Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-04-27, n. 202304240
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Pubblicato il 27/04/2023
N. 04240/2023REG.PROV.COLL.
N. 10816/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10816 del 2021, proposto da
M M, rappresentato e difeso dagli avvocati G C, A P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio A P in Roma, viale Liegi, 32;
contro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, rappresentata e difesa dagli avvocati L C, P P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
Ministero dell'Economia e delle Finanze, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna (Sezione Prima) n. 00879/2021
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2023 il Cons. Rosaria Maria Castorina e uditi gli avvocati A P per la parte appellante e L C per l'Università degli studi appellata;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
L’odierno appellante, già funzionario del Senato, dopo aver conseguito all’esito di procedura concorsuale pubblica, l’idoneità scientifica per professore ordinario nel settore disciplinare IUS 09 (Istituzioni di diritto pubblico), era nominato, con decreto rettorale 27 ottobre 2005 n. 488, docente di prima fascia presso l’Università di Modena-Reggio Emilia, con decorrenza dal 1° novembre 2005. Contestualmente all’adozione di detto decreto, l’interessato rendeva la dichiarazione prevista dall’art. 145, D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, chiedendo all’Amministrazione universitaria di non considerare i servizi pregressi a fini del trattamento di quiescenza, computabili per la maturazione di un trattamento pensionistico secondo il regime speciale previsto dal Senato per la previdenza dei dipendenti. Il docente cominciava a prestare regolare servizio e a ricevere la retribuzione mensile.
In data 11 marzo 2015, l’Amministrazione adottava il decreto n. 67/2015, chiedendo la restituzione di euro 108,072 euro, quale somma indebitamente percepita nell’anno 2014, calcolata sommando la retribuzione lorda corrisposta dall’Ateneo (comprensiva degli oneri previdenziali a carico del datore di lavoro e delle ritenute fiscali) nonché quota parte del trattamento corrisposto dal Senato. Il decreto veniva impugnato innanzi al Tar Emilia Romagna e cautelarmente sospeso con ordinanza dello stesso Tribunale 9 luglio 2015, n. 223/2015.
A seguito d’istanza di riesame l’Amministrazione disponeva, con il decreto n. 3 del 10 gennaio 2019 l’integrale sostituzione dell’impugnato decreto n. 67/2015 ricalcolando la somma pretesa sulla base delle retribuzioni, corrisposte nell’anno 2014, al lordo delle imposte e delle ritenute previdenziali ed assistenziali, senza più incidere sugli emolumenti corrisposti dal Senato.
Il ricorso R.G. n. 511/2015 avverso il decreto n. 67/2015, veniva dichiarato perento con decreto presidenziale n. 42 del 20 febbraio 2020.
Il decreto rettorale 10 gennaio 2019, n. 3 veniva impugnato con ricorso R.G. n. 251/2019 – deciso dalla sentenza in questa sede impugnata.
Con un primo atto di motivi aggiunti, veniva impugnato il decreto rettorale n. 268 del 15 maggio 2019 con il quale si chiedeva al docente di restituire le retribuzioni lorde relative agli anni 2015, 2016, 2017, 2018, calcolate – come nel decreto 10.1.2019 - al lordo delle imposte e delle ritenute previdenziali ed assistenziali.
In data 11 marzo 2020 l’Amministrazione adottava un ulteriore decreto - impugnato con il secondo atto di motivi aggiunti - con il quale operava alcune rettifiche degli importi fissati dai sopra decreti 10.1.2019 e 15.5.2019, con diffida ad adempiere entro 60 giorni e messa in mora, sempre assumendo come base di calcolo la retribuzione lorda.
A seguito di interpello all’Agenzia delle Entrate effettuato dall’Amministrazione, quest’ultima correggeva ulteriormente, con decreto 6 maggio 2021 l’importo delle somme pretese, ora quantificate sulla base del “netto” percepito, non computando più le imposte e le ritenute previdenziali ed assistenziali. La correzione del quantum preteso - definito in complessivi €156.549,62 - superava la censura mossa per l’illegittima pretesa della restituzione al lordo delle imposte e delle ritenute previdenziali. Restavano però impregiudicati gli altri profili d’illegittimità esposti nel ricorso, sicché l’interessato impugnava il decreto 6 maggio 2021, integralmente sostitutivo dei decreti precedenti, con il terzo atto di motivi aggiunti.
