Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-09-24, n. 202005586

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-09-24, n. 202005586
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202005586
Data del deposito : 24 settembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/09/2020

N. 05586/2020REG.PROV.COLL.

N. 01704/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1704 del 2020, proposto dalla Società cooperativa Itaca a r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato M L, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Capodistria, n. 12;

contro

il Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato S S, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21;

per la revocazione

della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 6464 del 27 settembre 2019, limitatamente alla parte riferita al ricorso in appello n. 6039/2011, ivi riunito con i ricorsi nn. 6037/2011 e 6038/2011, estranei al presente giudizio, per l’annullamento della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sezione I quater , n. 798/2011, avente ad oggetto la demolizione di opere abusive.


Visti il ricorso in revocazione e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma Capitale;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 28 luglio 2020, tenutasi con le modalità di cui alla normativa emergenziale di cui all’art. 84, commi 5 e 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, come modificato dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 25 giugno 2020, n. 70, il Cons. Antonella Manzione e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, i difensori delle parti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con determina n. 3207 del 10 novembre 2009 il dirigente dell’Unità organizzativa tecnica del Municipio XIII di Roma ha ingiunto la demolizione di una serie di manufatti installati all’interno di un’area comunale adibita a campeggio, meglio descritti come “ numerosi bungalow di diverse dimensioni e dislocati in vari punti dell’area ”, analiticamente elencati con riferimento alla dimensione e al posizionamento. Il provvedimento si riferiva altresì alla “ tamponatura delle tettoie mediante la realizzazione di un parapetto in muratura con sovrastanti infissi in alluminio e vetri ottenendo due superfici distinte, una di mq. 75 circa adibita a sala ristorante e all’altra antistante il bar market di mq. 180 circa con struttura e copertura in legno adibita a sala ristoro ” e alla realizzazione di una “ sala da ballo completamente tamponata e coperta in legno di mq. 50 circa ”.

Avverso la stessa, nella sola parte riferita ai bungalow, in quanto per la rimanente veniva inoltrata istanza di sanatoria, la Società cooperativa Itaca, titolare della concessione per l’utilizzo del suolo e dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività sin dal 1998, proponeva ricorso al T.A.R. per il Lazio, sez. I quater , che, previa riunione con altri procedimenti concernenti provvedimenti connessi e conseguenti, lo respingeva con sentenza n. 798 del 28 gennaio 2011, di fatto disapplicando la normativa edilizia regionale sulle strutture ricettive mobili in ragione dell’avvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 9, della l. 23 luglio 2009, n. 99 ( Corte Costituzionale n. 278 del 22 luglio 2010), che ne dettava il regime edificatorio in maniera eccessivamente analitica, con ciò invadendo l’ambito di competenza degli Enti territoriali.

2. Avverso tale decisione la cooperativa Itaca interponeva appello, ritenendo violato l’art. 73 c.p.a. e comunque mal interpretata la sentenza della Corte costituzionale, che, al contrario, stigmatizzando l’invasione degli ambiti di competenza statale, avrebbe lasciato intatte le previsioni regionali di maggior favore preesistenti, quali, per quanto qui di interesse, quelle contenute nell’art. 6 del Regolamento regionale 24 ottobre 2008, n. 18, attuativo della l.r. 6 agosto 2007, n. 13, che assoggetta a DIA (ora SCIA) l’installazione di bungalow, configurando addirittura attività edilizia libera per quella di case mobili e strutture analoghe.

3. Costituitosi in giudizio il Comune di Roma Capitale, chiedeva il rigetto dell’appello, in quanto infondato.

4. Con sentenza 25 giugno 2019, n. 6464, questa Sezione del Consiglio di Stato, dopo averlo riunito agli altri ricorsi proposti avverso le pronunce sugli atti conseguiti a quello di cui è causa, respingeva il gravame, confermando le statuizioni del giudice di prime cure, seppure con altra argomentazione.

5. A tal punto la Cooperativa proponeva ricorso per revocazione nei confronti della richiamata sentenza della Sezione n. 6464/2019 ritenendola affetta da abbagli revocatori, deducendo, quale unico, articolato motivo di impugnazione, l’omessa delibazione di uno specifico e dirimente vizio dell’atto impugnato, proposto sub 1), seconda parte dell’atto di appello, con cui si contestava l’errata applicazione dell’art. 21 della l.r. del Lazio n. 15/2008, indebitamente riferito ad interventi non riconducibili al comma 3 dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, espressamente richiamato dalla norma.

