Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-01-24, n. 202200478

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-01-24, n. 202200478
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202200478
Data del deposito : 24 gennaio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/01/2022

N. 00478/2022REG.PROV.COLL.

N. 07374/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7374 del 2014, proposto dai
signori V T e C P, rappresentati e difesi dall’avvocato A D M, con domicilio eletto presso lo studio Antonella Cassandro in Roma, via Raffaele De Cesare, 36;

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Agenzia del Demanio, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Comune di Venosa, non costituito in giudizio;
Agenzia del Demanio Filiale di Puglia e Basilicata, Agenzia del Demanio Filiale di Puglia e Basilicata- Agenzia di Matera, non costituite in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata n. 236/2014, resa tra le parti, concernente l’impugnativa dei provvedimenti di demolizione del 31 marzo 2011 e del 19 aprile 2011.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’ Agenzia del Demanio;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 novembre 2021 il Cons. Cecilia Altavista;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con il presente appello i signori V T e C P hanno impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Basilicata n. 236 del 3 aprile 2014, che ha respinto il ricorso da loro proposto avverso il provvedimento di demolizione del Comune di Venosa n. 22 del 31 marzo 2011, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per avere realizzato il fabbricato in totale difformità dal permesso di costruire, in quanto assentito sulle particelle catastali 494 e 495 del foglio 59 occupando invece altre particelle di proprietà demaniale (1319,1321,1323), nonché avverso la successiva ordinanza di demolizione del 20 aprile 2011, di rettifica della precedente, con la quale il Comune ha disposto la demolizione dell’immobile in questione, ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, senza l’acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale;
erano stati impugnati, altresì, il verbale della Polizia municipale di Venosa del 30 marzo 2011 nonché la nota dell’Agenzia del demanio- filiale di Puglia e Basilicata-Ufficio di Matera del 14 aprile 2011, con cui si chiedeva al Comune la rettifica del provvedimento di demolizione essendo stato realizzato l’immobile sul terreno di proprietà demaniale.

Con il ricorso di primo grado si deduceva, in punto di fatto, che i ricorrenti, con atto pubblico del 30 agosto 2010, avevano acquistato il terreno, di circa 160 metri quadri sito in via santa Maria della Pace, individuato al catasto alle particella 494 e 495 del foglio 59, ricadente in zona B del Piano regolatore, dai signori L F e S D, unitamente al titolo edilizio costituito dal permesso di costruire n. 89 del 1° aprile 2008;
i danti causa avevano anche iniziato i lavori il 25 marzo 2009. Il terreno era pervenuto ai detti danti causa unitamente al permesso di costruire dai signori G M e C A, con atto del 3 febbraio 2009, originari intestatari anche del titolo edilizio rilasciato dal Comune il 1° aprile 2008 e successivamente volturato, con atto del 25 marzo 2009, al signor L F e, con atto del 10 gennaio 2011, ai signori V T e C P.

Con i motivi di ricorso di primo grado si lamentava l’illegittimità del provvedimento di demolizione, in quanto l’immobile era stato realizzato in conformità al titolo edilizio rilasciato dal Comune e in perfetta aderenza agli elaborati grafici allegati a tale titolo;
si deduceva, quindi, il difetto di istruttoria e di motivazione in quanto il Comune avrebbe dovuto verificare le complesse vicende della proprietà dell’area, di cui i ricorrenti avevano avuto conoscenza solo tramite verifiche effettuate a seguito della notifica dei provvedimenti di demolizione, mentre l’area era sempre stata recintata come di proprietà privata e nel piano regolatore era considerata edificabile con intervento diretto. Infatti, da tali accertamenti era risultato che la zona in questione denominata Rione della Pace e degli Zoccolanti (notevolmente più estesa di quella per cui è causa) nel 1974 era stata oggetto di un ampio intervento diretto dello Stato, finalizzato alla costruzione di abitazione per i lavoratori agricoli ex l. 30 dicembre 1960 n. 1676, e pertanto il Prefetto di Potenza aveva disposto l’esproprio di tutta la zona, in particolare anche delle particelle nn. 1319, 1321, 1323 nonché della particella n. 494, il cui esproprio non risultava al catasto;
parte del terreno di tali particelle non era stata poi utilizzata per la costruzione degli alloggi. Inoltre, successivamente, le particelle 494 e 495 erano state occupate in via di fatto dal Comune per la realizzazione della strada Rione della Pace;
quindi i privati, originari proprietari, a seguito dell’occupazione della loro proprietà per la realizzazione della strada avevano occupato, a loro volta, abusivamente una parte dell’area demaniale confinante;
le particelle n. 494 e n. 495, risultavano anche edificabili in base al certificato di destinazione urbanistica, non avendo il Comune aggiornato la situazione urbanistica che era sempre rimasta indicata in zona B, anche a seguito dell’avvenuta realizzazione della strada, fino al Regolamento urbanistico del 2012.

