Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-08-22, n. 201704055

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-08-22, n. 201704055
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201704055
Data del deposito : 22 agosto 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 22/08/2017

N. 04055/2017REG.PROV.COLL.

N. 01457/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1457 del 2016, proposto dalla s.p.a. M B, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati B B ed A C, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato A G in Roma, via De Gracchi, n. 39;

contro

Il Comune di Rimini, in persona del Sindaco pro tempore , non costituito in giudizio;

per la revocazione

della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3546/2015, resa tra le parti, concernente la determinazione del canone demaniale marittimo;


Visti il ricorso in revocazione, con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 giugno 2017 il Cons. F M e udito l’avvocato Francesca Giuffrè, per delega dell’avvocato B B;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con la sentenza n. 3546 del 16 luglio 2015, questa Sezione rigettava l’appello n. 308 del 2012, proposto dalla s.p.a. M B nei confronti della sentenza del Tribunale Amministrativo per l’Emilia Romagna n. 659 del 2011, che aveva respinto il ricorso originario ed i motivi aggiunti intesi ad ottenere l’annullamento degli atti con cui il Comune di Rimini aveva disposto e richiesto l’adeguamento dei canoni relativi alla concessione per la realizzazione e la gestione di un porto turistico.

Avverso tale sentenza, la s.p.a. M B ha proposto ricorso per revocazione, deducendo, in sede rescindente, la violazione dell’articolo 395 c.p.c. n. 4, ritenendo la stessa affetta da errore di fatto processuale.

In sede rescissoria, la società ha chiesto l’esame e l’accoglimento dei motivi dell’appello n. 308 del 2012 presentati e, segnatamente:

1) errore in fatto e in diritto – carenza di motivazione per incongruo riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 232/2010 – violazione dell’art. 1, comma 251, della legge n. 296/2006;

2) falsa applicazione dell’art. 1, comma 252, della l. n. 296/2006 – violazione di legge;

3) questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 252, della legge 296/2006 per contrasto con gli articoli 3, 41, 42 e 97 della Costituzione;

4) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 7 e 8 della legge n. 241/1990.

Il Comune di Rimini non si è costituito nel corso della presente fase del giudizio.

La parte ricorrente ha prodotto una memoria illustrativa.

La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 15 giugno 2017.

DIRITTO

1. La sentenza di questa Sezione n. 3546/2015 viene impugnata per revocazione ex articolo 395 c.p.c., n. 4), in quanto la stessa risulterebbe essere affetta da un errore di fatto.

La società ricorrente (il cui appello n. 308 del 2012 è stato respinto con la citata sentenza n. 3546/2015) lamenta che:

- la decisione del Collegio si sarebbe basata su di un errore di fatto, consistente nel mancato esame dei motivi di impugnazione che essa aveva dedotto nel ricorso introduttivo e riproposto con l’atto d’appello;

- la sentenza non avrebbe esaminato le doglianze di merito, senza esporre le relative ragioni;

- vi sarebbe, dunque, non un errore di valutazione del giudice, ma un errore di percezione di un fatto, trattandosi di una svista che ha provocato l’errata percezione degli atti del giudizio, poiché l’atto d’appello conteneva tutti gli elementi per procedere all’esame dei relativi motivi, pur nel caso di insussistenza dei presupposti per sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale (dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 128 del 2014, che aveva dichiarato inammissibile una questione in precedenza sollevata nel medesimo giudizio d’appello).

La società evidenzia che essa aveva riproposto in sede di appello tutti i motivi di illegittimità volti a censurare gli atti impugnati in primo grado, riservando alla questione di legittimità costituzionale una posizione residuale, essendo essa dedotta nel terzo motivo di ricorso ed in via subordinata.

Nonostante ciò il giudice non avrebbe esaminato i motivi proposti, così incorrendo in un errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa.

La sentenza n. 3546/2015 non avrebbe motivato il perché non abbia ritenuto di esaminare le censure dedotte nell’atto di appello, ignorandole.

2. Ritiene la Sezione di dover preliminarmente richiamare, sia pure sinteticamente, i principi giurisprudenziali consolidatisi nel caso di proposizione di un ricorso per revocazione, quando si deduca che una sentenza resa in grado d’appello non abbia esaminato le censure formulate con l’atto di gravame.

