TAR Roma, sez. 2S, sentenza 2024-03-21, n. 202405636
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Testo completo
Pubblicato il 21/03/2024
N. 05636/2024 REG.PROV.COLL.
N. 07379/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Stralcio)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7379 del 2017, proposto da
R C, M F P, rappresentati e difesi dagli avvocati A V D C, M P, con domicilio eletto presso lo studio A V D C in Roma, via G.P. Da Palestrina n. 19;
contro
Roma Capitale, in persona del sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. S S, domiciliato in Roma, via Tempio di Giove, 21;
per il risarcimento di tutti i danni
subiti e subendi dalla parte ricorrente in esito alla vicenda oggetto della sentenza del TAR Lazio, Sezione I Quater, n. 12891/2016, pubblicata in data 30.12.2016, notificata in data 17.1.2017 e passata in giudicato in data 18.3.2017 in quanto non appellata dalla parte resistente.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;
Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 19 gennaio 2024 il dott. A A e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Con ricorso notificato a Roma Capitale il 13 luglio 2017 e depositato il 31 luglio 2017, parte ricorrente chiede il risarcimento dei danni determinati dalla vicenda oggetto della sentenza del Tar del Lazio numero 12.891 del 2016, pubblicata il 30 dicembre 2016, notificata il 17 gennaio 2017 e passata in giudicato il 18 marzo 2017 in quanto non appellata dalla parte resistente.
La causa concerne la richiesta di risarcimento a causa del danno subito in esito alla vicenda oggetto della sentenza n. 12891/2016. A seguito dell’intimazione alla demolizione dell’immobile ricevuta dalla parte ricorrente per violazione della normativa urbanistica, perpetrata dai precedenti venditori dell’immobile, il TAR del Lazio con sentenza n. 12891/2016 ha integralmente accolto tanto i ricorsi contro la determinazione di rigetto delle DIA, quanto quelli contro gli ordini di demolizione degli immobili, annullando, per l’effetto, tutti i provvedimenti impugnati.
In esito alle suddette pronunce, i proprietari delle unità abitative site nel complesso residenziale di Via di Carcaricola n. 195 hanno invitato/diffidato Roma Capitale a dare tempestivo avvio all’attività intesa a “rivalutare, nel contraddittorio con tutte le parti attualmente interessate, la complessiva situazione del compendio edilizio di “via di Carcaricola” nel rispetto dei principi enunciati dal TAR, senza ricevere alcuna risposta da parte dell’ente.
La parte lamenta pertanto il patimento di un danno a causa dell’inerzia della p.a. e della violazione del legittimo affidamento riposto.
Il danno risarcibile richiesto dalla parte è quantificato in una somma pari all’attuale valore dell’immobile di proprietà della parte ricorrente, il cui carattere abusivo ne avrebbe svilito il valore commerciale, alle spese sostenute per la difesa in giudizio, e ai danni non patrimoniali (danno esistenziale e biologico).
Roma Capitale, nella memoria difensiva del 18 dicembre 2023, richiama la sostanziale illegittimità di gran parte del complesso edilizio, accertata dalla sentenza del Tar del Lazio ed eccepisce la inammissibilità del ricorso, la prescrizione del diritto azionato, l’infondatezza e improcedibilità del ricorso. La domanda risarcitoria sarebbe inammissibile per genericità, non essendo individuato lo specifico fatto illecito e non essendo chiarito se esso coincide con gli atti annullati. La difesa comunale distingue la pretesa risarcitoria da illecito provvedimento rispetto a quella da comportamento illecito. Non essendo stato chiarito che la pretesa risarcitoria si fonderebbe su un atto illecito oppure su un fatto illecito, essa sarebbe inammissibile per genericità. Inoltre, essendo stato notificato il ricorso solo nel luglio 2017, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, si dovrebbe ritenere la pretesa derivante dal provvedimento illegittimo annullato;invece, dalla ricostruzione dei fatti, risulta che l’illecito viene ricondotto al comportamento della pubblica amministrazione. Pertanto il diritto al risarcimento sarebbe prescritto perché il contegno illecito si è protratto fino al 2012 ed è cessato in tale anno con la determinazione dirigenziale numero 1378 del 2012 di privazione di efficacia della denuncia di inizio attività. Nel merito, mancherebbero gli elementi della responsabilità civile della pubblica amministrazione da fatto illecito sotto il profilo oggettivo, sotto quello soggettivo e sotto il profilo del nesso di causalità, non essendo neppure provato il danno da diminuzione del valore venale del bene, così come il danno non patrimoniale.
