Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2022-03-29, n. 202202298

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2022-03-29, n. 202202298
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202202298
Data del deposito : 29 marzo 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 29/03/2022

N. 02298/2022REG.PROV.COLL.

N. 04677/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4677 del 2018, proposto da
C G, rappresentata e difesa dagli avvocati Francesca Giuffre', D M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato F G in Roma, via dei Gracchi n. 39;

contro

Universita' della Calabria - Campus di Arcavacata, rappresentata e difesa dall'avvocato Giovanni Macri', con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) n. 01773/2017, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’ Universita' della Calabria - Campus di Arcavacata;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2022 il Cons. Roberta Ravasio e uditi per le parti gli avvocati Antonino Mazza Laboccetta per delega dell’avvocato F G.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. L’odierna appellante nel giugno 2007, a seguito di procedura concorsuale, è stata assunta dall’Università della Calabria in qualità di ricercatore, con contratto a tempo determinato avente scadenza al 1° luglio 2009. Detto contratto è stato prorogato una prima volta sino al 1° luglio 2010, e una seconda volta sino al 1° luglio 2011;
di fatto, però, l’appellante ha continuato a svolgere l’attività lavorativa ben oltre il termine indicato.

2. Con raccomandata del 4 agosto 2011, invocando a proprio favore l’art. 5, comma 2, del D. L.vo n. 368/2011, recante “ Attuazione della Direttiva 1999/707CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CCEP e dal CES ”, e sul presupposto che l’Università non aveva, nel frattempo, intrapreso la procedura prevista all’art. 14, comma 2, del Regolamento interno per il reclutamento dei ricercatori (secondo cui “ Al fine di impedire il prodursi degli effetti di cui all’art. 5 del D. Lgs. 06.09.01 n. 368, nei 30 giorni antecedenti la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il docente responsabile del progetto segnala per iscritto e senza indugio al Rettore che ha stipulato il contratto l’approssimarsi della scadenza;
a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nei dieci giorni che precedono detta scadenza il Rettore comunica al domicilio del ricercatore interessato la cessazione del rapporto di lavoro con effetto dalla data di scadenza.
”), e che l’attività lavorativa di fatto era proseguita senza interruzioni, ha chiesto al Magnifico Rettore dell’Ateneo la “ trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato ”.

3. L’Università ha sostanzialmente ignorato la richiesta, inviando alla appellante, nel corso del 2012, due missive aventi ad oggetto l’indennità di buonuscita.

4. L’appellante, pertanto, con raccomandata 27 dicembre 2012 ha reiterato la richiesta, e poi, con ricorso ex art. 414 e segg. c.p.c., presentato al Tribunale ordinario di Cosenza, ha citato in giudizio l’Università, chiedendo la declaratoria della sussistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 1° luglio 2011, e la condanna della Università medesima “ ad assumere ” l’appellante, con le stesse mansioni, nonché al pagamento dell’indennità prevista dall’art. 32 della L. n. 183/2010, nella misura pari a 12 mensilità o nell’altra misura ritenuta di giustizia, e delle spese processuali.

5. Con sentenza n. 937 del 14 maggio 2015 il Tribunale ordinario di Cosenza ha dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario sulle domande svolte dall’appellante, venendo in considerazione un rapporto di pubblico impiego non privatizzato, devoluto alla giurisdizione del Giudice Amministrativo.

6. Con ricorso in riassunzione notificato il 7 agosto 2015 l’odierna appellante ha riproposto le domande al Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, sede di Catanzaro.

7. L’Università della Calabria si è costituita in giudizio per resistere al ricorso.

8. Con la sentenza in epigrafe indicata il TAR ha dichiarato il ricorso inammissibile sul rilievo che, venendo in considerazione un rapporto di pubblico impiego, l’eventuale conversione del rapporto di lavoro, a tempo indeterminato, avrebbe dovuto essere mediata da un atto autoritativo discrezionale dell’Università, nella specie mancate;
correlativamente la ricorrente non poteva ritenersi titolare di un diritto soggettivo, alla conversione del rapporto di lavoro, ma solo di un interesse legittimo, che la ricorrente avrebbe potuto tutelare solo impugnando “ un atto autoritativo, quale il rinnovo a termine ”.

9. Con il ricorso in appello di cui in epigrafe la professoressa G ha impugnato l’indicata decisione, deducendone l’ingiustizia ed erroneità.

9.1. L’appellante sottolinea che nel caso specifico la normativa di riferimento sarebbe costituita dal D. L.vo 368/2001 e dal Regolamento interno dell’Università della Calabria, per il reclutamento dei ricercatori, espressamente richiamati nei contratti a termine a suo tempo stipulati con l’Ateneo.

9.2. In particolare l’appellante richiama:

- - l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001, il quale prevede che il rapporto di lavoro debba considerarsi a tempo indeterminato ai sensi del precedente comma 21, quando, per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro;

- - L’art. 14 del Regolamento interno, il quale stabilisce che « Al fine di impedire il prodursi degli effetti di cui all’art. 5 del d.lgs.

6.9.01 n. 368, nei trenta giorni antecedenti la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il docente responsabile del progetto segnala per iscritto e senza indugio al Rettore che ha stipulato il contratto l’approssimarsi della scadenza;
a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nei dieci giorni che precedono detta scadenza il Rettore comunica al domicilio del ricercatore interessato la cessazione del rapporto con effetto dalla data della scadenza
».

9.3. Pertanto, avendo superato, complessivamente, il periodo di trentasei mesi, con rapporti di lavoro a termine, l’appellante sostiene che il rapporto di lavoro si sarebbe già trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e di ciò l’Università dovrebbe prendere atto, adottando gli atti necessari. Con la reiterazione di contratti di lavoro a termine l’Università lederebbe il diritto dell’appellante ad avere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

9.4. L’appellante precisa, inoltre, che l’Università, dopo il contratto scaduto il 1° luglio 2011, non ne ha mai stipulati altri;
pertanto, contrariamente a quanto assume il primo giudice, non sussisterebbe un atto autoritativo, in ipotesi avente ad oggetto un nuovo rapporto a tempo determinato, che la ricorrente avrebbe potuto impugnare. D’altro canto ai ricercatori universitari non sarebbe applicabile il D. L.vo 165/2001, in quanto essi sono soggetti alle specifiche disposizioni che riguardano professori e ricercatori universitari, rinvenibili, appunto, nel D. L.vo 368/2001, a livello di normativa statale, e nel Regolamento interno.

9.5. L’appellante ha quindi concluso insistendo per la totale riforma della sentenza impugnata, riproponendo le domande già articolate nel corso del primo grado di giudizio.

10. L’Università della Calabria si è costituita in giudizio con mera comparsa di forma, insistendo per la reiezione del gravame.

11. La causa è stata chiamata alla pubblica udienza del 10 febbraio 2022, in occasione della quale è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

12. L’appello non può essere accolto.

13. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è già intervenuta varie volte sull’argomento, (in particolare, di recente, con l’ordinanza Papalia, C-50/13, e la sentenza "Carratù", C-361/12), affermando che “ l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev'essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato (pur legittimi), preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione. Spetta al giudice nazionale valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato siano conformi a questi principi ", cercando di rendere, nel rispetto dei margini di apprezzamento da lasciare agli Stati membri, effettivo il divieto di successione in contratti a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro pubblico, dopo trentasei mesi anche non continuativi di servizio precario, ma lasciando gli Stati membri liberi di decidere – con proprie scelte legislative - con quale strumento perseguire il risultato di garantire l’effettività della direttiva. In tale opera ricostruttiva del significato del diritto unionale essa ha chiarito che la clausola 5 dell'accordo quadro non sancisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratto a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato. L'ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve soltanto prevedere una misura effettiva per prevenire e, se del caso, sanzionare l'utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato (sentenza del 19 marzo 2020, S R e a., C-103/18 e C-429/18, EU:C:2020:219, punto 87 nonché giurisprudenza ivi citata).

