Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-09-07, n. 202005380
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Testo completo
Pubblicato il 07/09/2020
N. 05380/2020REG.PROV.COLL.
N. 05728/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5728 del 2012, proposto dalla Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato A A, con domicilio eletto presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione Campania in Roma, via Poli, n. 29;
contro
la Società “Mig Ferro” S.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore , non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Seconda) n. 1323/2012, resa tra le parti, concernente il parere negativo sulla compatibilità ambientale di un centro di raccolta e trattamento di veicoli fuori uso.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 28 luglio 2020 tenutasi con le modalità di cui alla normativa emergenziale di cui all’art. 84, commi 5 e 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, come modificato dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 25 giugno 2020, n. 70, il Cons. Antonella Manzione e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, i difensori delle parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con l’appello in esame la Regione Campania ha impugnato la sentenza del T.A.R. per la Campania n. 1323 del 19 marzo 2012, con la quale è stato accolto il ricorso presentato dalla Società “Mig Ferro” s.a.s. di Migliaccio Biagio & c. per l’annullamento del decreto n. 390 del 6 giugno 2011, concernente parere negativo sulla compatibilità ambientale del progetto di un centro di raccolta e trattamento di veicoli fuori uso, con eventuale recupero e rivendita di parti usate, peraltro già da tempo in attività, giusta l’autorizzazione della Provincia di Napoli del 17 marzo 2004, successivamente rinnovata, sul territorio del Comune di Giugliano in Campania.
2. La sentenza appellata, dopo avere respinto l’eccezione della Regione circa l’insussistenza di autonoma lesività del provvedimento impugnato, ha evidenziato la carenza di motivazione in ordine alla affermata incompatibilità ambientale in concreto, stante che il provvedimento è motivato esclusivamente avuto riguardo alla destinazione agricola dell’area, ex se non necessariamente ostativa all’insediamento di attività produttive. Quanto detto a prescindere dall’invocata operatività delle previsioni di cui al r.d. n. 1265 del 1934 che addirittura impongono la allocazione di impianti della tipologia in contestazione in area distanziata dai centri abitati, in quanto dettate per fini diversi da quelli di tutela dell’ambiente.
3. La decisione è contestata con tre distinti motivi, intersecantisi tra di loro, sì da consentirne la trattazione unitaria. In primo luogo, secondo la difesa erariale sarebbe stato violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., avendo la Società appellata limitato la propria doglianza alla mancata applicazione del combinato disposto dell’art. 216 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, T.U.LL.SS., con l’allegato unico al decreto ministeriale 5 settembre 1994, le cui previsioni si palesano ormai inapplicabili alla luce dell’attività pianificatoria riconosciuta agli Enti locali. Ove al contrario il giudice di prime cure avesse voluto ritenere l’insediamento compatibile con la destinazione agricola della zona, siccome sostanzialmente preteso dalla ricorrente, avrebbe dovuto effettuare una specifica istruttoria sul punto. D’altro canto, la possibilità di insediamento di un’attività produttiva in zona urbanisticamente incompatibile avrebbe necessitato dell’attivazione dell’apposito provvedimento di variante di cui all’art. 5 del d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, che non sarebbe stato in concreto attivato “ posto l’asserito esaurimento delle zone da destinare alle industrie insalubri ” (v. pag. 9 dell’atto di appello).
4. Non si è costituita in giudizio la Società appellata, cui il ricorso è stato ritualmente notificato al domicilio indicato nel procedimento di primo grado.
5. Alla pubblica udienza del 28 luglio 2020, la causa è stata trattenuta in decisione con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18.
DIRITTO
6. Il Collegio ritiene l’appello infondato e come tale da respingere.
7. La Società appellata è proprietaria di un’area estesa per circa mq.5760 nel territorio del Comune di Giugliano in Campania, ricadente in zona “E1-agricola normale” del vigente Piano regolatore generale, utilizzata per l’esercizio della propria attività di recupero, stoccaggio e trattazione di rifiuti da demolizione di veicoli e loro parti, giusta iscrizione all’apposito registro di cui alla determinazione dirigenziale provinciale n. 2734 del 17 marzo 2004, rinnovata con determinazione n. 14929 del 12 dicembre 2009, ai sensi dell’art. 216 del d.lgs. n. 152/2006. Da ultimo, con determinazione dirigenziale n. 10509 del 29 settembre 2009, il titolo è stato modificato con riferimento al quantitativo di rifiuti trattabili, elevati da 3.000 a 13.000 tonnellate e ai codici CER. L’attività che si intende “installare” - rectius , più correttamente, ampliare, ovvero integrare, ovvero modificare, non essendone la portata innovativa affatto chiarita nel provvedimento impugnato- si innesta dunque in tale contesto preesistente e funzionalmente legittimato al medesimo scopo di cui in controversia, quanto meno nelle sue linee generali.