Nella memoria difensiva di precisazione delle conclusioni, notificata a Roma Capitale il 18 dicembre 2023, parte ricorrente, richiamata la sentenza passata in giudicato numero 12.891 del 2016, espone di aver ripetutamente diffidato Roma Capitale ad eseguire la sentenza, ma l’amministrazione comunale si sarebbe limitata a respingere alcune istanze di condono, precedentemente ignorate. Tutte le domande di condono edilizio del 1985 e del 1994, relative al complesso abusivo di cui si tratta, non avrebbero ancora avuto esito. La violazione del giudicato ha determinato la proposizione di ricorsi per ottemperanza. Il giudizio di ottemperanza relativo al ricorso dell’attuale parte ricorrente è stato definito con la sentenza numero 5650 del 2019, mentre altre sentenze analoghe sono state depositate il 30 novembre 2023. Il Tribunale amministrativo regionale ha accolto tutti i ricorsi per l’ottemperanza, ponendo in evidenza che il potere residuale di autotutela nei confronti delle denunce d’inizio attività deve essere esercitato, oltre che nel rispetto del limite del termine ragionevole, soprattutto sulla base di una valutazione comparativa, discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare l’eventuale frustrazione dell’affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio. Nel caso di specie, a giudizio del Tar del Lazio, l’amministrazione comunale si è avveduta con colpevole ritardo della illegittimità dei titoli, considerato l’elevato numero di istanze di condono e di dichiarazioni di inizio attività prodotte nel corso degli anni è considerata anche la consistenza degli abusi realizzati, rappresentati da un intero quartiere. Il giudizio di annullamento ha determinato l’obbligo di rivalutazione della complessa situazione edilizia, previa definizione dei procedimenti di condono ancora pendenti, con la necessità di un nuovo pronunciamento sulle denunce d’inizio attività, mediante un opportuno contemperamento del generale interesse al ripristino della legalità con l’affidamento riposto da parte dei privati non responsabili degli abusi. Affidamento ingenerato dallo stesso comportamento della pubblica amministrazione, per lungo tempo omissivo e inerte, tanto da consentire la realizzazione di un intero quartiere abusivo, facendo salvi ulteriori poteri della pubblica amministrazione, di natura diversa da quelli propri dei procedimenti di repressione degli abusi edilizi, ulteriori poteri che è la stessa pubblica amministrazione a dover trovare, facendosi carico di una problematica che va ben oltre la consueta scoperta di manufatti abusivi. La sentenza passata in giudicato ha attribuito una responsabilità anche politica all’amministrazione comunale per la soluzione di una vicenda poco commendevole che ha di fatto finito per coinvolgere le prospettive di vita di ignari cittadini. Roma Capitale, quindi, non può ora limitarsi alla meccanica applicazione delle norme in materia edilizia, ma deve ricercare, nell’ambito dei poteri di governo e controllo del territorio, una accettabile soluzione che possa definire in modo soddisfacente il disastro che è stato compiuto ormai diversi decenni or sono con il consenziente silenzio delle autorità all’epoca preposte al controllo del territorio urbano. Senza voler sconfinare nel merito di scelte politiche, ordinando l’adozione di una variante al piano regolatore generale, il giudice amministrativo ha evidenziato che non può ritenersi satisfattivo del dictum giudiziale la mera rinnovazione, ora per allora, di un procedimento amministrativo ancora una volta indifferente alla particolare posizione, ormai consolidatasi da tempo, di destinatari finali di tali procedimenti. In questo senso deve ritenersi che il potere discrezionale dell’amministrazione, a suo tempo male esercitato, ancorché non esauritosi del tutto, si è però in parte consumato, non essendo più consentito, in sostanza, replicare un percorso che si riveli per l’ennesima volta lesivo dell’affidamento ingenerato colpevolmente dalla stessa amministrazione procedente. Roma Capitale, dunque, non può limitarsi a negare nuovamente il bene della vita cui parte ricorrente aspira, la stabilizzazione della propria posizione abitativa, sulla base di un nuovo procedimento emendato dai vizi procedurali censurati, che il giudice ha stigmatizzato non certo sotto un profilo formale, ma sotto quello sostanziale. Roma Capitale deve piuttosto ricercare, nell’ambito dei poteri ad essa riferibili, le soluzioni che consentano tale consolidamento, il conseguimento del bene finale cui aspira parte ricorrente, non potendo più essere messa in discussione la buona fede dei soggetti che hanno acquistato immobili poi rivelatisi in tutto o in parte abusivi.
