Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-01-22, n. 201300359

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-01-22, n. 201300359
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201300359
Data del deposito : 22 gennaio 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 06236/2010 REG.RIC.

N. 00359/2013REG.PROV.COLL.

N. 06236/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6236 del 2010, proposto da:
P A S.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. M R, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’Avv. Marco Croce, via Nizza, 63;

contro

P Maria Grazia, costituitasi in giudizio, rappresentata e difesa dall’Avv. M B, e dall’Avv. M S M, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Sabotino, 45;
F G, F F e D L S, costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall’Avv. F C, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’Avv. Angelo Maleddu, via del Tempio, 1;

nei confronti di

Comune di Pescara, Marialetizia B, Antonio B, Marco B, Paolo B;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per l’Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, n. 276 dd. 20 aprile 2010, resa tra le parti e concernente permesso di costruire e norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale del Comune di Pescara.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di M G P, nonché di G F, F F e Stefano D L;

Visto l’appello incidentale di G F, F F e Stefano D L;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 giugno 2012 il Cons. F R e uditi per la P A S.r.l. l’Avv. M R, per M G P l’Avv. M S M e per G F, F F e Stefano D L l’Avv. F C;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1. In data 14 gennaio 2009 alla P A S.r.l. è stato rilasciato dal Comune di Pescara il permesso di costruire n. 428/08, avente ad oggetto la ristrutturazione di un fabbricato residenziale ubicato in Via Largo Isoletta tramite demolizione e ricostruzione con utilizzo della volumetria derivante dalla demolizione di un edificio preesistente.

In particolare, va sin d’ora evidenziato che tale edilità preesistente - già di proprietà in quote distinte dei Signori A B e Maria Teresa Sorno, cognati tra di loro e ai quali sono succeduti gli eredi Marialetizia, Antonio, Marco e Paolo B – era stata realizzata a sua volta in forza di licenza edilizia rilasciata in data 8 giugno 1968, ma con alcune difformità rispetto al progetto originario, e che in dipendenza di ciò erano state presentate due domande di condono edilizio: la prima già da parte della Sig.ra Maria Teresa Sorno, a’ sensi dell’art. 31 e ss. della L. 28 febbraio 1985 n. 47 al prot. 76889/17220/15439/R del Comune di Pescara e avente ad oggetto il locale ubicato nel seminterrato ed esteso per mq. 53;
la seconda presentata dal Sig. A B, sempre a’ sensi dell’art. 31 e ss. della L. 47 del 1985, al prot. 76890/17219/15438/ e avente a sua volta ad oggetto altro locale ubicato nel seminterrato ed esteso per mq. 83,60.

Con nota prot. 128649 dd. 28 novembre 2003 il Comune di Pescara ha comunicato alla Sig.ra Sorno che la sua domanda di condono doveva essere integrata da ulteriore documentazione essenziale per la definizione della pratica.

Nel corso del processo di primo grado, e anche nel presente grado di giudizio, P sostiene che tale nota mai sarebbe stata ricevuta dalla Sorno, ovvero dai familiari conviventi o da persone incaricate, e che presso il Comune sarebbe stata nondimeno rinvenuta una cartolina di ricevimento recante una firma illeggibile e che – comunque – P afferma non attribuibile alla Sorno medesima.

Sempre dagli atti rinvenuti presso il Comune consta pure che in data 12 marzo 2004 era stata inviata analoga nota di richiesta di integrazione della pratica di condono anche al Sig. A B e che anche in questo caso nessuno avrebbe preso visione di tale richiesta, essendo il destinatario della missiva deceduto il 28 luglio 1989;
anche in questo caso agli atti del Comune risulta una cartolina d’esito recante una firma illeggibile.

Giova pure sin d’ora evidenziare che la tesi di fondo di P, sostenuta in entrambi i gradi di tale giudizio, consiste nell’affermazione che entrambe le domande di condono dovevano comunque reputarsi accolte nel 2004 per silenzio-assenso,a’ sensi di quanto previsto dall’art. 35 della L. 47 del 1985.

Nondimeno, gli eredi della Sorno, dopo un riscontro presso il Comune delle due pratiche, hanno comunque provveduto di loro iniziativa ad integrare le medesime in data 4 agosto 2008 producendo le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà richieste a ciascun proprietario circa la risalenza temporale degli abusi da sanare, le relazioni tecniche sullo stato di fatto, ulteriore documentazione fotografica dei luoghi e le visure catastali aggiornate, nelle quali risulta indicata per i locali seminterrati la destinazione d’uso a taverna, a magazzino e a deposito.

A fronte di ciò in data 1 ottobre 2008 il Comune di Pescara ha rilasciato ai Signori Marialetizia, Antonio, Marco e Paolo B, divenuti nel frattempo anche proprietari della parte di immobile già di proprietà del Signor A B, il provvedimento di condono n. 8185/08 relativo agli abusi edilizi realizzati sia dallo stesso A B, sia dalla Sorno.

In data 10 ottobre 2008 P ha pertanto acquistato il fabbricato di proprietà B come interamente condonato.

Giova anche sin d’ora rilevare che in data 11 febbraio 2009 il Comune di Pescara ha dato avviso a P, in dipendenza dell’avvenuto rilascio dell’anzidetto permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009, di aver ricevuto da parte della Sig.ra Maria Teresa B domanda di accesso, a’ sensi dell’art. 22 e ss. della L. 7 agosto 1990 n. 241 e successive modifiche, a tutta la pratica conclusasi con il rilascio di tale titolo edilizio.

P si è opposta a tale richiesta.

In data 17 aprile 2009 la B ha presentato una nuova istanza di analogo contenuto, alla quale P non si è opposta.

1.2. A questo punto va evidenziato che con ricorso proposto sub R.G. 406 del 2009 innanzi al T.A.R. per l’Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, i Signori G F e F F, figli della Sig.ra Mariateresa B e abitanti in altro edificio parimenti ubicato in Via Largo Isoletta,

hanno chiesto l’annullamento del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 e degli artt. 9, lett. g), e 33, lett. b), comma 2, delle N.T.A. del P.R.G. di Pescara.

Tali ricorrenti, che hanno pure prodotto dopo l’atto introduttivo del giudizio anche motivi aggiunti di ricorso, hanno complessivamente dedotto le seguenti censure:

1) violazione degli artt. 1 e 3 del D.P.R. (erroneamente indicato nella sentenza impugnata come decreto legislativo) 6 giugno 2001 n. 380, laddove questi non prevederebbero una demolizione e ricostruzione come quella nella specie assentita;

2) violazione degli articoli 5 e 33 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Pescara, in quanto l’Amministrazione comunale avrebbe erroneamente preso in considerazione una cubatura divenuta legittima dopo l’adozione del P.R.G. medesimo;

3) violazione degli articoli 5 e 8 delle medesime N.T.A., difetto di istruttoria e motivazione, per avere l’Amministrazione comunale considerato rilevanti i volumi di locali ubicati sotto il piano stradale;

4) violazione dell’art. 5, secondo comma, lett. f) del Regolamento edilizio del Comune di Pescara e difetto di istruttoria, per mancata indicazione delle quote dell’edificio;

5) violazione degli artt. 33 e 5 delle N.T.A. del P.R.G., per avere considerato come superficie coperta le porzioni occupate dalle strade comunali;

6) violazione dell’art. 11 del D.P.R. 380 del 2001, dell’art. 60 della L.R. 12 aprile 1983 n. 18 e dell’art. 2 del 18/83 e dell’art. 2 del Regolamento edilizio del Comune di Pescara, contraddizione tra provvedimento e istruttoria, per avere considerato come superficie aree appartenenti al demanio stradale;

7) violazione dell’art 33, comma 8, delle N.T.A. del P.R.G., per mancato rispetto delle distanze dal confine.

1.3. A sua volta il Sig. Stefano D L, proprietario di un villino posto a confine con la proprietà P, ha presentato innanzi allo stesso giudice analogo ricorso sub R.G. 416 del 2009.

1.4. Lo stesso D L, peraltro, ha presentato un ulteriore ricorso sub R.G. 523 del 2009, reimpugnando l’anzidetto permesso di costruire n. 428/08 del 2009, ma questa volta unitamente alla surriferita concessione edilizia in sanatoria n. 8185 del 2008 rilasciata agli eredi B: e ciò, per l’appunto, in quanto il titolo edilizio chiesto e ottenuto da P era stato rilasciato in applicazione all’art. 32 delle N.T.A. del P.R.G., laddove consente il “riutilizzo della volumetria derivante dalla demolizione di un fabbricato esistente” e nella specie costituita dalla volumetria del fabbricato B, così come complessivamente risultante dal condono edilizio a loro concesso.