Deducevano, altresì, che gli atti notarili avevano fatto riferimento alla situazione reale dei confini di proprietà e che la collocazione del fabbricato da costruire non avrebbe potuto essere diversa in quanto una diversa collocazione avrebbe comportato l’occupazione delle strade realizzate dal Comune (via Santa Maria della Pace e via degli Zoccolanti). Sostenevano, quindi, l’avvenuta usucapione dell’area occupata recintata con una rete metallica fin dal mancato utilizzo per la realizzazione degli alloggi popolari e comunque la mancata destinazione all’uso pubblico, contestando il riferimento da parte del Comune alla disposizione dell’art. 35 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 per le costruzioni abusive in aree pubbliche.

Con ulteriori censure lamentavano la violazione dell’art. 21 nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241, il difetto di motivazione, la violazione del principio di affidamento, in quanto, essendo la costruzione realizzata in conformità ai titoli edilizi, il Comune avrebbe dovuto procedere in autotutela ad annullare il permesso di costruire, quindi con idonea motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale anche in relazione al tempo trascorso dal rilascio del titolo;
inoltre, il procedimento di autotutela avrebbe richiesto la comunicazione di avvio del procedimento e la possibilità di valutare la sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 38 del T.U Edilizia. Il Comune, avendo sostanzialmente agito a tutela della proprietà di terzi, ovvero del Demanio, non avrebbe potuto esercitare poteri di autotutela esecutiva spettanti solo al Demanio.

Depositavano la relazione del tecnico di parte e, nel corso del giudizio, la Consulenza tecnica di ufficio depositata nel giudizio civile instaurato davanti al Tribunale di Melfi dai ricorrenti nei confronti dei danti causa.

Si costituivano in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia del Demanio, contestando la fondatezza del ricorso, non potendo essersi verificata alcuna usucapione ex lege o in via di fatto, ed eccependo che l’eventuale domanda dei ricorrenti sarebbe rientrata nella giurisdizione del giudice amministrativo;
in punto di fatto si deduceva, depositando la relativa documentazione, che gli originari proprietari, signori G M e Aurelio Caggianelli, a cui era stata rilasciato il titolo edilizio da parte del Comune, erano a conoscenza dell’avvenuta occupazione del terreno demaniale, in quanto in data 27 maggio 2005 vi era stata una ispezione demaniale, nel corso della quale era stata rilevata l’occupazione senza titolo delle aree di proprietà dello Stato oggetto dei provvedimenti impugnati, ed il relativo verbale era stato sottoscritto dal sig. Modello, dichiarando di occupare le aree in questione. A seguito della ispezione era stata anche presentata la richiesta di acquisto dell’area, ai sensi dell’art. 5 bis del d.l. 24 giugno 2003, n. 143, convertito dalla legge 1 agosto 2003, n. 212 da parte dei signori Modello Caggianelli, versando il 19 luglio 2005 le somme relative al prezzo dell’area (per € 22.816,00) (dovendo l’istanza, per espressa previsione di legge, essere accompagnata dalla ricevuta del versamento). L’istanza era stata respinta dall’Agenzia del Demanio per la mancanza dei presupposti.