Richiamata la sentenza che ha definito il giudizio di ottemperanza, parte ricorrente osserva che Roma Capitale si è limitata ad archiviare il procedimento di annullamento delle denunce d’inizio attività, per cui si è resa necessaria la nomina di un commissario ad acta, designato dal prefetto di Roma.
L’amministrazione capitolina ha proposto appello al Consiglio di Stato che però, con la sentenza numero 8243 del 2019, ha respinto l’appello, confermando la sentenza del Tar del Lazio.
Successivamente il Tar del Lazio, con la sentenza numero 13.632 del 2021, ha fornito chiarimenti al commissario ad acta, ritenendo che la definizione delle pratiche di condono edilizio in senso favorevole ai ricorrenti possa consentire quel consolidamento del bene della vita riconosciuto meritevole di tutela dalle sentenze passate in giudicato. Ulteriori chiarimenti sono stati forniti dal Tar al commissario ad acta con ordinanza numero 10.330 del 2023, ritenendo subordinato il rilascio del titolo edilizio di sanatoria al pagamento dell’oblazione e degli oneri concessori da parte dei proprietari degli immobili, senza che ciò possa precludere a parte ricorrente l’esercizio di eventuali azioni risarcitorie, di rivalsa e finanche di ripetizione dell’indebito nei confronti di Roma Capitale.
Sulla base di ciò, parte ricorrente chiede il rinvio della decisione della causa, in attesa che il commissario ad acta completi le attività e possa essere determinato il danno risarcibile. Inoltre sono ancora pendenti e non ancora fissati altri giudizi risarcitori (numero 7390, numero 11.026, numero 11.210, numero 11.200, numero 11.029, tutti proposti nel 2017).
Nella precisazione delle conclusioni, parte ricorrente modifica l’allegazione del danno, non essendo più equivalente al valore dell’immobile, precedentemente qualificato come abusivo. Il danno consisterebbe nella permanenza nel tempo dello stato abusivo dell’immobile, che avrebbe determinato l’impossibilità di commercializzare il bene, nonché di accedere ai benefici dei vari bonus in materia edilizia, con conseguente deprezzamento dell’appartamento. Tale danno sarebbe liquidabile in via equitativa, nella metà dell’importo di valore dell’immobile. Andrebbero quindi risarcite le spese per la redazione della relazione asseverata, le spese per la difesa innanzi al Tar del Lazio nei giudizi che hanno condotto alla sentenza di annullamento, le spese per gli onorari del consulente tecnico di parte nominato nel procedimento di verificazione disposto al Tar del Lazio, oneri richiesti dal commissario ad acta per l’accoglimento dell’istanza di condono, suscettibili di essere oggetto di azioni risarcitorie e restitutorie, come ritenuto dal Tar del Lazio. Parte ricorrente insiste inoltre nella richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale e psicologica nonché nel peggioramento della qualità della vita in ambito familiare e relazionale. A titolo accessorio viene chiesta la rivalutazione monetaria con interessi compensativi.
Roma Capitale replica eccependo l’inammissibilità di fatti introdotti nella memoria di controparte depositata il 18 dicembre 2023, per violazione del termine a difesa e non accetta il contraddittorio su di essi. Eccepisce la inammissibilità della integrazione della domanda risarcitoria, recante elementi nuovi, formulata soltanto con la memoria conclusionale. La Capitale si oppone anche all’istanza di rinvio.
