904, dell’art. 133 del regio decreto n. 368 del 1904 e dell’art. 144 del d.lgs. n. 152 del 2006;
- il proprietario impugnava i predetti provvedimenti muovendo avverso gli stessi le seguenti molteplici censure:
i) per ciò che attiene il provvedimento di annullamento d’ufficio n. 410 del 2014, veniva dedotta: la violazione del contraddittorio procedimentale di cui agli artt. 7 e 10 della legge n. 241 del 1990;la violazione della regola del contrarius actus , in quanto in sede di adozione del permesso di costruire era stato acquisito parere idrogeologico, che non era stato invece acquisito in sede di autotutela;la violazione dell’art. 96 del regio decreto n. 523 del 1904, non essendo il fosso di Vallegrande, da sempre completamente asciutto, un corso d’acqua;la mancata individuazione dell’interesse pubblico tutelato con l’atto di autotutela e la mancanza di comparazione con l’interesse contrario di parte ricorrente;la violazione del termine ragionevole del procedimento;
ii) per quanto attiene all’ordine di demolizione n. 1 del 2015, veniva censurata: la mancata valutazione della memoria procedimentale dell’11 novembre 2014 e della possibilità di restituzione in pristino, nonché l’illegittima previsione relativa all’acquisizione d’ufficio del bene;
iii) con riguardo, infine, al diniego di sanatoria prot. n. 412 del 2015, oltre ai vizi di illegittimità derivata, si affermava che non sarebbero sussistite le illegittimità correlate alla vicinanza al corso d’acqua e, anche in questo caso, la mancata valutazione della memoria procedimentale 11 novembre 2014;
- con sentenza n. 599 del 2015, il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione a favore del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, ma il Consiglio di Stato, con sentenza n. 3823 del 2015, annullava la sentenza di primo grado e rimetteva la causa al Tribunale Amministrativo Regionale, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.;
- la causa veniva quindi riassunta dal ricorrente dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana che, dopo avere effettuato verificazione, con sentenza n. 1823 del 2016, respingeva il ricorso;
- avverso la predetta sentenza, il signor Auricchio ha proposto appello riproponendo nella sostanza le medesime questioni già sollevate nel giudizio di primo grado, sia pure adattate all’impianto motivazionale della sentenza gravata, e segnatamente:
a) con il primo motivo l’appellante eccepisce la nullità della sentenza gravata per violazione dell’art. 17 del c.p.a. e dell’art. 51 del c.p.c., non essendosi astenuto il giudice relatore che si era già pronunciato con la sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione (poi annullata dal Consiglio di Stato);
b) con il secondo motivo l’appellante ripropone le censure espresse e non accolte dal giudice di primo grado avverso il provvedimento di annullamento d’ufficio n. 410 del 2014, ovvero: 1) la violazione degli articoli 7 e 10 della legge n. 241 per non avere l’Amministrazione valutato la memoria presentata nel procedimento (in data 14 novembre 2014) e per l’essere la comunicazione di avvio del procedimento irrituale;2) la violazione della regola del contrarius actus , in quanto la fascia di 10 metri non sarebbe di inedificabilità assoluta ed anche qualora si trattasse di un vincolo assoluto, l’annullamento d’ufficio sarebbe sempre atto discrezionale;3) l’erroneo rigetto del terzo motivo di ricorso posto che il fosso di cui si discute non avrebbe carattere torrentizio, ma si tratterebbe di un mero colatoio naturale;4) l’annullamento d’ufficio avrebbe dovuto indicare quale fosse l’interesse pubblico che reclamava il ritiro e per quali ragioni esso, ove sussistente, fosse prevalente su quello privato contrario;5) la violazione del termine ragionevole, essendo trascorsi più di tre anni dall’emanazione dell’atto annullato;
c) con il terzo motivo l’appellante ripropone (salvo la nona censura, la quale viene rinunciata) le censure mosse avverso l’ordine di demolizione 16 gennaio 2015 n. 1, quali: 1) l’illegittimità derivata;2) la violazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 241 del 1990 per mancata considerazione di memoria procedimentale;3) la violazione degli articoli 31 e 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 e delle corrispondenti norme legislative regionali per omessa valutazione della effettiva possibilità di demolire quanto realizzato in forza del permesso annullato;
