TAR Roma, sez. III, sentenza 2016-06-07, n. 201606544

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. III, sentenza 2016-06-07, n. 201606544
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201606544
Data del deposito : 7 giugno 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10853/2015 REG.RIC.

N. 06544/2016 REG.PROV.COLL.

N. 10853/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10853 del 2015, proposto da:
Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari Finanziari Postali Assicurativi (Adusbef) e Federazione Nazionale di Consumatori e Utenti (Federconsumatori) in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore e dai signori G B, F B, E B, A C, C F, S L, P M, L M, E P, G O, A E A S, M R V, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati L G e F T, con domicilio eletto presso lo Studio Legale Tedeschini in Roma, largo Messico, 7, come da procure in calce ed a margine del ricorso;

contro

Banca d'Italia in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Marino Ottavio Perassi, Donatella La Licata e Michele Cossa, domiciliata in Roma, Via Nazionale, 91, nell’Avvocatura della Banca d’Italia;
Ministero dell'Economia e delle Finanze in persona del Ministro pro tempore e Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato e presso la medesima domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Soc Veneto Banca Società Cooperativa per Azioni, Soc Banca Popolare di Venezia Società Cooperativa per Azioni, Soc Unione di Banche Italiane - Ubi Banca Società Cooperativa per Azioni, Soc Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio in Amministrazione Straordinaria, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituite in giudizio;
Banca Popolare di Vicenza Soc. Coop. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Elefante, Stefano Cacchi Pessani, Mariangela Di Giandomenico, Gianpiero Succi, con domicilio eletto presso lo studio Bonelli Erede Pappalardo in Roma, Via Salaria, 259, come da procura a margine dell’atto di costituzione in giudizio;

e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Codacons in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Carlo Rienzi e Gino Giuliano, con domicilio eletto presso il primo in Roma, viale G. Mazzini, 73, come da procura in atti;

per l'annullamento

- del 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”);

- delle “Disposizioni di vigilanza – Banche popolari” del 9 aprile 2015, che disciplinano:

a) le modalità di calcolo della soglia “sensibile” pari a 8 miliardi di euro di capitale sociale, da computare secondo le segnalazioni di vigilanza individuali o consolidate;

b) il rimborso degli strumenti di capitale al socio che ha esercitato il recesso dalla società dopo la trasformazione della Popolare in s.p.a., che può essere limitato “anche in deroga a disposizioni di legge”, affermando che detta facoltà deve essere contemplata nello statuto della banca ed è attribuita all’organo di gestione, fermi i poteri autorizzativi dell’autorità di vigilanza rispetto al rimborso di fondi propri ai sensi dell’art. 77 CRR (ossia del Regolamento UE/575/2013 del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il Regolamento UE/648/2012);

- del capitolo IV delle “Disposizioni di vigilanza per le banche” nella parte in cui disciplina le “Banche in forma cooperativa”;

- del resoconto della consultazione, pubblicato in data 11 giugno 2015;

- del documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni resistenti e di Banca Popolare di Vicenza Soc. Coop.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2016 il consigliere A S e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

1. – Con ricorso spedito per notifica l’8 settembre 2015, notificato il successivo giorno 11 e depositato il 22 settembre 2015, ADUSBEF (Associazione difesa utenti servizi bancari finanziari postali assicurativi) e FEDERCONSUMATORI (Associazione nazionale consumatori e utenti), nonché alcuni soci della Banca Popolare di Milano, hanno impugnato, chiedendone l’annullamento previa sospensione cautelare, gli atti emessi dalla Banca d’Italia a seguito delle modificazioni apportate al Testo Unico Bancario (TUB, d.lgs. n. 385 del 1993) in materia di disciplina delle banche popolari dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, convertito con modificazioni nella legge n. 33 del 2015.

2. - Le due associazioni ricorrenti, in particolare, premettono di rientrare nel novero delle associazioni di rilevanza nazionale ai sensi dell’art. 137 e seguenti del Codice del consumo (d. lgs. n. 206 del 2005), e di perseguire, secondo i rispettivi statuti, la difesa dei diritti individuali e collettivi “dei consumatori e degli utenti dei servizi bancari, creditizi, assicurativi e postali” (quanto ad ADSBEF) e “la difesa degli interessi economici e patrimoniali, la tutela del risparmio, il diritto alla correttezza, trasparenza ed equità nella costituzione e nello svolgimento dei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi con particolare riguardo ai servizi finanziari e creditizi” (quanto a FEDERCONSUMATORI).

3. – I passi salienti della riforma delle Banche popolari introdotta dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, per quanto qui interessa, possono essere indicati come segue:

“1. Al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 28, dopo il comma 2-bis, è aggiunto il seguente:

«2-ter. Nelle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d'Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d'Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.»;

b) all'articolo 29:

1) dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti:

«2-bis. L'attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro. Se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato.

2-ter. In caso di superamento del limite di cui al comma 2-bis, l'organo di amministrazione convoca l'assemblea per le determinazioni del caso. Se entro un anno dal superamento del limite l'attivo non è stato ridotto al di sotto della soglia né è stata deliberata la trasformazione in società per azioni ai sensi dell'articolo 31 o la liquidazione, la Banca d'Italia, tenuto conto delle circostanze e dell'entità del superamento, può adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni ai sensi dell'articolo 78, o i provvedimenti previsti nel titolo IV, capo I, sezione I, o proporre alla Banca centrale europea la revoca dell'autorizzazione all'attività bancaria e al Ministro dell'economia e delle finanze la liquidazione coatta amministrativa. Restano fermi i poteri di intervento e sanzionatori attribuiti alla Banca d'Italia dal presente decreto legislativo.

2-quater. La Banca d'Italia detta disposizioni di attuazione del presente articolo.»

(Omissis)

2. In sede di prima applicazione del presente decreto, le banche popolari autorizzate al momento della relativa entrata in vigore si adeguano a quanto stabilito ai sensi dell'articolo 29, commi 2-bis e 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, introdotti dal presente articolo, entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d'Italia ai sensi del medesimo articolo 29. (Omissis).

2. – Gli atti impugnati derivano dall’esercizio del potere attuativo attribuito alla Banca d’Italia dal comma 2-quater del nuovo art. 29 del TUB, e sono, in particolare:

- il 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”);

- le “Disposizioni di vigilanza – Banche popolari” del 9 aprile 2015, che disciplinano:

a) le modalità di calcolo della soglia “sensibile” pari a 8 miliardi di euro di capitale sociale, da computare secondo le segnalazioni di vigilanza individuali o consolidate;

b) il rimborso degli strumenti di capitale al socio che ha esercitato il recesso dalla società dopo la trasformazione della Popolare in s.p.a., che può essere limitato “anche in deroga a disposizioni di legge”, affermando che detta facoltà deve essere contemplata nello statuto della banca ed è attribuita all’organo di gestione, fermi i poteri autorizzativi dell’autorità di vigilanza rispetto al rimborso di fondi propri ai sensi dell’art. 77 CRR (ossia del Regolamento UE/575/2013 del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il Regolamento UE/648/2012);

- il capitolo IV delle “Disposizioni di vigilanza per le banche” nella parte in cui disciplina le “Banche in forma cooperativa”;

- il resoconto della consultazione, pubblicato in data 11 giugno 2015;

- il documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.

3. – I ricorrenti impugnano gli atti in questione assumendo che essi sarebbero affetti da illegittimità derivata a causa della illegittimità costituzionale delle norme di rango legislativo su richiamate, ed a questo fine svolgono i seguenti motivi di ricorso:

1) “Violazione di legge – Violazione e falsa applicazione degli articoli 4 e ss. del Regolamento del 24 marzo 2010 recante la disciplina dell’adozione degli atti di natura normativa o di contenuto generale della Banca d’Italia nell’esercizio delle funzioni di vigilanza bancaria o finanziaria ai sensi dell’art. 23 della legge 28 dicembre 2005, n. 262. Violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della legge 7 agosto 1990 n. 241. Eccesso di potere nelle figure sintomatiche del difetto di istruttoria, difetto dei presupposti, sviamento, manifesta ingiustizia”.

La Banca d’Italia avrebbe violato le garanzie partecipative delle Associazioni ricorrenti, rientranti del novero di quelle contemplate nell’art. 137 del Codice del consumo, in quanto non avrebbe dato notizia alle medesime della pubblicazione sul proprio sito internet del documento che illustrava le ipotesi di regolamentazione derivante dall’art. 1 del D.L. n. 3 del 2015 (e da cui è poi scaturito l’impugnato Aggiornamento n. 9), come previsto dall’art. 4 del Regolamento 24 marzo 2010 della stessa Autorità di vigilanza.

2) “Illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legge 24 gennaio 2015 n. 3, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2015 n. 33 – Violazione dell’art. 77 della Costituzione Carenza dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza, contraddittorietà, carenza di proporzionalità – Domanda pregiudiziale di rimessione alla Corte Costituzionale”.

Con il motivo in questione i ricorrenti chiedono che questo TAR sollevi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015.

Sussisterebbe nella specie la violazione dell’art. 77 Cost. per carenza dei presupposti di necessità ed urgenza del decreto legge, che sarebbe palesata dalla natura di riforma ordinamentale e di sistema della nuova normativa, nonché dal fatto che, contrariamente a quanto prescritto dall’art. 15 comma III L. n. 400 del 1988, la norma non conterrebbe disposizioni di immediata applicazione, prevedendo, invece, che l’adeguamento alla novella da parte delle banche interessate avvenga entro 18 mesi dall’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d’Italia, e che la conversione in legge non sanerebbe l’assenza dei requisiti previsti dall’art. 77.

3) “Illegittimità derivata dall’illegittimità dell’art. 1 del decreto legge 24 gennaio 2015 n. 3 convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2015 n. 33 per violazione dell’art. 127 paragrafo 4 e 282 paragrafo 5 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e degli articoli 2 e 4 della decisione del consiglio 98\415\CE – Violazione della procedura di consultazione della BCE”.

Le norme in rubrica sarebbe state violate perché, nell’occasione, sarebbe stata tardivamente avviata la fase di consultazione della Banca Centrale Europea su di un progetto di disposizioni legislative rientranti nelle competenze dell’organo comunitario.

4) “Illegittimità derivata dall’illegittimità dell’art. 1 del decreto legge 24 gennaio 2015 n. 3 convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2015 n. 33 – Violazione degli articoli 42 e 117 della Costituzione in relazione all’art. 1 del I Protocollo addizionale CEDU – Violazione degli articoli 49, 54, 56, 63 e 173 del Trattato sull’Unione Europea – disparità di trattamento. Violazione del principio del legittimo affidamento – Domanda di rimessione alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia Europea per ulteriori profili”.

L’obbligo di trasformazione delle banche popolari in società per azioni in caso di superamento del capitale sociale di 8 miliardi di euro costituirebbe un indebito limite alla libertà d’impresa e una lesione dei diritti di consumatori ed utenti che usufruiscono dell’esercizio del credito da parte delle banche in forma cooperativa.

Egualmente incostituzionale sarebbe la previsione di un limite al rimborso delle azioni possedute dal socio che eserciti il diritto di recesso in caso di trasformazione della banca popolare in s.p.a. bancaria.

Ciò anche in relazione alla “delega in bianco”, che il nuovo art. 29 del TUB conferirebbe alla Banca d’Italia, con ulterioreviolazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che tutela il diritto di proprietà;
nonché violazione delle norme del TFUE indicate in rubrica, posto che la libertà di esercitare l’impresa bancaria in forma cooperativa viene limitata alla soglia degli 8 miliardi di euro di capitale sociale.

5) “Violazione di legge: violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.l. 24 gennaio 2015 n. 3, convertito in L. 24 marzo 2015 n. 33. Violazione dell’art. 150-bis comma II del TUB. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 2542 comma II del c.c. Eccesso di potere per disparità di trattamento, irragionevolezza, eccesso di delega”.

La Banca d’Italia avrebbe, infine, abdicato dal compito affidatole dal nuovo comma 2-ter dell’art. 29 TUB, che prevede, circa i limiti del diritto al rimborso per recesso, che essi siano stabiliti unicamente dall’Autorità di vigilanza;
mentre l’aggiornamento n. 9 alla circolare n. 285 del 2013 dell’Autorità di vigilanza prevede che tale potere sia deferito ai singoli istituti bancari.

Altra censura è appuntata sulla previsione della circolare per cui deve essere eliminata dagli statuti ogni clausola che prescrive che la maggioranza degli amministratori sia scelta tra i soci cooperatori o tra le persone da essi indicate.

Inoltre, sussisterebbe disparità di trattamento tra banche popolari e altre banche in forma cooperativa (banche di credito cooperativo), perché solo le prime sarebbero assoggettate alla riforma.

4. – I ricorrenti hanno chiesto la remissione delle questioni di costituzionalità e di compatibilità comunitaria sollevate con i motivi di impugnazione, rispettivamente, alla Corte Costituzionale ed alla Corte di Giustizia UE;
hanno altresì chiesto la sospensione cautelare degli atti impugnati, cui hanno peraltro rinunziato in vista della relativa camera di consiglio, fissata per il 7 ottobre 2015.

5. – Si sono costituite in giudizio, per esistere al ricorso, la Banca d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché e la Banca Popolare di Vicenza s.c.p.a., tutti intimati dai ricorrenti;
non si sono, invece, costituite in giudizio le pur intimate Veneto Banca s.c.p.a., Unione di Banche Italiane UBI Banca s.c.p.a. e Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio s.c. in amministrazione straordinaria.

6. – Con atto notificato il 29 dicembre 2015 e depositato il giorno successivo, ha proposto intervento in giudizio ad adiuvandum il Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori (CODACONS).

7. – Sia in prossimità della camera di consiglio fissata per la discussione dell’istanza cautelare del 7 ottobre 2015 (cui, peraltro, i ricorrenti hanno rinunziato), che in vista della pubblica udienza del ricorso nel merito, le parti costituite hanno depositato le memorie di rito.

6.1 - La difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MEF, nelle due memorie prodotte, ha eccepito l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandim del Codacons (in quanto la riforma, fortificando il sistema bancario italiano, apporterebbe vantaggi, e non pregiudizi, ai consumatori) e l’irrilevanza delle questioni di costituzionalità che i ricorrenti chiedono di sollevare, perché legate –secondo il dettato legislativo- a eventi non ancora verificatisi e solo eventuali.

Nel merito ha, poi, contrastato le questioni proposte di ricorrenti, affermando che la riforma sarebbe stata resa necessaria ed urgente, nella attuale temperie economica, dalla peculiare situazione “ibrida” in cui versavano le banche popolari (società solo formalmente a scopo mutualistico, ma non nella sostanza) e dai connessi profili di rigidità in punto di accesso alla compagine sociale, di contendibilità sul mercato, di ricambio della “governance”;
si tratterebbe, comunque, di misure consonanti con le raccomandazioni della Banca Centrale Europea (specie in punto di fissazione della soglia “sensibile” a 8 miliardi di euro) e tese, comunque, a trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza di razionalizzare il sistema bancario e quella di assicurare l’esercizio dell’attività creditizia in forma cooperativa.

6.2 - La Banca d’Italia ha eccepito, sia in vista della udienza cautelare che di quella di merito, l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione ad impugnare in capo alle Associazioni ricorrenti, nonché, su di un piano più generale –ossia per tutti i ricorrenti – per mancanza di immediata lesività dei provvedimenti impugnati in assenza di atti applicativi,di competenza degli istituti di credito interessati, in quantodetta lesività scaturirebbe direttamente dalla norma primaria applicata;
la medesima banca ha, inoltre, contestato la legittimazione del Codacons a proporre intervento ad adiuvandum.

Nel merito, sono state illustrate le ragioni delle scelte operate, legate all’esigenza di limitare il rimborso delle azioni in caso di recesso, derivante da trasformazione in s.p.a., nonché di attuare la normativa di riforma, al fine di rispettare la normativa comunitaria in materia di tutela del capitale di qualità primaria delle banche, ossia di quella parte di capitale che, per le sue caratteristiche di stabilità, flessibilità e pronta disponibilità, costituirebbe un essenziale strumento atto a fronteggiare le perdite;
allo stesso modo, è stataevidenziata l’incompatibilità delle caratteristiche proprie delle banche popolari, rispetto alla contendibilità dei rispettivi assetti proprietari sul mercato, con ulteriori puntuali contestazioni in ordine alla questione di costituzionalità, sollevata dai ricorrenti.

6.3 - La Banca Popolare di Vicenza non ha svolto difese scritte.

6.4. – I ricorrenti hanno depositato una memoria illustrativa dei motivi di gravame, nella quale hanno contrastato le eccezioni di rito delle resistenti ed hanno insistito per l’accoglimento del ricorso, mediato dalle questioni di legittimità costituzionale, come articolate nell’atto introduttivo.

6.5 - I ricorrenti e la Banca d’Italia hanno replicato con memoria alle avverse difese.

In occasione della pubblica udienza del 10 febbraio 2016 il ricorso è stato posto in decisione;
nel corso di tale udienza la difesa della Banca Popolare di Vicenza ha dichiarato di avere interesse alla pubblicazione anticipata del dispositivo rispetto alla sentenza, come consentito dall’art. 119 comma V del c.p.a.

