Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2023-12-04, n. 202310447

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2023-12-04, n. 202310447
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202310447
Data del deposito : 4 dicembre 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 04/12/2023

N. 10447/2023REG.PROV.COLL.

N. 05986/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso per revocazione numero di registro generale 5986 del 2023, proposto da
Carpene Silvia e Drink Food s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentate e difese dall’avvocato D P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Angelico, 301;

contro

Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato A R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l’Avvocatura capitolina in Roma, via del Tempio di Giove, 21;

per la revocazione

della sentenza del Consiglio di Stato - Sez. V n. 04898/2023, resa tra le parti


Visti il ricorso in revocazione e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 novembre 2023 il Cons. A U e uditi per le parti gli avvocati Perugini e Rizzo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Carpene Silvia e la Drink &
Food s.r.l. hanno proposto ricorso per revocazione per errore di fatto della sentenza n. 4898 del 2023 di questa V Sezione che ha respinto l’appello della stessa Carpene nei confronti della sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso avverso la determinazione dirigenziale del 16 ottobre 2018 di Roma Capitale recante il divieto di prosecuzione di attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande in danno della stessa Carpene.

2. Al riguardo le ricorrenti si dolgono, sub I) della “ sussistenza dei presupposti ex artt. 106 c.p.a. e 395, comma 1, n. 4, c.p.c. ” e riproducono, in fase rescissoria, i seguenti motivi d’appello:

II) erroneità ed omessa pronuncia della sentenza di primo grado, con violazione e falsa applicazione dell’art. 9 D.C.C. n. 35/10 e dell’art.

3.4 lett. e) d.m. n. 236 del 1989;
eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, travisamento dei presupposti in fatto e diritto, illogicità, arbitrarietà, contraddittorietà;

III) erroneità ed omessa pronuncia: violazione e falsa applicazione dell’art. 1 d.l. n. 1 del 2012;
eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, difetto di motivazione, arbitrarietà ed illogicità.

3. Resiste all’impugnazione Roma Capitale, chiedendone la reiezione.

4. All’udienza pubblica del 23 novembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

5. Con unico motivo in fase rescindente la ricorrente deduce l’errore in cui il giudice d’appello sarebbe incorso nel non avvedersi dello stretto nesso tra di causalità tra la sentenza di primo grado e le successive attività provvedimentali dell’amministrazione, aspetto incontroverso tra le parti in quanto ammesso dalla stessa Roma Capitale in un successivo provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande;
sarebbe per questo erronea la statuizione della sentenza d’appello di ravvisare una carenza d’interesse alla decisione.

Sotto altro profilo, il giudice d’appello sarebbe incorso in errore di fatto nell’affermare la non lesività della nota di Roma Capitale del 5 febbraio 2019 motivando che la stessa “ non è stata seguita da una coerente e successiva volizione attuativa ”, quando invece la detta nota ben aveva un’efficacia autonomamente lesiva in quanto era stata seguita da una successiva volizione attuativa dell’amministrazione, peraltro impugnata al Tar, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza revocanda.

In tale contesto Roma Capitale avrebbe d’altra parte chiaramente aderito alla prospettazione dell’appellante, come risulta dalla sospensione e poi dall’annullamento d’ufficio del provvedimento di divieto della prosecuzione dell’attività successivamente adottato (il cd. “secondo provvedimento” emanato da Roma Capitale, conseguente alla suddetta nota del 5 febbraio 2019), mentre non v’è dubbio che tale provvedimento fosse stato adottato in attuazione della sentenza di primo grado, e a sua volta impugnato davanti al Tar.

Ancora, il giudice d’appello sarebbe incorso in errore nell’affermare le legittimità del provvedimento che il Tar aveva invece annullato con sentenza non oggetto di appello incidentale, in un contesto in cui peraltro l’azione amministrativa è stata giudicata ab origine errata dalla stessa Roma Capitale, che proprio perciò ha annullato in autotutela il successivo “secondo provvedimento”.

5.1. Il ricorso è inammissibile, nei termini e per le ragioni che seguono.

5.1.1. Occorre premettere che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’errore di fatto revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, Cod. proc. civ., dovrebbe consistere ed esaurirsi nella semplice “ errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto ” ( ex permultis , Cons. Stato, V, 9 maggio 2023, n. 4644;
IV, 18 aprile 2023, n. 3893;
III, 30 marzo 2023, n. 3318;
V, 28 dicembre 2022, n. 11487;
II, 29 novembre 2022, n. 10490;
III, 3 novembre 2022, n. 9659;
31 dicembre 2021, n. 8752;
V, 14 dicembre 2021, n. 8323;
IV, 31 dicembre 2020, n. 8566;
III, 19 ottobre 2020, n. 6316;
V, 17 dicembre 2019, n. 8533;
1° ottobre 2018, n. 5608;
cfr. anche Cons. Stato, IV, 2 aprile 2019, n. 2163;
V, 20 marzo 2019, n. 1818;
10 giugno 2019, n. 3880;
26 ottobre 2018, n. 6113;
cfr. ancora, inter multis , Id., V, 14 luglio 2021, n. 5319, in cui si pone in risalto come l’errore revocatorio sia confìgurabile esclusivamente nell’attività preliminare del giudice relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo, mentre lo stesso “ non coinvolge la successiva attività di ragionamento, di apprezzamento, di interpretazione e di valutazione del contenuto della documentazione processuale, ai fini della formazione del suo convincimento, che può prefigurare esclusivamente un errore di giudizio ”).

