Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2017-01-25, n. 201700295

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2017-01-25, n. 201700295
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201700295
Data del deposito : 25 gennaio 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/01/2017

N. 00295/2017REG.PROV.COLL.

N. 01447/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1447 del 2014, proposto dal signor G B, rappresentato e difeso da se stesso ex art. 22, comma 3, c.p.a., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Val Pellice, 51;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del TAR per il Lazio – Roma - Sezione II, n. 7710 del 30 luglio 2013, resa tra le parti, concernente sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 novembre 2016 il Cons. Andrea Migliozzi e uditi per le parti l’avvocato G. B e l’avvocato dello Stato M. Santoro;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il sig. G B, già Ufficiale Superiore della Guardia di Finanza, nel novembre 1998 veniva rinviato a giudizio dal GIP del Tribunale di Perugia, allorché il medesimo rivestiva il grado di Tenente Colonnello del Corpo, in ordine ai reati di cui agli artt. 110, 319 e 321 c.p. (concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio) e art. 321 legge n. 1983 /1941 in relazione all’art. 215 c.p.m.p. con ordine per tali ultimi profili di responsabilità di trasmissione degli atti al P.M.del Tribunale Militare di Roma dove veniva iscritto separato procedimento.

1.1. In data 9 gennaio 2002 interveniva la sentenza del Tribunale penale di Perugia che assolveva il predetto ufficiale dal reato sub a) di cui al decreto di rinvio a giudizio e dal delitto sub c) “per non aver commesso il fatto”;
tale sentenza era impugnata a cura dell’Ufficio del P.M. e delle parti civili.

1.2. Con sentenza del 13 maggio 2003 la Corte di Appello di Perugia, in parziale riforma del decisum di primo grado, dichiarava il B colpevole del reato di concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e lo condannava alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione nonché all’interdizione dai pubblici uffici per un tempo pari alla pena principale inflitta nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

1.3. Avverso detta pronuncia il B interponeva ricorso presso la Cassazione.

1.4. Con sentenza n. 280 del 21/2/2005 la Corte di Cassazione annullava “senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili”.

2. A conclusione del procedimento penale, il Comandante regionale della Guardia di Finanza del Lazio si determinava ad avviare nei confronti del B un procedimento disciplinare di stato, sul rilievo che la “decisione della Suprema Corte ha annullato la sentenza di condanna perché il reato è estinto per prescrizione e non esplica efficacia ai sensi dell’art. 653 c.p.p. nel procedimento disciplinare né preclude l’autonomo accertamento e valutazione dei fatti in ambito amministrativo”.

3. Con atto del 9 settembre 2005 l’Ufficiale inquirente contestava al B una serie di addebiti specifici per comportamenti posti in essere da Tenente colonnello in servizio presso il Reparto Autonomo Centrale, in quanto “poneva in essere un comportamento altamente lesivo dell’immagine e del prestigio dell’amministrazione di appartenenza”.

4. Sulla scorta delle risultanze dell’inchiesta formale, il Consiglio di disciplina nella seduta del 31 gennaio 2006 dichiarava il B “non meritevole di conservare il grado”.

5. Quindi interveniva il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze datato 16 marzo 2006 con cui veniva irrogata, nei confronti del colonnello B (nelle more collocato in congedo assoluto), la sanzione della perdita del grado per rimozione a decorrere dal 5 dicembre 1997, ai sensi degli artt. 34 e 71 della legge n. 113 del 10 aprile 1954.

Nel predetto decreto era evidenziata la condotta tenuta dall’inquisito - incompatibile con lo status rivestito, in aperta distonia con i doveri di lealtà, fedeltà e correttezza - e con la ulteriore circostanza che “durante il procedimento disciplinare di stato non sono emersi elementi che consentano un ridimensionamento della valenza penale dei gravissimi fatti oggetto di accertamento, evincendosi dalle risultanze degli atti e dei documenti acquisiti all’inchiesta precise e dirette responsabilità dell’inquisito”.

6. L’interessato impugnava innanzi al TAR per il Lazio detto provvedimento sanzionatorio e gli atti presupposti, denunciandone la illegittimità per una serie di vizi illustrati con undici motivi di gravame.

7. Il proposto ricorso veniva respinto dall’adito giudice con sentenza n.7710/2013, in quanto infondato, con riferimento a tutte le censure ivi dedotte.

8. Il sig. B ha impugnato tale decisum con molteplici motivi d’appello (diluiti in oltre 80 pagine), così indicati: “6.1 primo motivo d’appello” (ulteriormente rubricato sub 6.2 e 6.3): violazione e falsa applicazione di norme di diritto;
errore e travisamento dei fatti;
insufficiente e contraddittoria motivazione;
“7.1 secondo motivo d’appello” (ulteriormente rubricato sub 7.2 e 7.3): violazione e falsa applicazione di norme di diritto;
errore e travisamento dei fatti;
insufficiente e contraddittoria motivazione;
“ 8.1 terzo motivo d’appello (ulteriormente rubricato sub 8.2, 8.3, 8.3.1, 8.3.2, 8.3.3, , 8.3.4, 8.3.5,8.3.6,8.3.7,8.3.8,8.3.9): violazione e falsa applicazione di norme di diritto;
errore e travisamento dei fatti;
insufficiente e contraddittoria motivazione;
“ 9.1 quarto motivo d’appello ulteriormente rubricato sub 9.2, 9.3 a sua volta articolato in 9.3. 1, 9.3.2: violazione e falsa applicazione di norme di diritto;
errore e travisamento dei fatti;
insufficiente e contraddittoria motivazione;
“10.1 quinto motivo d’appello”: violazione e falsa applicazione di norme di diritto;
errore e travisamento dei fatti;
insufficiente e contraddittoria motivazione.

9. Si è costituito il Ministero dell’Economia e delle Finanze - Comando generale della Guardia di Finanza – che ha contestato la fondatezza del proposto gravame di cui ha chiesto la reiezione.

10. All’udienza pubblica del 24 novembre 2016 il ricorso è stato introitato per la decisione.

11. In limine il Collegio deve rilevare la inammissibilità dell’appello nella sua globalità in ragione del fatto che la estrema prolissità del medesimo rende quasi impossibile ricostruire, attraverso la lettura dell’atto, la realtà di situazioni di fatto e processuali, non potendosi accettare che una parte renda oggettivamente non comprensibile le sue pretese ragioni giuridiche, con la violazione del dovere di specificità dei motivi di ricorso sancito dal combinato disposto degli artt. 40, co. 1, lett. d) e 101, co. 1, c.p.a. nonché del dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, co. 2, c.p.a.

In ordine alla natura, al fondamento ed alla consistenza dei doveri di sinteticità, chiarezza e specificità (degli scritti delle parti e in particolare degli atti di impugnazione), ed alle conseguenze discendenti dalla loro violazione, il Collegio non intende discostarsi dai principi elaborati dalla giurisprudenza civile ed amministrativa (cfr. Cass., sez. II, 20 ottobre 2016 n. 21297;
sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20589;
sez. un., 11 aprile 2012, n. 5698;
Cons. Stato, sez. V, 31 marzo 2016, n. 1268;
sez. III, 21 marzo 2016, n. 1120;
sez. VI, 4 gennaio 2016 n. 8;
sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5459;
sez. V, 30 novembre 2015, n. 5400;
sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4153;
Cons. giust. amm., 14 settembre 2014, n. 536;
19 aprile 2012, n. 395), secondo cui:

a) gli artt. 3, 40 e 101 c.p.a. intendono definire gli elementi essenziali del ricorso, con riferimento alla causa petendi (i motivi di gravame) ed al petitum , cioè la concreta e specifica decisione richiesta al giudice;
con particolare riguardo alla stesura dei motivi, lo scopo delle disposizioni è quello di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine ad una prassi in cui i ricorsi, oltre ad essere poco sintetici non contengono una esatta suddivisione tra fatto e motivi, con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. “motivi intrusi”, ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto, che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminano tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano nel rischio di revocazione;

b) la chiarezza e specificità degli scritti difensivi (ed in particolare dei motivi) si riferiscono all’ordine delle questioni, al linguaggio da usare, alla correlazione logica con l’atto impugnato (sentenza o provvedimento che sia), alle difese delle controparti;
ne consegue che è onere della parte ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, così evitando la prolissità e la contraddittoria commistione fra argomenti, domande, eccezioni e richieste istruttorie;

c) l’inammissibilità dei motivi di appello non consegue solo al difetto di specificità di cui all’art. 101, co. 1, c.p.a., ma anche alla loro mancata “distinta” indicazione in apposita parte del ricorso a loro dedicata, come imposto dall’art. 40 c.p.a. applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall’art. 38 c.p.a.;
conducano alla inammissibilità per violazione dei doveri di sinteticità e specificità dei motivi, come sancito dagli artt. 3 e 40 c.p.a. (Cons. Stato, sez. V, 30 novembre 2015 n. 5400);

d) il dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica;
tale impostazione è conforme alla considerazione della <<…giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l'utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale>>
(l’idea della funzione giurisdizionale quale “risorsa scarsa” è stata sviluppato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in due recenti pronunce, 25 febbraio 2014, n. 9 e 27 aprile 2015, n. 5, e ripreso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nelle sentenze 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243 e, da ultimo, nella sentenza 20 ottobre 2016 n. 21260);

e) gli oneri di specificità sinteticità e chiarezza incombenti sulla parte ricorrente (e sul suo difensore, che tecnicamente la assiste in giudizio) trovano il loro fondamento:

I) nell’art. 24 Cost., posto che solo una esposizione chiara dei morivi di ricorso o, comunque, delle ragioni che sorreggono la domanda consente l’esplicazione del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio;

II) nella loro strumentalità alla attuazione del principio di ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma secondo, Cost., poiché un giudizio impostato in modo chiaro e sintetico, quanto alla causa petendi ed al petitum , rende più immediata ed agevole la decisione del giudice, evita l’attardarsi delle parti su argomentazioni ed eccezioni proposte a mero scopo tuzioristico, rende meno probabile il ricorso ai mezzi di impugnazione e, tra questi, in particolare al ricorso per revocazione, a maggior ragione se proposto con finalità meramente dilatorie del passaggio in giudicato della decisione Cons Stato Sez. IV n. 4636 del 2016);

II) nella necessità della difesa “tecnica”, il che contribuisce a rendere evidente la natura della professione legale quale “professione protetta”, ai sensi dell’art. 33, comma quinto, Cost. e degli artt. 2229 e seguenti del codice civile (cfr. Corte cost., 17 marzo 2010 n. 106);

f) nell’esigenza “forte” della brevità degli scritti difensivi non è solamente una caratteristica dell’ordinamento processuale italiano;
si pensi alle istruzioni pratiche relative ai ricorsi ed alle impugnazioni adottate - il 15 ottobre 2004 (G.U. L 29 dell’8 dicembre 2004) e modificate il 27 gennaio 2009 (G.U. L 29 del 31 gennaio 2009) - dalla Corte di giustizia dell’Unione europea;

g) in definitiva, lungi dal porsi come un “ostacolo” alla esplicazione del diritto alla tutela giurisdizionale, i principi di specificità chiarezza e sinteticità sono funzionali alla più piena e complessiva realizzazione del diritto di difesa in giudizio di tutte le parti del processo, in attuazione degli artt. 24 e 111 Cost., e sostengono, una volta di più, le ragioni della necessità di difesa tecnica e, dunque, della natura “protetta” della professione intellettuale legale.

A rafforzare gli approdi esegetici cui è pervenuta la giurisprudenza sopra riportata, è sopraggiunta la disciplina normativa recata dall’art. 7 – bis , d.l. n. 168 del 2016, convertito con modificazioni dalla l. n. 197 del 2016, che, allo scopo di rendere effettivo il dovere di sinteticità e chiarezza degli scritti difensivi, ha esteso a tutti i riti del processo amministrativo il peculiare meccanismo previsto in origine dall’art. 120, co. 6, c.p.a. per il solo rito concernente le procedure di affidamento di appalti pubblici;
tali norme, benché non direttamente applicabili ratione temporis al presente giudizio, rappresentano il punto di emersione del riconoscimento della fondatezza delle elaborazioni giurisprudenziali dianzi illustrate.

Nel caso di specie il Collegio rileva che l’atto di appello (di oltre 80 pagine) risulta caratterizzato da plurime reiterazioni delle medesime argomentazioni, dalla conseguente esposizione delle stesse in modo non specifico ed esaustivo ma attraverso motivi intrusi, da interpolazioni con atti giudiziari ed amministrativi nonché da manifesta prolissità.

12.Sempre in via preliminare il Collegio ritiene – anche al fine di dissipare ogni incertezza in ordine alla controversia de qua - di dovere esporre ulteriori concorrenti ragioni per le quali l’appello (con riferimento ai motivi desumibili nei limiti del possibile dal Collegio), deve essere comunque dichiarato inammissibile.

Alla stregua di consolidati principi giurisprudenziali (Cons. Stato, Sez. III, n.1120 del 2016;
Sezione V, n. 5459 del 2015;
Sez. IV n. 1623 del 2016 cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 88 comma 2 lettera d) c.p.a.), è inammissibile che in sede di appello si introducano doglianze nuove rispetto a quelle articolate in prime cure e si depositino (come verificatosi nella specie) documenti nuovi;
parimenti inammissibile è articolare nuove doglianze nelle memorie difensive (come pure verificatosi nella specie), attesa la loro natura puramente illustrativa.

Pertanto, per ragioni di comodità espositiva, il Collegio prende in esame direttamente le censure formulate col ricorso di primo che perimetrano il thema decidendum del presente giudizio ex art. 104 c.p.a.

13. Nel merito il ricorso è palesemente infondato.

14. Quanto alle doglianze con cui vengono denunciati vizi formali e procedimentali a carico del provvedimento recante la sanzione della perdita del grado per rimozione e degli atti che hanno scandito il presupposto procedimento disciplinare, le stesse sono destituite di giuridico fondamento dal momento che come correttamente ha avuto modo di spiegare il TAR gli atti adottati dall’Amministrazione a carico dell’attuale appellante si rivelano rispettosi dei termini e delle garanzie previste dai procedimenti disciplinari nonché osservanti del paradigma normativo che li regge.

15. L’interessato poi, sia pure con argomentazioni alquanto prolisse e a tratti confuse, critica l’operato dell’Amministrazione procedente (e le statuizioni del Tar che l’hanno avallato) sulla base di rilievi non sempre chiaramente enunciati, comunque così riassumibili:

I) l’Amministrazione ha assunto ai fini disciplinari fatti e dati oggetto del pregresso procedimento penale, ma ciò le era precluso essendo intervenuta in favore del B una sentenza di estinzione del reato per prescrizione che impediva l’attivazione del procedimento penale;

II) in assenza di un accertamento penale definitivo la P.A. avrebbe dovuto effettuare autonomi accertamenti e specifiche valutazioni dei fatti, cosa che non sarebbe avvenuta;

III) la condotta disciplinarmente rilevante non può essere ascritta al ricorrente posto che il medesimo all’epoca dei fatti non era in servizio per essere stato sospeso cautelativamente;

IV) il provvedimento sanzionatorio incorrerebbe nel vizio di disparità di trattamento.

16. Nessuno dei suddetti profili di doglianza è meritevole di positivo apprezzamento.

17. Quanto alle questioni rubricate sub I) e II), con cui in sostanza si mette in discussione l’ an del potere disciplinare esercitato, secondo un preciso orientamento giurisprudenziale anche una sentenza penale di proscioglimento con la formula assolutoria non impedisce la configurabilità dell’azione disciplinare in ragione del fatto che l’area dell’illecito penale è più ristretta rispetto a quella disciplinare, sì che ben può intervenire da parte della P.A. ai fini in esame una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, essendo, appunto, diversi i presupposti delle rispettive responsabilità (cfr. Cons. Stato Sez. IV n. 2643 del 2011;
n. 4359 del 2009).

A maggior ragione, nel caso di specie l’Amministrazione ben poteva (come poi puntualmente ha fatto) valutare i fatti oggetto di procedimento penale a carico del B nell’ottica dell’illecito disciplinare se si considera che l’appellante non ha conseguito una sentenza assolutoria ma unicamente riportato una pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, il che non può avere alcuna efficacia vincolante sul potere disciplinare istituzionalmente riservato alla P.A.

Non solo, ma la sentenza della Cassazione dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione ha confermato le statuizioni civili, con condanna dei ricorrenti alla rifusione in solido delle spese in favore della parte civile, con conseguente riconoscimento sia pure implicitamente della responsabilità dei convenuti (tra cui il B).

L’Autorità militare, quindi, prendendo l’abbrivio dalla vicenda penale (che ha visto il B chiamato a rispondere del reato di concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio), ha proceduto ad una autonoma valutazione dei fatti posti a base della contestazione giudiziale riconoscendo ai medesimi una rilevanza disciplinare a mezzo di autonomi accertamenti.

In particolare, gli atti che hanno contrassegnato l’inchiesta disciplinare mettono in evidenza la valenza disciplinare dei fatti e l’avvenuto inverarsi di una condotta assolutamente incompatibile con i doveri di lealtà, con gravissimo nocumento all’immagine del Corpo di appartenenza.

Inoltre il provvedimento conclusivo che recepisce la proposta di irrogazione della sanzione espulsiva risulta sorretto da una organica ed esaustiva motivazione con la quale si dà ampia contezza della riprovevole condotta tenuta dal B, della gravità dei fatti a lui ascritti che “oltre a ledere l’immagine e il prestigio del Corpo, hanno evidenziato…l’assoluta carenza di qualità morali e caratteriali”.

Al riguardo vale osservare peraltro che parte appellante non è stato in grado di fornire alcun elemento idoneo a scalfire nel merito la fondatezza degli addebiti a lui ascritti così puntualmente formulati dall’Amministrazione sia in sede di inchiesta disciplinare che nel provvedimento conclusivo del relativo procedimento.

18. Né può valere quale scusante la circostanza per cui all’epoca il B era sospeso cautelativamente dal servizio (questione sub III)

Invero, la sospensione cautelativa (per altro procedimento penale) costituisce temporanea modificazione del rapporto di servizio, ma non fa venir meno i doveri inerenti il grado e la disciplina militare, come statuito dall’art. 66 della legge n. 113 del 1954 con conseguente responsabilità dell’Ufficiale una volta accerto, come nella specie, il comportamento assunto dall’Ufficiale in contrasto con i doveri dello status rivestito

19. Quanto alla congruità della sanzione inflitta al ricorrente, va semplicemente osservato, a dimostrazione del corretto operato dell’Amministrazione, che il potere disciplinare culminato con l’avvenuta irrogazione della massima delle sanzioni di stato è stato esercitato nei confronti del B in presenza di giustificati presupposti, costituiti da una condotta connotata da una gravità assoluta “con abuso delle proprie funzioni ed in palese contrasto con l’interesse pubblico relativo al corretto svolgimento del servizio d’istituto”.

20. In ogni caso, a proposito delle critiche di non proporzionalità e di disparità di trattamento pure mosse al provvedimento espulsivo vale qui rammentare come le valutazioni operate in sede disciplinare sono espressione del potere discrezionale dell’Amministrazione procedente, come tali insindacabili nel merito se non per macroscopici profili di irrazionalità e/o travisamento dei fatti e/o abnormità (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2694 del 2015;
n. 5670 del 2012;
n. 6605 del 2011), vizi nella specie non riscontrabili.

21. Conclusivamente, l’appello deve essere respinto, con integrale conferma delle statuizioni rese dal primo giudice con la impugnata sentenza.

22. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta all’attenzione della Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art.112 c.p.c. in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza, ex plurimis, Cass. Civ. Sez. IV 16 maggio 2012 n. 7663).

Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

23. Le spese del presente grado di giudizio seguono la regola della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento n.55 del 2014 e dall’art. 26, co. 1, c.p.a..

23. Il Collegio rileva che la reiezione dell’appello si fonda, come dianzi illustrato, su ragioni manifeste che integrano i presupposti applicativi delle norme sancite dall’art. 26 comma 2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. da ultimo, Sez. IV, n. 2197 del 2016;
Sez. V, n. 930 del 2015, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 88 comma 2, lettera d) c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative e alla determinazione della pena pecuniaria ex art. 26, comma 2, c.p.a.).

Le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto in esame sono state, nella sostanza, recepite nella novella recata dal d.l. n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a..

Invero:

a) l’art. 26 comma 2 c.p.a. prevedeva (e prevede) che il giudice condannasse d’ufficio a parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuple del contributo unificato dovuto per il ricorso, quando la parte soccombente aveva agito o resistito temerariamente in giudizio;

b) il d.l. n. 90 del 2014 ha inciso sia sull’art. 26 comma 1 c.p.a. in termini generali, valevoli per tutti i riti davanti al giudice amministrativo sia sull’all’art. 26 comma 2 c.p.a. in termini specifici, valevoli solo per il rito appalti,

24. La condanna dell’originario ricorrente ai sensi dell’art. 26 c.p.a. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2 comma 2- quinquies lettere a) ed d) della legge 24 marzo 2001 n. 89 come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015 n. 208.

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