Nella replica del 29 dicembre 2023 la difesa della ricorrente deduce la responsabilità risarcitoria dalle sentenze del Tar del Lazio, passate in giudicato, che hanno accertato la colpa dell’amministrazione. Replicando alle eccezioni di controparte, respinge l’eccezione sulla genericità della domanda, quella di prescrizione, richiamando l’articolo 30, comma 5, del codice processuale per cui, nel caso di azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o comunque sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. Respinge l’ipotesi del concorso del creditore nel danno e quella della responsabilità concorrente del notaio. Richiama l’articolo 167, comma 2, del codice di procedura civile a norma del quale il convenuto, nella comparsa di risposta: “A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio”. Osserva la ricorrente che l’eccezione di inammissibilità del mero “aggiornamento” delle poste di danno ad opera della parte ricorrente non avrebbe pregio, siccome tale aggiornamento è avvenuto con lo strumento della memoria notificata volto a salvaguardare il pieno ed effettivo contraddittorio, andrebbe infatti rilevato che il tempo trascorso dalla proposizione della domanda, nell’ormai lontano 2017, rispetto alle sopravvenienze di fatto occorse rende, imprescindibile siffatto aggiornamento al fine di adeguare la domanda medesima alle predette sopravvenienze. La giurisprudenza amministrativa, comunque, consentirebbe la proposizione della domanda risarcitoria nel corso di un giudizio già instaurato e ammetterebbe anche la possibilità di precisare la domanda risarcitoria originariamente proposta mediante la memoria notificata.
Il ricorso è trattato all’udienza straordinaria del 19 gennaio 2024, ove il Presidente del Collegio giudicante, ritenendo la causa matura per la decisione, respinge l’istanza di rinvio.
DIRITTO
Preliminarmente devono essere esaminate le eccezioni di rito proposte dalla difesa di Roma Capitale.
L’amministrazione resistente eccepisce innanzitutto l’inammissibilità della domanda risarcitoria per genericità. Parte ricorrente non avrebbe prospettato la domanda in termini di responsabilità da provvedimento amministrativo illegittimo ovvero in termini di responsabilità da comportamento illecito. Ciò non consentirebbe alla parte resistente di difendersi, perché il riferimento generico alle sentenze del tribunale amministrativo regionale non farebbe comprendere se la fonte di responsabilità sia da ricondurre a specifici provvedimenti amministrativi illegittimi oppure se la ricorrente intenda ricollegare la responsabilità amministrativa ad una pretesa condotta illecita, non meglio specificata.
L’eccezione è infondata.
Si deve premettere, al riguardo, che la responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione è qualificata dal codice del processo amministrativo come responsabilità da fatto illecito.
L’articolo 30 del codice del processo amministrativo conferisce tutela risarcitoria al danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.
Il fatto illecito fonte di responsabilità, quindi, può essere identificato in una condotta tanto positiva quanto omissiva della pubblica amministrazione.
In astratto entrambe le condotte possono coesistere, non potendosi escludere che un evento dannoso ingiusto sia determinato da una colpevole condotta omissiva della pubblica amministrazione accompagnata dalla adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi.
Nella fattispecie concreta, parte ricorrente ha dedotto in giudizio, come fonte di responsabilità risarcitoria, proprio una condotta complessa articolata in termini di provvedimenti amministrativi illegittimi e comportamenti colpevolmente omissivi.
Nel ricorso, a fondamento della propria pretesa, parte ricorrente allega un comportamento omissivo dell’amministrazione comunale che non avrebbe esercitato i poteri doverosi di vigilanza edilizia nei confronti di un complesso immobiliare abusivo in costruzione, in tal modo ingenerando l’affidamento di parte ricorrente, non responsabile della costruzione abusiva, nella commerciabilità degli appartamenti messi in vendita.