Il Tar per l’Emilia Romagna, con la sentenza 25 ottobre 2021, n. 879 – dichiarati improcedibili il ricorso introduttivo e i primi due atti di motivi aggiunti, avendo il decreto 6 maggio 2021 sostituito integralmente i precedenti – respingeva tutti i motivi di ricorso.
Appellata ritualmente la sentenza resisteva l’Università degli studi di Modena la quale evidenziava che, in data 4 maggio 2022, l’Università e l’appellante avevano modificato i termini per la restituzione rateizzata della somma dovuta da quest’ultimo;nel caso di definitiva soccombenza in tutti i gradi di giudizio veniva prevista la restituzione della somma dovuta mediante pagamento di rate mensili di euro 5.000,00 cadauna (anziché 4.000,00 cadauna).
All’udienza del 4 aprile 2023 la causa passava in decisione.
DIRITTO
1.Con il primo motivo di appello l’appellante deduce: Error in iudicando nella parte in cui la sentenza, sub nn. da 4.1. a 4.5., rigettava il 1° e 3° motivo di ricorso, per violazione e falsa applicazione del comma 489, terzo periodo, l. n. 147/2013 che fa salvi i rapporti in corso. Incongruenza e contraddittorietà della interpretazione restrittiva del lemma “incarichi”. Mancata considerazione dell’endiadi “contratti e incarichi”. Mancata interpretazione conforme ai principi, rilevanti anche a livello eurounitario, di irretroattività, tutela dell’affidamento, certezza dei rapporti giuridici e divieto di discriminazione nei rapporti di lavoro.
Contesta la mancata applicazione della clausola di salvezza introdotta dal comma 489, terzo periodo, legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2014 e del bilancio pluriennale 2014-2016) per i rapporti d’impiego instaurati anteriormente alla sua entrata in vigore e ancora in corso. Invoca la tutela dell’affidamento e della certezza dei rapporti giuridici e il divieto di discriminazione nei rapporti di lavoro, anche alla luce del diritto UE e della giurisprudenza CEDU.
Evidenzia in particolare che con la clausola di salvezza di cui all’art. 1, comma 489, ultima parte, lg. 147/2013, il legislatore aveva voluto far riferimento a rapporti contrattuali sia a termine che a tempo indeterminato in corso.
La censura non è fondata.
1.1. Il giudizio ha ad oggetto la legittimità dei provvedimenti con cui l’Università di Modena e Reggio Emilia ha richiesto all’odierno appellante- professore di prima fascia di diritto amministrativo dal 2005 al 31 maggio 2020 e percettore di trattamento di quiescenza da parte del Senato - la restituzione delle somme erogate nel periodo 2015 - 2018 in applicazione del divieto di cumulo introdotto dall’art 1 c. 489, L. n. 147/2013, ritenuto applicabile alle somme percepite dallo stesso.
Il comma 489 della legge citata prevede testualmente “ Ai soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, le amministrazioni e gli enti pubblici compresi nell'elenco ISTAT di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono erogare trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive. Sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi. Gli organi costituzionali applicano i principi di cui al presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti ”.
Il Tar ha osservato che l’espressione “ incarichi ” si riferisce “ almeno di norma ” a “ rapporti temporanei e non stabili, di lavoro autonomo o tutt’al più parasubordinato ”, e che la figura ha caratteristiche così strette da non poter includere il rapporto d’impiego del docente universitario di ruolo (n. 4.1. sentenza gravata).
1.2. Il divieto di cumulo introdotto dall’art 1 c. 489, L. n. 147/2013 è stato oggetto, nel corso degli anni a diverse censure di incostituzionalità e di compatibilità rispetto al diritto UE;il giudice amministrativo ha sollevato sia la questione di costituzionalità che quella pregiudiziale di compatibilità unionale.