Inoltre, l’errore revocatorio deve “ attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato ”, e deve altresì consistere in “ un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa ” (Cons. Stato, VII, 12 aprile 2023, n. 3705;
V, 8 aprile 2021, n. 2845;
16 giugno 2020, n. 3877 del 2020;
VI, 6 febbraio 2020, n. 947;
V, 2 dicembre 2019, n. 8245;
25 giugno 2019, n. 4339;
21 febbraio 2019, n. 1212;
2 marzo 2018, n. 1297;
7 febbraio 2018, n. 813;
11 maggio 2017, n. 2194;
III, 25 marzo 2019, n. 1971;
4 febbraio 2019, n. 862;
IV, 14 giugno 2018, n. 3671;
sul profilo della causalità, cfr. anche, di recente, Cons. Stato, IV, 19 aprile 2023, n. 3968;
V, 3 agosto 2023, n. 7491).

Nel caso di specie difettano i suindicati elementi necessari ai fini della revocazione in relazione agli errori invocati dalla ricorrente.

5.1.2. Quanto alla dedotta esistenza d’un nesso causale tra la sentenza di primo grado e la successiva attività provvedimentale dell’amministrazione, che il giudice avrebbe trascurato per errore di fatto, lo stesso non assume a ben vedere alcun rilievo nella ratio decidendi della sentenza revocanda, sicché non forma oggetto di alcun errore senso-percettivo del giudice d’appello (che su tale aspetto non s’è soffermato), né presenta alcuna causalità rispetto al contenuto della decisione.

Segnatamente, la statuizione d’inammissibilità per carenza d’interesse dell’appello è dipesa dal mero rilievo per cui “ la sentenza [di primo grado] , in accoglimento del ricorso, ha annullato il provvedimento con cui il Municipio V di Roma Capitale aveva disposto il divieto di prosecuzione dell’attività di somministrazione di bevande ed alimenti nei confronti dell’esercizio commerciale della parte appellante ”, sicché “ L’atto lesivo della sua sfera giuridica è venuto dunque incontestatamente meno ” (sentenza, sub par. 3).

A ciò segue un passaggio ( sub par. 4.1) in cui il giudice d’appello si limita a chiarire il contenuto della sentenza di primo grado affermando che la stessa, nel passo invocato dall’appellante a conferma del proprio perdurante interesse alla riforma ( i.e. , “ l’assenza di disposizioni regolamentari locali quanto la loro presenza in termini più generici ovvero meno rigorosi di quelli dettati dalle norme sopra richiamate non è idonea a pregiudicarne la concreta applicazione, anche con riferimento alla fattispecie in esame… ”), “ ha solo inteso ribadire che quello della tutela dei disabili rappresenta, al tempo stesso, un principio ed un diritto assoluto che, al momento dell’esercizio del potere di vigilanza, la Pubblica amministrazione deve sempre aver cura di garantire ”, cosicché in tale frangente il giudice d’appello osserva semplicemente che il suddetto capo della sentenza del Tar era privo di profili di lesività idonei a fondare un interesse dell’appellante alla riforma (cfr. anche il passaggio subito successivo della sentenza revocanda: “ Si tratta di un’affermazione che, oltre ad essere pienamente condivisibile, ha valenza esplicativa e dichiarativa, che non porta seco un’autonoma portata lesiva ”).

La decisione revocanda non si è dunque specificamente soffermata sul rapporto tra la sentenza di primo grado e la successiva attività provvedimentale dell’amministrazione (v. peraltro infra , sub § 5.1.3 in relazione alla nota del 5 febbraio 2019 di Roma Capitale), né comunque tale rapporto ha posto alla base della propria (autonoma) valutazione di carenza d’interesse al gravame, incentrata sull’intervenuto annullamento del provvedimento.

Di qui l’assenza di alcun errore di fatto revocatorio nei termini invocati dalla ricorrente.

D’altra parte, l’essersi eventualmente disinteressati di tale profilo correlato al rapporto tra la sentenza di primo grado e i provvedimenti successivi, e aver deciso sulla base di altri (distinti) argomenti nei termini suindicati, condurrebbe a ravvisare un mero (ipotetico) errore di diritto, giammai di fatto;
ciò oltretutto in un contesto in cui, a ben vedere, l’interesse a ricorrere va valutato sul contenuto proprio, rispettivamente, della sentenza e dei provvedimenti gravati, non già, di per sé, sull’applicazione che della sentenza stessa venga eventualmente fatta dall’amministrazione nel quadro della successiva azione amministrativa.

5.1.3. Lo stesso è a dirsi per il richiamo alla nota del 5 febbraio 2019, in cui pure l’eventuale errore invocato dalla ricorrente risulta privo di qualsivoglia inferenza causale sul contenuto della decisione.

