Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2017-10-11, n. 201704717
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Pubblicato il 11/10/2017
N. 04717/2017REG.PROV.COLL.
N. 04187/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 4187 del 2017, proposto da:
S S, rappresentato e difeso dagli avvocati F T, D G, con domicilio eletto presso lo studio F T in Roma, largo Messico 7;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, in persona dei rispettivi legali rappresentanti
pro tempore
, entrambi rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12 sono domiciliati per legge;
nei confronti di
P Griffi Filippo, P Alessandro, B Stefano, Carboni Raffaele, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza non definitiva del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II n. 06125/2017, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 settembre 2017 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati D G, F T e Ruggero Di M per l’Avvocatura Generale dello Stato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Viene in decisione l’appello proposto dal Presidente di Sezione del Consiglio di Stato S S per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, senza definire il giudizio, ha in parte respinto e in parte dichiarato inammissibili alcune delle censure formulate nel ricorso introduttivo e nei successivi motivi aggiunti, volti all’annullamento degli atti del procedimento che ha condotto alla nomina, avvenuta con decreto del Presidente della Repubblica in data 29 dicembre 2015, di A P quale Presidente del Consiglio di Stato.
2. Per una migliore comprensione dei fatti di causa, è opportuno ricostruire sinteticamente i tratti essenziali della vicenda (procedimentale e processuale) che ha preceduto il presente giudizio di appello.
3. A seguito delle dimissioni presentate dal Presidente del Consiglio di Stato Giorgio Giovannini, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa ha informato la Presidenza del Consiglio dei Ministri della vacanza della carica di Presidente del Consiglio di Stato a decorrere dal 1° ottobre 2015, richiedendo di adottare i conseguenti provvedimenti.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, con nota del 4 dicembre 2015, ha chiesto al Consiglio di Presidenza di indicare una “rosa” di cinque magistrati, ai sensi e per gli effetti di quanto stabilito dall’art. 22, primo comma, della legge n. 186 del 1982.
Nella seduta dell’11 dicembre 2015, la Quarta Commissione del Consiglio di Presidenza ha adottato, con tre voti favorevoli ed un astenuto, una delibera in cui ha dichiarato: “ di rendere il parere per la nomina del Presidente del Consiglio di Stato indicando al Presidente del Consiglio dei Ministri i seguenti magistrati, graduati tra loro nella posizione di cui infra, in esito alla valutazione della rispettiva posizione in ruolo nonché dei meriti e delle attitudini di ciascuno rispetto alla specifica funzione di cui trattasi: 1. S B;2. A P;3. Filippo P Griffi;4. S S;5. R C ”.
Tale delibera è stata approvata nella seduta plenaria del Consiglio di Presidenza in data 17 dicembre 2015.
In data 29 dicembre 2015 è stato adottato il decreto del Presidente della Repubblica, registrato alla Corte dei Conti il 30 dicembre 2015, con il quale, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato nominato Presidente del Consiglio di Stato A P.
4. Con ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, il Presidente di Sezione del Consiglio di Stato S S ha impugnato, chiedendone l’annullamento, i seguenti atti:
- il decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 2015, registrato alla Corte dei Conti in data 30 dicembre 2015 al n. 3205, con il quale è stato nominato Presidente del Consiglio di Stato l’avv. A P;
- la nota del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 4 dicembre 2015;
- il “verbale di riunione” della Quarta Commissione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa n. 41 dell’11 dicembre 2015;
- il parere espresso dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, con la delibera n. 177 del 18 dicembre 2015;
- la deliberazione del Consiglio dei Ministri adottata nella seduta del 23 dicembre 2015 “ all’esito di una valutazione diretta alla scelta del magistrato più idoneo all’incarico, tenuto conto anche di quanto espresso dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa nella formulazione del proprio parere ”.
5. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con sentenza non definitiva n. 6125 del 2017, ha in parte dichiarato inammissibili e in parte ha respinto le censure articolate dal ricorrente e, con specifico riferimento alla censura di carenza di istruttoria – fatta valere come vizio proprio del parere del Consiglio di Presidenza (nella parte in cui contiene la graduazione dei cinque nominativi inseriti nella c.d. “cinquina”) e come vizio derivato della delibera del Consiglio dei Ministri – ha ritenuto opportuno acquisire agli atti del giudizio copia dei fascicoli personali del ricorrente e del controinteressato, nonché ogni altro eventuale documento che ha costituito elemento di valutazione da parte del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa al fine di rendere il citato parere.
6. L’articolato impianto motivazionale della sentenza appellata può essere così riepilogato.
I) Il T.a.r. ha dichiarato inammissibili, per carenza delle condizioni soggettive della legittimazione ad agire e dell’interesse a ricorrere, le doglianze (formulate sia nell’atto introduttivo che nei motivi aggiunti) dirette a censurare il decreto del Presidente della Repubblica e la delibera del Consiglio dei Ministri per non avere esternato le ragioni per cui si sarebbero discostati dall’indicazione (contenuta nella delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa) del Presidente S B, Presidente di Sezione più anziano in ruolo, quale magistrato da nominare per la carica di Presidente del Consiglio di Stato.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale, in particolare, rispetto alle censure in esame, la lesione alla posizione di interesse legittimo pretensivo del Presidente S non può essere individuata nel provvedimento con cui il Presidente della Repubblica ha nominato, su proposta del Consiglio dei Ministri, il Presidente P, anziché il Presidente B, che pure risultava indicato al primo posto nella “cinquina” di nomi fornita dall’organo di autogoverno. Ciò in quanto, a giudizio del Tribunale di prime cure, l’interesse leso da tali atti sarebbe esclusivamente quello del Presidente B (il quale, però, non ha esperito alcuna azione giurisdizionale avverso tali atti), mentre il Presidente S non avrebbe né interesse né legittimazione a dolersi della mancata esternazione dei motivi per i quali il decreto del Presidente della Repubblica impugnato ha nominato (o la deliberazione del Consiglio dei Ministri ha proposto) il Presidente P, secondo nella detta “cinquina”, anziché il Presidente B, primo della lista. In altri termini, secondo la sentenza gravata, la lesione della sfera giuridica del Presidente S sarebbe stata prodotta esclusivamente dal parere reso dall’organo di autogoverno, che, nonostante l’interessato fosse il magistrato più avanti nel ruolo di anzianità dopo il Presidente B, lo ha collocato al quarto posto, posponendolo sia al Presidente P, indicato al secondo posto, sia al Presidente P Griffi, indicato al terzo posto.
II) Il T.a.r. ha, altresì, dichiarato inammissibili, per difetto di interesse, i motivi diretti a lamentare che la Presidenza del Consiglio abbia chiesto e ottenuto dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa l’indicazione di una rosa di candidati, anziché di un solo nome. Sotto questo profilo, il giudice di prima istanza ha ritenuto che tale modus operandi può avere leso soltanto la sfera giuridica del presidente B, “ il quale, verosimilmente indicato come nome unico ove si fosse seguita la prassi del Consiglio di Presidenza di fornire un unico nominativo al Consiglio dei Ministeri, non è stato invece nominato in quanto la nomina è caduta sul Presidente P, indicato al secondo posto della “cinquina” e, quindi, come secondo magistrato maggiormente meritevole dopo il Presidente B ”. Anche in relazione a questo gruppo di censure, il Tribunale amministrativo regionale ha, quindi, ritenuto che la lesione all’interesse legittimo pretensivo del ricorrente sarebbe stata inferta esclusivamente dalla valutazione, anche attitudinale e di merito, svolta dal Consiglio di Presidenza, che lo ha collocato al quarto posto della “cinquina”, sebbene l’interessato fosse, come anzianità di ruolo, secondo solo al magistrato collocato in prima posizione.