Sotto il profilo edilizio, con concessione in sanatoria n. 12448/95/SAN del 9 dicembre 2003, il Comune di Giugliano in Campania ha assentito l’avvenuta realizzazione di due capannoni, di cui uno destinato ad uffici, successivamente attestando in apposita certificazione la ritenuta compatibilità urbanistica dell’attività nel complesso intesa, giusta la sua riconducibilità alle “industrie insalubri” di cui all’allegato al D.M. 5 settembre 1994, che per espresso dettato normativo devono essere insediate a distanza dai luoghi abitati (v. certificazione urbanistica in data 28 dicembre 2007).
Ridetta preesistente attività è appena accennata nel corpo del provvedimento impugnato, laddove si ritiene che l’impianto proposto nell’istanza di parte “ è da considerare ex novo, pur considerate le dimensioni modeste dell’attività produttiva preesistente sul sito di cui si tratta ”: con ciò sostanzialmente adombrando, senza tuttavia svilupparlo, un profilo quantitativo-dimensionale, piuttosto che qualitativo, tale da imporre il passaggio da una compatibilità urbanistica quanto meno tollerata, ad una incompatibilità ambientale, riveniente esclusivamente dalla stessa. Circostanza questa che, in assenza di esplicitazioni motivazionali, palesa il vizio di eccesso di potere lamentato dalla Società e riconosciuto dal primo giudice.
8. Vero è che l’Amministrazione, nel formulare il giudizio sull’impatto ambientale, esercita un’amplissima discrezionalità che non si esaurisce in una mera valutazione tecnica, come tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa ed istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti. A ciò consegue che il sindacato del giudice amministrativo in materia è necessariamente limitato alla manifesta illogicità ed incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria (come nei casi in cui l’istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione: cfr., Cons. St., sez. V, 27 marzo 2013, n. 1783 e sez. VI, 11 febbraio 2004, n. 458; T.A.R. Lombardia, sez. III, 8 marzo 2013, n. 627) ovvero alla mancanza di idonea motivazione, dato che il modello procedimentale vigente nel nostro ordinamento impone all’autorità procedente di esplicitare le ragioni sulla base delle quali è stata effettuata la comparazione tra i benefici dell’opera da un lato e, dall’altro, i potenziali impatti pregiudizievoli per l’ambiente, con riferimento ai contributi istruttori acquisiti nel corso del procedimento (v. T.A.R. Marche, 9 gennaio 2014 n. 31). Il che è quanto ritenuto carente nel caso di specie, avuto riguardo -aggiunge la Sezione - alla richiamata preesistenza dell’attività, pur se in non meglio precisata consistenza ridotta, stante che l’area interessata dalla stessa, pur con diversificazioni attinenti alla specificità gestionale da avallare casomai con titolo o integrazione del titolo ex d.lgs. n. 152/2006, parrebbe grossomodo coincidente.
8.1. Il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, cosiddetto Codice dell’Ambiente, dopo aver tracciato nel Titolo I della Parte II le linee generali e definitorie degli istituti della V.I.A., della V.A.S. (valutazione ambientale strategica) e della autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.), ne descrive analiticamente il procedimento nelle disposizioni successive. Per quanto qui di interesse, la V.I.A. è configurata come procedura amministrativa di supporto per l’autorità competente finalizzata ad individuare, descrivere e valutare gli impatti ambientali di un’opera, il cui progetto è sottoposto ad approvazione o autorizzazione. In altri termini, trattasi di un procedimento di valutazione ex ante degli effetti prodotti sull’ambiente da determinati interventi progettuali, il cui obiettivo è proteggere la salute umana, migliorare la qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie, conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema, promuovere uno sviluppo economico sostenibile (cfr. art. 3, direttiva n. 85/337/CEE e successive modifiche apportate dalla direttiva n. 97/11/CE). Essa mira a stabilire, e conseguentemente governare in termini di soluzioni più idonee al perseguimento di ridetti obiettivi di salvaguardia, gli effetti sull’ambiente di determinate progettualità, sussumibili nel concetto di “impatto ambientale” e identificabili nella alterazione “ qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa ” che viene a prodursi sull’ambiente, laddove quest’ultimo a sua volta è identificato in un ampio contenitore, costituito dal “ sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti” (art. 5, comma 1, lett. b) e c), del d.lgs. n. 152/2006).
La giurisprudenza ha tuttavia ripetutamente affermato (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 31 maggio 2012, n. 3254; sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 361) che, alla stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle sue stesse peculiari finalità, la valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio - economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione - zero; in particolare, è stato evidenziato che “ la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell'interesse diverso sotteso all'iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste ”