Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-03-08, n. 201901599

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-03-08, n. 201901599
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201901599
Data del deposito : 8 marzo 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 08/03/2019

N. 01599/2019REG.PROV.COLL.

N. 08990/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8990 del 2018, proposto dal Comune di Briosco, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati A T e M T C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

società Vallambro S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato L R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Desio, via San Pietro, n. 32, anche appellante incidentale;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, sezione quarta, n. 1583 del 26 giugno 2018, resa tra le parti, concernente la condanna del Comune di Briosco al risarcimento del danno per il ritardo nel rilascio di una concessione edilizia.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della società Vallambro S.r.l., contenente anche appello incidentale;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2019 il Cons. G C e uditi per le parti l’avvocato Simona Viola, su delega dell’avvocati A T, e l’avvocato L R.


FATTO e DIRITTO

1. La presente controversia concerne la domanda, proposta dalla società Vallambro srl con il ricorso al T.a.r. per la Lombardia n. 2066 del 2010, di risarcimento del danno attribuibile al ritardo del Comune di Briosco in riferimento ad una concessione edilizia rilasciata il 7 giugno 2001, per la realizzazione di un deposito ad uso produttivo e solo dopo che il T.a.r. aveva dichiarato l’illegittimità del silenzio con sentenza n. 2727 del 20 luglio 1999, a fronte di una domanda presentata nel maggio 1990.

1.1. I danni richiesti sono stati ricondotti al maggior importo per gli oneri di urbanizzazione, per la costruzione dell’edificio, per l’IVA, per il compenso dei professionisti, per la mancata locazione decennale dell’immobile, con un importo complessivo pari a oltre euro 550 mila.

2. Il T.a.r., con la sentenza n. 1583 del 26 giugno 2018, premesso che non era maturato il termine decadenziale di 120 giorni, previsto dall’art. 30 c.p.a., essendo stato il ricorso proposto prima dell’introduzione della nuova disposizione, ha ritenuto sussistente la colpa per il ritardo in capo all’amministrazione, sulla base delle seguenti essenziali argomentazioni:

- ai sensi dell’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, il Sindaco avrebbe dovuto pronunciare sulla domanda di concessione edilizia entro 60 giorni decorrenti dalla ricezione (il 3 agosto del 1990) della risposta alla richiesta di documenti aggiuntivi;
il termine è, pertanto, scaduto il 2 ottobre 1990 e, all’epoca, la disciplina urbanistica non era di ostacolo al rilascio della concessione;

- poiché il termine per provvedere era già scaduto, è irrilevante l’adozione da parte del Comune della delibera del 19 novembre del 1990, n. 168, di adozione di una variante al programma di fabbricazione con mutamento di destinazione dell’area di interesse da Zona D2, complessi produttivi, a Zona F2 standard, secondario e terziario;

- comunque, l’adozione di una variante allo strumento urbanistico non costituisce giusta causa di sospensione dell’esame della domanda di concessione, in mancanza di una misura di salvaguardia;
misura che, all’epoca (l. n. 1902 del 1952 applicabile ratione temporis ) costituiva una facoltà del Sindaco;

- il Comune è restato inerte e la inerzia è stata accertata dal T.a.r. con sentenza n. 2727 del 20 luglio 1999;

- solo in esito alla suddetta sentenza, il Comune ha ripristinato (con delibera n. 49 del 2000) la disciplina urbanistica originaria ed ha rilasciato la concessione n. 7 del 2001;

- la perenzione (e l’improcedibilità) dei ricorsi proposti dalla società avverso le delibere comunali del 1990 e del 1993 e avverso quella regionale del 1995, le quali avevano previsto e confermato il mutamento di destinazione urbanistica, sono irrilevanti rispetto al ritardo del Comune;

- pure irrilevante è l’aver il signor Consonni, per un periodo legale rappresentate della società istante, ricoperto anche la carica di Sindaco per un certo periodo.

2.1. Il primo giudice ha, inoltre, escluso la possibilità di una possibile chiamata in causa di amministratori e funzionari comunali per comportamenti tenuti dagli stessi nella vicenda, avanzata dal Comune, esulando la eventuale azione di regresso del Comune dalla giurisdizione del giudice amministrativo e appartenendo al giudice contabile;
infine, ha rigettato nel merito la domanda riconvenzionale del Comune, essendo totalmente irrilevante la carica di Sindaco in capo al legale rappresentante della società, non valendo ad escludere il colpevole ritardo del Comune.