Il D L ha dedotto al riguardo quanto segue:

1) violazione dell’art. 39 della L. 23 dicembre 1994 n. 724, in quanto la parte richiedente il condono avrebbe omesso di presentare tempestivamente la documentazione richiesta con riguardo alla previsione del termine di 3 mesi rispetto alla comunicazione ricevuta dal Comune;

2) irrazionalità manifesta, difetto di istruttoria e motivazione e violazione dell’art. 35 della L. 47 del 1985, avendo il Comune rilasciato il provvedimento di condono in assenza della documentazione a ciò necessaria, ossia – in particolare – senza che fosse stata prodotta la descrizione delle opere da sanare e la dichiarazione corredata da idonea documentazione fotografica;

3) contrasto tra domanda e provvedimento, difetto di motivazione e irrazionalità, posto che la Sorno e B A avevano chiesto il rilascio del titolo edilizio in sanatoria per un “garage” esteso all’intero seminterrato, nel mentre il titolo edilizio in sanatoria si riferisce ad una “taverna-deposito” ;
e ciò, senza sottacere che gli eredi B, nella dichiarazione d’uso presentata il 7 agosto 2008 al Comune, avevano affermato che i locali in questione erano adibiti a “magazzino, deposito, taverna” e, quindi, non a garage” ;
tali circostanze, secondo la prospettazione del D L, avrebbero dovuto indurre il Comune respingere le domande di condono, anche in considerazione che se i locali in questione fossero stati condonati come “garage” , a’ sensi dell’art. 85 del Regolamento edilizio la relativa volumetria non avrebbe potuto essere computata a beneficio di quella realizzata da P, in quanto la relativa disciplina esclude al riguardo le autorimesse poste nei piani seminterrati e interrati entro la sagoma dell’edificio, e anche in dipendenza della previsione dell’art. 85 dello stesso Regolamento, secondo cui le volumetrie condonate con destinazione ad uso parcheggio o autorimessa non possono subire variazioni di destinazione d’uso.

1.5. Il Comune e P si sono costituiti in tutti e tre i procedimenti, eccependo in via preliminare la tardività e l’inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti proposti sub R.G. 406 del 2009 dai F, nonché la tardività del ricorso proposto dal D L sub R.G. 416 del 2009, rispetto alla conoscenza dell’ivi impugnato titolo edilizio, e hanno dedotto analoga eccezione anche per quanto attiene al ricorso proposto sub R.G. 523 del 2009 dallo stesso D L per quanto segnatamente attiene all’impugnazione del titolo edilizio in sanatoria, reputandolo già noto allo stesso ricorrente al momento della proposizione del precedente ricorso proposto sub R.G. 416 del 2009.

Il Comune e P, sempre in via preliminare, hanno pure eccepito il difetto di interesse di tutti i ricorrenti.

Entrambe le parti resistenti, in subordine, hanno puntualmente replicato a tutte le censure avversarie, concludendo comunque per la reiezione di tutti e tre i ricorsi.

1.6. In tutti e tre i procedimenti ha proposto intervento ad adiuvandum la Signora M G P.

In ordine a tali interventi P ha eccepito la loro inammissibilità per difetto di interesse.

1.7. L’Avv. Letizia B si è costituita in proprio nel ricorso proposto sub R.G. 523 del 2009, chiedendone il rigetto.

1.8. Con sentenza n. 276 dd. 20 aprile 2010 l’adito T.A.R. ha accolto i tre ricorsi, previa loro riunione “per evidenti ragioni di connessione oggettiva, derivante dall’identità e connessione degli atti impugnati, e soggettiva per quanto concerne i due ricorsi proposti da D L S” .

Risulta opportuna una disamina puntuale del contenuto di tale pronuncia.

Il giudice di primo grado, dopo aver evidenziato che oggetto del primo ricorso di Stefano D L (R.G. 416 del 2009) e di quello di G e F F (R.G. 406 del 2009) sono gli artt. 9, lett. g) e 33, lett. b) secondo comma delle N.T.A. del P.R.G. di Pescara, nonché il permesso di costruire n. 428 del 2008 dd. 14 gennaio 2009 rilasciato a P, nel mentre nell’ulteriore ricorso proposto sub R.G. 523 del 2009 proposto sempre dal D L è impugnata la concessione edilizia in sanatoria n. 8185 dd.1 ottobre 2008, rilasciata agli eredi B, afferma recisamente che “i ricorrenti possiedono la piena legittimazione e l’interesse ad agire, non solo per la vicinitas con l’area interessata dalla concessione impugnata, ma per la stessa conformazione della zona, che essendo digradante implica una significativa modifica della veduta goduta dagli edifici dei ricorrenti stessi a seconda dell’altezza degli altri edifici prospicienti, tra cui quello in questione, di cui si contesta tra l’altro anche l’eccesso di volumetria e altezza” (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata).

Lo stesso giudice afferma, inoltre, che “vanno poi disattese le eccezioni sollevate in tutti i ricorsi dal Comune e dalla ditta controinteressata relative alla loro tardività, nelle parti in cui impugnano rispettivamente il permesso a costruire e la concessione in sanatoria;
invero la parte eccepente, cui incombe tale onere, non prova la compiuta, integrale e diretta conoscenza ad opera dei ricorrenti dei due provvedimenti in un momento anteriore rispetto a quello della proposizione dei due ricorsi.

Va a tale proposito rilevato che la semplice edificazione non poteva indurre negli istanti una completa conoscenza, trattandosi di valutare le destinazioni d’uso, le volumetrie, le altezze dal piano di campagna e le distanze, raffrontandole con quelle originariamente previste, per cui alla bisogna si rendeva necessaria la piena acquisizione dell’intera documentazione in possesso del Comune. In particolare, per quanto concerne la domanda e la concessione in sanatoria, solo l’acquisizione della completa documentazione e non solo dell’atto di concessione poteva consentire di individuare i vizi dedotti in ricorso, riguardanti tra l’altro il mancato rispetto dei termini posti per l’integrazione documentale e la destinazione d’uso di alcuni locali” (cfr. ibidem , pagg. 7 e 8).

Per quanto attiene all’intervento proposto ad adiuvandum dalla P, secondo il giudice di primo grado, “esso risulta ammissibile, in quanto la soglia di interesse richiesta risulta di grado inferiore a quella relativa al ricorso principale e nel caso appare sussistente in capo alla ricorrente, abitante nella zona” (cfr. ibidem , pag. 8), mentre “quanto alla stessa ammissibilità dei motivi aggiunti al ricorso R.G. 406 del 2009 la questione non appare rilevante, stante l’intervenuta unificazione dei tre ricorsi in epigrafe” (cfr. ibidem ).

Il giudice di primo grado ha quindi reputato di esaminare in via prioritaria le doglianze rivolte avverso la concessione edilizia in sanatoria n. 8185 dd.1 ottobre 2008, in quanto le censure rivolte avverso il permesso a costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 riguardano anche l’utilizzo della cubatura espressa dal fabbricato quale risultante dalla pregressa concessione in sanatoria, impugnata dal D L sub R.G. 523 del 2009 e laddove – per l’appunto – sono segnatamente contestati il mutamento di uso da “garage” a “taverna–deposito” del piano terra dell’edificio di cui alla particella n. 696 e la sanatoria del seminterrato di cui alla particella 697.

Ciò posto, per quanto attiene alla prima censura proposta sub R.G. 523 del 2009 dal D L, ossia la dedotta violazione dell’articolo 39 della L. 724 del 1994, per mancata presentazione della documentazione richiesta entro il termine decadenziale di tre mesi, il giudice di primo grado è pervenuto all’accoglimento della stessa, rilevando che “invero la concessione edilizia in sanatoria espressamente richiama la legge 47 del 1985, la legge 724 del 1994, art. 39, e infine la L. 23 dicembre 1996 n. 662. Orbene detto art. 39 al comma 4, nel riaprire i termini per la presentazione delle domande di sanatoria ex lege 47 del 1985, affida ai Comuni il potere di chiedere integrazioni documentali precisando che la mancata presentazione dei documenti richiesti entro tre mesi dalla richiesta comporta l’improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione in sanatoria. Lo scopo della norma è evidente: vengono riaperti i termini di cui alla legge 47 del 1985, consentendo inoltre una possibilità di integrazione documentale eventualmente carente, ma ponendo nel contempo un termine tassativo per la presentazione degli atti mancanti. Infatti, nel caso il Comune ha invitato la richiedente Sorno Maria Teresa (e analogamente B A) a integrare la documentazione carente in data 28 novembre 2003, precisando espressamente che l’integrazione stessa sarebbe dovuta intervenire entro tre mesi “pena l’improcedibilità della domanda stessa”. Anche se non viene citato espressamente l’articolo 39 della legge 724 del 1994, risulta palese la volontà del Comune di farne applicazione, o comunque di autolimitarsi in tal senso” (cfr. ibidem , pag. 9).

Secondo il giudice di primo grado, l’applicabilità dell’art 39, comma quattro, della L. 724 del 1994 “risulta una conseguenza logica della riapertura dei termini del condono di cui alla legge 47 del 1985;
infatti, non avrebbe senso usufruire della legge 724 del 1994, omettendo di applicarne una parte, quella relativa al termine per l’integrazione documentale. Tra l’altro si tratta di una norma procedurale, che si applica direttamente alle fasi procedurali non ancora concluse, tra cui la fase istruttoria della domanda di condono in esame
. A tale proposito va richiamato il pacifico principio secondo cui, nell'ambito dei procedimenti amministrativi, in caso di sopravvenienza di nuove normative, ciascun atto di ogni serie all'interno del procedimento deve uniformarsi, in virtù del principio “tempus regit actum” , alla disciplina vigente al momento della sua adozione, restando in ogni caso inapplicabile all'atto la normativa sopravvenuta alla chiusura della fase procedimentale nella quale è inserito. In altri termini, in base al principio “tempus regit actum” , ogni fase od atto del procedimento amministrativo riceve disciplina per quanto riguarda la struttura, i requisiti ed il ruolo funzionale, dalle disposizioni di legge e di regolamento vigenti alla data in cui ha luogo ciascuna sequenza procedimentale e quindi in presenza di un rapporto giuridico che si perfeziona attraverso una serie di atti i cui effetti sono destinati per natura ad articolarsi in una serie di distinti adempimenti, ciascuno regolato dalla disciplina vigente al momento in cui vengono posti in essere, deve escludersi la sussistenza della violazione del principio di irretroattività delle leggi, venendo in rilievo, al contrario, il diverso principio del “tempus regit actum” , giacché per il predetto principio gli atti emessi nei subprocedimenti eseguiti sotto l'imperio della legge precedente conservano la loro validità, ma la produzione degli effetti è regolata secondo la normativa nel frattempo sopravvenuta … Come emerge dalla documentazione in atti, la richiesta comunale di integrazione documentale risale al 2003, quando la ripetuta legge 724 del 1994 era già da tempo in vigore. La difesa del Comune sul punto, contenuta alla pagina 4 della memoria difensiva comunale depositata il 3 marzo 2010, secondo cui la richiesta di integrazione documentale sarebbe avvenuta “più per ragioni organizzative che cognitive” appare non solo contrastante con il chiaro dettato della richiesta documentale, ma altresì inconsistente, in quanto non è ipotizzabile che un ente pubblico quale il Comune formuli una precisa richiesta al cittadino apponendovi un termine perentorio per ragioni “organizzative” e senza trarne le conseguenze di legge, quasi si trattasse di una nota inviatagli “ioci causa”. In altri termini, l’omesso adempimento, nel termine perentorio di tre mesi, alla richiesta dell’amministrazione comunale di integrazione sostanziale della documentazione di un’istanza di condono, rende detta istanza improcedibile, ai sensi del ripetuto art. 39, comma 4, della L. 23 dicembre 199, n. 724 (Cassazione penale, sez. III, 25 novembre 2008 n. 3583)” (cfr. ibidem , pag. 10 e ss.).

Da ciò pertanto il giudice di primo grado ha tratto motivo per annullare la concessione edilizia in sanatoria n. 8185 dd. 1 ottobre 2008 e, in via consequenziale, il permesso a costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009, il quale ha per presupposto lo stesso titolo in sanatoria e risultando “evidente … che la concessione del 14 gennaio 2009 poteva assentire unicamente alla volumetria preesistente, esclusa quella illegittimamente condonata” (cfr. ibidem , pag. 11).

Il giudice di primo grado non ha assorbito le restanti censure del ricorso accolto, ma ha immediatamente dopo evidenziato che, sempre nel ricorso proposto sub R.G. 523 del 2009, il D L aveva dedotto anche l’irrazionalità, il difetto di istruttoria e motivazione e la violazione dell’art. 35 della L. 47 del 1985, in quanto la documentazione presentata a corredo delle domande mancherebbe a suo dire dei requisiti minimi indicati dalla disciplina ivi contenuta.

Lo stesso giudice, a tale riguardo, ha affermato che, “come emerge dagli atti di causa, la documentazione anche come integrata successivamente tramite dichiarazioni sostitutive di notorietà non risultava comunque sufficiente ad istruire ed esaminare la domanda . Infatti, il difetto di istruttoria, dedotto con il secondo e il terzo motivo, emerge dalla circostanza che le dichiarazioni sostitutive in atti appaiono di contenuto perlomeno dubbio, tenuto conto che la licenza edilizia originaria risale al 1968 e che i lavori risultano conclusi nel 1973, e che tutti i dichiaranti asseriscono che “fino dalla costruzione” il piano terra era stato utilizzato a locali magazzino, deposito e taverna;
orbene il dichiarante Paolo B è nato il 18 gennaio 1970, B Antonio il 23 giugno 1964, B Marco il 18 gennaio 1970 e infine B Letizia il 5 febbraio 1961, tutti quindi erano minori o in due casi nemmeno nati al momento del fatto di cui accertano la sussistenza e la permanenza temporale. Se in generale appare consentito precisare e definire meglio nel corso del procedimento l’esatta portata della domanda, ciò deve avvenire tramite affermazioni e precisazioni serie e consistenti e non già perlomeno perplesse come nel caso in esame. Le dichiarazioni sostitutive di notorietà costituiscono elementi documentali e istruttori che il Comune
deve valutare criticamente e se del caso integrare con attività istruttoria adeguata;
nel caso tale attività è del tutto mancata su di un aspetto decisivo, quale l’uso dei locali”
(cfr. ibidem , pagg. 11 e 12).

Inoltre, e sempre “per completezza” il giudice di primo grado ha reputato “opportuno … esaminare il contenuto delle altre principali censure dei due ricorsi R.G. 406 del 2009 e R.G. 416 del 2009, che investono anche alcune norme di attuazione, e precisamente l’art. 9, lett. g) e l’art. 33, lett. b), secondo comma, delle Norme tecniche di attuazione al Piano regolatore di Pescara” (cfr. ibidem , pag. 12 e ss.), pervenendo alle conclusioni qui di seguito esposte.

1) Con la prima censura le parte ricorrenti in primo grado hanno contestato gli anzidetti artt. 9 e 33 delle N.T.A. del P.R.G. laddove nel prevedere gli interventi di demolizione e nuova costruzione si porrebbero in contrasto con gli artt. 1 e 3 del D.L.vo 380 del 2001.

Sul punto il giudice di primo grado ha reputato sufficiente richiamare la propria sentenza n. 108 dd. 19 febbraio 2009 laddove si sarebbe già espresso “non solo ritenendo legittimo l’art. 5 delle N.T.A. ma annullandolo anzi nella parte in cui poneva limitazioni derivanti dal condono. Le N.T.A. possono prevedere una specifica disciplina delle demolizioni e ricostruzioni, e, nel caso in cui sull’area siano esistenti degli edifici (come nel caso di specie), la norma consente di eseguire non solo gli interventi di manutenzione, di recupero e di conservazione e di ristrutturazione, ma anche gli interventi di demolizione e nuova costruzione. Di conseguenza, gli edifici esistenti possono anche essere totalmente demoliti e ricostruiti con la stessa altezza e volumetria. In sostanza questo Collegio non trova nelle norme comunali alcuna violazione dei principi di cui al D L.vo (recte: D.P.R.) 380 del 2001, che vengono unicamente precisati e dettagliati ma non contraddetti” (cfr. ibidem , pag. 13).

2) Con la seconda censura le parti ricorrenti in primo grado hanno contestato la violazione degli articoli 5 e 33 delle N.T.A. del P.R.G., in quanto sarebbe stato violato il principio della salvaguardia della cubatura esistente, tra cui non potrebbe computarsi la cubatura divenuta legittima a seguito di condono successivo all’adozione del P.R.G.

Anche su tale punto il giudice di primo grado ha richiamato l’interpretazione data al riguardo nella predetta sua sentenza n. 108 del 2009, “secondo cui non si possono porre limiti alla demolizione e ricostruzione di immobili condonati” (cfr. ibidem ).