La sentenza di primo grado ha respinto il ricorso rigettando la tesi dei ricorrenti relativa all’acquisto della proprietà delle aree a titolo originario per usucapione ed affermando che eventuali domande, relative all’accertamento della proprietà delle aree, rientrassero nella giurisdizione del giudice ordinario e fossero quindi inammissibili. Ha respinto le censure di difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto l’attività istruttoria del Comune è tesa non a risolvere i conflitti tra le parti private in ordine all’assetto dominicale dell’area stessa, ma ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente, e, nel caso di specie, di fronte ad un atto notarile che affermava la proprietà il Comune non aveva l’onere di verificare se l’area oggetto d’intervento fosse gravata da altri vincoli anche al fine di non aggravare oltremodo il procedimento autorizzativo.

Con l’atto di appello è stata contestata la sentenza per l’omessa pronuncia sul motivo di ricorso relativo alla illegittimità del permesso di costruire, che avrebbe dovuto essere rimosso in via di autotutela prima di disporre la demolizione di un immobile conforme al titolo edilizio. In particolare, gli appellanti hanno richiamato la CTU depositata nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Melfi, nella parte in cui ha confermato quanto già indicato dal tecnico di parte ovvero la conformità del fabbricato agli elaborati presentati per il rilascio del permesso di costruire e la impossibilità di realizzare il fabbricato sulle particelle 494 e 495 ormai definitivamente modificate dalla realizzazione delle strade pubbliche via Santa Maria della Pace e via Zoccolanti.

Il Comune non si è costituito in giudizio.

Si sono costituiti il Ministero delle Finanze e l’Agenzia del Demanio che, nella memoria, hanno richiesto la conferma della sentenza.

La difesa appellante ha successivamente depositato in giudizio la sentenza pronunciata dal Tribunale penale di Potenza il 6 novembre 2019, che ha assolto gli odierni appellanti dal reato di invasione di terreni aggravato dalla natura pubblica del bene occupato e ha affermato la sussistenza di un vizio originario del titolo edilizio, non potendo essere l’immobile realizzato sulle particelle 494 e 495;
ha affermato, altresì, che, pur essendo stato il titolo edilizio rilasciato con riguardo alle particelle formalmente intestate ai proprietari privati (particelle 494 n. e n. 495), “ l’opera progettata e autorizzata dal Comune ricadeva per oltre il 90% su area demaniale”, che il fabbricato è stato realizzato “ nella stessa identica posizione indicata negli elaborati grafici ” allegati al permesso di costruire, escludendo, quindi, la sussistenza di una difformità e/o traslazione del fabbricato.

Nella memoria la difesa appellante ha insistito per la fondatezza dell’appello anche alla luce degli accertamenti risultanti dalla sentenza penale.

All’udienza pubblica del 9 novembre 2021 l’appello è stato trattenuto in decisione.

Con l’appello si lamenta l’omissione di pronuncia da parte del giudice di primo grado circa il motivo di ricorso relativo alla conformità dell’immobile al permesso di costruire e alla illegittimità dello stesso con la conseguente necessità di disporre provvedimenti di autotutela prima di emanare la ordinanza di demolizione, motivo che è stato espressamente riproposto.

L’appello è fondato.

Infatti, il giudice di primo grado non ha preso in considerazione tale motivo di ricorso, il quale risulta fondato, anche alla luce dei fatti accertati in sede penale.

Risulta, infatti, dalla sentenza penale, che ha assolto gli imputati per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, ma che ha ricostruito i vari presupposti di fatto della vicenda, che il fabbricato, secondo quanto sostenuto anche dagli odierni appellanti, è stato realizzato in perfetta conformità agli elaborati progettuali, nei quali risulta già collocato in gran parte sull’area demaniale, non essendo possibile una diversa collocazione del fabbricato sulle particelle di proprietà “formalmente” privata degli appellanti e dei loro danti causa (494 e 495), ma interessate in passato da una occupazione in via di fatto da parte dello stesso Comune per la realizzazione della strada, e comunque non idonee alla realizzazione del fabbricato progettato anche a prescindere dalla realizzazione della strada pubblica.

Ritiene il Collegio che tali circostanze di fatto accertate nel giudizio penale debbano essere poste a base anche del presente giudizio, ai sensi dell’art. 654 del codice di procedura penale per cui “ nei confronti dell'imputato, della parte civile che si sia costituita o che sia intervenuta nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa ”.