Il dispositivo della decisione è stato pubblicato mediante deposito in segreteria in data 11 febbraio 2016.

DIRITTO

1. – Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile quanto all’impugnazione proposta da ADUSBEF e da Federconsumatori;
deve essere respinto quanto all’impugnazione proposta dai ricorrenti soci della Banca Popolare di Milano.

2. – E’ necessario premettere che la riforma della disciplina delle banche popolari da cui muovono i provvedimenti impugnati prende il posto di una normativa che –per quanto qui interessa – disegnava, schematicamente, il seguente quadro.

2.1 - A tenore del previgente art. 28 comma 1 del TUB, l'esercizio dell'attività bancaria da parte di società cooperative era riservato alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo.

La prima delle due categorie di istituti di credito appena citati doveva essere costituita, a tenore dell’art. 29 comma 1, in forma di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata, con valore nominale di ciascuna azione non superiore a due euro.

Regola qualificante del tipo societario in questione era data dal voto capitario (ossia secondo il principio “una testa un voto”, art. 30 comma 1), ma nessuno dei soci poteva detenere, direttamente o indirettamente, in base all'art. 30 comma 2, una quantità di azioni eccedente l'1% del capitale sociale;
peraltro, a quest’ultimo limite erano sottratti alcuni investitori istituzionali quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (art. 30 comma 3).

Altra regola qualificante era data dal c.d. principio della “porta aperta”, secondo il quale l'ingresso nella compagine sociale non comportava particolari qualifiche nell’aspirante socio, e, soprattutto, non comportava modifiche dell'atto costitutivo.

A tale principio si correlava il “principio del gradimento” degli amministratori rispetto agli aspiranti soci (art. 30 comma 5);
ma coloro ai quali detto gradimento fosse stato negato, potevano comunque acquisire lo status di semplice azionista, ossia di titolare dei soli diritti patrimoniali;
che, pertanto, si contrapponeva allo status di socio, ovvero di titolare sia dei diritti c.d. amministrativi che di quelli patrimoniali.

Ai sensi dell’art. 32 TUB, poi, solo il 10% degli utili netti annuali doveva necessariamente essere destinato a riserva, sicchè il restante 90% poteva costituire dividendo da distribuire ai soci.

D’altra parte, il TUB non conteneva disposizioni che imponessero alle banche in questione di operare esclusivamente o prevalentemente con i soci.

2.2 - La dottrina in materia ha più volte sottolineato come i tratti caratteristici delle banche popolari su richiamati abbiano comportato l’allontanamento dallo schema mutualistico, portando ad affermare che le banche popolari, come configurate dalla previgente versione del TUB, avevano la forma, ma non la sostanza, di cooperative.

In particolare, poi, la possibilità che investitori istituzionali (quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari) non fossero soggetti al limite alla detenzione di azioni che colpiva gli altri soci, delineava chiaramente un modello di cooperativa nella quale si assisteva –specie per le grandi banche popolari quotate in borsa- ad un sensibile indebolimento dello scopo mutualistico;
poiché è del tutto evidente che un soggetto interessato ad effettuare nella banca popolare un investimento di capitale non è, di regola, invece interessato a che i soci ricevano i vantaggi mutualistici che deriverebbero loro dalla partecipazione al capitale sociale.

2.3 – Inoltre, le caratteristiche,sopra delineate,delle società in questione comportavano determinanti influenze sui meccanismi di formazione della compagine degli amministratori: tramite il sistema del voto capitario, infatti, a determinare la volontà sociale in sede di elezione dei medesimi era il numero dei soci, e non la consistenza della quota di capitale da essi detenuta: ragione per cui gli amministratori potevano non essere espressione dei soggetti titolari della parte più consistente del capitale, ossia degli investitori istituzionali.

Gli amministratori d’altra parte, come detto, possedevano il potere di veto nei confronti dell’ammissione alla qualità di socio, ovvero, in definitiva, il potere di scegliere di propri elettori;
e, così –come pure osservato in dottrina – di autoperpetuarsi.

2.4. – In relazione al fine ultimo della partecipazione al capitale sociale, quindi, la dottrina in materia ha addirittura enucleato quattro categorie di soci delle banche popolari, ciascuna connotata da un interesse differente da quello proprio delle altre categorie, ovvero: soci – clienti, che ambiscono ad ottenere condizioni più vantaggiose nella fruizione dei servizi bancari;
soci – investitori, che, invece, sono interessati alla sola percezione del dividendo ed a realizzare il c.d. capital gain;
soci – amministratori, interessati alla rielezione nella carica;
soci – dipendenti, che, invece, sono gli unici ad essere interessati a spuntare condizioni salariali e lavorative sempre migliori.

3. – La rapida disamina della previgente disciplina delle banche popolari e dei suoi effetti più rilevanti si rivela utile, anzitutto, per dare conto del difetto di legittimazione all’impugnazione delle ricorrenti Associazioni ADUSBEF e da Federconsumatori.

3.1 - Come si è premesso, infatti, questi due soggetti affermano di agire in giudizio ai sensi dell’art. 139 del Codice del consumo, per cui le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti.

In particolare, essi dichiarano di perseguire, secondo i rispettivi statuti, la difesa dei diritti individuali e collettivi “dei consumatori e degli utenti dei servizi bancari, creditizi, assicurativi e postali” (così ADSBEF) e “la difesa degli interessi economici e patrimoniali, la tutela del risparmio, il diritto alla correttezza, trasparenza ed equità nella costituzione e nello svolgimento dei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi con particolare riguardo ai servizi finanziari e creditizi” (così FEDERCONSUMATORI).

3.2 – Il difetto di legittimazione delle due Associazioni citate al presente ricorso emerge sotto due distinti profili.

3.2.1. – Sotto un primo e più immediato profilo di diritto positivo, è sufficiente rilevare come la circostanza che l’unico interesse in comune tra le su enumerate e differenti categorie di soci delle banche popolari “ante-riforma” (che è lo status quo ante al cui ripristino mira, in ultima analisi, l’impugnazione in esame) è quello alla percezione dell’utile sotto forma di dividendo, vale, da solo, a privare della titolarità all’impugnazione ciascuna di dette categorie.

Ed invero, posto che la percezione dell’utile in questione costituisce il frutto di una attività imprenditoriale –quale è quella delle banche popolari, nelle quali lo scopo mutualistico ha oramai assunto solo un valore formale – osta alla legittimazione delle associazioni in questione l’art. 3 comma 1 del Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005), che definisce come consumatore o utente proprio “la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale”.

Ed invero, avuto riguardo alla corrente definizione dottrinale del vantaggio mutualistico, ossia la messa a disposizione dei soci di occasioni di lavoro o di possibilità di acquisto o di utilizzazione di beni o di servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle praticate sul mercato, emerge chiaramente il contrasto di tale scopo con le su richiamate disposizioni ante riforma del TUB –prima fra tutte la possibilità che determinati soci non soffrano dei medesimi limiti di altri alla detenzione di quote del capitale sociale, e alla possibilità che le banche popolari siano quotate in borsa – che marcano nettamente il profilo di tali imprese come lucrative (nella sostanza), in contrasto con la forma di cooperative.

E’ stato affermato, infatti, che la partecipazione al capitale delle banche popolari veniva considerata dal legislatore “ante-riforma” come un vero e proprio investimento capitalistico, seppure nell’ambito di un'organizzazione democratica: il che comporta che tutti i soci –e non solo gli investitori istituzionali–potevano essere considerati meri investitori di capitali, vale a dire autori di una forma di investimento della ricchezza tesa ad ottenere un lucro, e non già al perseguimento del fine mutualistico.

Ciò era confermato dall’art. 30 del TUB, che conferiva la possibilità a coloro che avessero subito il veto degli amministratori al loro ingresso nella compagine sociale la possibilità di esercitare i soli diritti patrimoniali incorporati nelle azioni acquistate e detenute.

Tanto detto, occorre rammentare che questo TAR (sentenza sez. II 3 giugno 2010 n. 15013 ), ha già avuto modo di affermare che, pur volendosi dare ai principi e alle norme introdotte nel corso degli anni a tutela degli utenti e dei consumatori un'interpretazione estensiva, specie per quanto concerne la legittimazione ad agire in giudizio, non si può prescindere dall'accertamento di una lesione, reale o potenziale, degli interessi di cui sono titolari le predette categorie in quanto tali, e per la cui tutela possono quindi agire in giudizio le associazioni che raggruppano utenti e consumatori;
mentre, come si è visto, la qualifica di soggetti in astratto lesi dalla riforma (specie in tema di limiti al rimborso del capitale investito), spetterebbe, nel caso in esame, a soggetti che abbiano agito nell’esercizio di una vera e propria attività imprenditoriale, in qualità di soci di una banca, e non già ai meri titolari di rapporti di conto corrente o, in generale, ai semplici fruitori dei servizi bancari.

3.2.2.- Peraltro, anche volendo riconoscere la qualifica di “consumatori” a taluni dei soci delle banche popolari interessate dalla riforma, si dovrebbe necessariamente concludere per l’assenza dell’imprescindibile requisito, costantemente affermato dalla giurisprudenza del Giudice d’appello, per cui l'interesse collettivo degli Enti esponenziali deve identificarsi nell'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non negli interessi di singoli associati o gruppi di associati;
e ciò anche nel caso in cui un provvedimento porti vantaggi ad alcuni e asseriti pregiudizi ad altri (Consiglio di Stato, sez. III, 23 giugno 2014, n. 3164;
sez. V, 7 dicembre 2015 n. 5560).

Si è visto in precedenza come nella congerie dei soci delle banche popolari “ante riforma” siano enucleabili almeno quattro categorie di soci (soci clienti, soci dipendenti, soci amministratori e soci investitori), a ciascuna delle quali è riferibile un ben definito interesse, sostanzialmente confliggente con quello delle altre categorie.

L’unico interesse comune a tutte e quattro le categorie, come ripetuto, è (solo) quello alla percezione di un utile attraverso i dividendi.

Ed anche volendo escludere dal novero delle possibili categorie rappresentate dalle due associazioni ricorrenti quelle dei soci-amministratori e dei soci-investitori (cosa che, di per sé, già comporterebbe l’assenza del requisito in parola), non sarebbe ancora possibile trovare comunanza di interessi neppure tra le due categorie di soci che più potrebbero, in astratto, avvicinarsi alla prospettazione di Adusbef e di Federconsumatori, che affermano di tutelare gli utenti dei servizi bancari: perché, come detto, mentre i soci-clienti mirano ad una maggiore convenienza e fruibilità dei servizi bancari, invece i soci-dipendenti puntano a migliorare le proprie condizioni di lavoro e retributive all’interno delle società bancarie in questione.

Tale conflitto, per di più, emergerebbe con particolare chiarezza proprio in corrispondenza dell’unica posizione soggettiva riconosciuta dall’art. 2 del Codice del consumo in astratto riferibile al caso di specie;
ossia nell’ambito dell’“erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”, che costituisce evidente terreno di potenziale scontro tra dipendenti delle banche e fruitori dei relativi servizi.

3.3. – In conclusione, per la parte in cui è stato proposto da Adusbef e da FEDERCONSUMATORI, il ricorso è inammissibile.

3.4 – Per le medesime ragioni deve essere dichiarato inammissibile l’intervento ad adiuvandum del CODACONS.

4. – Il ricorso è, invece, infondato con riferimento alla posizione dei soci della Banca Popolare di Milano ricorrenti: tanto esime il Collegio dall’esaminare le ulteriori eccezioni di rito sollevate dalle parti resistenti.

4.1 – Il primo motivo, che si appella alla mancata consultazione delle associazioni dei consumatori –asserite portatrici di interessi nel procedimento di formazione dei provvedimenti gravati- è infondato.

Al riguardo è sufficiente fare integrale rimando alle considerazioni svolte al paragrafo 3 della presente motivazione circa l’assenza di legittimazione ad impugnare delle associazioni di consumatori, in quanto esponenti di interessi non collegabili a quelli delle categorie di soci delle società bancarie in questione.

Ne segue che le medesime Associazioni non avrebbero dovuto rivestire ruolo alcuno nei procedimenti di formazione dei provvedimenti qui in discussione.

Peraltro, ai sensi dell’art. 4 comma 2 del Regolamento disciplinante la partecipazione al procedimento di adozione degli atti a natura normativa della Banca d’Italia, datato 24 marzo 2010, la relativa consultazione avviene in forma pubblica mediante la pubblicazione sul sito istituzionale della banca d’Italia di un documento che illustra le ipotesi di regolamentazione;
modalità che, all’evidenza, rendeva conoscibile il progetto di riforma anche nei confronti di soggetti esponenziali di categorie cui non doveva darsi diretta notizia ai sensi dell’art. 23 L. n. 262 del 2005.

4.2 – Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano che l’illegittimità degli atti impugnati deriverebbe dalla illegittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, posta l’asserita carenza dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza che, a tenore dell’art. 77 comma II della Costituzione, devono presiedere all’adozione dei decreti legge.

Il motivo deve essere respinto, in quanto la questione di costituzionalità che vi è sottesa è manifestamente infondata.

4.2.1. – La valutazione cui è chiamato questo TAR, circa la sussistenzadella non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata passa infatti necessariamente, nel caso in esame, per una valutazione di evidenza (o di non evidenza) dei presupposti di necessità ed urgenza di cui all’art. 77 comma II Cost. nell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015.

4.2.2. – A tale riguardo osserva il Collegio che, quando è stata chiamata a scrutinare la compatibilità di una riforma ordinamentale (quella della disciplina delle Province: sentenza n. 220/2013), la Corte Costituzionale ha affermato che essa non poteva essere interamente condizionata dalla contingenza, “sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza»”.

La decretazione di urgenza potrebbe, quindi, essere legittimamente adottata solo per incidere su singoli aspetti della normativa di settore (in quel caso, degli enti locali), secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento.

Nel caso della radicale trasformazione delle Province, quindi, la Corte ha ravvisato impossibile la modifica per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale, poiché la relativa esigenza non era nata nella sua interezza e complessità (già da tempo dibattute), ma da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza».

4.2.3. – Tuttavia, queste affermazioni devono essere temperate dalla constatazione per cui, in numerose pronunzie, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il sindacato sull'esistenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato solo nel caso in cui la mancanza di tali presupposti sia “evidente” (sentenze n. 6 e n. 285 del 2004, n. 16 del 2002, n. 398 del 1998, n. 330 del 1996, n. 29 del 1995, n. 171 del 2007, n. 83 del 2010).

In particolare, nella sentenza n. 171 del 2007, il Giudice delle Leggi ha precisato la ragione per cui l’assenza dei presupposti atti a legittimare la decretazione d’urgenza debba risultare evidente, affermando che “L'espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare, dall'altro, però, comporta l'inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”.

In definitiva, secondo la citata –e cospicua – giurisprudenza costituzionale, la verifica del rispetto delle condizioni fissate dall’art. 77 comma II della Costituzione non presuppone (come vorrebbero i ricorrenti)una valutazione in astratto, a tenore della quale il fatto stesso che il Governo abbia posto mano alla riforma della disciplina di un dato settore comporterebbe, solo per questo, la violazione del parametro costituzionale.

Per la Corte, invece, questa verifica deve essere effettuata in concreto. ossia in ragione della singolarità del caso regolato, alla luce di “una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri), in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”.

4.2.4. - Al riguardo occorre, allora, fare innanzitutto riferimento all’epigrafe del decreto legge n. 3 del 2015, che, per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza nella materia in questione, richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di avviare il processo di adeguamento al sistema bancario agli indirizzi europei per renderlo competitivo ed elevare il livello di tutela dei consumatori e di favorire lo sviluppo dell'economia del Paese, promuovendo una maggiore patrimonializzazione delle imprese italiane ed il concorso delle piccole e medie imprese nei processi di innovazione del sistema produttivo”, nonché “la straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni volte a favorire l'incremento degli investimenti, l'attrazione dei capitali e degli investitori istituzionali esteri, nonché favorire lo sviluppo del credito per l'export”.

Dunque, secondo il Governo della Repubblica, la necessità di ricorrere alla decretazione d’urgenza era correlata all’esigenza di promuovere adeguare il sistema bancario italiano “agli indirizzi europei” e a quella di favorire gli investimenti nel capitale delle banche popolari mediante l’attrazione di investitori istituzionali e dei relativi capitali anche dall’estero.

Questi fenomeni, anche secondo le prospettazioni difensive delle resistenti, erano ostacolati dalla particolare configurazione delle banche popolari italiane (di cui si è detto in precedenza), oramai aventi solo la forma, ma non la sostanza, di cooperative (alcune delle quali addirittura quotate in borsa), e però caratterizzate da istituti (quali, soprattutto, il voto capitario, il gradimento all’ingresso di nuovi soci ed il limite all’assunzione di deleghe assembleari) idonei a limitare la contendibilità sul mercato degli assetti proprietari, ad influenzare fortemente la elezione degli amministratori e, di conseguenza, ad orientare in senso conservativo le scelte di competenza di questi ultimi.