L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 106 c.p.a. e dell’art. 395, n. 4, c.p.c., deve rispondere ai seguenti requisiti:

a) derivare da una semplice errata o mancata percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, che abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale, escluso ovvero inesistente, un fatto documentalmente provato;

b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non ha espressamente motivato;

c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa;
l’errore deve, inoltre, risultare con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche;
pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale – senza coinvolgere la successiva attività di interpretazione e valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo – esso, invece, non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di precisi canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della decisione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo semmai ad un ipotetico errore di giudizio , non censurabile mediante la revocazione, la quale altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento;
l’errore revocatorio è, inoltre, configurabile in ipotesi di mancata pronuncia su di una censura sollevata dal ricorrente, purchè risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima;
si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame o di valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione (cfr. per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 6 aprile 2017, n. 1610).

Si è, dunque, precisato che rientra nell’errore di fatto l’ipotesi di mancato esame di un motivo del ricorso, purché si sia trattato di un errore di un fatto processuale, quando cioè risulti evidente dalla decisione che il giudice non ha neppure percepito la deduzione di tale motivo (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 10 novembre 2015, n. 5127;
Sez. V, 28 luglio 2014, n. 4012).

Peraltro, è stato chiarito che la mancata pronuncia da svista precettiva degli atti di causa non si traduce in errore revocatorio, allorquando la domanda o l’eccezione risulti implicitamente respinta in base ad una lettura non formalistica della motivazione della decisione di cui si chiede la revoca (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2016, n. 1331).

3. Ritiene la Sezione che, sulla base dei principi testè ricordati, nella vicenda in esame risulti il lamentato errore revocatorio.

3.1. La sentenza della Sezione n. 3546/2015 espone in primo luogo che « Col ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo per l’Emilia Romagna l’odierna appellante chiedeva l’annullamento della rideterminazione dei canoni concessori, disposta dal Comune di Rimini per gli anni 2007, 2008 e 2009. L’appellante, titolare della concessione demaniale per una superficie complessiva, comprensiva di specchio acqueo di 166.650 mq, della durata di anno 50, lamentava l’unilaterale determinazione dei canoni in violazione dei principi posti a garanzia della partecipazione dell’interessato di cui alla legge n. 241/1990. In secondo luogo sosteneva che il Comune aveva disposto l’aggiornamento del canone anche alle concessioni già rilasciate mentre la normativa sopravvenuta non poteva trovare applicazione retroattiva per non frustrare il legittimo affidamento del concessionario. Sosteneva l’inapplicabilità alle strutture portuali dei nuovi canoni, stante la disciplina recata dall’art. 10 , comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) e dal decreto attuativo 5 agosto 1998, n. 342 (Regolamento recante norme per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative)….Con memoria depositata il 30 marzo 2015 la società ha evidenziato che questa pronuncia di inammissibilità non preclude al giudice di sollevare nuovamente la questione di costituzionalità emendando l’ordinanza di rinvio dalle censure riscontrate. Con la predetta memoria la società appellante ha evidenziato (pagina 9) che “Applicando la norma in esame, il Comune di Rimini ha aumentato l’importo dei canoni, a partire dal 2007, mediamente del 350%”. E’ pacifico che, in assenza di una pronuncia di incostituzionalità dell’art.1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, il ricorso in esame non possa trovare accoglimento. In tal senso depone sia l’ordinanza di rimessione 16 maggio 2012 n. 2810, che lo stesso contenuto della memoria dell’appellante del marzo 2015. La ricorrente, con detta memoria, non fornisce elementi nuovi e necessari per reiterare il rinvio. Essa, pur offrendo una pluralità di dati di natura economica, e, in particolare, dell’incremento percentuale del canone, nemmeno indica analoga percentuale di incidenza sui ricavi della società. Un incremento percentuale consistente, calcolato sui ricavi, e non sui canoni pregressi, sarebbe del resto indispensabile per dimostrare l’esistenza di una attuale situazione….In assenza di tale indicazione il Collegio ritiene di non poter sollevare la questione di costituzionalità con conseguente rigetto del ricorso ”.

3.2. Si osserva in proposito che i motivi di appello proposti dalla società M B non risultano riportati nella sentenza neppure per descriverne i contenuti.

Il richiamo alla memoria di parte appellante del marzo 2015 (nella quale si chiede di sollevare nuovamente questione di legittimità costituzionale) non è indice, in mancanza di esplicita affermazione, di rinuncia agli altri motivi, né può indurre a ritenere che gli stessi siano stati comunque implicitamente esaminati.

Ugualmente dal richiamo alla precedente ordinanza della Sezione n. 2810/2012 (con la quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252 della l. n. 296/2006, poi dichiarata inammissibile dalla Corte) può desumersi l’avvenuto rigetto degli altri motivi di appello (conseguendone per relationem un esame e una valutazione da parte della sentenza oggetto del presente ricorso per revocazione), mancando in essa ogni riferimento alla trattazione delle doglianze di merito prospettate, salvo che per la questione relativa alla applicazione retroattiva della richiamata norma.