Tale condotta omissiva sarebbe stata accompagnata da una serie di provvedimenti amministrativi illegittimi, adottati nei confronti dei ricorrenti non responsabili della costruzione abusiva, provvedimenti consistenti, di volta in volta, nel diniego di condono edilizio ovvero nella reiezione di denunce d’inizio attività a suo tempo presentate, culminanti negli ordini di demolizione delle abitazioni di proprietà dei ricorrenti.
Prescindendo, per il momento, dalla fondatezza della domanda risarcitoria, si deve escludere la inammissibilità della stessa per genericità, essendo stata chiarita nel ricorso, nei termini sopra descritti, la pretesa causa di responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione.
Altra questione preliminare sollevata dalla difesa comunale è quella della prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
Ad avviso dell’amministrazione resistente, dovendo ricondursi la pretesa risarcitoria ad una condotta della pubblica amministrazione, essendo cessata tale condotta omissiva almeno dal 2012, quando sono stati esercitati i poteri di repressione dell’attività edilizia abusiva ed essendo stato proposto il ricorso soltanto mediante notifica dello stesso nel luglio 2017, il diritto al risarcimento sarebbe prescritto, per scadenza del termine quinquennale entro il quale può essere esercitata l’azione di responsabilità da fatto illecito.
Anche l’eccezione sulla prescrizione è infondata.
Si è già ricostruita l’articolazione della pretesa risarcitoria in termini di una condotta omissiva accompagnata dall’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi.
Questi ultimi sono i provvedimenti, con particolare riferimento agli ordini di demolizione, che hanno concretamente inciso sfavorevolmente nella sfera giuridica dei destinatari.
Tali provvedimenti sono stati tempestivamente impugnati dagli interessati con ricorsi a questo tribunale amministrativo regionale e sono stati annullati con le sentenze di accoglimento di questi ricorsi, tra cui quello presentato dall’attuale parte ricorrente.
Il codice del processo amministrativo, all’articolo 30, comma 5, dispone che nel caso in cui, come nella fattispecie, sia stata proposta azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o comunque sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.
Il codice di rito, quindi, consente, qualora sia stata tempestivamente impugnata la determinazione finale lesiva della pubblica amministrazione, di chiedere il risarcimento del danno entro il termine di 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo.
Parte ricorrente si è vista accogliere il ricorso contro la determinazione di rigetto delle denunce d’inizio attività e contro l’ordine di demolizione degli immobili con sentenza numero 12.891 del 30 dicembre 2016, notificata il 17 gennaio 2017 e passata in giudicato il 18 marzo 2017, per inutile decorrenza del termine di impugnazione
Avendo notificato il ricorso per il risarcimento del danno in data 13 luglio 2017, essa ha esercitato l’azione risarcitoria entro il termine di decadenza fissato dal codice del processo amministrativo in 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.
Ne consegue che la domanda risarcitoria è stata proposta tempestivamente e la eccezione di prescrizione deve essere respinta.
Ancora, sempre in via preliminare, il Collegio ritiene di non poter accogliere l’eccezione di inammissibilità della domanda nuova formulata da parte ricorrente con la prima delle memorie ex art. 73 c.p.a. notificata il 18.12.2023, atteso l’indirizzo interpretativo secondo il quale, se è vero che non è ammissibile la domanda di risarcimento formulata per la prima volta con memoria non notificata, deve invece ritenersi consentito al ricorrente modificare la propria domanda, adeguandola alle circostanze sopravvenute in corso di causa, purché con atto ritualmente notificato alla controparte (cfr. T.A.R. Umbria, n. 70 del 12.2.2020: T.A.R. Emilia Romagna – Bologna, sez. I. n, 498 del 28.7.2020).
Ciò premesso, può passarsi ora alla trattazione nel merito della domanda risarcitoria ritualmente avanzata dalla parte ricorrente, distinguendo i pregiudizi di natura patrimoniale dei quali viene chiesto il ristoro da quelli attinenti al sacrificio di valori non economicamente valutabili.
In relazione ai primi, parte ricorrente dapprima, in sede di gravame introduttivo, aveva lamentato la perdita del valore commerciale del bene a seguito dell’adozione di provvedimenti di disciplina edilizia ritenuti illegittimi e, in quanto tali, annullati da questo Tribunale con la più volte richiamata sentenza avente autorità di cosa giudicata (pregiudizio quantificato in Euro 234.708,75, come da perizia di parte allegata in atti).