In particolare il Tar per il Lazio, con l’ordinanza n. 5715 del 17 aprile 2015, ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, ritenendo rilevanti e non manifestamente infondate alcune delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dai ricorrenti di quel giudizio, consiglieri della Corte dei conti (in particolare, quelle relative agli articoli 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione).
Il Giudice ha posto in luce come “ il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comporta che la remunerazione della funzione di consigliere della Corte dei conti risulti fortemente ridotta o del tutto azzerata ” e che “ la scelta dello Stato, mediante la disposizione di legge in esame, di continuare ad avvalersi del pieno apporto professionale dei ricorrenti (...), pur avendo esso Stato chiesto agli interessati di svolgere tale funzione mediante la proposta di nomina alla funzione (retribuita) di Consigliere della Corte dei Conti –dichiaratamente motivata dalla loro eccellenza professionale in ragione della delicatezza e quindi dell’impegno delle funzioni da svolgere– appare costituzionalmente irragionevole, con la conseguente possibile violazione dell’articolo 36, primo comma, della Costituzione, quanto al diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità (oltreché alla qualità) del lavoro, nonché, indirettamente, dell’articolo 38 della Costituzione, in quanto la drastica riduzione o addirittura l'azzeramento della retribuzione – e quindi della relativa contribuzione - precludono la conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall'ordinamento ”.
Con la medesima ordinanza, il TAR riteneva invece insussistente il presupposto della non manifesta infondatezza delle censure di costituzionalità concernenti l'immediata applicabilità della disciplina in questione ai rapporti di lavoro in corso, formulate con riferimento al principio del legittimo affidamento e all'art. 3 Cost.
1.3 La Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 127 del 2017, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
1.4.Con l’ordinanza n. 11755 del 4 dicembre 2018, lo stesso Tar per il Lazio sottoponeva alla Corte di giustizia dell’Unione europea una serie di quesiti interpretativi relativi al ridetto art. 1, comma 489, dubitando, in sostanza, della compatibilità rispetto al diritto UE di una normativa nazionale che “ di fatto comporta la vanificazione del sinallagma lavorativo e con essa la violazione del principio di proporzionalità tra qualità e quantità del lavoro svolto e relativa retribuzione, nonché del principio secondo cui ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro dignitose, di qualità eque e paritarie ”.
La Corte di Giustizia, con l’ordinanza della Settima Sezione del 15 maggio 2019 (cause riunite C-798 e C-790/18), ha ritenuto la suddetta domanda irricevibile, non rinvenendo nelle controversie in relazione alle quali era stata proposta alcun “ elemento di collegamento con le disposizioni del Trattato FUE relative alla libera circolazione dei lavoratori che renda l'interpretazione in via pregiudiziale richiesta necessaria ” ai fini della decisione del giudizio principale.
1.5.Il Consiglio di Stato con orientamento che può ritenersi ormai consolidato, dal quale non vi è motivo per discostarsi ha affermato che la norma, nel prevedere che vengono eccettuati dall’applicazione della disposizione soltanto “ i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi ”, ha adottato una disposizione testuale che non lascia adito a dubbi circa il fatto che il contratto o l’affidamento debbano essere assoggettati ad un termine che conduca il rapporto a cessare naturalmente, e cioè alla relativa scadenza.
La disposizione normativa si riferisce, infatti, sia alla “ naturale scadenza ”, e cioè al concetto giuridico della efficacia, presupponendo che la stessa, ad un certo punto, venga a cessare;sia a quello che la naturale scadenza debba essere “ prevista negli stessi ”, cioè nei medesimi contratti o incarichi eccettuati dall’ambito di applicazione della norma.
In quest’ottica si è ritenuto che la volontà del legislatore sia stata quella di eccettuare dall’ambito applicativo oggettivo della norma, in mancanza di norme regolanti il periodo transitorio, i soli contratti e gli incarichi di durata che abbiano già avuto un inizio di svolgimento, che siano ancora in corso di esecuzione e che prevedano, essi stessi, un termine di cessazione dell’efficacia, certo e predeterminato.
In particolare Cons. St. 2991/2023 ha osservato come sia assente, nella predetta norma, qualsivoglia profilo di discriminazione o disparità di trattamento delle situazioni giuridiche, siccome il legislatore ha ricompreso nella fattispecie da sottrarre all’applicazione del principio del divieto di cumulo indifferentemente tutti i rapporti giuridici, siano essi di diritto privato o di diritto pubblico, essendo il comune denominatore la prefissata temporaneità.
Proprio in ciò, del resto, si coglie la razionalità della norma, ossia la possibilità di approssimare, in assenza di una disciplina transitoria e per un tempo ragionevolmente circoscritto, un calcolo ipotetico di quello che sarà il carico gravante sulle casse dell’erario, essendo i rapporti assoggettati a termine finale, certi e determinati nel loro preciso ammontare, e ragionevolmente prossimi a scadere.
Se nel suddetto calcolo venissero ricompresi anche i contratti e gli incarichi “naturalmente destinati a scadere” per definitivo collocamento a riposo, la razionalità dell’impianto verrebbe certamente compromessa, non tanto perché non sarebbe possibile effettuare un calcolo approssimativo del carico gravante sulla finanza pubblica, quanto perché, invece, verrebbe meno la finalità di contenere immediatamente la fuoriuscita di risorse pubbliche.
Nel bilanciamento degli interessi, pertanto, si appalesa ragionevole, razionale e non arbitraria la scelta del legislatore, per un verso, di non introdurre una disciplina transitoria per regolare gli effetti di tutti i contratti impattanti sulla finanza pubblica (rapporti a tempo indeterminato, a tempo determinato o parziale, di diritto pubblico o di diritto privato), e per un altro verso di eccettuare dal raggio applicativo della norma i soli rapporti destinati a scadere entro un termine certo e predeterminato dai contratti o dagli affidamenti, e non i rapporti caratterizzati, invece, da tendenziali garanzie di stabilità a lungo termine.
Non va sottaciuto, infine, che anche secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale non è implausibile la premessa ermeneutica alla base del giudizio di rilevanza, secondo cui “ La clausola non si applicherebbe, dunque, a un rapporto di ufficio, tendenzialmente stabile e svincolato da un termine di durata precostituito ” e che “ Da questo angolo visuale, il concetto di incarico, significativamente accostato al vocabolo "contratto", evocherebbe, anche secondo il significato proprio delle parole (art. 12 delle preleggi), una prospettiva di temporaneità. La scadenza dell'incarico, indicata nell'incarico stesso, differisce dalla durata massima legale di un rapporto di ufficio, determinata in ragione dei limiti d'età di volta in volta stabiliti dalla legge ” (Corte costituzionale, sentenza n. 124/2017).
2.Con il secondo motivo deduce: Error in iudicando nella parte in cui la sentenza, sub n. 5, respinge il secondo motivo di ricorso per violazione e falsa applicazione del comma 489, primo periodo, l. n. 147/2013. Errata assimilazione della previdenza dei dipendenti degli organi costituzionali alle gestioni previdenziali obbligatorie: Corte Cost., sent. 173/2016. Indebito uso dell’argomento logico-sistematico contro la “ littera legis ”. Invasione della potestà interpretativa e applicativa riservata all’autonomia costituzionale delle Camere (Corte Cost., sentt. nn. 129/1981, 379/1996, 262/2017).
Lamenta l’erroneità della sentenza impugnata per non avere rilevato che il sistema previdenziale dei dipendenti del Senato non rientra nel circuito delle gestioni obbligatorie e non è quindi applicabile al caso di specie il comma 489, 1° periodo, l. n. 147/2013.
La censura non è fondata.
2.1. La norma dettata dall'art. 1, comma 471, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, come successivamente modificata dall' art. 13, comma 2, lettera a), del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, a decorrere dal 1º gennaio 2014, prevede che le disposizioni in materia di trattamenti economici si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo.