Pertanto risulta effettivamente la dedotta mancata pronuncia su motivi di appello, non potendosi affermare che i motivi siano stati percepiti ed esaminati, sia pure implicitamente.

Da tanto consegue, in sede rescindente, la revocazione della sentenza della Sezione n. 3546 del 2015.

4. Deve, pertanto, a questo punto essere esaminato, in sede rescissoria, l’appello a suo tempo proposto dalla società.

5. Con il primo motivo essa lamenta: errore in fatto e in diritto – carenza di motivazione per incongruo riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 232/2010- violazione dell’articolo 1, comma 251, della legge n. 296/2006.

Essa censura la sentenza di primo grado in quanto questa avrebbe erroneamente richiamato la sentenza della Corte Costituzionale 22 ottobre 2010 n. 392, la quale ha richiamato un proprio pacifico orientamento giurisprudenziale, secondo il quale « nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina del rapporto di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti…Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto ».

La società deduce che nella fattispecie in esame la determinazione del canone demaniale, disposta in sede di sottoscrizione dell’atto di concessione, avrebbe dato luogo ad un affidamento sul mantenimento delle condizioni economiche in esso stabilite. Dunque, l’«abnorme» aumento dei canoni demaniali richiesto dal Comune di Rimini trasmoderebbe in un regolamento irrazionale e produrrebbe una lesione dell’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica.

La ricorrente rileva ancora come le deduzioni di incostituzionalità, da essa proposte, riguardava l’articolo 1, comma 252, della legge n. 296/2006 e non anche l’articolo 1, comma 251.

La sentenza della Corte concerneva, inoltre, la concessione di un chiosco gelati, costituente una pertinenza demaniale marittima, mentre nel caso in esame la concessione di beni del demanio marittimo per la costruzione di un porto turistico dà luogo a un diritto reale di superficie a favore del concessionario, il quale rimane proprietario delle opere costruite, fino al termine della concessione.

La società deduce ancora che una aspettativa in ordine all’aumento dei canoni poteva configurarsi con riferimento alle pertinenze demaniali, cui si riferiva l’aumento previsto dall’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326, ma non anche per i porti turistici, cui tale disposizione non trovava applicazione, onde l’aumento dei canoni si dovrebbe considerare «improvviso, imprevedibile ed ingiustificato».

Dunque – per l’appellante – la sentenza della Corte n. 302/2010 non poteva trovare applicazione nella fattispecie della concessione per il porto turistico di Rimini.

5. Ritiene la Sezione il primo motivo di appello – sopra riportato - è fondato per le ragioni che di seguito si espongono, poiché non risulta condivisibile la motivazione della sentenza di primo grado.

Tuttavia, come si statuirà in occasione dell’esame degli altri motivi d’appello, la modifica della motivazione della sentenza del TAR non comporta l’accoglimento del ricorso di primo grado, poiché questo risulta infondato e va respinto.

5.1. La sentenza del Tribunale Amministrativo, a sostegno della ritenuta infondatezza del ricorso, ha affermato quanto segue:

« La Corte Costituzionale, con sentenza n. 302/2010, ha escluso che l’articolo 1, comma 251 della legge n. 296/2006 abbia leso l’affidamento dei cittadini nella sicurezza dei rapporti giuridici in quanto l’intervento del legislatore, pur incidendo sui rapporti in corso, non è stato né improvviso né imprevedibile , né ingiustificato rispetto allo scopo di assicurare maggiori entrate all’erario e di perequare la situazione di soggetti che svolgono attività commerciale, avvalendosi di beni pubblici e quelli di altri soggetti che svolgono identiche attività, ma assoggettati ai prezzi di mercato relativi all’utilizzazione di beni di proprietà privata. Per quanto sopra risulta infondata non solo l’eccezione di legittimità costituzionale, ma anche la censura contenente l’impossibilità per la legge di incidere sui canoni delle concessioni già rilasciate ».

5.2. Orbene, come ha osservato la società a suo tempo appellante, il giudice di primo grado ha richiamato, a fondamento della reiezione del ricorso, una sentenza che ha riguardato l’articolo 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006, mentre la normativa applicabile ai porti turistici è quella contenuta nell’articolo 1, comma 252.

Il motivo di appello è, dunque, per tale parte fondato, non potendosi operare riferimento ad una sentenza che si è pronunciata su di una disposizione non applicabile al caso di specie.

6. Rileva tuttavia il Collegio che l’accoglimento del primo motivo di appello, nei sensi sopra specificati, non comporta di per sé l’accoglimento del ricorso di primo grado, considerandosi che i provvedimenti impugnati non attengono alla fattispecie di cui al comma 251 dell’articolo 1, ma sono stati emanati in base al suo comma 252.

Va, però, considerato che – in pendenza del presente giudizio di revocazione - la Corte Costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale rivolte avverso il citato comma 252, con la sentenza n. 29 del 27 gennaio 2017.

Tale sentenza ha un indubbio rilievo, per la definizione del ricorso in esame.

7. Con il secondo motivo di appello, la società M B lamenta: falsa applicazione dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296/2006 - violazione di legge con riferimento all’art. 39 del codice della navigazione e all’art. 19 del relativo regolamento di cui al d.P.R. n. 328/1952, all’art. 6, comma 2, lett. a), del d.P.R. n. 509/1997 e del d.m. 14 aprile 1998.

La società espone che il citato comma 252 ha equiparato per la prima volta, a decorrere dal 1° gennaio 2007, la misura dei canoni prevista per « le concessioni dei beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto » a quella prevista dal precedente comma 251 per le « concessioni rilasciate o rinnovate con finalità turistico ricreative di aree, pertinenze del demanio marittimo e specchi acquei ».

La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ritiene che tale equiparazione possa avvenire, anche a decorrere dal 1° gennaio 2007, anche nelle ipotesi di concessioni di porti turistici già rilasciate a tale data, e ritiene, invece, che, alla luce dei principi previsti dal Codice della Navigazione, dai relativi regolamenti e delle norme che regolano il rilascio di concessioni da parte del demanio marittimo, deve ritenersi che l’art. 1, comma 252, si applicherebbe solo alle concessioni aventi ad oggetto la costruzione e la gestione dei porti turistici rilasciate dopo la suddetta data.

In base al codice della navigazione e dei relativi regolamenti, i canoni demaniali potrebero essere stabiliti solo all’atto della concessione in forza del ‘sinallagma contrattuale’, rimanendo invariabili per il futuro.

In tal senso deporrebbe pure la disciplina del procedimento di concessione, regolata dal d.P.R. n. 509/97, che riconoscerebbe ai concessionari una forma di ‘garanzia per gli investimenti’ ancora non ammortizzati e per una prosecuzione del rapporto di concessione senza possibilità di costi aggiuntivi derivanti da modifiche del ‘sinallagma contrattuale’ in esso contenuto.

I canoni, pertanto, non potrebbero subire modifiche neppure in applicazione del comma 252 dell’art. 1 della legge 296/2006, in quanto la loro misura deve considerarsi alla stregua di un ‘diritto quesito’.

Diversamente opinando, l’applicazione dei nuovi canoni ai rapporti già in corso « trasmoderebbe in un regolamento irrazionale, frustrando, con riferimento a situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto» .

8. Ritiene la Sezione che tale motivo di appello è palesemente infondato e va respinto.

8.1. Va richiamata la normativa di cui ai commi 251 e 252 della legge n. 296/2006.

Il comma 251 dispone che: « il comma 1 dell’art. 3 del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993 n. 494, è sostituito dal seguente:

“ 1 I canoni annui per le concessioni rilasciate o rinnovate con finalità turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo sono determinati nel rispetto dei seguenti criteri:

a) classificazione , a decorrere dal 1° gennaio 1997, delle aree, manufatti, pertinenze e specchi acquei nelle seguenti categorie ……

b) misura del canone annuo determinata come segue:

1) per le concessioni demaniali marittime aventi ad oggetto aree e specchi acquei, per gli anni 2004, 2005 e 2006 si applicano le misure unitarie vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge e non operano le disposizioni maggiorative di cui ai commi 21, 22 e 23 dell’articolo 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003 n. 326 e successive modificazioni;
a decorrere dal 1° gennaio 2007, si applicano i seguenti importi aggiornati dagli indici ISTAT maturati alla stessa data:

1.1) area scoperta: euro 1,86 al metro quadrato per la categoria A;
euro 0,93 al metro quadrato per la categoria B;

1.2) area occupata con impianti di facile rimozione: euro 3,10 al metro quadrato per la categoria A;
euro 1,55 al metro quadrato per la categoria B;

1.3) area occupata con impianti di difficile rimozione: euro 4,13 al metro quadrato per la categoria A;
euro 2,65 al metro quadrato per la categoria B;

1.4) euro 0,72 per ogni metro quadrato di mare territoriale per specchi acquei o delimitati da opere che riguardano i porti …;

1.5) euro 0,52 per gli specchi acquei compresi tra i 100 e 300 metri dalla costa;

1.6) euro 0,41 per gli specchi acquei oltre i 300 metri dalla costa;