III) Il T.a.r. ha ancora dichiarato inammissibile per irrilevanza (e, in parte, anche per manifesta infondatezza) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge n. 186 del 1982 prospettata in via subordinata dal ricorrente sotto il duplice profilo secondo cui: a ) la norma, ove interpretata nel senso di escludere che il Consiglio di Presidenza debba rendere un parere (non solo obbligatorio, ma anche) vincolante avente ad oggetto la designazione del magistrato da nominare – e di rimettere, quindi, in definitiva la nomina alla valutazione discrezionale del Governo – violerebbe l’articolo 108, secondo comma, Cost., secondo cui “ la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali ”; b ) la stessa indipendenza garantita dall’articolo 108, secondo comma, Cost. verrebbe meno ammettendo la possibilità di disattendere la consuetudine di nominare il Presidente del Consiglio di Stato secondo l’anzianità dei Presidenti di Sezione che non hanno demeritato.
Il Tribunale amministrativo regionale ha ritenuto irrilevante, sotto entrambi i profili, la questione di costituzionalità, evidenziando la carenza di interesse del Presidente S a far valere i sottesi motivi di ricorso giurisdizionale. A giudizio della sentenza appellata, invero, la lesione provocata dalla norma (sulla base dell’interpretazione – secondo il ricorrente incostituzionale – che di essa è stata data negli atti impugnati) ha leso soltanto l’interesse del Presidente B, che era, a un tempo, il magistrato indicato dal Consiglio di Presidenza al primo posto della “cinquina” (stilata all’esito della valutazione anche attitudinale e di merito) e il magistrato più anziano in ruolo.
In ogni caso, ha aggiunto il T.a.r., la questione di costituzionalità sarebbe anche manifestamente infondata, almeno nella parte diretta a sostenere l’obbligatorietà costituzionale del criterio della c.d. anzianità senza demerito, in quanto il principio di indipendenza della magistratura non impedisce, considerata anche la straordinaria importanza istituzionale della carica di cui si discute, che l’indicazione dell’organo di autogoverno avvenga coniugando il criterio dell’anzianità con quelli del merito e delle attitudini.
IV) Il T.a.r. ha dichiarato inammissibile il motivo diretto a lamentare che il Presidente P Griffi sarebbe stato inserito nella cinquina sebbene non in possesso del requisito di aver svolto per almeno cinque anni funzioni direttive: secondo il primo giudice, nel presente giudizio il Presidente S non avrebbe alcun interesse all’accoglimento di tale doglianza in quanto inidonea ad incidere sulla legittimità dell’impugnato provvedimento di nomina del Presidente P a Presidente del Consiglio di Stato.
V) Il T.a.r. ha dichiarato infondata nel merito la censura diretta a lamentare che la seduta della Quarta Commissione del Consiglio di Presidenza, inizialmente pubblica, sarebbe stata illegittimamente trasformata in “segretissima”, con ordine di allontanamento “ extra omnes ”, senza verbalizzazione e senza il personale di segreteria a ciò addetto. Secondo il T.a.r., invero, l’assenza del personale di segreteria, che in base al regolamento del Consiglio di Presidenza non ha alcun compito certificativo, non può ridondare in un vizio di legittimità dell’atto della Commissione, atto che, peraltro, non assume alcun rilievo esterno fino all’approvazione da parte del Plenum.
VI) Ugualmente sono state ritenute infondate le censure specificamente rivolte avverso la deliberazione adottata dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 23 dicembre 2015, volte a sostenere sia la sussistenza di alcune violazioni del regolamento interno del Consiglio dei Ministri sia l’inversione dell’ iter procedimentale specificamente previsto dall’articolo 22 legge n. 186 del 1982.
VII) Con specifico riferimento alla censura di difetto di istruttoria – fatta valere come vizio proprio della “cinquina” con graduazione dei nominativi contenuta nel parere del Consiglio di Presidenza e come vizio derivato della deliberazione del Consiglio dei Ministri e del successivo decreto del Presidente della Repubblica recante il provvedimento di nomina impugnato – il T.a.r., pur premettendo che “ in ragione di tutto quanto contenuto nel verbale della riunione della IV Commissione permanente dell’11 dicembre 2015 e nel verbale della riunione plenaria del Consiglio di Presidenza del 17 dicembre 2015, la motivazione della graduazione dei cinque nominativi della cinquina risiede compiutamente ed esaustivamente nella congiunta valutazione dei criteri della posizione in ruolo, del merito e delle attitudini di ciascuno rispetto alla specifica funzione di Presidente del Consiglio di Stato” – ha, comunque, ritenuto opportuno acquisire copia dei fascicoli personali del ricorrente, del controinteressato e ogni atro documento che ha costituito oggetto di valutazione da parte del Consiglio di Presidente al fine di rendere il parere in contestazione.
7. Per ottenere la riforma di detta sentenza ha proposto appello, corredato da istanza cautelare, il Presidente S, il quale, oltre a riproporre tutti i motivi proposti nel ricorso introduttivo e nei successivi motivi aggiunti (unitamente agli specifici motivi riguardanti la motivazione della sentenza), ha proposto un’ulteriore censure diretta a sostenere la radicale nullità della sentenza stessa per l’illegittima composizione del collegio giudicante.
8. Si sono costituiti in giudizio, per resistere all’appello, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
9. Alla camera di consiglio del 13 luglio 2017, fissata per la decisione sull’istanza cautelare, la causa, con l’accordo delle parti, è stata rinviata per la discussione del merito all’udienza pubblica del 21 settembre 2017, all’esito della quale è stata trattenuta in decisione.
10. L’appello non merita accoglimento.
11. In via preliminare, è opportuno delimitare il thema decidendum oggetto del presente giudizio di appello.
Tale delimitazione è resa necessaria dal fatto che la sentenza di primo grado è una sentenza non definitiva, in quanto, come si è già evidenziato, ha esaminato (in parte respingendole, in parte dichiarandole inammissibili) solo alcune delle censure formulate dal ricorrente, riservandosi di definire il giudizio all’esito dell’acquisizione documentale posta a carico del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
Dalla lettura della sentenza appellata (e delle censure formulate nel ricorso di primo grado e nei successivi motivi aggiunti) emerge che il T.a.r. ha riservato all’esito dell’istruttoria documentale la decisione sulle doglianze (formulate come terzo motivo del ricorso introduttivo e successivamente ribadite ed integrato nell’atto contenente i motivi aggiunti) volte a dedurre, come vizio proprio del parere reso dal Consiglio di Presidenza (e come vizio derivato del successivo provvedimento di nomina del Presidente del Consiglio di Stato), profili di eccesso di potere per difetto di istruttoria e carenza della motivazione.
Il ricorrente, in particolare, nel giudizio di primo grado ha lamentato che il Consiglio di Presidenza, nell’indicare i cinque nominativi richiesti dal Presidente del Consiglio dei Ministri, abbia operato una graduazione degli stessi senza alcuna predeterminazione dei criteri e “ senza alcuna reale istruttoria sul merito e sull’attitudine allo svolgimento della specifica funzione e, comunque, immotivatamente ” (cfr. pag. 12, riga seconda e terza, del ricorso introduttivo). Secondo la tesi del ricorrente, in particolare, il lamentato difetto di motivazione sarebbe “ frutto di una vistosa lacuna istruttoria, non essendo stati acquisiti i fascicoli personali o altra notizia o documentazione, sia d’ufficio che su richiesta ai (o dai) presidenti di sezione interessati ” (ancora cfr. pag.12, riga da 4 a 7 del ricorso introduttivo).
Nel motivo di ricorso svolto in primo grado, quindi, il lamentato vizio di eccesso di potere è stato articolato deducendo in maniera inscindibile il profilo del difetto di istruttoria e quello della carenza motivazionale. In particolare, sebbene nella “rubrica” che sintetizza il contenuto della censura (pagina 11 del ricorso introduttivo, sub n. 3) la carenza motivazionale venga parenteticamente qualificata come “ diverso e autonomo profilo ” di eccesso di potere, l’espressa formulazione del motivo collega i due vizi, prospettandoli in maniera unitaria e intimamente correlata. Il difetto di motivazione è letteralmente dedotto come “ frutto della lacunosa istruttoria ”, secondo un rapporto di inscindibile correlazione tra causa (lacunosa istruttoria) ed effetto (difetto di motivazione del parere).
La sentenza appellata, pertanto, laddove, nella parte finale della motivazione (pagina 25), si riserva espressamente di decidere sulla censura di difetto di istruttoria all’esito dell’acquisizione documentale dei fascicoli personali (e di ogni altro documento che ha costituito specifico oggetto di valutazione da parte del Consiglio di Presidenza al fine di rendere il parere), non può che essere interpretata nel senso che essa abbia riservato all’esito dell’istruttoria processuale la decisione sulla censura come articolata nel ricorso introduttivo nella sua inscindibile unitarietà, inclusiva, quindi, (non solo del difetto di istruttoria, ma) anche del vizio di carenza motivazionale.
La considerazione, svolta incidenter tantum dal T.a.r. nel passaggio motivazionale in esame – in cui il T.a.r. premette che “ in ragione di tutto quanto contenuto nel verbale della riunione della IV Commissione permanente dell’11 dicembre 2015 e nel verbale della riunione plenaria del Consiglio di Presidenza del 17 dicembre 2015, la motivazione della graduazione dei cinque nominativi della cinquina risiede compiutamente ed esaustivamente nella congiunta valutazione dei criteri della posizione in ruolo, del merito e delle attitudini di ciascuno rispetto alla specifica funzione di Presidente del Consiglio di Stato ” – non consente, pertanto, di ritenere ancora compiutamente “definita” la censura relativa al vizio di difetto motivazionale, in quanto tale doglianza è prospettata dal ricorrente come conseguenza inscindibile della carenza di istruttoria, che, secondo la tesi sostenuta nel ricorso, avrebbe inficiato la validità del parere contenente la graduazione dei nominativi.
Una diversa interpretazione della sentenza appellata farebbe, del resto, emergere, profili di contraddittorietà della motivazione: non avrebbe molto senso, infatti, ritenere, da un lato, il parere sufficientemente motivato per relationem (mediante il rinvio alla valutazione dei criteri della posizione in ruolo, del merito e delle attitudini) e, dall’altro lato e al tempo stesso, disporre istruttoria al fine di verificare (se e) quali elementi abbiano effettivamente costituito oggetto di valutazione al fine di rendere il suddetto parere.
I due profili di eccesso di potere dedotti dal ricorrente (carenza di istruttoria e difetto motivazionale) rimangono, al contrario, nella stessa prospettazione contenuta nel ricorso, strettamente collegati: motivazione e completezza dell’istruttoria stanno e cadono insieme ( simul stabunt, simul cadent ), nel senso che la motivazione, se c’è, si ricava dagli elementi che sono stato oggetto di valutazione, il che implica che non sia possibile, in sede di giudizio, scindere la decisione sul dedotto difetto di istruttoria (che il T.a.r. si è riservato espressamente di rendere all’esito dell’acquisizione documentale) da quella sulla sussistenza del difetto motivazionale.
Alla luce delle considerazioni che precedono, devono, pertanto, ritenersi estranee al thema decidendum del presente giudizio le censure concernenti la sussistenza (come vizio proprio della c.d. “cinquina” e come eventuale vizio derivato del provvedimento di nomina) di profili di eccesso di potere (dedotti in relazione agli inscindibili aspetti della carenza istruttoria e del conseguente difetto di motivazione). Su tali censure questo Collegio ritiene che il giudice di primo grado, nonostante l’apparente ambiguità del passaggio motivazionale sopra trascritto, non si sia ancora pronunciato, riservandosi di farlo all’esito dell’acquisizione documentale ordinata al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
12. Così delimitato il thema decidendum , può ora passarsi all’esame dei singoli motivi di appello.
13. Con il primo motivo di gravame, il ricorrente deduce la nullità della sentenza di primo grado per l’illegittima composizione del collegio giudicante che l’ha pronunciata.
L’appellante lamenta che del collegio giudicante di primo grado facevano parte due magistrati (il dottor Roberto C e la dottoressa Silvia M) che, prima ancora dell’udienza di discussione e della camera di consiglio che ne è seguita, erano già stati nominati consiglieri di Stato con distinti decreti del Presidente della Repubblica in data 7 febbraio 2017.
L’appellante sostiene che poiché l’effettiva presa di servizio era stata fissata, dallo stesso d.P.R. di nomina al 31 marzo 2017, a far data dal 1° aprile 2017, i consiglieri C e M non avevano più titolo a far parte dei collegi giudicanti presso il T.a.r. Lazio. La presenza dei suddetti consiglieri avrebbe, pertanto, viziato la composizione del collegio giudicante, per violazione degli articoli 14, 15 e 19 n. 1 della legge 27 aprile 1982, n. 186, nelle parti in cui dispongono che le qualifiche di consigliere di Stato e di consigliere di Tribunale amministrativo regionale operino su piani distinti con separata dotazioni organiche numericamente differenziate e stabiliscono che le due categorie non siano fungibili anche per quanto riguarda le rispettive funzioni.
14. Il motivo è infondato.
15. Al riguardo va premesso, in punto di fatto, che, con distinte delibere del Consiglio di Presidenza adottate in data 7 ottobre 2016, il dottor Roberto C e la dottoressa Silvia M, unitamente ad altri sette consiglieri di Tribunale amministrativo regionale, sono stati nominati consiglieri di Stato, con decorrenza giuridica della nomina dal 7 ottobre 2016 e con effettiva presa di servizio dal 31 marzo 2017, salvo necessità di proroghe in dipendenza della data di ultimazione della procedura per l’immissione in ruolo di 45 referendari di T.a.r.
Con distinti decreti del Presidente della Repubblica del 7 febbraio 2017, i predetti magistrati sono stati nominati consiglieri di Stato, sulla base della suddetta delibera, il cui contenuto è integralmente riportato nelle premesse di ciascun decreto.
Nella seduta del 10 marzo 2017, il Consiglio di Presidenza ha disposto il posticipo della effettiva presa di servizio dei predetti consiglieri al 10 settembre 2017, salvo necessità di ulteriori proroghe in dipendenza della data di ultimazione della procedura concorsuale per l’assunzione di 45 referendari di T.a.r.
Successivamente, con delibere del 20 aprile 2017, a parziale modifica di quanto precedentemente statuito, il Consiglio di Presidenza ha confermato la data di immissione in servizio al 10 settembre 2017, stralciando la clausola di salvaguardia relativa alla proroga in dipendenza della conclusione del concorso per 45 referendari T.a.r.
16. L’appellante deduce, in sintesi, che, poiché la data di effettiva presa di servizio al 31 marzo 2017 era fissata dallo stesso d.P.R. di nomina, un eventuale differimento avrebbe potuto essere disposto solo attraverso un ulteriore d.P.R., che non risulta, invece, essere mai stato emanato.
17. La censura non ha pregio.
18. Va, infatti, evidenziato che i decreti del Presidente della Repubblica del 7 febbraio 2017, con i quali i consiglieri C e M sono stati nominati consiglieri di Stato fissano solo la decorrenza giuridica dei relativi effetti (fatti retroagire al 7 ottobre 2016), senza disporre alcunché in ordine alla data di effettiva presa in servizio. Sotto tale profilo, invero, i dd.PP.RR. di nomina si limitano a richiamare, in premessa, la delibera del Consiglio di Presidenza del 7 ottobre 2016, la quale, nel fissare la data di immissione in servizio al 31 marzo 2017, faceva espressamente salva la necessità di disporre proroghe in dipendenza della conclusione del concorso per referendario T.a.r.
Tale proroga è stata disposta dal Consiglio di Presidenza con delibera del 10 marzo 2017, che ha posticipato l’effettiva presa di servizio al 10 settembre 2017, facendo ancora salva la necessità di ulteriori proroghe in dipendenza della conclusione del concorso per referendario T.a.r.
L’immissione in servizio alla data del 10 settembre 2017 è stata, infine, confermata, questa volta senza la “clausola di salvaguardia” relativa alla ultimazione del concorso per referendario T.a.r., dalla successiva delibera del Consiglio di Presidenza adottata nella seduta del 20 aprile 2017.
Non vi è dubbio, quindi, che fino alla data di effettiva immissione in servizio, avvenuta il 10 settembre 2017, i consiglieri C e M, sebbene già nominati consiglieri di Stato con d.P.R. 7 febbraio 2017, hanno svolto legittimamente e pleno jure le loro precedenti funzioni presso il Tribunale amministrativo regionale.
Corrisponde, infatti, a un principio generale attinente all’organizzazione dei pubblici uffici, quello secondo cui la nomina ad un pubblico ufficio ha effetto, per ciò che concerne l’acquisto della titolarità delle relative funzioni e della legittimazione ad esercitarle, solo quando avviene l’effettiva presa di servizio, a prescindere, quindi, dalla decorrenza giuridica (o economica) della nomina che può eventualmente retroagire ad un momento antecedente alla presa di servizio.
Si tratta di un principio che deriva dalla considerazione secondo cui la funzione appartiene all’ufficio, di talché ai fini della legittimazione all’esercizio della funzione non è sufficiente il formale provvedimento di nomina, ma occorre che il soggetto nominato assuma concretamente il “possesso” dell’ufficio (e, dunque, delle funzioni ad esso correlate), il che avviene appunto con l’immissione in servizio.
Il regime temporale degli effetti della nomina ad un pubblico ufficio va, quindi, ricostruito tenendo distinti rispettivamente i profili: a ) della decorrenza giuridica (che può retroagire – e normalmente retroagisce – rispetto alla data assunzione in servizio e anche rispetto alla data del provvedimento di nomina); b ) della decorrenza economica (normalmente, anche se non necessariamente, coincidente con l’inizio del servizio in forza di un generale principio di corrispettività); c ) dell’ investitura all’esercizio delle funzioni, che non può mai precedere l’effettiva assunzione del servizio presso l’ufficio cui si è nominati.
Da ciò consegue che, in caso di passaggio da un pubblico ufficio a un altro, è solo il quid facti della presa di servizio presso il nuovo ufficio a determinare l’investitura all’esercizio delle nuove funzioni e, di riflesso, la perdita della titolarità delle precedenti funzioni.
La legittimazione all’esercizio della funzione segue, quindi, per ragioni correlate all’esigenza di continuità funzionale, un principio di effettività: pur presupponendo l’esistenza di un valido provvedimento di nomina, tale legittimazione si acquista (e si perde) con la presa in servizio (e la conseguente cessazione del servizio nel precedente ufficio), senza che rilevi la data del provvedimento, né, tanto meno, la decorrenza giuridica dei relativi effetti.
Se così non fosse, del resto, nel caso di passaggio di un dipendente pubblico da un ufficio ad un altro, si verrebbero a creare inammissibili soluzioni di continuità (ingiustificate e dannose) nell’esercizio della pubblica funzione, atteso che nel periodo intercorrente tra la data del provvedimento di nomina e quella della presa in servizio, egli non potrebbe esercitare né le funzioni precedenti (in quanto già nominato nel nuovo ufficio) né quelle nuove, il cui esercizio risulta materialmente e giuridicamente impossibile prima della presa di servizio. Si tratterebbe di una frattura contraria ai principi costituzionali scolpiti dall’articolo 97 della Grundnorm, e priva di giustificazione logica e di copertura normativa
19. Tanto chiarito sul piano delle categorie generali, si pone l’ulteriore questione di stabilire se, nel caso di specie, il differimento della data di assunzione in servizio (originariamente prevista per il 31 marzo 2017) al 10 settembre 2017 sia stata legittimamente disposta.
L’appellante lo contesta, assumendo che poiché la data di immissione in servizio entro il 31 marzo 2017 era già indicata nel d.P.R. di nomina, un eventuale differimento avrebbe richiesto, per il principio del contrarius actus , un altro d.P.R.
20. L’assunto non è condivisibile.
Come si è già evidenziato, il d.P.R. di nomina non conteneva una specifica clausola sulla data di presa di servizio, limitandosi sul punto a rinviare alla delibera del Consiglio di Presidenza del 7 ottobre 2016.
La proroga della presa in servizio, pertanto, non ha determinato una modifica del contenuto del d.P.R. di nomina e non necessitava, allora, sul piano formale, dell’adozione di un ulteriore d.P.R. secondo il principio di simmetria procedurale e formale che governa l’esplicazione della potestà autotutela in sede di revisio prioris istantiae.
Al contrario, la data di presa in servizio era stata stabilita dal Consiglio di Presidenza nella prima delibera del 7 ottobre 2016 e, dunque, ai fini del differimento era sufficiente, secondo il ben noto principio di divieto dell’ aggravio ingiustificato delle procedure e delle forme, l’adozione di un’ulteriore delibera da parte dello stesso Consiglio di Presidenza.
L’eventualità della proroga, del resto, era già “preannunciata” dalla clausola di salvaguardia contenuta nella delibera del 7 ottobre 2016, in cui, nel fissare la data del 31 marzo 2017, si faceva espresso riferimento alla necessità di proroghe in relazione alla data di ultimazione del concorso per referendario T.a.r., proroga poi effettivamente disposta nella successiva delibera del 10 marzo 2017 (adottata anteriormente alla scadenza del termine prorogato) e confermata (con lo stralcio della clausola di salvaguardia) nella delibera del 20 aprile 2017.
21. Tali conclusioni trovano supporto nell’articolo 13, commi 2 e 3, della legge n. 186 del 1982, il quale, nell’individuare gli atti che possono essere adottati nella forma della delibera del Consiglio di Presidenza e quelli che richiedono la forma del d.P.R., riserva alla prima, per quello che qui interessa, i provvedimenti “ sulle assunzioni, trasferimenti di sede e di funzioni ” (art. 13, comma 2, n. 1) e al secondo i provvedimenti riguardanti lo stato giuridico dei magistrati (comma 3).
A tale riguardo, va evidenziato che la mera individuazione della data di assunzione in servizio non è riconducibile, sul piano letterale e logico-telelogico, al novero degli atti che richiedono la forma del d.P.R., atteso che dalla fissazione di tale termine non discendono conseguenze sullo stato giuridico del magistrato già destinatario del d.P.R. di nomina a Consigliere di Stato.
22. In ogni caso, nel caso di specie il differimento dell’assunzione in servizio dalla data (inizialmente prevista del 31 marzo 2017) a quella del 10 settembre 2017 non è avvenuta de facto , ma sulla base di un provvedimento amministrativo (la delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa del 10 marzo 2017), successivamente confermato da un secondo provvedimento amministrativo (la delibera del medesimo Consiglio di Presidenza del 20 aprile 2017). Avverso tali determinazioni non è stata proposta alcuna impugnazione, dal che discende che essi sono ormai divenuti inoppugnabili, con la conseguenza che, per evidenti ragioni di certezza dei rapporti giuridici, l’eventuale vizio che dovesse inficiarli non potrebbe essere oggetto di cognizione incidenter tantum al fine di desumerne il vizio (che in questo giudizio si fa valere) di nullità della sentenza per illegittima composizione del collegio giudicante.
Appartiene, infatti, al generale regime di stabilità degli atti amministrativi e degli assetti effettuali dagli stessi plasmati il principio secondo cui, laddove l’asserito vizio di illegittima composizione del collegio giudicante sia il frutto di un atto amministrativo invalido (tranne che si tratti di inesistenza o di radica nullità del medesimo), la mancata impugnazione dell’atto amministrativo implica la consolidazione dei relativi effetti legittimanti e, per l’effetto, impedisce di farne valere incidentalmente i vizi direttamente in sede di appello quale causa di nullità della sentenza di primo grado per l’illegittima composizione del collegio giudicante.
22. Con le censure formulate nel secondo motivo di appello, il ricorrente critica la sentenza del T.a.r. nella parte in cui ha dichiarato inammissibili, per difetto di interesse e di legittimazione al ricorso, i motivi svolti in primo grado (e le correlate questioni di costituzionalità proposte in via subordinata) per lamentare, sotto diversi profili, l’illegittimità del d.P.R. di nomina del Presidente P (e della proposta del Consiglio dei Ministri che lo ha proceduto) per non avere esternato le ragioni del mancato recepimento dell’indicazione (contenuta nel parere del Consiglio di Presidenza) del presidente B (presidente di Sezione più anziano in ruolo e collocato al primo posto della c.d. “cinquina” stilata all’esito della valutazione estesa anche alle attitudini e al merito).
Il T.a.r. ha dichiarato inammissibili i motivi ritenendo che il ricorrente facesse valere un interesse non proprio, ma altrui (segnatamente del Presidente B), come tale non tutelabile, anche per essere la relativa pretesa priva di utilità sostanziale per il ricorrente.
A fronte di tale statuizione, l’appellante deduce che egli, in qualità di magistrato amministrativo, aveva ed ha interesse a che la nomina del presidente del Consiglio di Stato avvenga legittimamente, considerati anche i significativi poteri, sull’intera organizzazione della giustizia amministrativa alla quale il ricorrente appartiene, che spettano al Presidente del Consiglio di Stato.
In altri termini, il ricorrente nell’atto di appello chiarisce che, rispetto ai motivi dichiarati inammissibili dal T.a.r. (e anche rispetto alle questioni di costituzionalità proposte in via subordinata nell’ambito dei motivi dichiarati inammissibili), egli agisce (ed agiva sin dal giudizio di primo grado) (non solo e) non tanto in veste di aspirante alla nomina a Presidente del Consiglio di Stato (bene della vita che, come rilevato dal T.a.r., non avrebbe potuto conseguire tramite i motivi dichiarati inammissibili in quanto diretti a lamentare una lesione subita solo dal Presidente B), ma anche nella qualità di magistrato amministrativo, ed è in tale specifica veste che egli ora deduce di avere interesse a contestare la legittimità della nomina del Presidente del Consiglio di Stato.
25. Il motivo non ha pregio.
26. L’interesse alla legittima nomina del Presidente del Consiglio di Stato è un interesse indifferenziato che in nulla differisce dal generico e indistinto interesse alla legalità dell’azione amministrativa che può vantare qualsiasi cittadino, quale portatore dell’aspirazione della corretta esplicazione della funzione giurisdizionale, costituzionalmente deputata alla tutela degli intessi pubblici, della legalità amministrativa e del bene comune.
Non vale a differenziare l’interesse l’appartenenza del ricorrente alla categoria dei magistrati amministrativi.
27. In primo luogo, anche se si volesse ammettere che, con riferimento alla legittimità della nomina del Presidente del Consiglio di Stato, la “categoria” dei magistrati amministrativi abbia un interesse differenziato rispetto a quello della generalità degli altri cittadini (che non sono magistrati amministrativi), l’interesse in questione sarebbe, comunque, all’interno di questo “gruppo”, un interesse adesposta, seriale, indifferenziato, e, comunque derivato e indiretto, come tale non suscettibile di essere fatto valere, individualmente, dal singolo magistrato.
La dottrina e la giurisprudenza hanno, infatti, da tempo tracciato la distinzione tra interesse generale alla legittimità dell’azione amministrativa (incompatibile con la caratterizzazione soggettiva del modello di giurisdizione amministrativa cristallizzato dagli articoli 24 e 103 Cost. e non azionabile in giudizio tranne il caso eccezionale dell’azione popolare) e l’interesse diffuso, ovvero l’interesse che, pur essendo differenziato rispetto ad un gruppo omogeneo di individui, rimane, tuttavia, indifferenziato all’interno del gruppo, rispetto ai singoli che ne fanno parte. In presenza di interessi “diffusi”, la possibilità di tutela in giudizio spetta non al singolo, ma all’ente esponenziale del gruppo, attraverso quel processo di trasformazione dell’interesse diffuso in interesse (legittimo) collettivo (oggetto di una pluriennale elaborazione dottrinale e giurisprudenziale), che presuppone che il gruppo si organizzi attraverso un ente rappresentativo della categoria in guisa da dar luogo a un interesse legittimo plurisoggettivo, caratterizzato dai connotati di differenziazione e qualificazione richiesti dal modello processuale costituzionalmente orientato (vedi Corte Cost., 14 febbraio 2013, n., 20;Cons., Stato, sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246, in materia di legittimazione processuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ex art. 21 bis della legge n. 287/1990).
L’appartenenza alla categoria dei magistrati amministrativi non consente, quindi, al ricorrente di far valere, uti singulus , l’illegittimità del procedimento di nomina, perché rispetto al singolo l’interesse rimane indifferenziato.
28. In secondo luogo, non persuade la tesi secondo cui la categoria dei magistrati amministrativi avrebbe, anche come “gruppo”, un interesse alla legittimità della nomina del Presidente del Consiglio di Stato diverso rispetto a quello della generalità dei cittadini. Sotto tale profilo, va evidenziato, infatti, che il Presidente del Consiglio di Stato è titolare di poteri dal cui esercizio derivano rilevanti conseguenze non solo all’interno della giustizia amministrativa, ma, in maniera altrettanto significativa, all’esterno di essa. Basti pensare che attraverso l’esercizio dei suoi poteri, il Presidente del Consiglio di Stato incide, direttamente o indirettamente, sulla qualità del “servizio giustizia” reso a favore di tutta la collettività.
In quest’ottica, allora, l’interesse alla legittimità della nomina non sarebbe neanche un interesse diffuso, ma un mero interesse alla legalità dell’azione amministrativa, non azionabile in giudizio né uti singulus , né dall’ente esponenziale.