Tale previsione, sebbene ratione temporis successiva rispetto alla fattispecie esaminata, avvalora però sul piano esegetico la correttezza dell’interpretazione fornita dal TAR sulla norma della cui applicazione si tratta, in quanto rende ragione della idoneità della norma a ricomprendere nel suo ambito soggettivo di efficacia chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti, comunque denominati e gestiti [cfr. anche Corte costituzionale n. 124 e n. 127 del 2017;secondo cui “ La componente oggettiva (rapporto di lavoro dipendente o autonomo con amministrazioni statali) si combina con quella soggettiva (emolumenti a carico delle finanze pubbliche), nel senso che, ove sia integrato il requisito oggettivo, sul piano soggettivo qualsiasi prestazione a carico dello Stato incide sulla definizione del trattamento economico annuo onnicomprensivo ”].
3. Con il terzo motivo deduce: Error in iudicando nella parte in cui la sentenza, sub n. 6, respinge il 4° motivo di ricorso. Carenza dei presupposti della richiesta di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ in quanto la prestazione è stata resa de iure ed accettata dall’Amministrazione datrice di lavoro, che ne ha tratto beneficio. Situazione di buona fede dell’ accipiens stante l’affidamento ingenerato dalla prosecuzione del rapporto d’impiego con costante erogazione delle competenze stipendiali. In via gradata, riduzione del quantum da restituire, anche in ragione dell’arricchimento conseguito dall’Amministrazione.
3.1. Secondo orientamento invero decisamente maggioritario della Cassazione, della Corte dei Conti e dello stesso Consiglio di Stato, l'azione di recupero è dovuta a prescindere dalla buona fede del dipendente " accipiens " ( ex multis Corte di Cassazione sez. lavoro 20 febbraio 2017, n. 4323; Consiglio di Stato sez. III, 23 dicembre 2019, n. 8737;Corte dei Conti sez. reg. controllo per il Lazio delib. 15 giugno 2015, n. 125);il solo temperamento al principio dell'ordinaria ripetibilità dell'indebito è rappresentato dalla regola per cui le modalità di recupero devono essere non eccessivamente onerose (in relazione alle condizioni di vita del debitore) e tali da consentire la duratura percezione di una retribuzione che assicuri un'esistenza libera e dignitosa.
In caso di indebita erogazione di denaro pubblico, l'affidamento del percettore delle somme e la stessa buona fede non sono d'ostacolo all'esercizio, da parte dell'amministrazione, del potere-dovere di recupero, in linea con il canone costituzionale di buon andamento;né l'amministrazione è tenuta a fornire un'ulteriore motivazione sull'elemento soggettivo riconducibile all'interessato o all'interesse pubblico al recupero che è rinvenibile in re ipsa (Consiglio di Stato, sez. III, 21 gennaio 2015, n. 201).Nella specie è legittimo il recupero delle somme, non rilevando la buona fede dell’appellante in considerazione che recupero è un atto dovuto non rinunziabile espressione di una funzione pubblica vincolata, e, pertanto, in capo all'Amministrazione che abbia effettuato un pagamento indebitamente dovuto ad un proprio dipendente si riconosce una posizione soggettiva che deve essere qualificata come diritto soggettivo alla restituzione ( Consiglio di Stato sez. IV, 19 luglio 2019, n. 5903).
4.Con il quarto motivo, in subordine, chiede sollevarsi questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, relativa al comma 489, l. n. 147/2013, ove interpretato nel senso avversato, per chiedere se il diritto unionale antidiscriminatorio osti a una norma statale, come quella desunta dal comma 489, che garantisce il diritto alla retribuzione, nel nuovo quadro normativo caratterizzato dal divieto di cumulo con il trattamento pensionistico, per i soli rapporti di lavoro in corso aventi natura contrattuale o precaria, discriminando i rapporti di lavoro instaurati con modalità diversa (nomina a seguito di concorso pubblico).