1.7) euro 0,21 per gli specchi acquei utilizzati per il posizionamento di campi boa per l’ancoraggio delle navi al di fuori degli specchi acquei di cui al numero 1.3);

2) per le concessioni comprensive di pertinenze demaniali marittime si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2007, i seguenti criteri:

2.1) per le pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi, il canone è determinato moltiplicando la superficie complessiva del manufatto per la media dei valori unitari minimi e massimi indicati dall’Osservatorio del mercato immobiliare per la zona di riferimento. L’importo ottenuto è moltiplicato per un coefficiente pari a 6,5. Il canone annuo è ulteriormente ridotto delle sefguenti percentuali, da applicare per scaglioni progressivi di superfici del manufatto : fino a 200 metri quadrati, 0 per cento;
oltre 200 metri quadrati e fino a 500 metri quadrati, 20 per cento;
oltre 500 metri quadrati e fino a 1000 metri quadrati, 40 per cento;
oltre i 1000 metri quadrati, 60 per cento.Qualora i valori dell’Osservatorio del mercato immobiliare non siano disponibili, si fa riferimento a quelli del più vicino comune costiero rispetto al manufatto nell’ambito territoriale della medesima regione
» .

Il comma 252 dell’articolo 1 della legge n. 296/2006 così dispone:

« 252. Il comma 3 dell’articolo 3 del decreto legge 5 ottobre 1993 n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, è sostituito dal seguente:

“3. Le misure dei canoni di cui al comma 1, lett. b), si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2007, anche alle concessioni dei beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto ».

8.2. Ciò posto, osserva in primo luogo la Sezione che il richiamato comma 252 (come il comma 251) si limita a disporre che le misure dei canoni « si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2007 ».

La disposizione non opera distinzioni tra nuove concessioni e concessioni in precedenza rilasciate, onde la lettera della legge depone per l’applicazione dei nuovi canoni anche per le concessioni già in corso.

Il testo legislativo è chiaro e non si presta ad equivoci.

La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 29 del 27 gennaio 2017, ha esplicitato le proprie motivazioni in ordine alla infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa alla disposizione in questione, proprio sul presupposto che la nuova misura dei canoni per le concessioni afferenti strutture per la nautica da diporto trovino applicazione anche ai rapporti concessori in corso.

Né, ad escludere l’applicazione della nuova normativa alle concessioni già rilasciate alla data del 1° gennaio 2007 possono richiamarsi le disposizioni del codice della navigazione, del regolamento e quelle disciplinatrici del procedimento relativo alle concessioni per porti turistici, atteso che la nuova misura dei canoni - con la sua applicazione a decorrere dal 1° gennaio 2007 - è stata disposta direttamente da una norma legislativa successiva, la quale supera eventuali disposizioni precedenti di segno contrario.

Trattasi, invero, di disposizione prevalente, non solo in quanto successiva, ma anche in quanto connotata dai requisiti della specialità, riferendosi espressamente ai canoni relativi alle concessioni dei beni del demanio marittimo e del mare territoriale aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto.

9. Con il terzo motivo dell’appello (nonché nella parte finale del presente ricorso per revocazione), la società M B ha dedotto la incostituzionalità dell’art. 1, comma 252, della legge n. 296/2006, per contrasto con gli articoli 3, 41, 42 e 97 della Costituzione.

Essa sottolinea l’irragionevolezza e l’iniquità della equiparazione in relazione alle differenze esistenti tra gli stabilimenti balneari e i porti turistici, derivante dal ‘limitato impegno economico’ dei primi e dei considerevoli esborsi richiesti ai secondi e sottolinea, inoltre, un irragionevole mutamento dei contenuti della legislazione, evidenziando che nella previgente disciplina il canone richiesto si riduceva in relazione al minor valore e consistenza delle opere realizzate, mentre il nuovo metodo di calcolo opererebbe incrementi in senso inverso.

La società deduce, dunque, l’irrazionalità della nuova disciplina della materia, in quanto nulla poteva far presumere ai concessionari per la costruzione e la gestione di porti turistici che i canoni loro richiesti si sarebbero potuti equiparare a quelli dei concessionari degli stabilimenti balneari, rendendo inutili i piani finanziari e modificando in modo irragionevole il ‘sinallagma contrattuale’.

10. Tale motivo di appello (salve le osservazioni di cui al precedente § 3), va respimnto, risultando manifestamente infondate le deduzioni proposte.

10.1. Sulla prospettata questione di legittimità costituzionale della citato articolo 1, comma 252, della legge n. 296/2006 si è già pronunciata la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 29 del 27 gennaio 2017, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da questo Consiglio e dal Tribunale Amministrativo per la Toscana, con riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione.