Segnatamente, pur se afferma che detta nota è priva di efficacia autonomamente lesiva “ perché non è stata seguita da una coerente e successiva volizione attuativa ”, subito dopo la sentenza aggiunge (quale autonoma ratio decidendi nella valutazione svolta) che “ Anche a voler accedere alla prospettazione di parte appellante che invece le attribuisce portata dannosa, essa - essendo successiva alla sentenza gravata - avrebbe dovuto essere impugnata con un nuovo ed autonomo ricorso e non direttamente nel giudizio di appello ” (sentenza, sub par. 4.1).

Il che, da un lato ha una portata assorbente rispetto al precedente passaggio motivazionale (sicché l’invocato errore in relazione all’affermazione per cui la nota del 5 febbraio 2019 non era stata seguita da successiva volizione attuativa è da ritenersi di per sé superato e dunque privo d’inferenza causale sulla decisione), dall’altro non si espone all’altro e distinto errore invocato dalla ricorrente (in tesi, l’essere effettivamente intervenuta l’impugnazione dinanzi al Tar del successivo provvedimento, supposta inesistente dal giudice d’appello) atteso che il capo motivazionale ha tutt’altro significato, di portato squisitamente giuridico: vuole porre in risalto, appunto, che laddove avente “ portata dannosa ”, la successiva azione amministrativa, in quanto “ successiva alla sentenza gravata ”, non poteva che essere contestata con un “ nuovo e autonomo ricorso ” “ e non direttamente nel giudizio di appello ”, sicché non assumeva alcun rilievo in quel giudizio d’appello ove non era (e non poteva) essere gravata.

In tal modo il giudice d’appello esprimeva una valutazione giuridica , ritenendo che, laddove lesiva, l’azione amministrativa invocata abbisognasse d’una (distinta) impugnazione ad hoc , e che tale impugnazione non fosse (né potesse essere) radicata dinanzi a sé;
il che implicava evidentemente che, ai fini di quel giudizio, doveva ritenersi confermata la carenza d’interesse per intervenuto annullamento del (solo) provvedimento gravato, non potendo incidervi gli atti successivi.

Nel che non è dato scorgere alcun errore di fatto, bensì semplicemente un argomento giuridico sull’apprezzamento del perimetro della cognizione rimessa al giudice d’appello, nonché sulle relative conseguenze (anch’esse frutto di una valutazione esclusivamente giuridica , e perciò in sé non esposta a censura revocatoria) in ordine alla permanenza dell’interesse (esclusa dal giudice pur a fronte delle successive determinazioni dell’amministrazione, ancorché eventualmente lesive), e dunque all’ammissibilità del gravame.

5.1.4. A ciò si aggiunga, peraltro, che tutti i suesposti (presunti) errori confluiscono a ben vedere nel censurare la statuizione d’inammissibilità per carenza d’interesse del gravame;
la quale è tuttavia essa stessa affiancata dalla successiva motivazione della sentenza anche in punto di merito che, a prescindere dai profili d’inammissibilità, perviene alla conclusione (e motiva sul fatto che) “ Nel merito l’appello è comunque infondato ” (sentenza, par. 5).

Per questo, gli stessi suddetti errori denunciati dalla ricorrente sarebbero comunque privi d’inferenza causale in quanto assorbiti da un capo motivazionale che ravvisa l’infondatezza (al di là dell’inammissibilità) dell’appello.

5.1.5. Parimenti insussistente è poi il denunciato errore di fatto su tale ultimo capo della sentenza.

Premesso che l’eventuale mancata considerazione delle caratteristiche del locale ( i.e. , locale di superficie inferiore a 250 mq.) e delle relative conseguenze in punto di requisiti di “accessibilità” si risolverebbe in un eventuale errore di diritto, nella specie è di suo priva di rilievo anche la circostanza che l’amministrazione avrebbe successivamente ammesso essa stessa l’errore commesso: ciò, infatti, non incide in alcun modo sull’apprezzamento operato dal giudicante in parte qua (in ordine cioè all’affermata infondatezza dell’appello stante la ritenuta legittimità del provvedimento), che ha peraltro contenuto squisitamente giuridico, e sfugge perciò anch’esso all’invocato rimedio revocatorio.

Allo stesso modo, non assume qui rilievo il fatto che il giudice d’appello si sia soffermato (affermandone la legittimità) su un provvedimento già annullato dal giudice di primo grado: oltre a non dar luogo ad alcun errore revocatorio, la circostanza è qui comprensibile proprio nell’ottica (anch’essa, squisitamente giuridica e non contestabile in sede revocatoria) fatta propria dal giudice, che dopo aver ravvisato l’inammissibilità del gravame (proprio in ragione dell’intervenuto annullamento del provvedimento) ne ha nondimeno scrutinato le doglianze, pervenendo a loro valutazione d’infondatezza.

6. In conclusione, per le suesposte ragioni il ricorso è inammissibile.

6.1. Le spese di lite sono poste a carico delle ricorrenti, secondo criterio di soccombenza, e liquidate nella misura di cui in dispositivo in favore dell’amministrazione costituita.

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