In ulteriore subordine, nella ipotesi che il Consiglio non ritenga di disapplicare il citato comma 489 per manifesta incompatibilità con il diritto unionale antidiscriminatorio (direttiva 97/81/CE, attuata con d.lgs. 25.2.2000, n. 61;la direttiva 2000/78/CE, attuata con d.lgs. 9.7.2003, n. 216, artt. 20 e 21 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), chiede che sia proposta alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, questione pregiudiziale avente il seguente oggetto: se il diritto unionale antidiscriminatorio ora menzionato osti a una norma statale, come quella desunta dall’art. 1, comma 489, legge n. 147/2013, che garantisce la tutela del diritto alla retribuzione, nel nuovo quadro normativo caratterizzato dal divieto di cumulo con il trattamento pensionistico, per i soli rapporti di lavoro in corso aventi natura contrattuale o precaria, discriminando i rapporti di lavoro instaurati con modalità diversa e, specificamente, quelli sorti a seguito di concorso pubblico conclusosi con atto amministrativo di nomina .
In ulteriore subordine chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma Cost., dell’art. 1, comma 489, l. n. 147/2013, nella parte in cui eccettua i rapporti di lavoro c.d. di diritto pubblico dalla sfera di applicazione della clausola che fa salvi i rapporti in corso dal divieto di cumulo pensione-stipendio.
Le censure devono essere disattese.
4.1. Non si coglie, la paventata ragione di trattamento discriminatorio dal momento che, come già evidenziato, l’eccettuazione dall’ambito di efficacia della norma dei soli contratti e incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza, prevista negli stessi, ha riguardato tutti i rapporti giuridici in essere con la Pubblica Amministrazione.
Non si può parlare, dunque, di discriminazione, nel senso che il legislatore abbia voluto riservare un trattamento deteriore, e quindi ingiusto, a coloro che sono titolari di uffici tendenzialmente stabili e che assai probabilmente giungeranno alla naturale scadenza per sopraggiunti limiti di età.
Semmai, la fattispecie va interpretata alla luce del principio di differenziazione, ossia nel senso, logico e razionale, di incidere immediatamente sull’impatto dei rapporti in essere sulle casse dell’erario, eccettuando solo quelli in corso e prossimi alla scadenza da essi stessi prevista.
4.2. Né si condivide il profilo di irragionevolezza lamentato dall’appellante, ossia la lesione del principio del legittimo affidamento.
In particolare, tale principio, che ha origine e tutela nel diritto europeo, incontra anche in quell’ordinamento, così come in quello interno, le naturali limitazioni derivanti dalla necessità, per un verso, di contemperare i diritti quesiti e, per un altro verso, di disciplinare i rapporti in corso di esecuzione, adattandoli alle sopravvenienze e ai mutamenti del contesto politico, sociale ed economico.
4.3.Ciò detto, il Collegio non ravvisa nemmeno sotto tale profilo una ragione di possibile non manifesta infondatezza della questione, dal momento che non si è trattato di fare un’applicazione retroattiva della norma con la conseguente eliminazione di diritti quesiti definitivamente entrati a far parte della sfera giuridica del destinatario e in ordine ai quali si potevano vantare posizioni di legittima aspettativa al loro mantenimento, bensì si è trattato di fare applicazione di una norma di sostenibilità di finanza pubblica riguardante, in generale, tutti i rapporti giuridici retribuiti o remunerati a vario titolo con risorse pubbliche (in tal senso, anche la sentenza n. 124/2017 della Corte costituzionale, secondo cui “ Nell'esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell'economia ”).
Infine, anche la Corte di giustizia, adita con rinvio pregiudiziale interpretativo sulla medesima questione, con la succitata sentenza del 15 maggio 2019, ha dichiarato la questione addirittura irricevibile per l’insussistenza di un nesso di collegamento fra la lamentata lesione e il diritto europeo, in riferimento all'art. 6 della CEDU.