La Corte Costituzionale ha statuito quanto segue.

« 5.5 Va preliminarmente evidenziato che – con riferimento alle concessioni per attività turistico-ricreative – la legittimità dei nuovi criteri di calcolo dei canoni era già stata riconosciuta da questa Corte con sentenza n. 302 del 2010. In questa pronuncia è stato, in particolare, rilevato che “ gli interventi legislativi volti ad adeguare i canoni di godimento dei beni pubblici, hanno lo scopo, conforme agli art. 3 e 97 Cost. di consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e di rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli pagati dai locatori privati (sentenza n. 88 del 1997).

Del resto un consistente aumento dei canoni in questione era stato già disposto dall’art. 32, commi 21, 22 e 23 del decreto legge 230 settembre 2003, n. 269…, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 novembre 2003. La concreta applicazione degli aumenti disposti dalle norme citate è stata successivamente rinviata sino a quando la legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 256) ha disposto la loro abrogazione, mentre contestualmente introduceva i nuovi criteri di calcolo. Questi ultimi hanno sostituito gli aumenti generalizzati dei canoni annui per concessioni demaniali marittime, disposti con il citato d.l. n. 269 del 2003, con un nuovo meccanismo, che incide soprattutto sulle aree maggiormente produttive di reddito, cioè quelle su cui insistono pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi.

Non si può dire, pertanto, che l’aumento dei canoni disposto dalla previsione legislativa censurata, sia giunto inaspettato, giacchè esso si è sostituito ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente, dalla norma oggetto di censura.

Né l’incremento può essere considerato frutto di irragionevole arbitrio del legislatore, tale da indurre questa Corte a sindacare una scelta di indirizzo politico-economico, che sfugge, in via generale, ad una valutazione di illegittimità costituzionale.

La possibilità di trasferire tali principi, la cui perdurante validità non è neppure in discussione, alle concessioni per la nautica da diporto è esclusa dai remittenti, i quali evidenziano l’ontologica differenza delle stesse rispetto a quelle per attività turistico-ricreative, già esaminate dalla sentenza ora richiamata. Gli elementi differenziali delle prime sarebbero costituiti dalla maggior durata di tali rapporti, dalla loro consistenza numericamente limitata e – soprattutto – dalla notevole entità degli investimenti sostenuti dal concessionario per la realizzazione delle opere che ne costituiscono l’oggetto. Tali elementi verrebbero ad escludere la ragionevolezza dell’equiparazione introdotta dalla disposizione censurata, delle due tipologie concessorie ai fini dell’applicabilità dei nuovi criteri di determinazione dei canoni.

5.6. – Al riguardo, va osservato che i primi due elementi (maggiore durata e numero limitato di tali concessioni) appaiono ininfluenti ai fini della censurata irragionevolezza.

Da un lato, la maggiore durata del rapporto concessorio, in quanto volta a consentire di ammortizzare l’investimento su di un orizzonte temporale più ampio, vale a bilanciare, diluendoli nel tempo, gli effetti degli oneri a carico dei concessionari.

Dall’altro lato, il numero relativamente esiguo delle concessioni per la nautica da diporto appare circostanza in sé estranea alla ragionevolezza in ordine all’incremento dei canoni, in quanto incidente sull’equilibrio economico-finanziario del rapporto.

Pertanto, seguendo l’impostazione dei giudici a quibus, l’unico tratto distintivo rilevante delle due tipologie di concessioni interessate dagli aumenti introdotti dalla legge 296 del 2006 è rappresentato dall’entità degli investimenti richiesti (soprattutto, ma non in via esclusiva) ai titolari di concessioni per la nautica da diporto, laddove queste abbiano ad oggetto opere che debbono essere realizzate a cura del concessionario. Gli effetti discriminatori ed irragionevoli censurati attengono, infatti, alla modifica del calcolo di convenienza economica derivante dall’incremento dei canoni, in quanto applicati a quelle opere che il concessionario si sia impegnato a realizzare in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina.

5.7.- Tuttavia, con riferimento a tale specifica categoria di rapporti concessori, risulta possibile e doverosa un’interpretazione della disposizione del comma 252 che porta ad escludere l’applicabilità, generale ed indifferenziata, dei canoni commisurati ai valori di mercato a tutte le concessioni di strutture dedicate alla nautica da diporto, rilasciate prima della entrata in vigore della disposizione in esame.

Si lamenta, infatti, che, per effetto dell’applicazione dei canoni indicati anche ai rapporti concessori in corso, verrebbe onerato del medesimo canone, sia chi abbia ricevuto un bene demaniale, sul quale realizzi a proprie spese un’infrastruttura o un impianto di difficile rimozione, sia chi, invece, abbia ricevuto in concessione un bene su cui insista una struttura già realizzata da terzi.