4.2.5. - Si può rilevare che, in linea astratta, le esigenze richiamate dall’epigrafe del decreto legge si palesano, in sé, neutre sotto il profilo della straordinaria necessità ed urgenza della loro soddisfazione, atteso che esse non sono accompagnate dall’esplicazione delle ragioni per cui il processo in questione si imporrebbe come urgente.

4.2.6. - Più compiutamente, tuttavia, le ragioni d’urgenza emergono –secondo una valutazione del caso concreto postulata dalle su richiamate pronunzie della Corte Costituzionale – dalla Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 3 del 2015 presentato alla Camera dei Deputati, prodotta in giudizio dall’Istituto al n. 1 del deposito datato 5 ottobre 2015.

La relazione in questione richiama, innanzitutto, la necessità di adeguare il sistema italiano al nuovo Meccanismo unico di vigilanza degli Istituti di credito continentali, istituito dal Regolamento UE n. 1024/2013, nato per fronteggiare la crisi finanziaria che ha interessato gli intermediari europei negli ultimi anni, strumento che ha la Banca Centrale Europea al vertice della catena di controllo, cui partecipano anche le Autorità di vigilanza nazionali, e che si dirige su determinati istituti di credito ritenuti “significativi” per le dimensioni dell’attivo.

Essa afferma che requisiti fondamentali per il funzionamento dei nuovi strumenti di vigilanza sono proprio una efficace forma di governo delle banche in questione e una elevata capacità di finanziamento delle medesime: evenienze ostacolate, come affermato comunemente in dottrina, dalle caratteristiche delle banche popolari “pre-riforma”, e che, in base ad analisi condotte dal Fondo Monetario Internazionale, “la solidità delle banche dipende ampiamente dalla qualità del governo societario”.

Questa trasformazione –ancora a tenore della citata Relazione- presuppone, poi, che alle società sia lasciato un congruo periodo di tempo per la valutazione delle opzioni rese possibili dalla riforma.

4.2.7. - Ritiene il Collegio che le ragioni di urgenza enunciate nella citata Relazione di illustrativa del decretolegge al Parlamento per la sua conversione in legge siano sufficienti a determinare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che i ricorrenti chiedono di sollevare in relazione all’art. 77 comma II Cost.

L’atto in questione ha preso in considerazione una necessità di cui può, non irragionevolmente, postularsi l’urgenza: ossia l’esigenza di adeguare l’ordinamento italiano ad una nuova strutturazione dell’attività di vigilanza che interessa i maggiori intermediari di questa categoria, concepita su scala europea dal diritto dell’Unione.

Si fa riferimento – come meglio esplicitato nelle difese delle Amministrazioni resistenti – alla nuova disciplina comunitaria in materia di vigilanza bancaria e, in particolare, al Regolamento UE/575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, che agli articoli 28 e 29 impone – per quanto qui interessa – la presenza di “Strumenti del capitale primario di classe 1” .

Si tratta del “patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca” cui è rapportato il nuovo comma 2-ter dell’art. 28 T.U.B., che pone limiti al rimborso della partecipazione azionaria del socio in caso di recesso, ove ciò sia necessario al fine di computare in tale parte del patrimonio le azioni non rimborsate, secondo il principio c.d. del bail-in, per cui la solidità della banca deve essere assicurata, innanzitutto, dal proprio patrimonio.

Ebbene, la su citata fonte comunitaria impone che, tra gli altri requisiti, gli strumenti di capitale atti a garantire tale computo siano – secondo la dizione del Regolamento – “perpetui”, ossia sempre disponibili per la banca.

Questa caratteristica è garantita dalla facoltà per la banca di negare, a determinate condizioni, il rimborso di una parte dell’investimento di capitale al socio che intenda uscire dalla compagine societaria: facoltà che il diritto interno non riconosceva, e che è stata introdotta nell’ordinamento italiano, per la prima volta, proprio dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015 mediante l’inserimento del comma 2-ter nell’art. 28 del T.U.B. in materia di banche popolari (e che è poi è stata estesa a tutte le aziende di credito dal decreto legislativo n. 180 del 2016).

Sotto questo profilo, quindi, il decreto-legge attua l’adeguamento a quanto dispone l’art. 29 comma 2 del Regolamento del parlamento Europeo e del Consiglio n. 575\13, che tra i requisiti di tali strumenti di capitale prevede anche: “Per quanto riguarda il rimborso degli strumenti di capitale sono soddisfatte le seguenti condizioni:

a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l'ente può rifiutare il rimborso degli strumenti;

b) se la normativa nazionale applicabile vieta all'ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti consentono all'ente di limitare il rimborso;

c) il rifiuto di rimborsare gli strumenti o, se del caso, la limitazione del rimborso degli strumenti non possono costituire un caso di default da parte dell'ente.”

In particolare, la norma interna ha scelto di adottare la ipotesi sub b), ovvero quella di non precludere per intero il rimborso;
e ha altresì scelto che tale limitazione sia solo eventuale (ipotesi sub c).

Tanto basta a dimostrare che, nell’occasione, il ricorso alla decretazione di urgenza, pur attuato in presenza di una riforma strutturale di un dato settore dell’ordinamento giuridico, è stato condotto alla luce di circostanze che (come consentito dalla giurisprudenza del Giudice delle leggi citata in precedenza), alla luce della valutazione di circostanze concrete e contingenti, ragionevolmente potevano indurre all’utilizzo del decreto-legge.

4.2.8. - A questa constatazione deve arrestarsi la delibazione di manifesta infondatezza attribuita al giudice a quo;
il quale non può addentrarsi a sindacare né l’effettiva sussistenza di una tale urgenza, né, tanto meno, a valutare la congruità delle misure in concreto adottate per fronteggiarla.

Si tratta, infatti, di aspetti che involgono l’insindacabile campo della discrezionalità sotto il profilo, proprio delle questioni di legittimità costituzionale -ancorchè nei sommari limiti riservati alla delibazione del giudice a quo- per cui le scelte legislative sono sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (C. Cost., Sentenza 79/2016).

4.3. - Ritiene poi il Collegio che, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, la violazione dell’art. 77 comma II Cost. non emerga neppure dal fatto che l’art. 1 comma 2 del decreto legge preveda che, in sede di prima applicazione del decreto, le banche popolari si adeguino a quanto stabilito dai nuovi commi 2-bis e 2-ter del nuovo articolo 29 del TUB entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d'Italia.

I detti commi 2 bis e 2 ter dell’art. 29 prevedono, come detto, che, in caso di superamento di un limite dell’attivo pari a otto miliardi di euro, l'organo di amministrazione deve convocare l'assemblea per deliberare, entro un anno, la riduzione dell’attivo al di sotto della soglia, oppure la trasformazione della banca in società per azioni, oppure la liquidazione.

E’ del tutto evidente che la disposizione dell’art. 1 comma 2 non prevede una entrata in vigore differita dell’obbligo di adeguamento, che risulta immediato, ma attuabile nel termine di diciotto mesi.

La norma, quindi, del tutto ragionevolmente, prevede un adeguato lasso di tempo dall’entrata in vigore affinchè la Banca d’Italia detti le relative disposizioni di attuazione (come pure previsto nell’art. 29 al nuovo comma 2-quater), e concede agli istituti di credito interessati un congruo termine per operare le scelte e le conseguenti misure alternative –ma obbligatorie- di riforma strutturale connesse al superamento del limite di otto miliardi di euro di attivo.

In questa ottica emerge che risulta rispettato il principio secondo il quale i decreti-legge “sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità” (ancora Corte Cost. n. 220\2013), come postulato dall’art. 15 comma 3 della legge n. 400 del 1988, il quale prevede che essi debbano contenere misure di immediata applicazione.

In conclusione, il secondo motivo va respinto.

5. – Il terzo motivo è, parimenti, infondato.

Con il mezzo in questione cui i ricorrenti denunziano la circostanza della tardiva sottoposizione del decreto legge n. 3 del 2015 al parere della Banca Centrale Europea, che ai sensi degli articoli 127 par. 4 e 282 par. 5 del TFUE, nonché della Decisione 98\415\CE, deve essere richiesto dalle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative.

5.1 - Il motivo è svolto dai ricorrenti al fine, dichiarato al termine della sua esposizione, di sentire affermare il principio (che sarebbe stato espresso dalla Corte di giustizia UE) secondo il quale una disposizione legislativa adottata in violazione di un “requisito procedurale sostanziale manca di esecutorietà rispetto ai singoli”.