d) con il quarto motivo l’appellante lamenta l’omessa pronuncia del primo giudice relativamente alle censure mosse avverso il diniego di sanatoria edilizia prot. 412 del 2015, non analizzati e quindi riproposti: 1) l’illegittimità derivata;2) la violazione dell’art. 10- bis della legge n. 241 del 1990 per non avere l’Amministrazione valutato la memoria presentata nel procedimento il 14 novembre 2014;3) per non essere le opere realizzate in contrasto con le disposizioni di legge che disciplinano le distanze delle costruzioni dai corsi d’acqua;
e) l’appellante censura, infine, la sentenza gravata nella parte in cui, pur avendo disposto la compensazione delle spese, ha posto a carico del ricorrente le spese di verificazione;
- il Comune di Marciana e la Provincia di Livorno non si sono costituiti nel giudizio di appello;
Considerato in diritto che:
- in via pregiudiziale, la mancata astensione del giudice, nelle ipotesi di sua obbligatorietà, non può costituire motivo di nullità della sentenza, bensì solo motivo di ricusazione ai sensi dell’art. 52 c.p.c. e la costante giurisprudenza (cfr., ex plurimis , Consiglio di Stato, sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460) ritiene che il mancato esercizio del potere di ricusazione del giudice, entro i termini previsti, precluda alla parte di far valere, in sede di impugnazione, la nullità della sentenza pronunciata dal giudice che abbia violato l’obbligo di astensione;
- in ogni caso, l’obbligo del giudice di astenersi, previsto dall’art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c., si riferisce ai soli casi in cui egli abbia conosciuto del merito della causa «in altro grado» dello stesso processo;
- la previsione, volta ad assicurare la necessaria alterità del giudice chiamato a decidere sulla medesima ‘ res iudicanda ’ in un unico processo, è di stretta interpretazione, in quanto incide sulla capacità del giudice, determinando una deroga ai principi del giudice naturale precostituito per legge;
- l’incompatibilità non è dunque ravvisabile nell’ipotesi in cui il giudice di primo grado ‒ che, senza conoscere il merito della controversia, abbia in prima battuta semplicemente declinato la giurisdizione ‒ venga reinvestito della causa ai sensi dell’art. 105 del c.p.a.;
- nel merito, la sentenza di primo grado deve essere integralmente confermata;
- gli atti impugnati ‒ segnatamente: l’annullamento in autotutela del titolo edilizio precedentemente rilasciato, l’ordinanza di demolizione conseguente al venire meno del titolo abilitativo ed il diniego di sanatoria ‒ si fondano correttamente sul mancato rispetto della fascia di rispetto prescritta dall’art. 96 del regio decreto n. 523 del 1904, dall’art. 133 del regio decreto n. 368 del 1904 e dall’art. 144 del d.lgs. n. 152 del 2006;
- tale circostanza di fatto dirimente ai fini del decidere ‒ ovvero che «l’ampliamento in progetto ricade ad una distanza inferiore di metri 10,00 dall’argine del Fosso di Vallegrande» ‒ è stata oggetto di apposito approfondimento istruttorio nel corso del giudizio di primo grado;
- la verificazione affidata al Genio Civile ‒ cui era stato chiesto di accertare l’esatta distanza «tra il ramo più vicino del fosso di Vallegrande e l’abitazione del ricorrente in Marciana, località Procchio» ‒ ha accertato che il fabbricato per cui è causa presenta tutte distanze inferiore ai 10 metri dal ciglio di sponda del fosso Vallegrande (cfr. la relazione finale del 23 maggio 2016, in cui sono riportate tutte le distanze rilevate: ml. 1,46 – ml. 2,40 – ml. 5,60 – ml. 3,55);
- con motivazione esauriente e attendibile, l’ausiliario del giudice ha pure evidenziato che, nonostante si tratti di corso d’acqua che può risultare asciutto in alcuni periodi dell’anno, esso conserva il suo «carattere torrentizio» e quindi «potenzialmente pericoloso»;
- è noto che la fascia di rispetto dagli argini dei corsi d’acqua costituisce un vincolo di inedificabilità che preclude la presenza di qualunque piantagione, fabbrica o movimento di terreno entro la distanza di 10 metri;
- in particolare, il divieto di costruzione previsto dall’art. 96, lettera f), del regio decreto 25 luglio 1904, n. 523, è diretto al fine di assicurare, non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici, in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare da esondazioni;