4.3.Ad avviso del Collegio, inoltre, non sussistono i presupposti per rimettere alla Corte una nuova verifica di costituzionalità in riferimento ai parametri degli artt. 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., ritenendosi decisive ed esaustive le argomentazioni con cui la Corte ha già respinto le questioni sollevate dal TAR (sentenza n. 124/2017) e quelle con cui la medesima Corte ha successivamente respinto un contenzioso diverso, anche se sotto alcuni profili raffrontabile con quello per cui è causa (si tratta della sentenza n. 27/2022, riguardante il recupero, nel rispetto del limite massimo retributivo vigente, dei maggiori compensi percepiti da un magistrato amministrativo per le funzioni esercitate quale giudice tributario).
Il Collegio, in particolare condivide le argomentazioni della Corte che fanno leva sulle seguenti considerazioni:
i) la ratio legis della disciplina del limite massimo alle retribuzioni è quella di costituire il paradigma generale al quale ricondurre anche le previsioni in tema di cumulo tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche;
ii) la disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico, sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente;
iii) il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.);
iv) la disciplina del cumulo tra pensioni e retribuzioni “ interferisce con molteplici valori di rango costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all'effettivo stato di bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro (art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano ” (sentenza n. 241 del 2016, punto 5. del Considerato in diritto);
v) nel settore pubblico, non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole;
vi) il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate;
vii) l'indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge con i princìpi appena richiamati, siccome la disciplina, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo, volto a perseguire obiettivi di interesse generale, anche in considerazione del vincolo di destinazione impresso alle risorse derivanti dall'applicazione delle norme censurate, essendosi previsto che le stesse siano destinate annualmente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilità speciale di tesoreria;
viii) la disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche, come misura di contenimento della spesa, si inquadra in un disegno di riforma generale ed è assimilabile ad altri capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli ambiti più disparati (decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11;decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135;decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale», convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari», convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114);
ix) la necessità del contenimento della spesa è stato avallato dalla Corte dei conti nella Relazione sul lavoro pubblico dell'anno 2012 e l'imposizione di un limite massimo alle retribuzioni non persegue la finalità di svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate, ma al contrario quella di porre rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d'essere, fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell'amministrazione;
x) la non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi: viene citata anche la sentenza n. 153 del 2015, con riguardo all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali, e la progressiva estensione della disciplina alle pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali, quali le autorità amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e 475, della legge n. 147 del 2013), le società partecipate in via diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del d.l. n. 66 del 2014) e in materia di concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198);
xi) la portata generale della disciplina, che non si indirizza specificamente alla magistratura, quale «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.), e non mira a delinearne il rapporto con lo Stato nei termini di una mera dialettica contrattuale o a compromettere le garanzie di una retribuzione adeguata all'importanza della funzione svolta (sentenza n. 223 del 2012), fa perdere consistenza alle censure di violazione dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giurisdizionale, anche per quel che attiene agli aspetti retributivi (viene citata la sentenza n. 1 del 1978);
xii) il limite previsto dal legislatore non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una carica (quella di Primo Presidente della Corte di cassazione) di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l'apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate;
xiii) la norma si armonizza con altre misure di contenimento dei trattamenti economici nel settore pubblico e si contraddistingue per la particolare latitudine. Essa si rivolge alla vasta categoria delle amministrazioni inserite nell'elenco ISTAT e menziona anche gli organi costituzionali, chiamati ad attuarla nel rispetto dei propri ordinamenti;