Come è noto, la giurisprudenza di questo Consiglio ritiene che da tale disposizione non derivi un vincolo assoluto nel giudizio amministrativo, tanto più quando la p.a. non si sia costituita parte civile nel processo penale. Il carattere vincolante, nei riguardi del giudizio amministrativo, dell’accertamento compiuto dal giudice penale, è infatti subordinato alla ricorrenza di presupposti rigorosi, tra cui sotto il profilo oggettivo, il riferimento all’accertamento dei " fatti materiali " e non anche la loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane circoscritta al processo penale e non può condizionare l’autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o civile (Consiglio di Stato, sez. VI, 23 novembre 2017, n. 5473;
Sez. V, 17 marzo 2021, n. 2285;
Sez. VI, 15 febbraio 2021, n. 1350).

Nel caso di specie, la verifica relativa alla corrispondenza dell’immobile realizzato con gli elaborati progettuali allegati alla domanda di permesso di costruire costituisce un fatto materiale coperto dal giudicato della sentenza penale.

In ogni caso, il giudice amministrativo può comunque utilizzare come fonte del proprio convincimento anche le prove raccolte nel giudizio penale, conclusosi con sentenza non esplicante autorità di giudicato nei confronti di tutte le parti della causa amministrativa, e può pertanto ricavare gli elementi di fatto utili alla risoluzione della controversia anche dalla sentenza e dagli altri atti del processo penale, purché le risultanze probatorie siano sottoposte ad un autonomo vaglio critico svincolato dall’interpretazione e dalla valutazione che ne abbia già dato il giudice penale, e purché la valutazione del materiale probatorio sia effettuata in modo globale, non frammentaria e limitata a singoli elementi di prova ( Cons. Stato, Sez. II, 25 maggio 2020, n. 3315;
Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 1833).

Nel caso di specie, le circostanze di fatto poste a base della sentenza penale risultano anche dalla relazione CTU depositata nel giudizio civile davanti al Tribunale di Melfi, agli atti del presente giudizio, nonché dalla relazione tecnica di parte depositata dai ricorrenti in primo grado e non sono state oggetto di alcuna contestazione dell’Amministrazione comunale non costituita in giudizio.

Ne deriva la fondatezza del motivo non esaminato in primo grado, in quanto il Comune, di fronte al permesso di costruire rilasciato in contrasto con la reale situazione dei luoghi e con la effettiva possibilità di realizzazione dell’immobile sulle particelle ivi indicate (n. 494 e 495) – peraltro in parte anche a seguito di attività illecita dello stesso Comune costituita dall’occupazione di fatto per la realizzazione della strada pubblica neppure riprodotta negli atti urbanistici fino al 2012– non avrebbe potuto ordinare la demolizione, ma avrebbe dovuto annullare in autotutela il titolo edilizio con i limiti e i presupposti, indicati dall’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, e pertanto con una specifica motivazione circa la sussistenza dell’interesse pubblico attuale, l’esercizio del potere in un termine ragionevole, e con la partecipazione al procedimento degli interessati.

La giurisprudenza ha, infatti, più volte affermato, che è illegittima l’ordinanza di demolizione non preceduta da un atto esplicito - sussistendone i presupposti - di annullamento del permesso di costruire assentito. Ciò in quanto, in osservanza del principio di stretta legalità, l’Amministrazione anziché provvedere a ingiungere il ripristino dello stato dei luoghi sul rilievo delle difformità urbanistico-edilizie dell’intervento, in via diretta, con una ordinanza di demolizione, deve far precedere l’emissione della ingiunzione a demolire, sussistendone i presupposti, da un provvedimento esplicito e autonomo di esercizio dell’autotutela, corredato delle garanzie, anche motivazionali, previste dall'art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 22 settembre 2014 n.4780;
Sez. VI, 29 aprile 2019, n. 2739).

Nel caso, di specie, peraltro l’atto era anche conforme alla disciplina urbanistica, ma questa risultava non aggiornata alle reale situazione dei luoghi, di cui peraltro il Comune doveva essere necessariamente a conoscenza, trattandosi dell’avvenuta realizzazione di strade pubbliche con occupazione in via di fatto.

In conclusione, l’appello è fondato e deve essere accolto con riforma della sentenza impugnata in parte qua e accoglimento del ricorso di primo grado limitatamente a tale motivo riproposto in appello.

In considerazione della particolarità della vicenda in fatto le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate.

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