- in ragione della ratio sottesa al divieto di occupazione edificatoria degli spazi prossimi al reticolo idrico, il giudice di primo grado ha correttamente affermato che non vale «rilevare che l’edificazione di cui si discute costituisca ampliamento o soprelevazione di edificio esistente, mancando comunque i presupposti di legge per assentire la realizzazione di ulteriori manufatti in consistente vicinanza a corso d’acqua»;
- comportando il vincolo in questione un divieto assoluto e inderogabile di costruire, la determinazione dell’Amministrazione aveva carattere vincolato;
- deve escludersi infatti che alcuna opera realizzata in violazione della fascia di rispetto idrico possa essere sanata, finanche ai sensi della disciplina sul ‘condono’ straordinario (l’art. 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree);
- quanto all’asserita violazione delle regole in tema di contraddittorio procedimentale, è sufficiente considerare che, essendo palese che il «contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», gli atti non erano annullabili ai sensi dell’art. 21- octies della legge n. 241 del 1990;
- l’onere di cui all’art. 10- bis della legge n. 241 del 1990 non comporta poi la puntuale confutazione analitica delle argomentazioni svolte dalla parte privata, in quanto per giustificare il provvedimento conclusivo adottato è sufficiente la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, alla luce delle risultanze acquisite;
- non sussiste neppure l’asserito difetto motivazione;
- in primo luogo, l’accertata operatività del vincolo di inedificabilità assoluta, era idonea di per sé a fondare l’ordine di ripristino e il diniego di sanatoria, i quali sono adeguatamente motivati attraverso la descrizione degli interventi realizzati e delle ragioni giuridiche che giustificano la sanzione ripristinatoria;
- con riguardo all’atto di autotutela, oltre all’illegittimità del titolo edilizio, sussistevano anche gli altri presupposti richiesti dalla legge per l’esercizio del potere di autotutela;
- l’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017 ‒ pur statuendo che l’annullamento di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'adozione dell’atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole ‒ ha condivisibilmente temperato tale onere motivazionale, in considerazione dell’«auto-evidenza degli interessi pubblici tutelati» e della concreta consistenza della invocata posizione di affidamento legittimo;
- nel caso di specie, l’interesse all’annullamento dell’atto gravato risultava prevalente su interessi contrari di parte privata, senza necessità di motivazione specifica: l’auto-evidenza degli interessi pubblici tutelati andava ravvisata nella funzione cautelativa e di protezione del fondamentale interesse alla sicurezza degli abitati, che non poteva essere ritenuto recessivo rispetto all’interesse dei destinatari al suo mantenimento;
- in relazione poi al ragionevole lasso di tempo, va rimarcato che non vengono qui in rilievo, ratione temporis , le recenti riforme che hanno inciso sui presupposti per l’esercizio del potere di autotutela decisoria (la legge n. 124 del 2015 − nel segno di una tendenziale riduzione dei poteri discrezionali dell’amministrazione, al fine di garantire maggiore certezza e stabilità ai rapporti giuridici dei soggetti la cui azione risulta condizionata dalle decisioni amministrative – ha, in particolare, introdotto la fissazione del termine massimo di diciotto mesi per la valida adozione dell’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori e attributivi di vantaggi economici);
- ciò posto, il lasso temporale di meno di poco più di tre anni tra il rilascio del titolo abilitativo e la successiva adozione del provvedimento di autotutela, appare contenuto entro un «termine ragionevole», in relazione alle difficoltà accertative del caso di specie;
- neppure sussiste la dedotta violazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- come è noto, il fondamento del regime sanzionatorio più mite riservato dal legislatore agli interventi edilizi realizzati in presenza di un titolo abilitativo che solo successivamente sia stato dichiarato illegittimo ‒ rispetto al trattamento ordinariamente previsto per le ipotesi di interventi realizzati in originaria assenza del titolo ‒ va rinvenuto nella specifica considerazione dell’affidamento riposto dall’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull’efficacia del titolo assentito;