2.2. La sentenza ha disposto che la liquidazione del danno avvenisse, ai sensi dell’art. 34, quarto comma, c.p.a.:

(a) mediante la determinazione della maggiore spesa per contributo di costruzione sostenuta dalla società Vallambro nel 2001 rispetto a quella che avrebbe potuto essere sostenuta nel 1990;

(b) mediante la determinazione della maggiore spesa per la realizzazione dell’intervento edilizio sostenuta dalla società nel 2001 rispetto a quella che si sarebbe sostenuta nel 1990;

(c) mediante la determinazione (anche a titolo di risarcimento per perdita di chance) della somma che la società avrebbe potuto percepire a titolo di canone di locazione se l’edificio fosse stato realizzato subito dopo la domanda di concessione del 1990, e perciò da tale data fino alla sua realizzazione effettiva dopo la concessione del 2001;

(d) la maggiorazione di ogni singola voce per rivalutazione e interessi.

3. Avverso la suddetta sentenza, il Comune ha proposto appello, affidato a cinque motivi, esplicati anche con memoria.

3.1. La società Vallambro si è costituita, chiedendo il rigetto del gravame e proponendo appello incidentale “ nella parte in cui prevede l’onere a carico della società di provare le probabilità di locazione dell’immobile produttivo che sarebbe stato realizzato a partire dal 1990 ” ed ha depositato memorie.

3.2. Con ordinanza del 30 novembre 2018, questo Consiglio ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata, “ considerata l’entità del danno economico per le finanze comunali e l’apparente fondatezza di taluni motivi di ricorso ”, ed ha compensato le spese processuali della fase.

3.3. All’udienza pubblica del 21 febbraio 2019, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta dal Collegio in decisione.

3.3.1. Deve preliminarmente darsi atto che i documenti attinenti all’accordo che le parti hanno tentato di raggiungere, depositati dalla società nell’imminenza della udienza pubblica, sono del tutto irrilevanti.

4. Il Comune (con il secondo motivo, lett. c) e d) e con il terzo motivo) ha censurato la sentenza rispetto a due profili essenziali:

a) per aver erroneamente ritenuto la non operatività delle misure di salvaguardia a partire dalla delibera comunale del novembre 1990, sostenendo che la operatività delle stesse era rimessa dalla legge dell’epoca alla discrezionalità dell’amministrazione;

b) per aver erroneamente ritenuto integrato il profilo della colpa in capo all’amministrazione sulla base del mero decorso del termine di 60 giorni, previsto dall’art. 31 l. n. 1150 del 1942, senza considerare che, sulla base delle delibere comunali del 1990, del 1992 e del 1993 e della delibera regionale del 1995, tre delle quali impugnate dalla società con ricorsi conclusosi con decisioni in rito molti anni dopo per carenza di interesse, la concessione non poteva essere rilasciata, e che il ricorso avverso il silenzio tenuto dall’amministrazione si era concluso solo nel 1999 per effetto del comportamento processuale della società ricorrente;
con la conseguenza che, semmai, il ritardo imputabile sarebbe solo di 47 giorni (dal 2 ottobre 1990 al 19 novembre del 1990), e, che, ai sensi dell’art. 30 comma 3 c.p.a., è escluso il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela.

4.1. Le suddette censure del Comune appellante sono fondate e vanno accolte.

5. Deve preliminarmente precisarsi che il Comune, con l’adozione di una variante al programma di fabbricazione, nell’ambito di un piano di zona (delibera del 19 novembre del 1990, n. 168), aveva determinato un mutamento di destinazione dell’area di interesse da Zona D2, complessi produttivi, a Zona F2 standard, secondario e terziario.

Tale destinazione era stata confermata con il Piano Regolatore Generale, adottato con la delibera del 25 gennaio 1992, n. 3 e approvato con la delibera della Giunta regionale della Lombardia 14 febbraio 1995, n. 63948.