Ciò che, in altri termini, i ricorrenti mirano ad ottenere, è una declaratoria di inefficacia della normativa posta a base dei provvedimenti impugnati, dai quali fanno discendere, in tesi, l’illegittimità di questi ultimi.

5.2 - In particolare, il citato art. 127 del Trattato prevede, per quanto qui interessa, che la Banca Centrale Europea è consultata dalle autorità nazionali, sui progetti di disposizioni legislative che rientrino nelle sue competenze, ma entro i limiti e alle condizioni stabiliti dal Consiglio.

L’art. 282 ribadisce che nei settori che rientrano nelle sue attribuzioni, la Banca centrale europea è consultata su ogni progetto di atto dell'Unione e su ogni progetto di atto normativo a livello nazionale.

Le materie nelle quali si deve seguire tale procedimento consultivo sono quelle elencate nell’art. 2 della decisione del Consiglio 98\418\ CE, ossia:

- le questioni monetarie,

- i mezzi di pagamento,

- le banche centrali nazionali,

- la raccolta, la compilazione e la distribuzione delle statistiche monetarie, finanziarie, bancarie e sulla bilancia dei pagamenti,

- i sistemi di pagamento e di regolamento,

- le norme applicabili agli istituti finanziari nella misura in cui esse influenzano la stabilità di tali istituti e dei mercati finanziari.

Infine, l’art. 4 della Decisione del Consiglio 98\418\CE, in attuazione degli articoli 127 par. 4 e 282 par. 5 del TFUE, dispone che gli Stati membri “si accertano che la BCE sia consultata in tempo utile affinché l'autorità che elabora il progetto di disposizioni legislative tenga conto del parere della BCE prima di adottare la decisione nel merito”.

5.3 - Non è dubbio che il decreto-legge in questione, entrato in vigore il 25 gennaio 2015, sia stato ricevuto dalla Banca Centrale Europea solo il 20 febbraio successivo;
tanto che lo stesso organo dell’Unione ha evidenziato, nell’atto consultivo, l’inopportunità di tale tardiva consultazione, richiamando l’attenzione del MEF richiedente “sulla necessità di una corretta procedura di consultazione”.

Il parere è stato reso il 25 marzo 2015, ed è stato di piena ed incondizionata condivisione delle misure contenute nel decreto-legge.

5.4 – Si deve innanzitutto osservare che la portata del principio di cui i ricorrenti propugnano l’esistenza (secondo il quale la “esecutorietà” di una disposizione normativa assunta in violazione delle regole procedurali che presiedono alla sua adozione sarebbe inficiata dalla violazione stessa), non è affermato dalla corte di Giustizia UE nei termini assoluti che la tesi difensiva in questione vorrebbe annetterle.

In effetti, le pronunzie citate nella prospettazione dei ricorrenti si limitano a regolare casi specifici, affermando (cfr. sentenza resa nel procedimento C-226/97) che, ad esempio, “se la mancata comunicazione di regole tecniche, che costituisce un vizio procedurale in sede d'adozione, le rende inapplicabili in quanto ostacolano l'uso o la commercializzazione di un prodotto non conforme a tali regole, essa non ha per contro l'effetto di rendere illecito ogni uso di un prodotto conforme alle regole non comunicate”.

Questo concetto si rinviene, meglio evidenziato, nella sentenza resa nella causa C-174\84, per la quale “in caso di liti pendenti dinanzi ai giudici nazionali tra persone fisiche o giuridiche, queste non possono far valere, per opporsi ad una politica o ad un provvedimento adottato da uno stato membro, diritti tratti dall'inosservanza di detto Stato membro dell'obbligo d'informare previamente gli altri Stati membri e la commissione;
questa inosservanza non può quindi attribuire ai singoli dei diritti che i giudici nazionali debbano tutelare”.

Questa efficacia limitata trova conferma nel fatto che le su citate disposizioni comunitarie non affermano la natura vincolante del parere in questione, ed ancora meno affermano l’invalidità degli atti per cui esso non è stato (o è stato tardivamente) richiesto.

Al contrario, il terzo “considerando” della Decisione citata si limita ad affermare che l’obbligo di consultare la Banca Centrale Europea lascia “impregiudicate le responsabilità” degli Stati membri: limitando, così, al solo ambito della responsabilità dello Stato le negative conseguenze.

5.5. – In ogni caso, il principio di conservazione dei valori giuridici impone di ritenere che la tardiva attivazione della procedura da parte dello Stato italiano sia, nel caso in esame, del tutto irrilevante ai fini propugnati nel motivo in esame.

Non è in discussione, infatti, la circostanza che il parere sia stato comunque reso.

E che esso lo sia stato nel senso della completa condivisione della riforma contenuta nel decreto-legge n. 3 del 2015 da parte della Banca centrale Europea.

In questo senso è sufficiente rilevare che il paragrafo 3.1. del parere in atti (documento n. 2 della produzione della Banca d’Italia del 5 ottobre 2015) afferma, al principio della trattazione di merito, che “La BCE accoglie favorevolmente la proposta di riforma delle banche popolari, tappa fondamentale per affrontare le criticità relative al loro sistema di governo, e sostiene le autorità italiane nell’immediato riconoscimento a tale forma di una stabile efficacia”.

Al riguardo si può osservare che la collocazione della norma attributiva del potere consultivo alla Banca Centrale Europea nell’art. 127 del TFUE induce a ritenere che l’espressione consultiva in questione sia tesa a verificare, essenzialmente, se una data misura è conforme alle politiche economiche generali dell’Unione, al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui fa menzione l’incipit dell’articolo;
ossia di contribuire alle politiche che devono essere sostenute dal Sistema europeo di banche centrali, costituito proprio dalla Banca Centrale Europea e dalle singole Banche Centrali Nazionali (art. 282 TFUE).

Una volta che tale conformità, sia pure solo su sollecitazione tardiva dello Stato interessato, sia stata positivamente verificata dalla Banca Centrale europea, non si vede ragione per ritenere la disposizione normativa nazionale inficiata –seppure nei limiti proposti dalla tesi dei ricorrenti- da detto ritardo.

Il motivo, in conclusione, va respinto.

6. – Altresì infondato è il quarto mezzo, con il quale i ricorrenti contestano la legittimità dei provvedimenti impugnati per derivazione dal contrasto dell’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015 con alcune norme della Costituzione.

6.1. – Un primo ordine di censure di illegittimità costituzionale investe, in particolare, i nuovi commi 2 bis e 2 ter introdotti dal citato articolo 1 nell’art. 29 del T.U.B., che prevedono:

“«2-bis. L'attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro. Se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato.

2-ter. In caso di superamento del limite di cui al comma 2-bis, l'organo di amministrazione convoca l'assemblea per le determinazioni del caso. Se entro un anno dal superamento del limite l'attivo non è stato ridotto al di sotto della soglia né è stata deliberata la trasformazione in società per azioni ai sensi dell'articolo 31 o la liquidazione, la Banca d'Italia, tenuto conto delle circostanze e dell'entità del superamento, può adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni ai sensi dell'articolo 78, o i provvedimenti previsti nel titolo IV, capo I, sezione I, o proporre alla Banca centrale europea la revoca dell'autorizzazione all'attività bancaria e al Ministro dell'economia e delle finanze la liquidazione coatta amministrativa. Restano fermi i poteri di intervento e sanzionatori attribuiti alla Banca d'Italia dal presente decreto legislativo. ”

I ricorrenti assumono che le disposizioni appena trascritte contrasterebbero con gli articoli 41 (che tutela la libertà di iniziativa economica privata, cui sarebbe così posto un indebito limite) e 45 (che afferma la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata) della Costituzione.

Inoltre, la posizione ad 8 miliardi di euro della “soglia” dell’attivo oltre la quale la banca deve provvedere come nelle norme contestate sarebbe arbitrario ed irragionevole, perché non supportato da elementi concreti atti a dimostrarne la congruità.

6.2. – Al riguardo occorre ricordare nuovamente che i tratti caratteristici delle banche popolari su richiamati hanno comportato l’allontanamento dallo schema mutualistico, portando ad affermare che le banche popolari, come configurate dalla previgente versione del TUB, avevano la forma, ma non la sostanza, di cooperative.

In particolare, poi, la possibilità che investitori istituzionali quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari non fossero soggetti al limite alla detenzione di azioni che colpiva gli altri soci, delineava chiaramente un modello di cooperativa nella quale si assisteva –specie per le grandi banche popolari quotate in borsa – ad un sensibile indebolimento dello scopo mutualistico.

L’interesse degli investitori istituzionali, infatti, nulla ha a che vedere con il godimento del vantaggio mutualistico, ma si dirige esclusivamente alla migliore remunerazione possibile del proprio investimento di capitale.