- a tal fine, la disposizione prevede tre possibili rimedi per rimuovere l’abuso sopravvenuto: i) la sanatoria della procedura, nei casi in cui sia possibile emendare i vizi riscontrati (senza applicazione di alcuna sanzione);ii) l’applicazione della sanzione in forma specifica della demolizione, nel caso in cui non sia possibile la predetta sanatoria della procedura;c) l’applicazione della sanzione pecuniaria, qualora non sia possibile applicare la sanzione in forma specifica, in ragione della natura delle opere realizzate (in tal caso «[l]’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36» del testo unico sull’edilizia);
- sennonché, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 7 settembre 2020, n.17, ha precisato che l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 qualora non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure o la restituzione in pristino, può trovare applicazione unicamente a fronte di vizi che riguardino la forma e la procedura e che – alla luce di una valutazione in concreto effettuata dall’Amministrazione – risultino non rimuovibili;
- l’Adunanza plenaria ha dunque delimitato la portata della “fiscalizzazione” dell’abuso edilizio, precisando che esso non può operare, come sostenuto invece da un diverso filone giurisprudenziale, in presenza di vizi sostanziali, che ‒ come accade nella specie ‒ ricorrono quando l’opera sia in contrasto con le norme che regolano le attività edilizie;
- peraltro, come osservato nella sentenza appellata, poiché quella realizzata «è una sopraelevazione, appare prima facie difficile configurare la impossibilità della sua eliminazione»;
- con riguardo alla contestata acquisizione gratuita delle opere realizzate al patrimonio comunale in caso di mancata esecuzione dell’ordine di demolizione, il giudice di prime cure ha correttamente motivato che la gravata ordinanza n. 1 del 2015 non contempla espressamente l’acquisizione gratuita per il caso di inottemperanza all’ordine demolitorio, limitandosi a invocare l’applicabilità dell’art. 196 della legge regionale n. 65 del 2014 e «come riconosciuto dalla stessa difesa della parte resistente nella memoria del 22 ottobre 2015, quel richiamo non può essere inteso come riferito alla acquisizione gratuita, bensì come richiamo nella specie della disciplina di cui al comma 8 dello stesso art. 196 cit., che con riferimento alle sopraelevazioni senza aumento di sedime esclude l’acquisizione gratuita e prevede invece, per l’inottemperanza, la demolizione d’ufficio, attraverso un rinvio al successivo art. 199»;
- da ultimo, va ricordato che il giudice di primo grado esercita ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese di lite, sia ai fini della condanna, sia ai fini della compensazione, con il solo limite dell’abnormità o della manifesta ingiustizia (cfr.: Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 24 maggio 2007, n. 8;Sez. IV, 9 ottobre 2019, n. 6887;Sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 6797;Sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6352;Sez. III, 13 dicembre 2018, n. 7039);
- la ‘manifesta abnormità’, secondo l’indirizzo esegetico in commento, ricorre solo in situazioni eccezionali, identificate dalla giurisprudenza nell’erronea condanna alle spese della parte vittoriosa e nella manifesta e macroscopica eccessività o sproporzione della condanna;
- nella fattispecie in esame, la statuizione del giudice di prime cure – che ha compensato le spese di giudizio, mentre ha posto a carico della parte appellante quelle di verificazione – non rientra nell’anzidetta ipotesi di ‘manifesta abnormità’, in quanto il giudice, valorizzando in modo ragionevole la particolarità della vicenda e la natura degli interessi coinvolti, ha sostanzialmente operato una compensazione parziale delle spese complessive, al fine di alleviare la posizione del ricorrente rimasto pur sempre soccombente;
- l’appello, per tutte le ragioni sopra esposte, va integralmente respinto;
- le spese di lite del secondo grado di giudizio non devono liquidarsi atteso che la controparte pubblica non si è costituita;