3) Con il terzo ordine di censure i ricorrenti in primo grado hanno dedotto l’avvenuta violazione degli articoli 5 e 8 delle N.T.A. del P.R.G. e un difetto di istruttoria riguardante la non utilizzabilità della volumetria del piano seminterrato: motivi, questi, che il giudice di primo grado ha definito infondati in via di fatto, in quanto emergerebbe dal progetto che il piano è ubicato fuori terra e non potrebbe pertanto considerarsi come seminterrato, data la circostanza che ben tre pareti su quattro emergerebbero fuori terra.

4) Con il quarto ordine di censure i ricorrenti in primo grado hanno dedotto un’ulteriore violazione dell’art. 5 delle N.T.A. del P.R.G., nonché difetto di istruttoria per mancata indicazione delle quote dell’edificio da realizzare;
secondo il giudice di primo grado, invece, le quote stesse sarebbero agevolmente desumibili dal progetto e dalla cartografia.

5) Il quinto e il sesto ordine di censure dedotti in primo grado sono stati esaminati congiuntamente dal T.A.R.

Tali motivi riguardano l’avvenuta considerazione da parte del Comune di aree destinare a strade comunali e appartenenti al demanio comunale;
ma, sempre secondo lo stesso giudice di primo grado, dagli atti di causa risulterebbe che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, l’Amministrazione comunale avrebbe provveduto a calcolare l’esatta superficie occupata dalle strade comunali, che ammonta a mq 100, restando pertanto escluse le superfici cedute al Comune medesimo in sede di rilascio del permesso a costruire.

6) Con l’ultimo ordine di censure le parti ricorrenti in primo grado hanno contestato il mancato rispetto della distanza dal ciglio stradale;
a tale riguardo, peraltro, secondo il T.A.R. il limite di ml 5 può essere derogato, come nel caso, a’ sensi dell’art. 8, lett. g), delle N.T.A. del P.R.G. sulla base dell’allineamento prevalente.

Va ancora soggiunto che il giudice di primo grado ha integralmente compensato le spese di giudizio nei riguardi dell’interventore M G P e di Letizia B, nel mentre, per il resto:

1) ha condannato il Comune e la P A S.r.l. al pagamento in favore dei ricorrenti G e F F delle spese di causa, liquidate in complessivi € 3.000,00.- (tremila/00), di cui € 2.000,00.- per onorari di avvocato, € 800,00.- per diritti di procuratore ed € 200,00.- per spese vive, oltre il rimborso degli accessori di legge (art.15 LPF, CPA, IVA), da suddividersi in due terzi, pari a € 2.000,00.- a carico del Comune, e in un terzo, pari a € 1.000,00.- a carico della P A S.r.l.;

2) ha condannato sempre il Comune di Pescara e la P A S.r.l. Comune al pagamento in favore del ricorrente Stefano D L S delle spese di causa liquidate, in complessivi € 6.000,00.- (seimila/00), di cui € 5.000,00.- per onorari di avvocato, € 800,00.- per diritti di procuratore ed € 200,00.- per spese vive, oltre il rimborso degli accessori di legge (art.15 LPF, CPA, IVA), da suddividersi in due terzi, pari a 4.000,00.- a carico del Comune, e in un terzo, pari a € 2.000, 00.- a carico della P A S.r.l.

2.1. Con l’appello principale in epigrafe la P A S.r.l. chiede la riforma di tale sentenza.

L’appellante Società, dopo aver richiamato puntualmente i fatti salienti di causa e riassunto lo svolgimento del processo di primo grado, deduce in via analitica i motivi di impugnazione qui di seguito illustrati.

1) erroneità della statuizione di riunire i tre ricorsi proposti in primo grado “per evidenti ragioni di connessione oggettiva, derivante dall’identità e connessione degli atti impugnati, e soggettiva per quanto concerne i due ricorsi proposti da D L S” ;

2) erroneità dell’affermazione della sussistenza dell’interesse a ricorrere da parte dei ricorrenti in primo grado “per la stessa conformazione della zona, che essendo digradante implica una significativa modifica della veduta goduta dagli edifici dei ricorrenti stessi a seconda dell’altezza degli altri edifici prospicienti” ;

3) erroneità della statuizione che afferma l’ammissibilità dell’intervento di M G P;

4) omessa pronuncia da parte del giudice di primi grado sulle dedotte eccezioni di difetto di interesse a ricorrere da parte dei ricorrenti in primo grado;

5) erroneità della statuizione del giudice di primo grado recante la reiezione delle eccezioni di tardività dei ricorsi in primo grado, laddove ha affermato che la prova della tardività incombe a chi la eccepisce e laddove ha ritenuto che la mera conoscenza della domanda e del titolo in sanatoria non sono sufficienti a consentire la piena conoscenza della lesione, essendo necessaria l’integrale acquisizione della documentazione presso il Comune;

6) erroneità dell’assunto del giudice di primo grado secondo cui risulterebbe possibile contestare in sede di giurisdizione amministrativa opere esistenti da vari decenni, potendo il relativo interesse risorgere per effetto di una ristrutturazione edilizia;

7) erroneità della statuizione del giudice di primo grado secondo la quale la concessione edilizia in sanatoria n. 8185 del 2008 sarebbe stata rilasciata in violazione dell’art. 39, comma 4, della L. 724 del 1994;

8) errata interpretazione dell’art. 31 e ss. della L. 47 del 1985 e dell’art. 35 in particolare, difetto di istruttoria, erroneità dei principi relativi all’onere della prova nel contesto del processo amministrativo, motivazione perplessa;

9) ulteriore violazione dell’art. 39, comma 4, della L. 729 del 1994 in relazione all’art. 5, lett. m) e all’art. 8, comma 1, lett. a). delle N.T.A. del P.R.G. di Pescara;

10) erroneità della statuizione di condanna alle spese di giudizio.

2.2. A loro volta si sono costituiti nel presente grado di giudizio i Signori Stefano D L, G F e F F, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado, ma proponendo anche appello incidentale avverso tutti capi di quest’ultima con i quali sono state respinte le censure da loro proposte nei rispettivi ricorsi da loro presentati sub R.G. 406 del 2009 e sub R.G. 416 del 2009.

2.3. Si è parimenti costituita nel presente grado di giudizio la Sig.ra M G P, concludendo parimenti per la conferma della sentenza impugnata.

2.4. Non si è – viceversa – costituito nel presente grado di giudizio il Comune di Pescara.

2.5. Con ordinanza collegiale n. 64 dd. 10 gennaio 2012 la Sezione ha disposto, a’ sensi dell’art. 66 cod. proc. amm., una verificazione da parte del Direttore del Servizio Pianificazione Territoriale della Provincia di Pescara, ovvero da un funzionario con profilo tecnico da lui delegato, il quale avrebbe provveduto alle seguenti incombenze:

a) acquisizione presso il Comune di Pescara di copia integrale della pratica edilizia conclusasi con il rilascio alla P A S.r.l. del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009, nonché di copia integrale delle diverse pratiche edilizie che si sono concluse con il rilascio della concessione edilizia in sanatoria n. 8185/08 dd. 1 ottobre 2008 a B Antonio, B Marco, B Paolo e B Letizia;

b) stesura di una relazione acclarante se, per effetto della medio tempore intervenuta demolizione dell’edificio preesistente e della costruzione dell’attuale edificio, la P A S.r.l. ha conseguito un incremento di volumetria e - in caso positivo - recante la quantificazione dell’incremento medesimo;

c) stesura di una mappa raffigurante la posizione dell’edificio realizzato dalla P A S.r.l., dell’edificio di proprietà dei Signori F G, F F e D L S, nonché dell’edificio di proprietà della Signora P Mariagrazia, con quantificazione delle distanze dell’anzidetto edificio della P A S.r.l. rispetto sia all’edificio F-D L, sia all’edificio P;

d) assunzione di rilievi fotografici comprendenti contestualmente (ed ove possibile) l’esterno sia dell’edificio P, sia dell’edificio F–D L, sia dell’edificio P.

2.6. In data 2 marzo 2012 l’incaricato della redazione della verificazione ha depositato presso la Segreteria della Sezione il proprio elaborato, corredato dalla documentazione richiesta.

2.7. A loro volta P e il D L hanno rispettivamente depositato consulenze tecniche di parte in senso favorevole alle proprie contrapposte tesi.

2.8. Tutte le parti hanno prodotto ulteriori memorie in replica, eccependo reciprocamente sotto vari aspetti la tardività di depositi documentali e della produzione di eccezioni nuove.

In particolare il D L e i F hanno eccepito l’inammissibilità dell’appello principale per omessa impugnazione, da parte di P, dell’assunto del giudice di primo grado circa l’inderogabile obbligo per il Comune di Pescara – e da esso, per l’appunto, trasgredito – di respingere le due domande di condono in quanto l’obbligo medesimo derivava da precisa disposizione di legge e anche in quanto il Comune medesimo si era autovincolato in tal senso inviando le due richieste di integrazione documentale e qualificando come perentorio il termine ivi fissato.

3. Alla pubblica udienza del 12 giugno 2012 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4.1. Tutto ciò premesso il Collegio deve innanzitutto farsi carico di disaminare la prima censura contenuta nell’appello principale di P con la quale si deduce l’illegittimità della statuizione del giudice di primo grado di riunire i tre ricorsi ivi rispettivamente presentati sub R.G. 406 del 2010 dai F e sub R.G. 416 del 2010 dal D L avverso il permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 e gli artt. 9, lett. g), e 33, lett. b), comma 2, delle N.T.A. del P.R.G. di Pescara, nonché dal D L sub R.G. 523 del 2010 anche avverso la concessione edilizia in sanatoria n. 8185 dd. 1 ottobre 2008 “per evidenti ragioni di connessione oggettiva, derivante dall’identità e connessione degli atti impugnati, e soggettiva per quanto concerne i due ricorsi proposti da D L S” .

Secondo P tra il ricorso proposto in primo grado dai F sub R.G. 406 del 2009 e quello proposto dal D L sub R.G. 523 del 2009 non sussisterebbe identità oggettiva, non essendo stati in tali impugnative contestati i medesimi provvedimenti e non sussistendo analogia dei motivi di ricorso, come viceversa richiesto dalla giurisprudenza (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 22 ottobre 2008 n. 5182).

L’appellante annette ampio rilievo a tale censura, non solo poiché essa risulta ascrivibile ad una violazione dei principi espressi in materia dagli artt. 39 e 40 cod. proc. civ. e della disciplina processuale all’epoca vigente - ossia l’art. 52 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, il quale segnatamente disponeva che la riunione poteva avvenire su richiesta delle parti e con l’interpello di tutte le parti interessate – ma anche, e soprattutto, poiché – a suo dire –avendo lo stesso giudice annullato con la propria sentenza la concessione in sanatoria n. 8185 del 2008 e solo in via consequenziale il permesso di costruire n. 428/08 del 2009, il ricorso dei F avrebbe dovuto essere in realtà respinto poiché infondato, posto che il T.A.R. ha respinto tutti i motivi in esso proposti, ovvero dichiarato inammissibile per omessa impugnazione, da parte dei medesimi F, della presupposta concessione edilizia in sanatoria testé riferita.

Ove fosse stato statuito ciò – prosegue il ragionamento di P - la controversia sarebbe stata pertanto limitata al solo D L.

Sempre secondo l’appellante, “il principio seguito dal T.A.R. secondo il quale un ricorso meritevole di accoglimento vale a vivificare e legittimare – attraverso l’istituto della connessione – altri ricorsi improcedibili o infondati, evoca qualche massima religiosa (etiam si mortus fueris, ecc.) , ma estranea ai principi di diritto” (cfr. pag. 16 dell’appello principale).

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che l’attuale art. 70 cod. proc. amm., entrato in vigore susseguentemente alla sentenza impugnata, dispone che “il collegio può, su istanza di parte o d’ufficio, disporre la riunione di ricorsi connessi” : disciplina, questa, che all’evidenza risulta ben più duttile nel suo contenuto, conferendo solo apparentemente maggior peso alla discrezionalità del giudice al riguardo, rispetto a quella vigente all’epoca del processo di primo grado, posto che a’ sensi dell’allora vigente art. 52 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642 “se alcuna delle parti, o la pubblica amministrazione, chieda che per ragione di connessione due ricorsi siano uniti e venga provveduto su di essi con una sola decisione, la sezione, udite le parti interessate, può ordinarne l’unione” , fermo peraltro restando che “il Presidente può, anche quando non sia stata chiesta l’unione, ordinare d’ufficio che i due ricorsi siano chiamati alla stessa udienza, affinché la sezione possa giudicare della loro connessione e, ove si faccia luogo alla riunione, pronunciare sui due ricorsi con una sola decisione” .

A ben vedere, quindi, l’attuale disciplina ha unificato in una sola disposizione le previgenti due norme che distintamente disciplinavano la richiesta di riunione delle parti rispetto a quella disposta d’ufficio dal collegio giudicante dopo l’inoltro delle cause congiuntamente chiamate alla trattazione nella medesima udienza.

Quest’ultima ipotesi si è, per l’appunto, concretata nel caso di specie.

Va a questo punto premesso che, in via di principio e a differenza del processo civile, in cui il cumulo delle domande può essere giustificato tanto da una connessione oggettiva, quanto da una connessione soggettiva (cfr. art. 40 cod. proc. civ.), assume di per sé rilevanza soltanto la prima forma di connessione, posto che la connessione soggettiva non consente l’impugnativa con un unico ricorso di provvedimenti diversi (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 14 dicembre 2011 n. 6537) se non quando sussiste anche un collegamento oggettivo tra di essi, con la conseguenza che nel giudizio amministrativo occorre che le domande siano o contemporaneamente connesse dal punto di vista oggettivo e soggettivo, oppure semplicemente connesse dal punto di vista oggettivo (cfr. ibidem ).

In quest’ultima evenienza tra gli atti impugnati viene identificata una connessione tale da giustificare un unico processo, costituendo essi manifestazioni provvedimentali collegate ad un unico sviluppo dello stesso episodio di concreto esercizio del potere pubblicistico, idoneo a far emergere la consistenza e la lesione di un unitario interesse soggettivo, storicamente connotato come contrapposto a quel determinato esercizio del potere: ossia - detto altrimenti - tra gli atti complessivamente impugnati sussiste una connessione procedimentale, ovvero un rapporto di presupposizione giuridica, o quantomeno di carattere logico.

Premesso ciò, risulta pertanto incontestabile - e, a ben vedere, lo stesso patrocinio di P non fa contestazioni al riguardo - la statuizione del giudice di primo grado di riunire per connessione procedimentale e funzionale i ricorsi rispettivamente proposti sub R.G. 416 del 2010 e sub R.G. 523 del 2010 dal D L, posto che in quest’ultimo l’illegittimità del permesso di costruire n. 428/09, già impugnato in via autonoma con il ricorso precedente, era dedotta in via consequenziale rispetto alla concessione edilizia in sanatoria n. 8185 del 2008 da ultimo strumentalmente impugnata dallo stesso ricorrente.

Né è dato di vedere il motivo per cui lo stesso giudice di primo grado non dovesse riunire, a sua volta, lo stesso ricorso proposto sub R.G. 416 del 2010 dal D L con quello – assolutamente identico – proposto sub R.G. 406 del 2010 dai F, trattandosi incontestabilmente di impugnative proposte avverso gli stessi atti e con la deduzione dei medesimi motivi di impugnazione.

Detto altrimenti, quindi, la circostanza che le due impugnative proposte dal D L potessero essere connesse tra loro per un motivo di ordine funzionale non ostava che la causa complessivamente proposta dallo stesso D L potesse comunque riunirsi con quella dei F, a sua volta pedissequamente ricalcante per ampia parte la prima: e ciò, se non altro, essendo ius receptum che la connessione tra due o più giudizi amministrativi si riscontra se le diverse cause presentino una o più questioni identiche, dalla cui soluzione dipenda, in tutto e in parte, la decisione di tutte quante (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 1999 n. 842).

Semmai, va evidenziato che P introduce nella sua censura un elemento di consequenzialità tra la riunione che è stata disposta dal giudice di primo grado tra i tre ricorsi e le conseguenze da lui tratte all’atto della statuizione finale, facendo discendere l’asserita illegittimità di quest’ultima anche dall’erroneità della riunione medesima: il che non è.

Nondimeno va rimarcato che lo stesso giudice, pur avendo - giova ribadire - correttamente riunito i tre ricorsi, ha obliterato il principio per cui la riunione di cause connesse lascia comunque inalterata l’autonomia dei singoli giudizi, sicché i motivi di impugnazione proposti in un determinato giudizio non possono trasmettersi ad un’altra impugnazione rivolta avverso un altro provvedimento, a nulla rilevando che le diverse impugnazioni siano state riunite per ragioni di connessione oggettiva o soggettiva (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 18 giugno 2008 n. 3030): e, sotto tale profilo, il rilievo di P risulta pertanto fondato.