Ma tanto deve dirsi anche per i soci diversi dagli investitori istituzionali: ciò in quanto il limite alla sottoscrizione ad essi applicato non è stato previsto in un importo fisso, bensì nella misura variabile dell’1% del capitale, il che –come osservato in dottrina- vale a testimoniare la natura di investimento della relativa sottoscrizione.

Pertanto, non è prima facie irragionevole (e tanto basta, per il giudice a quo, a ritenere manifestamente infondata la questione di costituzionalità sottesa alle censure in esame) una misura normativa che, impone la trasformazione in s.p.a. ordinaria della società bancaria avente oramai solo la veste della cooperativa (ma non la sostanza).

6.3. - Questa impostazione, inoltre, risulta logica specie se applicata alle banche popolari di maggiori dimensioni, e non a quelle –pure presenti nello scenario italiano- che ancora si rivolgono quasi esclusivamente al territorio di riferimento.

Da ciò si deduce la ragionevolezza della fissazione di una data soglia al disopra della quale l’attivo della banca popolare deve comportare la sua trasformazione in s.p.a.;
fermo restando quanto si dirà nell’esaminare le censure che riguardano specificamente la fissazione ad otto miliardi di euro della soglia stessa.

6.4. – Quanto appena detto deve condurre anche alla declaratoria di manifesta infondatezza della questione di costituzionalità prospettata rispetto all’art. 45 Cost., perché, in realtà, la attività cooperativa non risulta compressa, ma –al contrario- circoscritta entro i limiti che le sono propri, ossia quelli del mantenimento del vantaggio mutualistico negli ambiti in cui i soci siano ancora a ciò realmente interessati: ovvero le banche popolari di minori dimensioni.

Mentre, al contrario, spoglia di ogni equivoco lo scopo sociale degli istituti di maggiori dimensioni, oramai proiettati verso ambiti di mercato che, per loro natura, tendono alla soddisfazione di investimenti capitalistici che, con il vantaggio mutualistico dedicato ai soci, più nulla hanno a che fare.

6.5. – Venendo alle cesure che riguardano la concreta fissazione della detta soglia in otto miliardi di euro di attivo, non ravvisa il Collegio la manifesta fondatezza delle denunziate irrazionalità ed arbitrarietà.

La misura così fissata, invero, è stata positivamente apprezzata dalla Banca Centrale Europea nel parere del 25 marzo 2015, di cui si è detto nel corso dell’esame del precedente motivo.

In quella occasione, la istituzione creditizia comunitaria ha infatti affermato che “le banche popolari con attivo superiore agli otto miliardi di euro rappresentano una quota significativa del segmento delle popolari in termini di credito erogato, numero di sportelli e personale impiegato. La soglia fissata per l’obbligo di trasformazione appare pertanto appropriata al raggiungimento degli obiettivi del decreto-legge per una parte significativa del segmento delle popolari nel settore bancario italiano. La BCE ha presente che il criterio dimensionale dell’attivo è coerente con l’attuale distinzione tra banche popolari con un’ampia portata territoriale e operativa, che presentano un modello di business simile a quello adottato dalle banche commerciali, e banche popolari ispirare ad un modello bancario cooperativo e mutualistico. Alla luce di tale considerazione, la BCE accoglie favorevolmente il decreto-legge, che riallinea la struttura societaria e di governo delle banche popolari più grandi a quella delle banche commerciali di pari dimensioni, senza pregiudicare la capacità delle popolari di finanziare l’economia locale e regionale”.

Questa integralmente positiva valutazione dell’organo deputato ad esprimersi sulla coerenza delle misure normative degli Stati membri con le politiche economiche generali vale, a parere del Collegio, a privare di fondamento la questione prospettata.

.6.6. – Alla luce di quanto appena affermato, emerge altresì che la questione di costituzionalità che i ricorrenti chiedono di sollevare alla luce dell’art. 41 della Costituzione è manifestamente infondata, atteso che le misure in questione fanno mostra di tenere in considerazione la portata complessiva della norma che tutela la libertà di iniziativa economica.

E’ noto che le clausole generali di utilità sociale e fini sociali, di cui pure fa menzione l’art. 41, legittimano l’introduzione di vincoli e limiti alla libertà di iniziativa economica, anche senza che il legislatore ordinario ne faccia espressa menzione (Sentenza n. 94/2013), ”essendo sufficiente «la rilevabilità di un intento legislativo di perseguire quel fine e la generica idoneità dei mezzi predisposti per raggiungerlo”, salvo il limite dell’arbitrio (qui escluso per le ragioni dette in precedenza).

E, secondo il Giudice delle leggi, i citati limiti intrinseci alla libertà di iniziativa economica privata sono funzionali alla salvaguardia di valori di rilievo costituzionale, ivi compreso quello di un assetto competitivo dei mercati (che, come detto, è uno dei fini principali della riforma in questione): e ciò a tutela delle stesse imprese e dei consumatori (sentenza n. 94/2013).

6.7. – Le altre censure contenute nel motivo affermano l’illegittimità dei provvedimenti gravati per derivazione dalla asserita illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera a) del decreto-legge n. 3 del 2015, che ha aggiunto all’art. 28 del T.U.B. il seguente comma 2-ter: “Nelle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d'Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d'Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi”.

6.7.1. Un primo profilo di doglianza afferma che, con la disposizione su riportata, sarebbe stata affidata dal legislatore alla Banca d’Italia una vera e propria “delega in bianco” a dettare disposizioni normative anche in deroga a norme di legge;
ma una tale facoltà sarebbe delegabile dal Parlamento, a norma degli articoli 70, 76 e 77 della Costituzione, unicamente al Governo, e non ad altri organismi;
ed anche ritenendo ammissibile tale delega, considerandola parte del processo di delegificazione –continuano i ricorrenti- sarebbe stata comunque sovvertita la gerarchia tra le fonti del diritto.

Per queste ragioni, i provvedimenti emessi dalla Banca d’Italia in attuazione di una tale delega sarebbero viziati da illegittimità derivata.

Le appena ricordate argomentazioni non convincono, di guisa che la questione di costituzionalità proposta è manifestamente infondata.

6.7.1.1. – Essa è, innanzitutto, mal posta.

I ricorrenti assumono, infatti, che la disposizione del comma 2-ter su richiamato violerebbe gli articoli 70, 76 e 77 Cost., che, rispettivamente, attribuiscono la funzione legislativa collettivamente alle due camere (art. 70), ne ammettono la delegazione al Governo solo con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti (art. 76), e, infine, regolano le condizioni per la decretazione d’urgenza (art. 77).

In realtà, la disposizione in esame non riguarda affatto la delega della funzione normativa dal Parlamento ad altro soggetto.

La norma censurata non è frutto del potere legislativo affidato, in via ordinaria, alle due Camere, bensì proviene proprio da un decreto-legge assunto in base all’art. 77 Cost. (che, come si è visto in precedenza, non risulta violato sotto l’aspetto dei presupposti necessari alla sua applicazione).

6.7.1.2. – A parere del Collegio il punto è, invece, se nella circostanza sia stata rispettata la riserva di legge relativa, di cui tratta l’art. 23 della Costituzione, il quale afferma che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge: nel caso in esame, infatti, si è al cospetto di una disposizione che comporta, in caso di recesso o esclusione del socio, una possibile limitazione del diritto al rimborso della quota di capitale sottoscritta.

Anche in questa chiave, peraltro, la questione è manifestamente infondata.

Come noto, la riserva di legge relativa di cui all'art. 23 della Costituzione lascia all'autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, sempre che non si tratti di un “mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell'azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini” (Corte Cost., sentenze n. 115 del 2011 e n. 83 del 2015).

In particolare, secondo il Giudice delle leggi, “per rispettare la riserva relativa di cui all'art. 23 Cost., è quanto meno necessaria la preventiva determinazione di «sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (sentenze n. 350 del 2007 e n. 105 del 2003), richiedendo in particolare che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l'attività dell'amministrazione»” (sentenze n. 190 del 2007, n. 115 del 2011 e n. 83 del 2015).

6.7.1.3. - Nel caso del nuovo comma 2-ter dell’art. 28 TUB questi requisiti sono presenti, seppure con le precisazioni che seguono.

Il comma 2-ter, innanzitutto, prevede espressamente la limitazione al rimborso.

Esso, poi, considera detta limitazione solo come eventuale, e non come automatica conseguenza del recesso o dell’esclusione del socio e della trasformazione della società.

Tale eventualità è, parimenti, specificata nel medesimo comma 2-ter: si tratta del caso in cui “ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca”.

I presupposti della limitazione al rimborso, quindi, sono previsti dalla norma di rango primario.