Nella controversia non è in discussione il mutamento di destinazione dell’area e, quindi, l'incompatibilità della richiesta di concessione presentata nel maggio del 1990 con le previsioni contenute nei successivi atti di governo del territorio.

5.1. L’interpretazione che il primo giudice ha dato in ordine alla normativa sulle misure di salvaguardia non può essere condivisa, perché contrasta con esplicite disposizioni normative.

Infatti, se è vero che l’articolo unico della l. n. 1902 del 1952 attribuiva al Sindaco un potere discrezionale in ordine alla sospensione del rilascio delle “licenze edilizie” in contrasto con il piano regolatore generale ed il piano particolareggiato adottati, è altrettanto vero che l'applicazione delle misure di salvaguardia è divenuta successivamente obbligatoria.

Per i piani regolatori generali, rileva l'art. 3 della l. n. 765 del 1967, che ha novellato l’art. 10 della l. n. 1150 del 1942, mentre per i programmi di fabbricazione rileva l’art. 4 della l. n. 291 del 1971.

Comunque, l’obbligatorietà è stata estesa via via dal legislatore (l. n. 517/1966) a molti strumenti urbanistici, quali i cd. piani attuativi, generali e speciali (piani di lottizzazione, piani di zona PEEP, ex artt. 26 ss. della l. n. 865/1971, piani di recupero ex art. 27 ss. della l. n. 457/1978 ).

La indefettibile obbligatorietà è stata rimarcata da un consolidato orientamento giurisprudenziale ( ex multis Cons. di Stato, Ad. plen., n. 17 del 1978), che ne ha dato contemporaneamente una interpretazione estensiva, in forza della quale le misure di salvaguardia trovano necessaria applicazione a tutti i piani comunali, generali o particolareggiati, indipendentemente dal loro nomen iuris e dalla loro configurazione procedimentale, sempre che sussistano gli stessi presupposti della disposizione statale ( ex multis Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 1972, n. 297;
sez. IV, 19 gennaio 1997, n. 1297;
22 giugno 2007, n. 3514).

L'applicazione a tutti questi atti della salvaguardia obbligatoria, implicita nella vis espansiva dell'istituto, trova ora un ulteriore fondamento testuale, nel testo dell'art. 12 del T.U. n. 380/2001 (che si richiama, malgrado la sua irrilevanza ratione temporis ), il quale, nel disciplinare l’istituto della salvaguardia si riferisce agli “ strumenti urbanistici adottati ”, rimarcandone l’applicabilità ad ogni piano (disposizione cui A.P. n. 2 del 2008 ha riconosciuto valore di norma di principio rispetto alla legislazione regionale).

5.2. Secondo la giurisprudenza consolidata, la funzione delle misure di salvaguardia è quella di evitare la compromissione degli assetti del territorio nel tempo dell'approvazione di nuove contrastanti previsioni urbanistiche, con conseguente necessità della conformità del progetto al più restrittivo dei due regimi pianificatori tra quello vigente e quello solo adottato, dove lo strumento anche solo in adozione rileva come presupposto ostativo al perfezionamento dell'istruttoria sulla domanda presentata nel vigore dello strumento vigente ( ex multis , Cons. Stato, sez. IV, n. 4254 del 2012).

Altrettanto consolidati sono gli effetti che si ricollegano all’adozione di uno strumento urbanistico che ponga un regime pianificatorio più restrittivo, dovendo il Comune sospendere ogni determinazione sulle domande di permesso di costruire che siano conformi agli strumenti urbanistici vigenti, ma in contrasto con il nuovo strumento urbanistico adottato, non potendo discostarsi dalle nuove regole adottate, accogliendo una proposta con esse in contrasto e potendo essere rilasciati solo permessi di costruire che non contrastino con le previsioni del piano adottato e in attesa di approvazione (Cons. Stato, sez. IV, n. 257 del 2014;
n. 4243 del 2013;
n. 764 del 2005).

5.3. Nella fattispecie ora all’attenzione del Collegio, il mutamento della destinazione dell’area in senso sfavorevole all’istante è stato adottato con la variante al programma di fabbricazione del 19 novembre 1990 ed è stato confermato con l’adozione del PRG il 25 gennaio 1992, poi approvato nel febbraio del 1995.