Va peraltro allo stesso tempo evidenziato che il rilievo stesso non assume – a ben vedere – una conseguenza tale da far caducare in via assorbente la sentenza di primo grado, la quale – pur nella formale sua incoerenza tra motivazione e parte dispositiva per quanto segnatamente attiene al ricorso proposto sub R.G. 406 del 2010 proposto dai F – è stata rettamente intesa da costoro, nonché dallo stesso D L quale ricorrente nell’omologo ricorso proposto sub R.G. 416 del 2010, quale statuizione di rigetto della loro impugnativa: tanto che i medesimi F e D L hanno proposto al riguardo, nel presente giudizio, appello incidentale proprio al fine di qui riproporre tutte le censure già contenute nei testé riferiti ricorsi R.G. 406 del 2010 e R.G. 416 del 2010 e che il T.A.R. ha comunque respinto, come ben emerge dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata.

4.2. Va anche respinta l’eccezione formulata dai F e dal D L nella loro memoria secondo la quale l’appello principale proposto da P sarebbe inammissibile non avendo essa contestato l’assunto del giudice di primo grado circa l’inderogabile obbligo per il Comune di Pescara – e da esso, per l’appunto, trasgredito – di respingere le due domande di condono in quanto l’obbligo medesimo derivava da precisa disposizione di legge e anche in quanto il Comune medesimo si era autovincolato in tal senso inviando le due richieste di integrazione documentale e qualificando come perentorio il termine ivi fissato.

Tale prospettazione degli appellati non può essere accolta, in quanto P in realtà propone nel proprio appello puntuali contestazioni deputate inequivocabilmente a contestare tale tesi, fatta propria dal giudice di primo grado, se non altro laddove sostiene che, comunque, le due pratiche di condono si sarebbero già perfezionate per silentium a’ sensi dell’art. 35 della L. 47 del 1985.

4.3. Per quanto attiene alla contestazione di P circa il difetto di interesse a ricorrere da parte dei ricorrenti in primo grado, viceversa genericamente ammesso dal giudice di primo grado “per la stessa conformazione della zona, che essendo digradante implica una significativa modifica della veduta goduta dagli edifici dei ricorrenti stessi a seconda dell’altezza degli altri edifici prospicienti” , il Collegio reputa che la contestazione medesima certamente attiene alla posizione dei F, presentatori del ricorso proposto sub R.G. 406 del 2010 e nondimeno proprietari di un immobile collocato in una posizione più sopraelevata rispetto al fabbricato che P sta costruendo: dal che pertanto si deduce che, limitatamente all’interesse dei F, il fabbricato medesimo non comporta modifiche di sorta alle vedute, all’areazione e all’insolazione.

La verificazione disposta dal Collegio ha consentito di acclarare, mediante i rilievi fotografici annessi agli elaborati della disposta verificazione, tale ben eloquente stato di fatto (in particolare si rimanda alla foto della costruzione di P ripresa dall’immobile F che ben evidenzia come la prima nulla toglie al panorama che quest’ultimo fruisce verso il mare) che, pertanto, esclude per quanto attiene alla posizione dei F la sussistenza di un loro interesse a ricorrere.

Va anche soggiunto che tale conclusione rende di per sé superflua ogni contestazione circa la ricevibilità – o meno – del ricorso proposto dai F in primo grado, nonché circa l’ammissibilità dei motivi aggiunti di ricorso sempre da loro ivi proposti.

4.4. Va parimenti estromessa dal giudizio l’interveniente ad adiuvandum in primo grado M G P.

Il T.A.R. ha reputato tale intervento ammissibile, “in quanto la soglia di interesse richiesta risulta di grado inferiore a quella relativa al ricorso principale e nel caso appare sussistente in capo alla ricorrente, abitante nella zona” .

Il Collegio dissente da tale assunto.

Anche a prescindere, infatti, dalla già assorbente circostanza dell’omessa produzione in primo grado, da parte della P, del titolo di proprietà e del certificato di residenza – ossia della materiale comprova della materiale situazione di vicinitas che conforterebbe il suo interesse ad opporsi all’iniziativa edilizia di P – va anche in questo caso ribadita la fondatezza della giurisprudenza secondo la quale l’intervento c.d. “ad adiuvandum” , ove sia diretto a tutelare un interesse che il titolare sarebbe stato legittimato a far valere in via principale con autonomo ricorso, va ritenuto ammissibile sempreché sia esperito nei ricorsi di tipo impugnatorio entro il termine di decadenza, ovvero entro il termine di prescrizione qualora si tratti di ricorsi per l’accertamento di un diritto soggettivo (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. VI, 11 settembre 2002 n. 4606);
ovvero – detto altrimenti - nel processo amministrativo deve ritenersi inammissibile l'intervento “ad adiuvandum” proposto da chi sia ex se legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, (cfr. al riguardo, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 17 giugno 2000 n. 3928).

Va necessariamente precisato che tale principio di ordine generale risulta costantemente affermato dalla giurisprudenza testé riferita nella vigenza dell’art. 37, primo comma, del R.D. 17 agosto 1907 n. 642 (applicato, per l’appunto, ratione temporis dal giudice di primo grado), sostanziando un’interpretazione restrittiva di tale disposizione, in forza della quale “chi ha un interesse nella contestazione può intervenirvi ”.

La disciplina attualmente in vigore ha puntualmente recepito il “diritto vivente”, affermato mediante tale costante interpretazione resa dalla giurisprudenza, posto che l’art. 28, comma 2, cod. proc. amm. afferma che “chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova” .

Venendo al caso di specie, gli interventi in primo grado della P sono stati formalizzati sub R.G. 406 del 2009 in data 4 marzo 2010 in tutti i tre ricorsi in data 4 marzo 2010, allorquando lo stato di avanzamento dei lavori intrapresi da P aveva già da tempo reso ben evidente la lesione arrecata all’interveniente medesima: lesione che, oltre a tutto, risulta inoppugnabilmente evidenziata nella fotografia scattata dal tetto del non ancora ultimato edificio di P da parte dell’incaricato della verificazione disposta da questo giudice: fotografia che ritrae l’edificio della P immerso nel verde ma inequivocabilmente occluso nella fruizione della visione del contesto circostante dall’imponenza della massiva realizzazione edilizia dell’attuale appellante principale.

Risulta, pertanto, da tutto ciò che la P ha fatto malgoverno del proprio interesse a ricorrere, e non può conseguentemente esserle consentito di ricuperare la propria acquiescenza precedentemente prestata mediante l’improprio utilizzo dell’istituto dell’intervento, infungibilmente destinato – per contro – a beneficio soltanto di coloro che sono titolari di una posizione dipendente da quella della parte ricorrente e in alcun modo riguardabile, quindi, quale autonoma posizione di interesse legittimo (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. V, 2 agosto 2011 n. 4557).

4.5. Come dianzi precisato, le considerazioni relative al difetto di interesse dei F a ricorrere avverso l’insieme dei provvedimenti resi oggetto di impugnazione nel giudizio di primo grado tolgono ogni rilievo alle questioni ivi insorte circa la ricevibilità del ricorso da loro proposto.

Per contro, nella posizione relativa al D L è riscontrabile la sussistenza di un suo interesse a contestare giudizialmente la realizzazione edilizia di P: sul punto è eloquente la documentazione fotografica acquisita con la verificazione disposta da questo giudice e dalla quale ben emerge la vicinanza tra l’edificio di P e quello del D L, nonché la circostanza che il primo toglie al secondo veduta, insolazione e aria.

Inoltre, come è ben noto, una giurisprudenza assolutamente non contestata afferma che in ossequio agli ordinari criteri di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2967 c.c. (ora, tra l’altro, espressamente recepito dall’art. 64 cod. proc. amm.) la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell’atto in capo al destinatario deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione (cfr. sul punto, ex plurimis e anche recentemente, Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2012 n. 3269).

Nel caso di specie P si limita ad affermare che il D L non avrebbe presentato richiesta di accesso agli atti della pratica edilizia di cui trattasi presso il Comune e che verosimilmente egli avrebbe ricevuto dai F, già a loro volta presentatori di un omologo ricorso che P reputa parimenti tardivo, la copia dei relativi atti (cfr. pag. 25 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio): il che, peraltro, sostanzia al più una mera illazione e non già una puntuale prova della tardività del ricorso che lo stesso D L ha proposto in primo grado, posto che P non sa comunque precisare la data nella quale il D L medesimo ha avuto conoscenza del materiale contenuto degli atti da impugnare.

4.6. Giova anche marginalmente evidenziare la palese erroneità della tesi di P secondo la quale non sarebbe possibile contestare in sede di giurisdizione amministrativa opere esistenti da vari decenni nel presupposto che l’interesse alla contestazione medesima possa risorgere per effetto di una ristrutturazione edilizia.