Per la ricorrente, in particolare, al punto 10.3.4 della sentenza il giudice, dopo aver ritenuto sostanzialmente fondato il primo motivo di ricorso, relativo alle conseguenze della richiamata sentenza della Corte costituzionale sulla disciplina regionale previgente, non ne avrebbe poi tratto le dovute conclusioni di diritto. Al contrario, se avesse valutato tale circostanza, sarebbe dovuto addivenire all’accoglimento dell’appello, una volta ammessa la possibilità che la disciplina regionale mantenga la sua efficacia derogatoria rispetto alla sentenza della Corte.

6. Con memoria in controdeduzione il Comune di Roma Capitale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ovvero, in alternativa, della sua improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, stante che nelle more della definizione dell’odierno procedimento sarebbe sopravvenuta la revoca della concessione dell’area su cui insistono i presunti abusi.

7. Successivamente le parti ulteriormente precisavano le rispettive tesi difensive ed all’udienza del 28 luglio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18.

8. Preliminarmente il Collegio ritiene di dover scrutinare l’eccezione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse sollevata dalla difesa civica, in ragione delle sorti della concessione dell’area di cui è causa. A prescindere dall’effettiva definizione del richiamato procedimento di revoca, contestata dalla ricorrente anche in relazione alla documentazione prodotta, certo è che esso non può incidere sul preesistente obbligo demolitorio, anche in termini di addebito delle relative spese, con ciò palesando la ribadita persistenza di interesse alla positiva definizione della controversia avente ad oggetto il -ben diverso- provvedimento che ne ha ingiunto l’esecuzione.

9. Nel merito, pare opportuno ricordare come ai sensi degli artt. 106, comma 1, c.p.a e 395, comma 1, n. 4), c.p.c., invocato dall’appellante in relazione al caso di specie, la revocazione è proponibile « se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa ». Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare. L’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395, n. 4), c.p.c., secondo il dettato positivo, pertanto, deve:

1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente e immediatamente rilevabile e tale da aver indotto il giudice a supporre l’esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile;

2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa;

3) non cadere su di un punto controverso sul quale la sentenza abbia pronunciato;

4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche;

5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto, né in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 17 gennaio 2020 n. 434).

Infine, il rimedio revocatorio per errore di fatto risulta utilizzabile anche a fronte di un’omessa pronuncia su domande o eccezione costituenti il thema decidendum. Il che è quanto l’appellante afferma essersi verificato nel caso di specie. La condizione, tuttavia, perché possa ritenersi sussistente tale fattispecie, deve conseguire all’esame della motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa è riferibile soltanto all’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non a quella in cui, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 9 gennaio 2020 n. 225). Il che, ritiene la Sezione, è quanto verificatosi nel caso di specie, stante che l’invocato scrutinio di errata violazione o interpretazione dell’art. 21 della l.r. n. 15/2008, seppure non fatto oggetto di esplicita enunciazione, costituisce il perno, o comunque la risultante dell’intera cornice ordinamentale per come ricostruita dal giudice d’appello. L’equivoco di fondo, infatti, in cui incorre l’appellante risiede nell’enfatizzato richiamo alla formulazione letterale di ridetta norma, che evoca il solo comma 3 dell’art. 22 del T.U.E., laddove il giudice d’appello ha inteso ricondurre l’esercizio del potere derogatorio ivi previsto al successivo comma 4 della medesima disposizione, ovviamente nella versione vigente ratione temporis . Con ciò dimostrando expressis verbis di aver esaminato la questione, risolvendola in senso sfavorevole all’appellante.

10. In sintesi, alla stregua delle considerazioni svolte, è evidente l’inammissibilità del ricorso per revocazione qui proposto giacché emerge dalla stessa lettura dell’unico e complesso motivo su cui lo stesso si fonda (i cui contenuti si estendono sostanzialmente anche agli altri della fase rescindente) che la sentenza impugnata ha pronunciato sull’applicabilità all’abuso in controversia dell’art. 21 della richiamata legge regionale, ritenendola corretta in quanto conforme (anche) ai principi rivenienti dalla normativa nazionale, per come “recuperati” alla loro originaria prospettazione una volta venuta meno la più favorevole disciplina di settore in ragione del suo contrasto con i principi di cui all’art. 117 della Costituzione (cfr. Corte cost. n. 278/2010, cit. sub §2).

Si legge infatti alle pagine 9 e 10 dell’atto di appello: « Dal punto 10.3.2. sino al punto 10.3.7. viene dato riscontro puntuale a tutte le altre censure, peraltro in massima parte condivise, avendo il Collegio affermato che:l’art. 3, comma 9, della legge 99/2009, è stato sì dichiarato incostituzionale dalla Consulta con la conseguente applicabilità esclusiva dell’art. 3 del D.P.R. 380/2001, che fa rientrare nel novero delle nuove costruzioni – necessitanti del permesso di costruire – anche i bungalows quali manufatti leggeri, ma sopravvive anche la potestà derogatoria attribuita alle Regioni dall’art. 22, comma 4, del D.P.R. 380/2001, secondo cui, all’epoca dei fatti, esse avevano la facoltà di ampliare l’ambito applicativo dell’istituto D.I.A., sicché in tale contesto andavano ad inserirsi sia l’art. 23, comma 6, della L.R. Lazio n.13/2007, che l’art. 6 del suo regolamento che, per quanto attiene ai bungalows, ne consentiva la installazione con semplice DIA, in deroga a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001, per cui “era legittima la scelta regionale di assoggettare a DIA, anziché a permesso di costruire l’installazione dei bungalows” (v. pag. 17), mentre il giudice di primo grado “non ha distinto tra la intrinseca legittimità dell’intervento normativo regionale in tema di bungalows ed ha oltretutto disposto la disapplicazione dell’art. 6 del regolamento regionale, operazione questa inibita nei riguardi degli atti normativi delegati con contenuto ed efficacia legislativi ». Con ciò si sono costruite le fondamenta dell’argomentazione successiva, alla stessa inscindibilmente correlata e tutt’affatto in contrasto: se è vero che la normativa regionale, anche a carattere regolamentare, non poteva essere disapplicata in ragione dell’intervento della Corte costituzionale su quella statale di dettaglio riguardante il titolo edilizio necessario per le installazioni da ubicare nelle strutture ricettive all’aria aperta, la proposta lettura costituzionalmente orientata della stessa la ricolloca sotto l’egida del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e.5), e 22, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, non ne legittima semplicemente la disapplicazione, siccome ipotizzato dal giudice di prime cure: le discipline di favore regionale, cioè, quale quella riveniente dall’art. 6 del regolamento n. 18/2008, limitatamente peraltro alla parte in cui prevede la DIA, “vivono”, in quanto legittimabili anche pro futuro ex art. 21, comma 4, del medesimo T.U.E. Con il che è stata chiaramente affermata la natura ontologicamente alternativa al permesso di costruire della DIA in questione, stante che ridetto titolo “pieno” a livello nazionale costituisce l’unico regime applicabile per l’installazione di “ manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee ” in quanto parificati a “nuove costruzioni”(art. 3, comma 1, lett. e.5 del d.P.R. n. 380/2001, cit. supra ).