14. Da quanto si evince dai precedenti della Corte di Giustizia la Direttiva 1999/707CE, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CCEP e dal CES, non impone al legislatore nazionale di commutare sempre, ed automaticamente, i rapporti di lavoro a termine in contratti di lavoro a tempo indeterminato, rimanendo gli Stati membri liberi di optare per un diverso sistema, purché idoneo a scoraggiare il ricorso abusivo ai contratti a termine, in particolare prevedendo che il lavoratore possa essere risarcito per il danno subito. Ciò è confermato indirettamente anche dalla giurisprudenza della Cassazione in materia (Cass. civ. sez. lav. N. 42004 del 2021 secondo cui nel pubblico impiego privatizzato, alla violazione di disposizioni imperative che riguardino l'assunzione, sia a seguito di pubblico concorso sia attingendo alle liste di collocamento, non può mai far seguito la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato, atteso che la "ratio" dell'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, che prevede il divieto di trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, non risiede esclusivamente nel rispetto delle regole del pubblico concorso, ma anche, più in generale, nel rispetto del principio cardine del buon andamento della P.A., che sarebbe pregiudicato qualora si addivenisse all'immissione in ruolo senza alcuna valutazione dei fabbisogni di personale e senza seguire le linee di programmazione nelle assunzioni, che sono indispensabili per garantire l'efficienza dell'amministrazione pubblica ed il rispetto delle esigenze di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica. ). In senso analogo Cassazione civile sez. VI, 03/12/2018, n.31174 ha ritenuto che le conseguenze dell’abuso dei contratti a termine nel pubblico impiego siano solo risarcitorie.

14.1 Va anche ricordato che il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U. 15/03/2016 n. 5072) con riferimento alla norma contenuta nel T.U. n. 165 del 2001, art. 36, secondo cui nell'ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione, il pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può essere collegato alla mancata conversione del rapporto: quest'ultima, infatti, è esclusa per legge e trattasi di esclusione affatto legittima sia secondo i parametri costituzionali che secondo quelli comunitari. Piuttosto, dando atto che l'efficacia dissuasiva richiesta dall'Accordo quadro, clausola 5, recepito nella Dir. 1999/70/CE postula una disciplina agevolatrice e di favore, che consenta al lavoratore che abbia patito la reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge circa l'ammontare del danno e rilevato che il pregiudizio è normalmente correlato alla perdita di chance di altre occasioni di lavoro stabile, le Sezioni Unite hanno rinvenuto nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, una disposizione idonea allo scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, esonera il lavoratore dall'onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito danni ulteriori.

La Corte di giustizia dell’UE pronunziandosi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell'art. 267 TFUE, dal Tribunale di Trapani, con la ordinanza del 5 settembre 2016, partendo dai principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte ha osservato:

- sotto il profilo del principio di equivalenza: che da esso discende che gli individui che fanno valere i diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione non devono essere svantaggiati rispetto a quelli che fanno valere diritti di natura meramente interna. Tanto le misure adottate dal legislatore nazionale nel quadro della Dir. 1999/70/CE al fine di sanzionare l'uso abusivo dei contratti a tempo determinato da parte dei datori di lavoro del settore pubblico che quelle adottate per sanzionare l'uso abusivo da parte dei datori di lavoro del settore privato attuano il diritto dell'Unione: di conseguenza le modalità proprie di questi due tipi di misure non possono essere comparate sotto il profilo del principio di equivalenza, in quanto entrambe hanno ad oggetto l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione (sentenza Corte di Giustizia Ue 7 marzo 2018 in causa C 494/2016, punti da 39 a 42).

- sotto il profilo del principio di effettività:

- che gli Stati membri non sono tenuti, alla luce della clausola 5 dell'accordo quadro, a prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato sicchè non può nemmeno essere loro imposto di concedere in assenza di ciò un'indennità destinata a compensare la mancanza di una siffatta trasformazione del contratto (sentenza Corte di Giustizia UE cit., punto 47);

- che, tenuto conto delle difficoltà inerenti alla dimostrazione dell'esistenza di una perdita di opportunità, il ricorso a presunzioni dirette a garantire ad un lavoratore che abbia sofferto - a causa dell'uso abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione - una perdita di opportunità di lavoro, la possibilità di cancellare le conseguenze di una siffatta violazione del diritto dell'Unione è tale da soddisfare il principio di .effettività (sentenza Corte di Giustizia UE cit., punto 50).