Per effetto della obbligatoria operatività delle misure di salvaguardia, il Comune era obbligato a sospendere ogni determinazione sull’istanza di concessione edilizia, almeno dal novembre del 1990 al febbraio del 1995 e, certamente, non avrebbe potuto adottare un provvedimento permissivo.

In altri termini, vi era una preclusione legale al rilascio del titolo edilizio, pur se non esplicitata con il relativo atto avente natura vincolata.

Per il periodo successivo, con l’approvazione del PRG, ogni provvedimento favorevole era impedito dallo strumento urbanistico vigente. Tanto sino a che, con la delibera n. 49 del luglio 2000, non è stata ripristinata l’originaria destinazione, in accoglimento dell’istanza della società del novembre 1999, con la quale, richiamando la sentenza del T.a.r. del 1999 di accoglimento del silenzio rifiuto, la società aveva richiesto il rilascio della originaria concessione sulla base delle norme all’epoca applicabili o, in subordine, la variante allo strumento urbanistico.

Precisato che, una volta ripristinata la previsione originaria, l’istanza della società del marzo 2001 è stata esitata con la concessione del giugno successivo e che questo tempo per il rilascio non è oggetto di censura, deve trarsi la conclusione che il tempo trascorso dal 19 novembre 1990 al luglio 2000 non è imputabile al Comune e comunque non ha avuto alcuna idoneità in concreto a precludere o a differire la realizzazione delle opere.

5.4. Astrattamente imputabile al Comune sarebbe il periodo di tempo compreso tra la scadenza dei 60 giorni decorrenti dalla ricezione dei documenti aggiuntivi richiesti (2 ottobre 1990) e la data di adozione della variante al programma di fabbricazione (19 novembre del 1990).

Tuttavia, ritiene il Collegio che non sussistono i presupposti per individuare in capo all’Amministrazione l’elemento soggettivo della rimproverabilità (da considerare un elemento necessario per ravvisare la sua responsabilità: Cons. Stato, sez. VI, n. 1649 del 2017).

Infatti, le parti concordano, sia pure mettendo in evidenza intenti diversi – la finalità di trasparenza il Comune, il fine “persecutorio” la società – sulla circostanza che l’amministrazione, prima dell’adozione della variante nel novembre del 1990, aveva pubblicizzato la necessità di rivedere le norme urbanistiche sull’area per limitare il consumo del suolo. Con la conseguenza, che il silenzio serbato per un così breve periodo può ben trovare spiegazione nelle valutazioni in fieri in ordine ad un mutamento dello strumento urbanistico.

5.5. In conclusione, nella fattispecie sono assenti due presupposti essenziali che devono sussistere affinché possa riconoscersi la spettanza del risarcimento del danno in capo alla società: sia una qualsiasi condotta dell’amministrazione rimproverabile a titolo di colpa;
sia la lesione del bene della vita al quale il soggetto aspira, da verificarsi attraverso un giudizio prognostico (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 840 del 2019).

Come si è prima argomentato, non solo il differimento della conclusione del procedimento non è colpevolmente imputabile al Comune, ma se anche il Comune avesse tempestivamente adottato un provvedimento sull’istanza, avrebbe al massimo potuto emanare la misura di salvaguardia alla richiesta di concessione sulla base degli strumenti urbanistici in itinere , poi approvati, e certamente non avrebbe potuto adottare un provvedimento favorevole all’istante.

6. Quanto fino ad ora argomentato è sufficiente ed idoneo ad accogliere le censure di appello in argomento.

Per completezza, è opportuno prendere in esame un altro profilo, alla luce del quale il risarcimento non spetterebbe alla società sulla base della regola della non risarcibilità dei danni evitabili e, quindi, dell’incidenza dell’interruzione del nesso causale tra la violazione di un termine procedimentale (qui assunto come imputabile il breve lasso di tempo tra la scadenza del termine e l’adozione del primo strumento urbanistico modificato) e il danno lamentato, determinata dal comportamento del presunto danneggiato;
regola prevista dall’art. 1227, comma 2 c.c. e riconosciuta come operante nella giurisprudenza amministrativa anche prima che venisse chiaramente sancita dall’art. 30, comma 3, c.p.a.