Come rilevato dianzi, il titolo abilitante alla ristrutturazione edilizia trova nella specie il proprio presupposto in altro titolo edilizio rilasciato a sanatoria dopo oltre vent’anni dall’avvio delle relative pratiche.

Risulta altrettanto assodato che il provvedimento recante la definizione di queste ultime, ancorché risalenti nel tempo, sostanzia l’attualità dell’interesse alla loro contestazione in sede giudiziale: interesse che, a sua volta, refluisce ineludibilmente anche sulla contestazione che può essere proposta, sempre in sede giudiziale, sul provvedimento di assenso alla realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia.

In tale evenienza il giudice, ove accerti l’illegittimità del titolo edilizio a sanatoria, non può che disporre l’annullamento in via consequenziale del permesso di costruire avente ad oggetto la ristrutturazione edilizia, se a sua volta impugnato in dipendenza di tale rapporto di consequenzialità.

A sua volta l’Amministrazione comunale, anche a prescindere dall’avvenuta impugnazione dei due titoli edilizi in sede giurisdizionale, deve di per sé considerare che a’ sensi dell’art. 21-nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241 non parrebbe sussistere - di per sé - alcun obbligo di procedere in via di autotutela all’annullamento d’ufficio dei provvedimenti da essa adottati, trattandosi di mera facoltà rimessa alla sua discrezionalità ed esercitabile a condizione che sussistano ragioni di interesse pubblico (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 4 marzo 2011 n. 1414): anche se non va allo stesso tempo sottaciuto che la sussistenza – o meno – di tali ragioni di interesse pubblico deve essere dall’Amministrazione medesima puntualmente disaminata e motivata e che, per quanto segnatamente attiene alla violazione delle norme edilizie, la sussistenza dell’interesse pubblico a rimuovere il titolo abilitativo rilasciato contra legem è ritenuto dalla giurisprudenza come sussistente in re ipsa , posto che le costruzioni realizzate in virtù di titoli non conformi alla vigente normativa urbanistico-edilizia costituiscono una violazione dell’ordinamento di tipo permanente che deve, comunque, essere rimosso dovendosi comunque provvedere al ripristino dello stato di legalità violato (cfr. al riguardo, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2012 n. 1041).

Nel caso in esame risulta ben evidente, se non altro, che l’originaria domanda di condono delle edilità abusive contemplava l’utilizzazione delle parti di edificio abusivamente realizzate quale garage, e che inammissibilmente le realità medesime sono state sanate per destinazioni d’uso del tutto diverse;
né – ancora – va sottaciuto che le ben poco trasparenti pratiche di condono in questione hanno dato origine in sede penale a richieste di rinvio a giudizio da parte della Procura della Repubblica di Pescara.

4.7.1. Le considerazioni di fondo da ultimo svolte circa la sussistenza dei presupposti per la rimozione degli atti resi oggetto di impugnativa in primo grado, con particolare riferimento al titolo edilizio in sanatoria n. 8185/08 dd. 1 ottobre 2008, giovano in ordine alla diversa organizzazione del giudizio che questo giudice d’appello reputa di imprimere alla causa rispetto a quanto statuito al riguardo dal giudice di primo grado, pur confermando in via assorbente - ma con diversa motivazione - la statuizione di annullamento del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009.

Come è ben noto, nel caso in cui avverso la sentenza impugnata siano stati presentati un appello principale della parte rimasta soccombente nel procedimento innanzi al giudice di primo grado e un appello incidentale da parte di colui che ha proposto il ricorso accolto dal T.A.R., può, a seconda dei casi, essere data priorità all’esame del ricorso che risulta decisivo per dirimere la lite, tenendo conto dei principi di economia processuale e di logicità (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. III, 4 novembre 2011 n. 5866).

Orbene, nel caso di specie risulta ben più conferente all’interesse complessivamente dedotto in giudizio dal D L, sin dal processo di primo grado, l’eventualità dell’accoglimento di un motivo di ricorso che attiene direttamente alla legittimità del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 e che, quindi, inibirebbe il rilascio di tale titolo anche a prescindere dalla sua illegittimità derivata rispetto alla concessione edilizia in sanatoria n. 8185/08 dd. 1 ottobre 2008.

Il Collegio reputa che il D L può – per l’appunto - soddisfare tale suo interesse mediante l’accoglimento del suo ricorso incidentale, avuto riguardo, in via assorbente, alla dedotta violazione degli artt. 1 e 3 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, con conseguente annullamento non solo del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009, da lui impugnato in primo grado in via principale, ma anche dei presupposti artt. 9, lett. g), e 33, lett. b), comma 2, delle N.T.A. del P.R.G. di Pescara: statuizione, quest’ultima, che risulta a sua volta coerente alla posizione di interesse legittimo fatta valere dal medesimo D L in dipendenza al pubblico interesse a rimuovere talune disposizioni di fonte comunale inammissibilmente configgenti con la sovrastante disciplina legislativa dell’istituto della “ristrutturazione edilizia” .

4.7.2. A tale riguardo va evidenziato che, a’ sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001, come modificato dall’art. 1 del D.L.vo 27 dicembre 2002 n. 301, sono definiti come “interventi di ristrutturazione edilizia” gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, nonché l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti.

Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono esplicitamente ricompresi “anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” (cfr. ivi).

Tale complessiva definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia risulta puntualmente riprodotta all’art. 9, lett. d), delle N.T.A. del P.R.G. di Pescara.

Nello stesso art. 9, alla susseguente lett. e), è pure riprodotta in via altrettanto puntuale la definizione dell’art. 3, lett. e), del predetto T.U. 380 del 2001 relativa agli “interventi di nuova costruzione” .

Nondimeno, la susseguente lett. g), del medesimo art. 9 delle N.T.A. del P.R.G. dispone pure che “gli interventi di demolizione, con o senza ricostruzione, possono avere per oggetto complessi edilizi, singoli edifici o parti di essi, nel rispetto della preesistente maglia viaria. La demolizione di cui sopra può essere finalizzata sia alla ricostruzione secondo gli indici previsti dalla disciplina urbanistica comunale, sia a rendere disponibile l’area per esigenze di ricomposizione particellare ovvero per spazi o attrezzature pubblici in funzione della ristrutturazione urbanistica. La ricostruzione degli organismi edilizi a seguito di demolizione, al fine di reintegrare un tessuto edilizio da conservare, in assenza di eventuali piani attuativi, è assoggettata a particolari prescrizioni morfologiche, ricavate anche dall’analisi del tessuto circostante, relative alle caratteristiche tipologiche, all’area di sedime, all’altezza, ai rapporti con gli spazi pubblici prospicienti, agli allineamenti e alle distanze da osservare. Fatti salvi i casi descritti nei precedenti articoli, quelli previsti dalla normativa per le sottozone A ed ogni altra diversa esplicita prescrizione, l’intervento di ricostruzione deve rispettare i limiti e le condizioni poste per l’edificazione dei lotti liberi” .

L’art. 33, comma 2, lett. b) delle medesime N.T.A. dispone inoltre che nella sottozona B3 sono consentite – tra l’altro – ad intervento diretto “la demolizione e nuova edificazione di edifici, entro i limiti della cubatura esistente con le limitazioni di cui alle lett. a) e b) del punto 2 del precedente art.32” , ossia “a) per edifici il cui preesistente indice If é inferiore a 6,00 mc/mq é consentita la nuova edificazione con indice pari a quello preesistente;
b) per edifici il cui preesistente indice If é superiore a 6,00 mc/mq é consentita la nuova edificazione comunque con un indice non superiore a If = 6,00 mc/mq.”
.

Giova sin d’ora chiarire che la disciplina testé riportata si riferisce all’indice fondiario dato dal rapporto tra il volume fabbricabile all’interno del lotto (espresso in m³) e l’area della superficie fondiaria (area all’interno del lotto), espressa a sua volta in metri quadrati (m²).

Nella relazione del verificatore, Geom. D M, si legge invero “che dal confronto tra la volumetria esistente documentalmente dell’edificio oggi demolito (pari a mc. 1801,33) e la volumetria documentalmente prevista in progetto (pari a mc.1729,85), come da permesso di

costruire, salvo verifiche di altezze e distanze dai confini di proprietà da accertare a fine

lavori) risulta che la Ditta P A S.r.l. non ha conseguito aumenti volumetrici” (cfr. ivi, pag. 13).