Con la memoria defensionale del 18.12.2023, tale pretesa veniva ‘ridimensionata’ nella minor somma di Euro 117.354,37, pari alla metà del valore commerciale del bene stimato nella perizia redatta dal tecnico di fiducia della parte ricorrente e corrispondente, in termini equitativi, al pregiudizio patito per la lesione del proprio pacifico ed indisturbato diritto di godimento dell’immobile di proprietà.
In proposito, il Collegio ritiene che il lamentato danno non sussiste e che pertanto, in riferimento a tale domanda, il ricorso non possa trovare accoglimento.
Invero, la disciplina dell’azione risarcitoria esperibile dinanzi al giudice amministrativo contenuta nell’art. 30 c.p.a. sancisce, come affermato anche da un costante indirizzo interpretativo, avviato a partire dalla pronuncia n. 3/2011 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, il conseguimento di un rapporto di autonomia tra il tradizionale rimedio caducatorio disciplinato dall’art. 29 c.p.a. e l’azione volta al ristoro per equivalente dei pregiudizi subiti dall’esercizio illegittimo dell’azione amministrativa, relazione di autonomia che non si sostanzia, però, in una completa separazione tra i due rimedi i quali, viceversa, si integrano a vicenda pervenendo ad un coordinamento sostanziale delle due forme di tutela caducatoria e risarcitoria.
Ne consegue, quindi, che il tempestivo esperimento dell’azione di annullamento del provvedimento illegittimo ritenuto lesivo costituisce un comportamento che l’ordinamento, ai sensi dell’art. 1227, comma secondo, c.c., impone quale doveroso al soggetto il quale si ritenga pregiudicato dall’azione amministrativa.
Ma, d’altro canto, è pur vero che la proposizione della domanda di annullamento del provvedimento amministrativo è strumento che, ove esercitato con successo, consente, talvolta, di pervenire all’integrale riparazione dei pregiudizi patiti per effetto di una condotta illecita serbata dalla p.a. nell’esercizio delle proprie potestà autoritative.
In altri termini, il positivo esperimento dell’azione di impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 29 c.p.a. è strumento che consente, da solo, l’integrale soddisfacimento dell’interesse legittimo vantato dal privato alla stregua di una reintegrazione in forma specifica del pregiudizio patito ai sensi dell’art. 2058 c.c. che esclude, quindi, il ristoro per equivalente monetario della medesima lesione.
Nel caso di specie, la tempestiva proposizione, con esito favorevole al ricorrente, dell’azione di annullamento dei provvedimenti dichiarativi di inefficacia delle DD.I.A. aventi ad oggetto l’immobile di parte ricorrente e dell’ordine di demolizione del medesimo ha del tutto soddisfatto la pretesa della parte ricorrente a preservare l’esistenza materiale e la legittimità giuridica della propria abitazione, cosicché non residua spazio alcuno, ad oggi, né per il ristoro per equivalente del valore monetario del bene né per il risarcimento del mancato godimento dell’immobile, essendo stati tali pregiudizi evitati per mezzo dell’accoglimento della domanda di annullamento dei provvedimenti lesivi da essa tempestivamente azionata dinanzi a questo Tribunale.
Pertanto, ad oggi, non è consentito alla parte ricorrente dolersi di una perdita (quale quella della propria abitazione o del pacifico ed indisturbato godimento della medesima) che la medesima non ha subito proprio per effetto della pronuncia con cui questo T.A.R. ha accolto la domanda caducatoria dei provvedimenti emanati in suo danno.
Sicché, non sussistendo un danno da ristorare, la relativa domanda non può essere accolta per assenza di uno degli elementi costitutivi dell’illecito civile delineati dall’art. 2043 c.c. (nella specie, rappresentato dall’elemento oggettivo del “danno ingiusto”).
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per le restanti voci di danno patrimoniale.
In particolare, non ristorabili sono le spese sostenute per l’acquisto dell’immobile in questione (dal rogito notarile al contratto di finanziamento stipulato per l’acquisto del medesimo, nonché alle DD.I.A. presentate dalla ricorrente e agli interessi passivi versati quale corrispettivo del mutuo erogato per l’acquisto dell’abitazione), trattandosi di spese sostenute per l’acquisizione di un bene la cui materiale distruzione e la cui perdurante condizione di abusività hanno trovato rimedio in forma specifica mercé l’accoglimento dei ricorsi proposti avverso la declaratoria di inefficacia delle DD.I.A. e l’ordine di demolizione del medesimo.
Analoga sorte devono trovare le spese sostenute per la difesa della parte ricorrente in relazione agli aspetti penali della vicenda, trattandosi di una perdita economica non causalmente riconducibile alla condotta serbata da Roma Capitale la quale inerisce, piuttosto, all’esercizio della funzione di vigilanza sul regolare assetto del territorio alla quale è estranea la valutazione in ordine alla sussistenza delle eventuali fattispecie di reato previste dal d.P.R. n. 380/2001, la cui valutazione è rimessa, semmai, alla potestà del giudice penale ordinariamente competente.
Né tantomeno può trovare accoglimento la domanda di risarcimento delle somme corrisposte ai legali ed ai consulenti tecnici di fiducia della parte ricorrente in relazione al ricorso proposto dinanzi a questo Tribunale per l’annullamento dei provvedimenti pregiudizievoli per gli interessi del ricorrente. In proposito, infatti, deve convenirsi con Roma Capitale nell’osservare come la sentenza del TAR del Lazio, con cui venivano definiti i contenziosi di cui trattasi, abbia espressamente disposto la compensazione tra le parti delle relative spese di lite, sicché non può trovare accoglimento in questa sede una pretesa all’integrale rifusione delle medesime che già aveva formato oggetto di decisione di compensazione assunta con pronuncia passata in giudicato.
Inoltre, neppure può essere accordato il ristoro delle voci di danno riconnesse, da un punto di vista materiale, alla mancata fruibilità dei bonus edilizi previsti dal d.l. n. 34/2020 e ss.mm.ii. trattandosi di pregiudizi del tutto ipotetici, giacché non risulta certo che il ricorrente, ove la conformità edilizia dell’immobile in questione non fosse stata mai revocata in dubbio, avrebbe comunque chiesto di fruire delle anzidette agevolazioni e men che mai è possibile stabilire se esse sarebbero state accordate.
Infine, ad analoga conclusione deve pervenirsi con riguardo alla richiesta di risarcimento delle somme dovute per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria, per come quantificate dal commissario ad acta. In proposito, infatti, per quanto l’attività di vigilanza edilizio-urbanistica posta in essere da Roma Capitale sia stata dichiarata illegittima con sentenza passata in giudicato, resta comunque indiscutibile il carattere abusivo dell’immobile di proprietà del ricorrente, per ovviare al quale, su impulso di questo Tribunale, l’ausiliario giudiziale ha ritenuto di dover rilasciare in sanatoria un titolo edilizio, l’emanazione del quale rimane comunque subordinata al puntuale pagamento degli oneri previsti dalla legge.
Appare evidente, quindi, che il pregiudizio economico di cui parte ricorrente si duole non sia causalmente riconducibile all’operato illegittimo di Roma Capitale quanto, piuttosto, all’adempimento di un’obbligazione di fonte legale di cui non è consentito ad essa dolersi in questa sede.
In definitiva, quindi, nessun pregiudizio di carattere patrimoniale merita, ad avviso del Collegio, di trovare ristoro, sicché la relativa domanda va, in parte qua, respinta.
Parte ricorrente chiede anche il risarcimento del danno non patrimoniale, consistente nel grave stato di sofferenza morale e psicologica che la vicenda ha causato alla stessa, nonché nel conseguente peggioramento della qualità della vita, anche in ambito familiare e relazionale.
A giudizio del Collegio, la domanda è fondata.
Si deve premettere, in linea di principio, che (Cons. Stato, Sez. IV, 27/06/2023, n. 6272) in materia di risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili deve trattarsi di ipotesi in cui il diritto è inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.