Tuttavia, l’irragionevolezza insita in tale prospettazione è esclusa laddove la commisurazione dei canoni venga parametrata alle concrete caratteristiche dei rapporti concessori, nonché dei beni demaniali che ne formino l’oggetto.

Invero, l’art. 3 del d.l. n. 400, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 251, della legge n. 296/2006, prevede che il criterio della media dei valori indicati dall’Osservatorio del mercato immobiliare si applica alle concessioni demaniali marittime comprensive di strutture permanenti costituenti “pertinenze demaniali marittime destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzioni di beni e servizi”. Nel delimitare l’ambito applicativo dei nuovi canoni commisurati ai valori di mercato, il tenore letterale della disposizione in esame fa espresso riferimento, dunque, ad opere costituenti pertinenze demaniali marittime che, pertanto, già appartengono allo Stato. Al fine di stabilire la proprietà statale dei beni di difficile rimozione edificati sul suolo demaniale marittimo in concessione, è determinante la scadenza della concessione, essendo questo il momento in cui il bene realizzato dal concessionario acquista la qualità demaniale.

I criteri di calcolo dei canoni commisurati ai valori di mercato, in quanto riferiti alle opere realizzate sul bene e non sulla sua superficie, risultano applicabili, quindi, soltanto a quelle che già appartengono allo Stato e che già possiedano la qualità di beni demaniali. Nelle concessioni di opere da realizzare a cura del concessionario, ciò può avvenire solo al termine della concessione, e non già nel corso della medesima.

Come osservato dalla difesa statale, nelle concessioni che prevedono la realizzazione di strutture da parte del concessionario, il pagamento del canone riguarda solo l’utilizzo del suolo e non anche i manufatti, sui quali medio tempore insiste la proprietà superficiaria dei concessionari e lo Stato non vanta alcun diritto di proprietà.

Un’interpretazione costituzionalmente corretta della disposizione in esame impone, quindi, la necessità di considerare la natura e le caratteristiche dei beni oggetto di concessione, quali erano all’avvio del rapporto concessorio, nonché delle modifiche successivamente intervenute a cura e spese dell’amministrazione concedente. Mentre con riferimento agli aumenti dei canoni tabellari (art. 3, comma 1, lettera b, n. 1, del d.l. n. 400/1993valgono i principi affermati nella sentenza n. 302/2010, viceversa va esclusa l’applicabilità dei nuovi criteri commisurati al valore di mercaqto alle concessioni non ancora scadute che prevedano la realizzazione di impianti ed infrastrutture da parte del concessionario, ivi incluse quelle rilasciate prima del 2007 ».

10.2. Osserva la Sezione che dalla sentenza sopra riportata della Corte Costituzionale emerge la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in questa sede, in relazione agli articoli 3 e 41 della Costituzione.

In particolare, va sottolineato che anche da tale sentenza risulta comunque che l’aumento non è stato improvviso ed imprevedibile, atteso che i precedenti aumenti, pur se non riferiti espressamente alla nautica da diporto, concernevano comunque beni demaniali e lasciavano ragionevolmente intendere che comunque, in un’ottica di valorizzazione dei beni pubblici, essi avrebbero potuto in un prossimo futuro riguardare anche tale settore.

Dunque, l’assimilazione degli aumenti previsti per la nautica da diporto e le concessioni turistico ricreative trova fondamento in una non sindacabile scelta di indirizzo politico-economico del legislatore e non costituisce frutto di irragionevole arbitrio.

Il Collegio ritiene, poi, che la disposizione in esame non abbia violato l’articolo 97 della Costituzione, sicchè anche la relativa questione va dichiarata manifestamente infondata.

Da un lato, la parte ricorrente non ha esplicitato le specifiche ragioni per le quali ha lamentato la violazione dell’art. 97 Cost.

Dall’altro, va rilevato che la valorizzazione dei beni pubblici in termini di maggiore rendimento per lo Stato è del tutto coerente con i principi espressi dall’articolo 97 della Costituzione e in particolare con quello del buon andamento (principio cui deve ispirarsi anche il legislatore per la determinazione delle regole sulla gestione e sulla utilizzazione dei beni pubblici).

Costituisce una regola di buona amministrazione, imposta dall’art. 97 della Costituzione, quella che induce il legislatore o l’Amministrazione «a valorizzare i beni pubblici e a ricavare dai suoi utilizzatori il massimo importo percepibile, sulla base di procedimenti precostituiti e trasparenti»

(Sez. VI, 10 aprile 2017, nn. 1652-1654;
Sez. V, 7 novembre 2014, n. 5480): tale principio rileva non solo quando si tratti di selezionare gli utilizzatori dei beni pubblici, ma anche quando si tratti di adeguare i corrispettivi dovuti da coloro che già siano stati scelti come loro utilizzatori.

Né è possibile ravvisare la violazione dell’articolo 42 della Costituzione, atteso che comunque la concessione non incide sul diritto di proprietà del concessionario, né gli aumenti del canone hanno sulla stessa, in relazione alla loro giustificazione, rilievo tale da obliterarla in maniera costituzionalmente illegittima.

In conclusione, dunque, anche il terzo motivo di appello e la domanda di sollevare questione di illegittimità costituzionale della disposizione devono essere respinti.

10.3.Peraltro, non risultano condivisibili le deduzioni della società, esposte nella memoria depositata il 12 maggio 2017, sul concreto ambito di applicazione dei principi enunciati dalla citata sentenza della Corte Costituzionale.

La società ha dedotto che sarebbero inapplicabili ad essa gli aumenti di canone previsti dal richiamato art.1, comma 251 della legge n. 296/2006, quanto poiché la medesima Corte ha osservato che « andrebbe esclusa l’applicabilità dei nuovi canoni commisurati al valore di mercato alle concessioni non ancora scadute che prevedano la realizzazione di impianti ed infrastrutture da parte del concessionario, ivi incluse quelle rilasciate prima del 2007 ».

Va in realtà sottolineato che la medesima sentenza n. 29 del 2017 ha ravvisato l’applicabilità a tutte le concessioni per la nautica da diporto (quindi anche per quelle rilasciate prima del 2007) degli incrementi di canone previsti dalla lettera b), n. 1, del nuovo comma 1 dell’articolo 3 del d.l. n. 400/93, come successivamente modificato.

In tal senso la sentenza n. 29 del 2017 risulta chiara e non offre adito a dubbi, laddove afferma che « con riferimento agli aumenti dei canoni tabellari (art. 3, comma 1, lettera b, n. 1 del d.l. n. 400/93) valgono i principi affermati nella sentenza n. 302 del 2010 ».

Invero, una differenziazione rispetto alle concessioni per finalità turistico-ricreative è operata solo con riferimento ai canoni commisurati ai valori di mercato costituenti «pertinenze», previsti dalla lettera b), n. 2, della richiamata disposizione.

Orbene, nella specie la disposizione di cui alla citata lettera b), n. 1, trova applicazione, considerandosi che, come si evince dalla lettura degli atti impugnati, l’incremento dei canoni viene richiesto per le aree occupate e non anche per immobili costituenti «pertinenza» demaniale.

11. Deve, da ultimo, essere esaminato il quarto motivo di appello, con il quale si lamenta la violazione degli art. 3, 7 e 8 della legge n. 241/1990.

L’appellante rileva che è mancato l’avviso di avvio del procedimento, che avrebbe potuto consentirle una fattiva partecipazione, anche al fine di valutare uno spazio di rinegoziazione.

La doglianza è infondata e va respinta.

Si rileva, infatti, nella fattispecie in esame l’inapplicabilità delle norme sulla partecipazione procedimentale previste dalla legge n. 241/1990.

Oggetto della controversia in esame è stata la richiesta della Amministrazione creditrice, che ha chiesto al debitore il pagamento delle somme dovute, sulla base di una disposizione di legge che ne ha determinato l’incremento.

Non rilevando in questa sede le connesse questioni di giurisdizione (poiché nel corso del giudizio si è formato il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione amministrativa), in questa sede si deve constatare che l’Amministrazione creditrice non ha emesso un provvedimento discrezionale.

La sua richiesta di pagamento va ricondotta ad un modus agendi dovuto e vincolato, sicché al più si può richiamare la nozione di atto paritetico dovuto e vincolato, la cui emanazione non va preceduta da alcun previo avviso al soggetto debitore.

Quanto al dedotto difetto di motivazione sul computo dei canoni, oltre alle precedenti osservazioni rileva il fatto che si sono stati effettuati calcoli sulla base di parametri predeterminati dalla legge, tenendo conto delle superfici in precedenza formalmente indicate.

12. Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, la Sezione:

- in sede rescindente, dispone la revocazione della sentenza n. 3546 del 2015;

- in sede rescissoria, respinge l’appello n. 308 del 2012, confermando la gravata sentenza del TAR n. 659 del 2011 con diversa motivazione, poiché risultano infondati il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti ivi proposti.

Nulla è dovuto per le spese della presente fase del giudizio, attesa la mancata costituzione in giudizio del Comune di Rimini.

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