L’A.P. n. 3 del 2011, coerentemente con quanto già desumibile dall'art. 1227, secondo comma, c.c., ha stabilito che l’art. 30, comma 3, c.p.a. deve interpretarsi nel senso che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo o la mancata proposizione di un ricorso amministrativo o, ancora, la mancata attivazione di iniziative volte a sollecitare la rimozione o la modificazione in autotutela del provvedimento lesivo possono essere ritenuti comportamenti contrari a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno.

La regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’ art. 30, comma 3, cit., come interpretato dall’organo nomofilattico della giustizia amministrativa, è ricognitiva di principi già evincibili da un’interpretazione evolutiva del capoverso dell’art. 1227 c.c. e, pertanto, trova applicazione anche per le domande e per i fatti illeciti antecedenti all’entrata in vigore del c.p.a. (cfr. da ultimo, Cons. St., sez. IV, n. 241 del 2018 e n. 5237 del 2017;
sez. V, , n. 1649 del 2016).

6.1. Nella fattispecie, la società, che pure aveva impugnato dinanzi al T.a.r. le delibere che prevedevano il mutamento di destinazione dell’area di interesse (quella del 1990 di adozione della variante del programma di fabbricazione;
quella del 27 marzo 1993, n. 10, contenente il rigetto delle osservazioni presentate al PRG adottato nel 1992;
quella del 1995, di approvazione del PRG), non ha palesato la sussistenza del suo interesse alla definizione dei processi, che si sono conclusi molti anni dopo (tra gli anni 2000 e 2007) con decisioni in rito per carenza di interesse sopravvenuta.

Ed, infatti, le “istanze di prelievo” erano state presentate solo alla fine dell’anno 1999, dopo che era intervenuta la sentenza di accoglimento del silenzio, e dopo che era intervenuta la concessione edilizia nel 2001.

Il mancato impulso processuale ha integrato la violazione del canone comportamentale cristallizzato dall’art. 1227, secondo comma, c.c. (e oggi recepito dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo), spiegando un effetto eziologico nella produzione di un preteso danno, altrimenti evitabile. Il comportamento processuale posto in essere a suo tempo ha causato il dedotto danno per la mancata tempestiva realizzazione di un deposito ad uso produttivo, danno che – sotto tale profilo – quanto meno sarebbe stato plausibilmente evitabile se, nei suddetti processi, la società fosse stata ritenuta portatrice di una aspettativa qualificata alla permanenza della originaria destinazione dell’area, per via del sopravvenuto mutamento dei strumenti urbanistici a poca distanza temporale della scadenza del termine per provvedere (per scelte urbanistiche confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate, cfr . Cons. Stato, sez. VI, n. 13235 del 2013;
sez. IV, n. 5589 del 2013;
sez. IV, n. 1871 del 2014).

6.2. Un discorso analogo può farsi quanto al ricorso dinanzi al T.a.r. proposto dalla società avverso il silenzio dell’amministrazione: nessuna sua iniziativa processuale vi è stata tra il 1990 ed il 1998.

7. L’accoglimento delle censure prospettate con il secondo (in parte) e con il terzo motivo di appello, comporta l’assorbimento dei restanti motivi e l’assorbimento del ricorso incidentale proposto dalla società, attinente alla quantificazione del danno.

E’ pertanto irrilevante in questa sede il principio per il quale solo con gli articoli 33 e 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 è stata innovativamente introdotta la regola della risarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo in materia edilizia (Corte Cost., ord. 8 maggio 1998, n. 165;
Cons. Stato, Sez. IV, 8 maggio 2007, n. 2136;
Sez. IV, n. 1047 del 2005).

8. Per le ragioni che precedono, l’appello principale del Comune va accolto, sicché, in riforma della sentenza impugnata, va integralmente respinto il ricorso di primo grado, per la palese infondatezza della formulata domanda risarcitoria.

Di conseguenza, va dichiarato improcedibile – per sopravvenuta carenza di interesse ed insussistenza dei presupposti processuali e sostanziali - l’appello incidentale, con il quale la società ha chiesto la condanna del Comune al risarcimento del danno per un importo superiore a quello liquidato dal T.a.r.

Le spese processuali seguono la soccombenza per entrambi i gradi di giudizio.

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