Tale conclusione non è condivisa dal Collegio, posto che lo stesso esame delle fotografie di quanto sin d’ora costruito da P e documentato dal verificatore medesimo, nonché l’esame delle rappresentazioni grafiche delle sezioni del fabbricato (in particolare di quella longitudinale) e delle piante dei singoli piani che lo compongono - prodotte sempre dal verificatore - evidenzia la presenza di consistenti superfici dichiaratamente non computabili a fini volumetrici a’ sensi dell’art. 8 delle N.T.A. del P.R.G. in un contesto in cui, anche a prescindere dalla questione della sorte delle due pratiche di condono edilizio, risulta peraltro ictu oculi irragionevole che dalla demolizione di due preesistenti unità immobiliari possa comunque conseguire la realizzazione in loro vece di un’edificazione complessivamente composta da 29 unità immobiliari, ossia di 15 appartamenti e di 14 garages.

La sovrapposizione tra la sagoma dell’immobile oggetto di condono e demolito e quello in corso di costruzione da parte di P consente di acclarare la circostanza secondo cui la sagoma del nuovo fabbricato è pari a due volte e mezzo a quella del fabbricato preesistente, sviluppando rispetto a quest’ultima un incremento di altezza di ben 6 metri.

Per quanto attiene alla cubatura asseritamente non computabile, secondo la tesi del verificatore dovrebbero essere in buona sostanza esclusi dal calcolo della volumetria utile tre interi piani di edificio per ciascuno dei due corpi di fabbrica: ma, se non altro, risulta incontestabile che l’esclusione è manifestamente illegittima per quanto segnatamente attiene ai due sottotetti, posto che è stata nella specie assentita per tali locali un’altezza media pari a 2,40 metri e che l’art. 8, comma 1, lett. a) delle N.T.A. del P.R.G. consente – per l’appunto - l’esclusione dal computo della volumetria utile per i soli sottotetti con altezza media non superiore a metri 2,40.

Va anche evidenziato che è incontestata la circostanza che il permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 reca l’assenso alla realizzazione di un intervento edilizio espressamente qualificato come “ristrutturazione edilizia” (cfr. in tal senso, tra l’altro, la pag. 2 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio);
e che, nondimeno, le anzidette e alquanto eclatanti circostanze di fatto consentono di acclarare che il combinato disposto degli artt. 9, lett. g) e 33, lett. b), comma 2 delle N.T.A. del P.R.G. configurano in realtà una sorta di disciplina derogatoria rispetto a quanto precettivamente imposto non solo dall’art. 3, comma 1, lett. d), del T.U. 380 del 2001, ma - all’interno della stessa fonte regolamentare comunale - anche dall’art. 9, lett. d), delle medesime N.T.A., con la sola eccezione – condivisa sia dalla fonte legislativa statuale, sia da quella regolamentare del Comune - delle innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.

Tale sostanziale disciplina di deroga comprende per il vero anche una norma che di per sé impone il rispetto della volumetria preesistente (nella specie, peraltro, assodatamente violata mediante l’incremento di volumi ulteriori affermati come non computabili, ma che tali non sono, come per l’appunto l’acclarato caso dei sottotetti), nonché una norma che impone il rispetto di puntuali indici fondiari parametrati a quelli propri dell’edificazione esistente (e che, sempre e perlomeno in considerazione di quanto avvenuto per i sottotetti, risulta nella specie parimenti violata): ma la sua difformità rispetto alla disciplina propria della ristrutturazione edilizia inequivocabilmente risiede nella circostanza che essa, a differenza di quanto impone la norma di riferimento di tale istituto, non contempla l’obbligo di rispetto nella ricostruzione della sagoma propria dell’edificio preesistente.

Ciò, pertanto, ineludibilmente comporta l’illegittimità della disciplina medesima, nella parte in cui – per l’appunto – non reca anche la prescrizione dell’inderogabile osservanza di tale vincolo, expressis verbis imposto, per contro, dalla sovrastante fonte legislativa.

Va ancora soggiunto che l’imposizione della costruzione del nuovo fabbricato nel rispetto della precedente sagoma va intesa come coessenziale al rispetto della disciplina dell’istituto della ristrutturazione edilizia così come puntualmente voluto dal legislatore, posto che il caso in esame risulta quanto mai emblematico per evidenziare come il mutamento della sagoma precedente, secondo id quod plerumque accidit , incentiva l’operatore anche alla trasgressione dell’obbligo del rispetto della volumetria preesistente.

Né va sottaciuto, a fronte della vigenza nell’ordinamento urbanistico-edilizio del Comune di Pescara di tale ibrida forma di ristrutturazione edilizia, complessivamente ricavabile dagli artt. 9, lett. g) e 33, lett. b, comma 2 delle N.T.A. del P.R.G., che l’art. 3, comma 2, prima parte del T.U. 380 del 2001 inequivocabilmente dispone che “le definizioni di cui al comma 1” dello stesso articolo, le quali attengono alle tipologie degli interventi edilizi, “prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi” .

Va anche, più in generale, rimarcato che a’ sensi dell’art. 1 del medesimo D.P.R .“le Regioni” a statuto ordinario “esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico” e che “le disposizioni, anche di dettaglio” , dello stesso “testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi” (cfr. ivi;
cfr. inoltre ex plurimis e più in generale circa la cogenza di tale disciplina per la discrezionalità legislativa regionale, Cons. Stato, A.P., 7 aprile 2008 n. 2).

Quest’ultima notazione rileva ove si volesse fondare la legittimità delle predette disposizioni normative del P.R.G. medesimo sulla previsione di cui all’art. 30 della L.R. 12 aprile 1983 n. 18, la cui lett. e), così come modificata dall’art. 19 della L.R. 27 aprile 1995 n. 70, nel disciplinare l’istituto della ristrutturazione edilizia invero consente anche aumenti della superficie utile interna al perimetro murario preesistente in misura non superiore al 10% della superficie utile stessa e aumenti della superficie utile e/o del volume degli edifici ove ciò sia consentito dagli strumenti urbanistici comunali, nonché la ricostruzione senza evidentemente imporre l’obbligo del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente.

Tale disciplina legislativa, tuttavia, proprio perché antecedente al T.U. 380 del 2001, deve intendersi abrogata per implicito dallo ius novum contenuto nell’art. 3 del T.U. medesimo, segnatamente riferito al medesimo istituto della ristrutturazione edilizia e del tutto vincolante – come detto innanzi – sia per la disciplina edilizia di fonte comunale, sia – quale normativa di principio – per lo stesso legislatore regionale: e da ciò, pertanto, discende la ben evidente erroneità della tesi sostenuta dal giudice di primo grado secondo la quale gli artt. 9, lett. g) e 33, lett. b, comma 2 delle N.T.A. del P.R.G. altro non farebbero che precisare e dettagliare la disciplina legislativa contenuta nell’anzidetto art. 3 del T.U. 380 del 2001 (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata).

5.1. In dipendenza di tutto ciò, pertanto, l’appello incidentale proposto da Stefano D L va accolto e – per l’effetto – va riformata la sentenza impugnata confermando, in accoglimento del ricorso proposto in primo grado sub R.G. 416 del 2009, la statuizione di annullamento del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 per i motivi complessivamente esposti al § 4.7.1. e al § 4.7.2. della presente sentenza, nel mentre va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso proposto in primo grado sub R.G. 523 del 2009 dal medesimo D L e avente ad oggetto la concessione edilizia in sanatoria n. 8185/08 dd. 1 ottobre 2008, salve restando al riguardo le ulteriori determinazioni di competenza dell’Amministrazione comunale, e va dichiarato inammissibile per difetto di interesse il ricorso proposto in primo grado sub R.G. 406 del 2009 da G F e da F F.

Va inoltre estromessa da entrambi i gradi di giudizio l’interveniente ad adiuvandum M G P, per l’inammissibilità dei propri atti processuali.

Dall’accoglimento dell’appello incidentale qui proposto dal D L consegue la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dell’appello principale in epigrafe qui proposto dalla P A S.r.l., posto che tale Società non ha più motivo di contestare la sentenza impugnata sotto il profilo dell’avvenuto annullamento in via consequenziale del permesso di costruire n. 428/08 dd. 14 gennaio 2009 per effetto del previo annullamento della concessione in sanatoria n. 8185/08 dd. 1 ottobre 2008

5.2. Stante la consistenza delle diverse questioni proposte sia innanzi al T.A.R. che in sede di appello, il Collegio reputa di compensare integralmente tra tutte le parti le spese e gli onorari di entrambi i gradi di giudizio.

Va posto a carico della P A S.r.l. il pagamento delle spese della verificazione disposta in corso di causa dalla Sezione, liquidate nella complessiva misura di € 1.000,00.- (mille/00).

Va inoltre posto a carico della sola P A S.r.l. il pagamento del contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche inerente ad entrambi i gradi di giudizio.

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