Si deve allora concludere che l’atto di nomina del Presidente del Consiglio lede, ex se, solo l’interesse pretensivo del soggetto che aspiri a tale specifico bene della vita, mentre non assume rilievo il coacervo degli interessi - indifferenziati, indiretti e ipotetici- potenzialmente lesi per effetto del futuro esercizio della funzione apicale da parte del soggetto che abbia conseguito l’investitura contestata.
29. Va evidenziato che rispetto alle censure dichiarate inammissibili in primo grado, l’appellante, come si è già evidenziato, si è limitato ad opporre in sede di gravame la sussistenza dell’interesse derivante dall’appartenenza alla magistratura amministrativa. Non vengono, invece, specificamente contestate le statuizioni della sentenza appellata in cui si esclude la sussistenza dell’interesse anche nella diversa veste di magistrato aspirante alla nomina a Presidente del Consiglio di Stato, nella qualità di Presidente di Sezione in possesso dei relativi requisiti e collocato all’interno dei cinque nomi indicati al Governo dal Consiglio di Presidenza.
Il giudicato che si è formato su tale punto della sentenza di primo grado copre anche la dichiarata inammissibilità delle questioni di costituzionalità dell’articolo 22 legge n. 186 del 1982 prospettate nel giudizio di primo grado dal ricorrente e ribadite in appello anche con riferimento (oltre che all’articolo108 Cost.) alla violazione della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Non risulta ritualmente contestata, in particolare, sotto questo aspetto, la statuizione che ha dichiarato inammissibile per irrilevanza la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 della legge n. 186 del 1982, prospettata sotto il profilo secondo cui la norma, ove interpretata nel senso di consentire al Consiglio dei Ministri di disattendere il parere del Consiglio di Presidenza - e di rimettere, quindi, in ultima istanza, alla sede politica la nomina proprio del vertice del plesso giurisdizionale chiamato a vigilare anche sulla legittimità dell’azione amministrativa e, quindi, sull’operato del Governo- divergerebbe, in modo irragionevole, dal paradigma normativo di cui all'articolo 11 della legge n. 195/1958 e dal diritto vivente di cui alla sentenza n. 379/1992 della Consulta, che prevede una procedura di concertazione tra Ministro della Giustizia e Consiglio Superiore della Magistratura ispirata al modello della leale collaborazione, per la nomina del Presidente della Corte di Cassazione, e violerebbe l’art. 108, comma 2, Cost., secondo cui “ la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali ” . Non risulta, quindi, efficacemente gravato il dictum di prime cure secondo cui il Presidente S non può far valere un vizio costituzionale della norma primaria che ha riverberato i suoi potenziali effetti pregiudizievoli solo sulla posizione del Presidente B, mentre si deve rinviare alle considerazioni svolte in precedenza in ordine all’insussistenza di una legittimazione a fare valere tale doglianza nella qualità di mero soggetto appartenente al genus dei consiglieri di Stato.
Del pari, si deve concludere nel senso che non risulta gravata neanche la statuizione della sentenza appellata nella parte in cui trae dalla premessa dell’insussistenza della lesione dell’interesse nella veste di magistrato aspirante alla nomina a Presidente del Consiglio di Stato, il corollario dell’ inammissibilità della questione di costituzionalità dell’articolo 22 legge n. 186 del 1982 sotto il profilo del vulnus inferto all’ indipendenza garantita dall’articolo 108, secondo comma, Cost., per effetto del discostamento dalla consuetudine di nominare il Presidente del Consiglio di Stato secondo l’anzianità dei Presidenti di Sezione che non hanno demeritato. Si deve anche in questo caso rinviare ai rilievi precedentemente svolti in merito all’inammissibilità della doglianza sotto il profilo del difetto di legittimazione del ricorrente nella mera qualitas di soggetto appartenente alla categoria dei giudici amministrativi.
Si deve, per completezza, rammentare che il Tribunale di prime cure ha comunque reputato manifestamente infondata tale ultima questione di costituzionalità, diretta a sostenere l’obbligatorietà costituzionale del criterio della c.d. anzianità senza demerito, in quanto il principio di indipendenza della magistratura non impedisce, considerata anche la straordinaria importanza istituzionale della carica di cui si discute, che l’indicazione dell’organo di autogoverno avvenga coniugando il criterio dell’anzianità con quelli del merito e delle attitudini.
30. Con il terzo motivo di appello, l’appellante contesta la sentenza di primo grado nei punti 6 e 7, in cui il T.a.r. ha, rispettivamente: a ) respinto la censura di difetto di motivazione del parere reso dal Consiglio di Presidenza per avere proceduto a graduare i cinque nomi dei Presidenti di Sezione aspiranti alla nomina senza la predeterminazione dei criteri di valutazione; b ) dichiarato inammissibile la censura secondo cui nella “cinquina” sarebbe stato inserito anche il Presidente P Griffi, non in possesso del requisito di avere svolto per almeno cinque anni funzioni direttive.
31. Il motivo è infondato sotto entrambi i profili.
32. Per quanto riguarda la censura di difetto di motivazione del parere reso dal Consiglio di Presidenza sotto lo specifico profilo della mancata predeterminazione dei criteri di valutazione, occorre, anzitutto, richiamare le considerazioni precedentemente svolte per delimitare il thema decidendum del presente giudizio, al fine di ribadire che la censura di difetto di motivazione della nomina (sotto il profilo della carenza di istruttoria) non risulta ancora definito dalla sentenza appellata.
Il motivo di appello in esame deduce il difetto di motivazione del parere reso dal Consiglio di Presidenza sotto un profilo diverso, ancorché strettamente correlato anch’esso al difetto di istruttoria (che è oggetto dell’acquisizione documentale disposta in primo grado): la mancata predeterminazione dei criteri di valutazione sulla cui base è avvenuta la graduazione dei cinque nominativi.
In relazione a tale specifico profilo, il Collegio ritiene che la mancata predeterminazione dei criteri di valutazione “a monte” trovi giustificazione nella peculiarità dell’incarico da attribuire (tenuto conto dell’indiscutibile rilievo che tale incarico riveste sotto il profilo non solo giurisdizionale ma anche istituzionale) e nella conseguente natura ampiamente discrezionale del potere esercitato dal Consiglio di Presidenza nel rendere il parere previsto dall’art. 22 della legge n. 186 del 1982.
Il parere reso dal Consiglio di Presidenza, comportando una scelta discrezionale di alta amministrazione nell’ambito di una cerchia ristretta di soggetti in possesso di titoli specifici e tutti dotati di elevatissima professionalità e capacità, sfugge alla logica propria delle procedure di stampo schiettamente concorsuale (alle quali, invece, l’appellante fa specifico riferimento quanto lamenta la mancata predeterminazione dei criteri a monte) e non richiede, di conseguenza, un giudizio strettamente comparativo svolto in applicazione di criteri di valutazione predeterminati.
33. Né può ritenersi di per sé rilevante, almeno rispetto alla censura dedotta di mancata predeterminazione dei criteri, la circostanza che il Consiglio di Presidenza, nel rendere il prescritto parere, abbia indicato (interrompendo una consuetudine risalente e una prassi costante mai derogata in tutte le dieci nomine intervenute dopo l’entrata in vigore della legge n. 186/1982, dalla nomina del Presidente Giorgio Crisci a quella del Presidente Giorgio Giovannini) non un solo nominativo, ma cinque, ed abbia operato una graduazione fra gli stessi, considerando non solo l’anzianità in ruolo, ma anche il merito e l’attitudine.