14.2 Anche il giudice delle leggi ha valutato i precedenti della Corte di giustizia che essi affermino sempre a proposito della clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro, che rientra nel potere discrezionale degli Stati membri ricorrere, al fine di prevenire l'utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato, ad una o più tra le misure enunciate in tale clausola o, ancora, a norme equivalenti in vigore, purché tengano conto delle esigenze di settori e/o di categorie specifici di lavoratori (sentenza 15 aprile 2008, nella causa C-268/06, Impact;
sentenza 23 aprile 2009, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki ed altri).

L'alternatività è del resto implicita nell'identica efficacia delle due misure espressamente individuate dalla Corte, entrambe idonee «a cancellare le conseguenze della violazione» (sempre nel paragrafo 79).

Tale efficacia è indubbiamente tipica della sanzione generale del risarcimento, desunta dai principi della normativa comunitaria e non richiede approfondimenti;
non diversa, tuttavia, è l'efficacia dell'altra misura, che sostanzialmente costituisce anch'essa un risarcimento, ma in forma specifica. Ciò sarebbe ancor più evidente se la sanzione alternativa consistesse nella trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, ma la Corte di giustizia dell'Unione europea, prendendo atto del principio del concorso pubblico, ricordato anche nell'ordinanza n. 207 del 2013, ritiene sufficiente una disciplina che garantisca serie chances di stabilizzazione del rapporto ( Corte Cost. n. 187 del 2016).

14.3 La giurisprudenza della Sezione è allineata su tali precedenti comunitari e costituzionali ( CdS VI n. 5624 del 2021 in particolare punto 27 ).

15. La norma invocata in principalità dall’appellante, ovvero l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001 (il quale prevede che il rapporto di lavoro debba considerarsi a tempo indeterminato ai sensi del precedente comma 21 quando, per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi) non prevede specificamente che tale principio si applichi anche alle pubbliche amministrazioni, in deroga ai principi generali, anche di rango costituzionale, che disciplinano i rapporti di lavoro, contrattualizzati o meno, del pubblico impiego che prevedono che l’assunzione avvenga, di norma, dopo l’espletamento di un pubblico concorso.

16. La norma citata (non più in vigore ma vigente nel momento della vicenda in esame ed abrogata da una legge applicabile solo ai rapporti di lavoro privati cfr-. d.lgs. n. 81 del 2015 applicabile solo ai rapporti di lavoro privati per effetto dell’art. 1 comma 3 del dl n. 87 del 2018 conv. in l. n. 96 del 2018 ) , pertanto, così come scritta, risulta direttamente applicabile solo ai rapporti di lavoro privati;
di converso, e per quanto riguarda i rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, la conversione del rapporto di lavoro, da tempo definito a tempo indeterminato, necessita il superamento di una procedura concorsuale ovvero la manifestazione di volontà dell’ente, con atto autoritativo assunto sulla base di una specifica disposizione normativa, nella specie assente.

17. Quindi, nell’ambito del pubblico impiego l’eventuale abuso del ricorso ai contratti a termine può, semmai, costituire per l’amministrazione pubblica fonte di responsabilità risarcitoria, mentre la decisione di assumere un dipendente a tempo indeterminato rimane una decisione discrezionale dell’Amministrazione, da assumersi solo ove una norma tanto preveda , alla quale non può sostituirsi il Giudice Amministrativo, emettendo una sentenza costitutiva/ricognitiva del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

17. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è infondato, in quanto è pacifico che dopo la scadenza dell’ultimo contratto di lavoro a termine stipulato tra l’appellante e l’Università della Calabria, quest’ultima, pur reiteratamente sollecitata dalla dottoressa G non è addivenuta alla determinazione di assumerla con contratto a tempo indeterminato né si rinviene una norma che tanto espressamente preveda.

18. Avendo la dottoressa G agito in giudizio solo per ottenere l’accertamento del diritto alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e non avendo formulato nel presente giudizio alcuna domanda risarcitoria, l’appello va respinto.

19. Resta tuttavia impregiudicata la possibilità, per l’appellante, di adire, eventualmente, l’Autorità Giudiziaria per ottenere l’eventuale risarcimento del danno conseguente alla mancata conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

20. Le spese del giudizio possono essere compensate in virtù della particolarità delle questioni trattate nonché del fatto che l’Università, benché costituita in giudizio, non ha svolto attività defensionale.

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