xiv) la norma censurata include tutte le pensioni erogate nell'àmbito di gestioni previdenziali obbligatorie, gli stessi vitalizi e tutte le voci del trattamento economico (stipendi, altre voci del trattamento fondamentale, indennità, voci accessorie, eventuali remunerazioni per consulenze, incarichi o collaborazioni a qualsiasi titolo conferiti a carico di uno o più organismi o amministrazioni enumerati nell'elenco ISTAT);
xv) il legislatore è chiamato a garantire una tutela sistemica e non frazionata dei valori costituzionali da bilanciare, anche con riguardo al cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, ed è in questo orizzonte che si colloca anche il principio di proporzionalità tra la retribuzione e la quantità e la qualità del lavoro prestato;
xvi) in questo bilanciamento, occorre soppesare l’interesse pubblico ad approvvigionarsi di professionalità particolarmente qualificate, che già fruiscono di un trattamento pensionistico, con il carattere limitato delle risorse pubbliche: ciò per un verso giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva - e modellata su un parametro prevedibile e certo - delle risorse che l'amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni, ma per un altro verso non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico;
xvii) inquadrata in queste più ampie coordinate, e ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, la norma censurata attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto;soprattutto, la previsione non è tale da sacrificare in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro del pensionato, libero di esplicarsi nelle forme più convenienti;
xviii) la disciplina censurata non compromette nemmeno l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, in virtù della portata generale che la contraddistingue, e non ingenera di per sé arbitrarie discriminazioni tra i consiglieri che compongono la Corte dei conti, anche perché nulla esclude che il legislatore, in un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, prefiguri soluzioni diverse e moduli in senso più duttile il cumulo tra pensioni e retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa, con una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo delle discipline restrittive;
xix) la previsione di un tetto retributivo non rappresenta un prelievo di natura tributaria, in quanto, per un verso, l’Autorità statale, legiferando, è intervenuta in veste di "datore di lavoro" dei dipendenti pubblici interessati dalla statuizione del "tetto" e non come "ente impositore";per un altro verso, invece, la fissazione di una soglia retributiva non ha comportato una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico, né un'acquisizione di risorse al bilancio dello Stato e, pertanto, è priva degli elementi che connotano indefettibilmente la prestazione tributaria;
xx) la verifica di legittimità costituzionale delle norme in tema di trattamento economico dei dipendenti fa riferimento non alle singole componenti di quel trattamento, ma alla retribuzione nel suo complesso, avuto riguardo - in sede di giudizio di non conformità della retribuzione ai requisiti costituzionali di proporzionalità e sufficienza - al principio di onnicomprensività della retribuzione medesima;
xxi) il censurato temporaneo "blocco" della retribuzione risponde al principio di gradualità nell'attuazione dei diritti, di modo che è comunque compatibile con la Costituzione una normativa che cerchi di dare progressiva esecuzione alle disposizioni sui diritti, sulla base delle risorse in concreto disponibili;
xxii) il principio del buon andamento della pubblica amministrazione non può essere associato alle politiche di incrementi retributivi, i quali non sono legati da un vincolo funzionale all'efficiente organizzazione dell'amministrazione;inoltre, non sussiste un rapporto diretto di causa ed effetto tra la previsione della limitazione retributiva e la dissuasione dall'espletamento di attività, la cui retribuzione comporterebbe il superamento del "tetto" massimo;infine, quand'anche tale effetto dissuasivo si producesse, esso non è automaticamente di pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione, posto che l'efficienza della macchina amministrativa non è di per sé scalfita dal fatto che determinate funzioni siano esercitate da personale che non gode del livello retributivo massimo consentito, ma dispone comunque di adeguata competenza e professionalità (in tal senso Cons. St. 2991/2023).
Nella specie la Corte costituzionale si è già pronunciata su tutti i parametri, sicché non sussistono i presupposti per una nuova rimessione.
5. Quanto alla censura sollevata in estremo subordine, di difetto di giurisdizione, della statuizione contenuta nella sentenza di primo grado con la quale il Giudice dà qualificazione giuridica a istituti rientranti nell’autonomia normativa e interpretativa di un organo costituzionale come il Senato, in violazione della riserva di competenza posta dall’art. 64 Cost. (sentenze della Corte Cost. nn. 129/1981, 379/1996, 262/2017), la censura è inammissibile alla luce di quanto statuito dall’Ad. plen. n. 19/2021 in relazione all’eccezione di difetto di giurisdizione della parte soccombente che contesti in appello la giurisdizione da lui stesso adita dopo l’esito sfavorevole del giudizio di primo grado.
L’appello deve essere, conseguentemente respinto.
In considerazione della novità e complessità della questione, all’epoca della proposizione del ricorso, sussistono i motivi per compensare tra le parti le spese processuali.