Il diverso approccio ad una lettura costituzionalmente orientata del quadro normativo successivo alla declaratoria di illegittimità della legislazione del 2009, dunque, “salva”, nella ricostruzione del giudice di appello, la disciplina regionale previgente, ma proprio e solo nella misura in cui gli istituti di semplificazione vengono ricondotti alla permanente facoltà della loro introduzione quale alternativa al permesso di costruire, non quale disciplina di dettaglio, o comunque autonomamente introdotta, di un titolo non ammesso dal legislatore nazionale. « Orbene, era dunque di per sé legittima la scelta della Regione Lazio, esercitata a’ sensi dell’anzidetto art. 22, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, di assoggettare a DIA anziché a permesso di costruire l’installazione di bungalows, in deroga rispetto a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e.5), del d.P.R. n. 380 del 2001, dovendosi precisare al riguardo, altresì, che – oltre al ricorso per tale fine alla fonte legislativa letteralmente contemplata dal medesimo art. 22, comma 4, dell’anzidetto d.P.R., era ed è possibile ricorrere pure alla fonte regolamentare c.d. “autorizzata” presupposta dall’art. 56 della l.r. n. 18 del 2008 sulla base di quanto stabilito dall’anzidetto art. 47, comma 2, lettera c), dello Statuto regionale approvato con legge statutaria 11 novembre 2004, n. 1, nonché secondo i principi fissati dall’attuale testo dell’art. 117, sesto comma, Cost. e dall’art. 4 della l. 5 giugno 2003, n. 131» . E ancora: « In tal senso va infatti rimarcato che l’ambito di operatività dell’art. 22, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 poteva estrinsecarsi esclusivamente nella scelta di assoggettare nell’ordinamento regionale a DIA determinati interventi che nella legislazione statuale erano assoggettati al rilascio del permesso di costruire […] e ciò in quanto non erano a quel momento esercitabili dalla Regione medesima quelle potestà derogatorie ad essa conferite al riguardo soltanto per effetto delle novelle dapprima introdotte con l’art. 5, comma 1, del d.l. 25 marzo 2010, n. 42, convertito, con modificazioni, in l. 22 maggio 2010, n. 73 e – quindi – dall’art. 1, comma 1, lett. b), numero 5) del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 ». A ciò consegue il “ diversamente argomentando ” con il quale si apre il paragrafo in contestazione, che facendo sintesi delle pregresse affermazioni (legittimità delle discipline regionali di favore, fondate ratione temporis , secondo la ricostruzione del giudice di appello, sul comma 4 dell’art. 22 del T.U.E., riferite esclusivamente ad interventi altrimenti assentibili con permesso di costruire, di cui al comma 3 della medesima norma) avalla comunque il provvedimento impugnato in primo grado in quanto fondato proprio sul combinato disposto dell’art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 21 della l.r. 11 agosto 2008, n. 15, evidentemente ritenuto correttamente applicato. Ciò in quanto ridette fonti legislative dispongono « inderogabilmente e concordemente […] – e disponevano anche all’epoca dei fatti di causa – che “qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all'articolo 28” – ossia da parte di amministrazioni statali - di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non reiterabile, ordina al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo”;
il tutto con l’espressa precisazione che “la demolizione è eseguita a cura del Comune ed a spese del responsabile dell'abuso” e, soprattutto, che tale disciplina repressiva degli abusi si applica “anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in assenza di denuncia di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dalla stessa” (cfr. il comma 3-bis del medesimo art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001, come vigente all’epoca dei fatti di causa in quanto aggiunto per effetto dell’art. 1 del d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301;
cfr. – altresì – il consonante comma 1 dell’art. 21 della predetta legge regionale che a sua volta si riferisce alle opere realizzate in difetto sia del permesso di costruire, sia della denuncia d’inizio di attività)»
.

11. Dalla lettura della sentenza n. 6464/2019 si evidenzia dunque come il giudice di appello abbia affrontato funditus i contenuti della doglianza sollevata dalla cooperativa Itaca in modo approfondito, esprimendo la propria valutazione in fatto ed in diritto in ordine al contenuto ed alla portata della disciplina regionale in materia di installazioni incluse in strutture ricettive all’aperto, optando per un’ interpretazione difforme da quella prospettata dal primo giudice, pur condividendone le conclusioni. In particolare e in sintesi il giudice di appello ha dapprima testualmente riconosciuto la vigenza delle norme regionali che contemplano la DIA per i manufatti de quibus , siccome adottate in applicazione dell’art. 22, comma 4, del T.U.E., indi affermato la loro (sopravvenuta) alternatività a permesso di costruire, giusta la “riespansione” della disciplina definitoria e del conseguente regime giuridico contenuto nella cornice nazionale, con conseguente inevitabile applicabilità della disposizione sanzionatoria che la parte vorrebbe non essere stata presa in considerazione per errore valutativo.

Il Collegio ritiene dunque di non ravvisare alcuna carenza valutativa da parte del giudice di appello, al contrario di quanto sostiene la Cooperativa ricorrente, né alcun abbaglio o svista, atteso che detto giudice ha impresso (nella sentenza qui in contestazione) la propria linea interpretativa in merito alla disciplina regionale in ordine all’applicabilità dell’art. 21 della l.r. n. 15/2008, con riferimento al combinato disposto dei commi 3 e 4 dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, nel nuovo contesto conseguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della più permissiva normativa nazionale di cui alla l. 23 luglio 2009, n. 99.

Ne discende automaticamente l’inammissibilità dell’unico motivo rescindente dell’odierno ricorso per revocazione.

12. Conclusivamente, alla luce dei rilievi che precedono, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

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