Nel caso concreto, si ritiene che la lesione del diritto fondamentale alla qualità e alla serenità della vita domestica è stata turbata dall’attività amministrativa illegittima che, incidendo sul diritto alla casa di proprietà, costituente elemento centrale sul piano psicologico ed esistenziale, ha determinato un danno-conseguenza provabile dalla parte ricorrente anche per presunzioni.
Si deve presumere, infatti, in assenza di prova contraria, che l’ordine di demolizione della propria casa determina un grave turbamento psicologico tale da mettere in pericolo la stessa salute psichica della persona.
Come ritenuto dalla Corte di Cassazione, con riferimento a diversa, ma analoga fattispecie astratta (Cass. civ., Sez. III, 12/10/2021, n. 27682) la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali coincide con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l'assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa e probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa.
Si ritiene che l’incertezza assoluta sulla possibilità di godere della propria abitazione abbia impedito alla parte ricorrente di determinarsi liberamente nella scelta del proprio percorso esistenziale, in tal modo giustificando la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale.
Al riguardo, accertata l’ingiustizia del danno non patrimoniale subito, si deve ritenere che sussistono tutti gli altri elementi costitutivi della responsabilità della pubblica amministrazione, ravvisabili nella condotta illecita, coincidente con l’omessa vigilanza urbanistico-edilizia sulla costruzione del complesso abitativo prima che parte ricorrente acquistasse regolarmente un appartamento, seguita dall’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, tutti annullati dalla giustizia amministrativa con sentenze passate in giudicato, nella colpa della pubblica amministrazione, intesa come elemento soggettivo, avendo l’amministrazione comunale ignorato il giudicato amministrativo, persistendo nella condotta illecita, fino a risultare soccombente nel giudizio di ottemperanza, concluso con la nomina di un commissario ad acta, non essendo stata eseguita dall’amministrazione comunale neppure la sentenza di ottemperanza, nonché dal nesso di causalità, essendo stato dimostrato dalla parte ricorrente che il danno non patrimoniale patito è stato la diretta conseguenza della condotta amministrativa illecita, determinante persistente incertezza sulla possibilità di continuare a possedere la casa acquistata direttamente dai costruttori.
Nel caso di specie, deve trovare applicazione il condivisibile orientamento della giurisprudenza (Cass. civ., Sez. III, Ordinanza 20/07/2023, n. 21630) per cui il ricorso alle presunzioni per accertare in concreto e non in astratto la ricorrenza del danno morale è direttamente proporzionale alla entità ed al tipo di lesioni, attesa la ragionevole e intuibile idoneità di fatti lesivi di significativa ed elevata gravità a provocare forme di sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento dalla compresenza di un danno morale, secondo un criterio di normalità e sempre salva la prova contraria.
Il canone della normalità giustifica la presunzione, nel caso concreto, della lesione alla sfera esistenziale della parte ricorrente determinata dal persistente contegno repressivo adottato dall’amministrazione comunale.
Il danno non patrimoniale deve essere liquidato in una somma che il Collegio ritiene congruo quantificare in euro 2000,00 per ogni anno successivo all’adozione del primo provvedimento illegittimo annullato con la sentenza di legittimità, fino alla data di pubblicazione della presente sentenza.
Su tale somma non è applicabile la rivalutazione monetaria, dovendosi escludere l’applicazione della disciplina sui debiti di valore ad un danno liquidato in via del tutto equitativa.
Sono invece dovuti gli interessi compensativi, al tasso legale, da applicare, anno per anno, alle somme maturate, fino al pagamento delle stesse.
Il ricorso, in conclusione, deve essere parzialmente accolto, con la condanna della pubblica amministrazione resistente al risarcimento del danno non patrimoniale.
Le spese processuali sostenute dalla parte ricorrente devono essere poste a carico dell’amministrazione resistente, come liquidate in dispositivo, in una misura che tiene conto della soccombenza solo parziale della pubblica amministrazione e della serialità dei ricorsi proposti da una pluralità di parti per la stessa vicenda contenziosa.