Tali circostanze, invero, diversamente da quanto deduce l’appellante, non incidono, sulla natura ampiamente discrezionale del potere esercitato dal Consiglio di Presidenza e non valgono a trasformare il procedimento di nomina del Presidente del Consiglio di Stato in una valutazione di stampo concorsuale, come tale sottoposta all’obbligo della rigida predeterminazione di criteri di valutazione limitativi e orientativi del potere discrezionale.
34. È infondato anche il motivo avverso il punto della sentenza che ha dichiarato inammissibile la censura con cui in primo grado il cui ricorrente ha lamentato che nella “cinquina” di primo grado sarebbe stato inserito il Presidente P Griffi, non in possesso del requisito di aver svolto per almeno cinque anni funzioni direttive.
Come già rilevato in maniera condivisibile dal T.a.r., il Presidente S non ha nel presente giudizio alcun interesse all’eventuale accoglimento di tale doglianza, in quanto essa è inidonea ad incidere sulla legittimità dell’impugnato provvedimento di nomina del Presidente P a Presidente del Consiglio di Stato.
35. Con il quarto motivo di appello, il ricorrente contesta il punto 8 della sentenza appellata, che ha dichiarato infondato il motivo concernente la trasformazione della seduta pubblica in segretissima, con ordine di allontanamento extra omnes , senza verbalizzazione e senza il personale di segreteria, della riunione della Commissione dell’11 dicembre 2015.
L’appellante evidenzia, in particolare, che il primo punto dell’ordine del giorno recava testualmente il riferimento alla “ seduta pubblica ” e sostiene che, di fronte a tale univoca indicazione, la Commissione non aveva il potere di decidere di riunirsi in seduta segreta (o segretissima).
36. Il motivo non ha pregio.
Occorre, anzitutto, evidenziare che, a differenza di quanto previsto per le sedute plenarie del Consiglio di Presidenza, che sono differenziate tra pubbliche e non pubbliche (cfr. artt. 16 e 17 del regolamento interno funzionamento del CPGA), le norme che regolano il funzionamento delle commissioni permanenti (cfr. artt. 22-28 del medesimo regolamento) non distinguono tra sedute pubbliche e riservate, tanto che le riunioni non si svolgono mai alla presenza del pubblico, che non può essere ammesso.
Il regime “riservato” delle sedute, a prescindere dagli argomenti trattati, oltre ad essere giustificato dalla natura dei compiti meramente istruttori ad esse attribuiti, trova conferma nella normativa che ne disciplina il funzionamento, laddove prevede che alle riunioni delle commissioni possono partecipare, con diritto di voto, solo i loro componenti, nonché (art. 23, comma 6, del regolamento) tutti i componenti del Consiglio, con diritto di parola ma senza diritto di voto;allo stesso modo, la medesima norma prevede che possano partecipare anche i componenti dell’ufficio del Consiglio di presidenza, che fungono da ausilio per lo svolgimento dei compiti di spettanza delle commissioni stesse (art. 23, comma 3).
Il regolamento non prevede, quindi, ai fini della validità della seduta, l’obbligatoria presenza del personale amministrativo o della segreteria del Consiglio di Presidenza, e ciò a differenza delle sedute del Plenum, rispetto alle quali l’articolo 18, comma 6, del regolamento impone che il verbale sia materialmente redatto dal segretario del Consiglio di presidenza che, una volta approvato, lo sottoscrive unitamente al Presidente.
L’art. 23 comma 3, del regolamento si limita ad autorizzare la partecipazione alle riunioni delle commissioni di personale di supporto e ne disciplina le rispettive competenze e il ruolo, ma non prevede che l’assenza di tale personale possa inficiare le validità delle deliberazioni commissariali, né attribuisce al personale in questione un ruolo certificativo dell’attività svolta.
A conferma di ciò, l’art. 28 del regolamento interno prevede invero che delle riunioni delle Commissioni è redatto sintetico verbale in cui si dà conto dello svolgimento della seduta (componenti presenti, proposta, risultato della votazione), e che di questo verbale è data lettura alla Commissione che lo approva a maggioranza, previa delibera sulle correzioni che vengono eventualmente proposte, ed è sottoscritto dai componenti.
In sostanza, il verbale di commissione non necessita, per la sua validità, di alcuna validazione esterna da parte di soggetti diversi dai componenti e non ha comunque natura di atto ufficiale e definitivo, posto che esso è trasfuso nella eventuale decisione del Plenum, restando, altrimenti, privo di alcuna rilevanza;di ciò è prova il fatto che il verbale delle commissioni è sottoscritto, ai sensi dell’art. 28 del citato regolamento interno, dai soli componenti della commissione, a differenza di quello del Plenum del Consiglio di Presidenza, che è redatto e sottoscritto infatti dal segretario del Consiglio di Presidenza.
Il riferimento alla pubblicità della seduta, cui è fatto riferimento nell’ordine del giorno, va quindi
correlato esclusivamente alla futura pubblicità, o non pubblicità, della seduta del Plenum del
Consiglio di Presidenza, come chiarito all’art. 25 del regolamento interno, secondo il quale “ il Presidente della Commissione la convoca formandone l’ordine del giorno distinguendo tra argomenti da trattare in seduta pubblica e argomenti da trattare in seduta non pubblica. ”.
L’indicazione “seduta pubblica” di cui al punto dell’ordine del giorno cui è fatto riferimento nell’appello va, pertanto, riferita non alla pubblicità della seduta della Commissione, bensì al regime che sarà riservato a quell’argomento nella seduta del Plenum del Consiglio di Presidenza, in quanto, come detto, le riunioni istruttorie delle commissioni non sono mai aperte al pubblico, a differenza di quanto avviene nelle riunioni del Consiglio di Presidenza la cui disciplina della pubblicità delle sedute è regolata dal citato art. 17, comma 1, del regolamento interno di funzionamento.
37. Con il quinto motivo di appello, il ricorrente contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto la censura, formulata tramite motivi aggiunti, relativa all’inversione della sequenza procedimentale prevista dall’art. 22 della legge n. 186 del 1982.
Tale sequenza prevede prima la deliberazione del Consiglio dei Ministri sul nome da proporre e, successivamente, la proposta di nomina da parte del Presidente del Consiglio indirizzata al Capo dello Stato. Secondo il ricorrente, invece, il Presidente del Consiglio si sarebbe illegittimamente inserito all’inizio della sequenza procedimentale, “indicando” all’organo collegiale il nome da esso stesso preventivamente individuato.
38. Anche quest’ultima doglianza è priva di pregio.
Occorre, infatti, distinguere la “proposta”, intesa come atto di un procedimento complesso e soggettivamente pluristrutturato che coinvolge più organi dello Stato, dalla “proposta” intesa come proposta di deliberazione, costituente atto interno di un organo collegiale (quale è il Consiglio dei Ministri).
In questo senso, l’espressione del verbale relativo alla seduta del 23 dicembre 2015, secondo cui “ Il presidente R […] comunica di voler proporre al Presidente della Repubblica la nomina, esaminato il curriculum professionale, a Presidente del Consiglio di Stato del presidente di sezione A P ” va correttamente intesa come proposta di deliberazione.
Tale conclusione trova conferma nell’articolo 3 del regolamento del Consiglio dei Ministri (approvato con D.P.C.M. 10 novembre 1993, dal quale si è evince espressamente che il Consiglio delibera su proposte, presentate dai vari Ministri, secondo le modalità indicate nel successivo art. 7.
Nel caso in esame, deve ritenersi che l’indicazione, da parte del Presidente del Consiglio del nominativo da proporre per la nomina, assume la valenza di proposta di deliberazione al Consiglio, senza alcun pregiudizio per le prerogative di quest’ultimo organo, il quale ben poteva respingerla, ovvero adottare una deliberazione di contenuto diverso.
Deve, quindi, escludersi che si sia verificata l’inversione procedimentale paventata dal ricorrente.
39. Per quanto riguarda i motivi del ricorso (e dei motivi aggiunti) di primo grado, che l’appellante ripropone sull’assunto che siano stati assorbiti o non esaminati, va, anzitutto, rilevato che la mera riproposizione è inammissibile, perché non accompagnata da alcuna specifica critica alla sentenza appellata. L’appellante, in particolare, limitandosi a citare l’effetto devolutivo dell’appello, ripropone alcune censure formulate in primo grado contro i provvedimenti amministrativi impugnati, senza, però, formulare un apposito e specifico motivo di appello per lamentare in che senso e sotto quale profilo tali motivi non sarebbero stati esaminati (o sarebbero stati erroneamente assorbiti) dal primo giudice.
Va a tal proposito richiamato il consolidato orientamento secondo cui innanzi al Consiglio di Stato la pura e semplice riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado (in assenza di una specifica indicazione dei motivi in concreto assorbiti e delle ragioni per cui ciascuno di essi viene riproposto in relazione alle diverse statuizioni della sentenza gravata) si pone in contrasto: con il generale principio della specificità dei motivi di appello;con il principio secondo cui è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado, senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice;con il principio secondo cui l’effetto devolutivo dell'appello non esclude l'obbligo dell'appellante di indicare nell'atto di appello le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e le ragioni per le quali le conclusioni cui il primo giudice è pervenuto non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado (in tal senso, ex multis : Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2017, n. 2233;Cons. Stato, sez. V, 31 marzo 2016, n. 1268;Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2016, n. 1223;Cons. Stato, sez. VI, 19 gennaio 2016, n. 158).
40. Ai limitati fini che qui rilevano si osserva comunque che i motivi di ricorso qui riproposti risultano già esaminati e disattesi dal T.a.r. (o in attesa si definizione all’esito dell’istruttoria processuale di cui si è dato atto).
In particolare:
i motivi sub 6.1. e 6.2. (diretti a lamentare, anche attraverso la prospettazione della questione incostituzionalità dell’art. 22 legge n. 186 del 1982, la violazione del principio di indipendenza per essersi il Governo discostato dal parere del Consiglio di Presidenza e, comunque, dal criterio della c.d. anzianità senza demerito) risultano coperti dalla dichiarazione di inammissibilità contenuta nella sentenza di primo grado e confermata dall’odierna decisione;
il motivo sub 6.3., diretto a lamentare il difetto di motivazione per carenza di istruttoria della c.d. “cinquina” non risulta essere stato ancora definito dalla sentenza appellata (che sul punto ha disposto istruttoria);
il motivo sub 6.4., diretto a lamentare l’inserimento nella c.d. cinquina del Presidente P Griffi benché non in possesso del requisito dell’esercizio quinquennale di funzioni direttive, risulta coperto dalla dichiarazione di inammissibilità per difetto di interesse pronunciata in primo grado e confermata dall’odierna decisione;
il motivo sub 6.5., diretto a lamentare la trasformazione della seduta della IV Commissione (inizialmente prevista come pubblica) in segreta o segretissima, risulta esaminato e respinto dalla sentenza di primo grado, sul punto confermata dall’odierna decisione;
i motivi sub 6.6. e 6.7., volti a lamentare, rispettivamente, la mancata acquisizione di adeguati elementi istruttori (sotto il particolare profilo della violazione del contraddittorio procedimentale per non avere consentito agli interessati di far pervenire elementi istruttori) e la mancata motivazione della graduazione, risultano entrambi riconducibili alla censura di difetto di istruttoria e carenza di motivazione che la sentenza di primo grado si è riservata di decidere all’esito dell’acquisizione documentale;
il motivo sub 6.8., diretto a lamentare che il verbale della riunione del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2015, non dà atto dell’eventuale presenza di opinioni dissenzienti risulta esaminata e respinta dal T.a.r. e sul punto la sentenza di primo grado, che non risulta oggetto di specifico motivo di appello, è, comunque, condivisibile, dovendosi ragionevolmente presumere che, in assenza della verbalizzazione di opinioni dissenzienti, la deliberazione sia stata adottata all’unanimità;
il motivo sub 6.9., diretto a lamentare l’inversione della sequenza procedimentale di cui all’articolo 22 legge n. 186 del 1982, risulta respinta dal T.a.r. (e sul punto la sentenza di primo grado è stata confermata dall’odierna decisione).
41. Va ancora dato atto che nella memoria depositata in data 7 luglio 2017, l’appellante ha presentato istanza di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’articolo 267, paragrafo 1, lettera a) e paragrafo 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, formulando le seguenti questioni pregiudiziali:
A) « se l’art.41, primo e secondo paragrafo lett. c) della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, là dove garantisce il diritto ad una buona amministrazione da parte delle istituzioni dell’Unione prescrivendo “l’obbligo per l'amministrazione di motivare le proprie decisioni”, e se i principi di effettività della tutela giurisdizionale, di tutela del legittimo affidamento, di certezza del diritto, come garantiti dal diritto dell’Unione Europea, ostino ad una legislazione nazionale che – come anche riconosciuto in questo giudizio dalla stessa Amministrazione autrice degli atti impugnati – ha mancato di predeterminare ogni criterio ai fini della nomina ad un incarico direttivo apicale di un organo giurisdizionale nazionale e, per ciò stesso, ha consentito alla medesima Amministrazione, nella specie, di omettere ogni motivazione al riguardo»;
B) «se il principio del legittimo affidamento, quale parte dell'ordinamento giuridico comunitario, osti ad una normativa nazionale che, in ordine ad una determinata procedura rivolta al conferimento di un incarico direttivo apicale di un organo giurisdizionale nazionale, ometta di stabilire in anticipo le regole ed i criteri da comunicare preventivamente ai magistrati legittimati, prima che questi ultimi pongano le rispettive candidature»;
C) «se all’art.47, secondo paragrafo della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea
- ove stabilisce che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata … da un
giudice indipendente e imparziale” - osti l’art. 22 primo comma della L. 27 aprile 1982, n.
186, che affida al Governo il potere di scegliere e nominare il presidente del Consiglio di
Stato» .
42. L’istanza di rinvio pregiudiziale non può avere seguito, in quanto la fattispecie oggetto del presente giudizio è estranea al campo di applicazione del diritto dell’Unione Europea ed è regolata solo da norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.
Al tal proposito, è sufficiente ricordare che gli atti impugnati riguardano la nomina del Presidente del Consiglio di Stato, e, quindi, attengono direttamente all’esercizio di funzioni pubbliche sovrane dello Stato, che incidono in maniera immediata e diretta sulla tutela dell’interesse nazionale.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria, nelle materie regolate esclusivamente dal diritto interno, non trovano applicazione né i principi fondamentali del diritto dell’Unione (l’appellante invoca, ad esempio, il principio di affidamento), né le disposizioni della c.d. Carta di Nizza.
L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che “ le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati ”. A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che “ la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati ”.
I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51, stabilisce, al paragrafo 1, che “ le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione ”;recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1.
Ciò esclude, con ogni evidenza – come, del resto, hanno reiteratamente affermato sia la Corte di giustizia (cfr. ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano;sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB;ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri), sia la Corte costituzionale (cfr. sentenza 11 marzo 2011, n. 80) – che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea.
43. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve essere respinto.
44. La complessità delle questioni esaminate e la peculiarità della vicenda giustificano l’integrale compensazione delle spese del giudizio.