6.7.1.4. – Occorre ricordare nuovamente che limitazione del rimborso di capitale in caso di recesso rappresenta un requisito prudenziale per fronteggiare eventuali perdite della azienda di credito, e risponde al principio secondo il quale la stabilità di una banca, in caso di crisi, va preservata innanzitutto attraverso un salvataggio interno, ossia mediante le risorse patrimoniali della banca medesima;
e dunque, indirettamente, l’apporto del patrimonio dei soci (c.d principio del bail-in).

La facoltà di limitare il diritto al rimborso azionario comporta la possibilità, per la banca, di computare nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria anche dei titoli rappresentativi del capitale sociale.

Per completezza, occorre rilevare che il medesimo principio –denominato, in quella sede, proprio bail-in – è stato successivamente esteso a tutte le aziende di credito dagli articoli 48 e seguenti del D.Lgs. 16/11/2015, n. 180 ( in materia di attuazione della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento), e prevede che esso è disposto per ripristinare il patrimonio degli istituti sottoposti a procedura di ”risoluzione”, nella misura necessaria al rispetto dei requisiti prudenziali e idonea a ristabilire la fiducia del mercato.

6.7.1.5. - Ciò che il nuovo art. 28, comma 2-ter del T.U.B. rimette alle determinazioni della Banca d’Italia è unicamente la modalità della limitazione del rimborso di capitale, ove di essa ricorrano i presupposti.

Tali modalità, tuttavia, come evidenziato nelle difese dell’Autorità di vigilanza, non vengono lasciate alle libere determinazioni di quest’ultima, ma rispondono a specifici parametri desumibili dal diritto comunitario.

L’Avvocatura della Banca d’Italia fa condivisibile riferimento, a questo fine, al regolamento UE\241\2014 della Commissione, che integra il regolamento UE\575\2013 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.

L’art. 10 del Regolamento UE\241\2014, al paragrafo 2, prevede, innanzitutto, le modalità con cui la detta limitazione può essere operata, disponendo che “La capacità dell'ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all'articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all'articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l'importo rimborsabile. L'ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l'importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3”.

Il paragrafo 3 della medesima norma fornisce i criteri di computo della parte non rimborsabile:

“3. L'entità dei limiti al rimborso previsti dalle disposizioni che regolano gli strumenti è determinata dall'ente sulla base della sua situazione prudenziale in qualsiasi momento, considerando in particolare, ma non esclusivamente, i seguenti elementi:

a) la situazione complessiva dell'ente in termini finanziari, di liquidità e di solvibilità;

b) l'importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale totale rispetto all'importo complessivo dell'esposizione al rischio calcolato conformemente ai requisiti fissati all'articolo 92, paragrafo 1, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013, agli specifici requisiti di fondi propri di cui all'articolo 104, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2013/36/UE, e al requisito combinato di riserva di capitale ai sensi dell'articolo 128, punto 6, della stessa direttiva”.

La definizione di capitale primario di classe 1 e di capitale di classe 1, cui fa riferimento il paragrafo 3 appena riportato, è data dall’ art. 25 del Regolamento 575\2013, per cui: “1. Gli elementi del capitale primario di classe 1 degli enti sono i seguenti:

a) strumenti di capitale, purché siano soddisfatte le condizioni di cui all'articolo 28 o, ove applicabile, all'articolo 29;

b) sovrapprezzi di emissione relativi agli strumenti di cui alla lettera a);

c) utili non distribuiti;

d) altre componenti di conto economico complessivo accumulate;

e) altre riserve;

f) fondi per rischi bancari generali.

Gli elementi di cui alle lettere da c) a f) sono riconosciuti come capitale primario di classe 1 soltanto se possono essere utilizzati senza restrizioni e senza indugi dall'ente per la copertura dei rischi o delle perdite nel momento in cui tali rischi o perdite si verificano”.

La non breve disamina normativa che precede attesta che, in definitiva, anche l’attività di determinazione del quantum di capitale eventualmente non rimborsabile in caso di recesso è, alla luce del diritto interno e di quello comunitario, interamente conformata e suscettibile di determinazione, nei singoli casi, attraverso i parametri normativi su riportati.

La questione di costituzionalità sottesa alle censure in esame, in definitiva, è manifestamente infondata.

6.7.2. – Con la seconda censura proposta nel motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento, in quanto la limitazione al rimborso interessa sia i soci che intendano recedere dalla banca popolare in occasione della necessaria trasformazione in società per azioni, sia quelli che, invece, intendano recedere anche nel caso in cui la banca mantenga la veste formale di società cooperativa.

Anche tale questione è manifestamente infondata.

6.7.2.1. - Alla luce di quanto esposto, infatti, il presupposto della limitazione al rimborso di capitale in caso di recesso non è, direttamente, la trasformazione in società per azioni della banca popolare nei casi imposti dall’ordinamento.

Il presupposto è, invece, la necessità di conservare una determinata quota di capitale ai fini prudenziali imposti (anche) dal diritto comunitario, di cui si è ampiamente detto sopra;
e di farlo secondo il principio comunitario –ma oramai recepito anche nel diritto interno- per cui le perdite sono sostenute, in primo luogo, dal patrimonio della banca, e, quindi, anche dagli azionisti.

6.7.2.2. - Inoltre, risulta incongruo rispetto alla ripetuta natura oramai solo formale di società cooperative delle maggiori banche popolari (ossia di quelle realmente in grado di superare la soglia di 8 miliardi di attivo contemplata dal nuovo art. 29 commi 2-bis e 2-ter) invocare –come fa la censura in esame- la “condizione del tutto peculiare” dei soci, che deriverebbe loro “dalle caratteristiche tipiche della società cooperativa cui partecipano”.

Se per tali “caratteristiche tipiche” si intendono quelle che determinerebbero il perseguimento del solo vantaggio mutualistico, si deve concludere che esse sono oramai del tutto recessive rispetto a quelle proprie di qualsiasi investimento di capitale, come si è visto in precedenza.

6.7.3. – La terza censura del motivo in esame, invece, sottende che le ripetute limitazioni normative del rimborso in caso di recesso comporterebbero la violazione dell’art. 42 Cost. e dell’art. 117 comma 1 in relazione all’art. 1 del I protocollo addizionale della CEDU, in quanto comporterebbero una indebita limitazione del diritto di proprietà sotto i tre profili presi in considerazione dalla convenzione (rispetto del diritto di proprietà, condizioni necessarie per la privazione del diritto, regolamentazione dello stesso nell’interesse generale).

Ciò, sia perché qui la limitazione al diritto dominicale sarebbe potenzialmente illimitato e senza indicazione dei parametri in base ai quali la Banca d’Italia può dettare le relative condizioni, sia perché il fine pubblico perseguito (computabilità delle azioni nel patrimonio di qualità primaria degli intermediari) sarebbe sproporzionato rispetto al sacrificio imposto al socio.

Neppure tali doglianze possono essere condivise.

6.7.3.1. – Circa il primo profilo, è qui sufficiente richiamare quanto detto in precedenza, specie nel paragrafo 6.7.1.5., a proposito dei parametri normativi che regolano e conformano la concreta attuazione della limitazione al rimborso.

6.7.3.2. – Circa il secondo, la censura si appella, innanzitutto, al terzo comma dell’art. 42 Cost., che afferma che la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.

In altri termini, secondo i ricorrenti, l’eventuale limitazione al rimborso costituirebbe una forma di espropriazione.

La prospettazione non può essere condivisa.

Al riguardo il Collegio ritiene sufficiente osservare che il principio costituzionale invocato riguarda la tutela del diritto reale di proprietà e le possibilità di sua ablazione da parte della mano pubblica.

Nel caso in esame, invece, si controverte dei possibili limiti apposti alla soddisfazione di un diritto di credito (quale è quello del socio recedente rispetto al rimborso della quota di capitale sottoscritta) verso un soggetto privato (la banca);
ragione per cui non è possibile parlare di “privazione (o limitazione) della proprietà”, posto che qui non tanto è in discussione l’eventuale rapporto “cartolare” del socio con il titolo in cui il diritto di credito è incorporato, quanto, piuttosto, il rapporto giuridico (di credito) che ne è alla base.

Rispetto a tale rapporto è più corretto esprimersi in termini di possibilità, o impossibilità, o di minore possibilità, del relativo esercizio verso la banca debitrice.

Peraltro, come si è visto in precedenza, la soddisfazione del credito, a tenore dell’art. 28 comma 2-ter, al ricorrere dei relativi presupposti, non deve necessariamente essere limitata nel senso che una parte del capitale a suo tempo sottoscritto non viene rimborsata;
ma, come si è visto, è possibile anche disporre il differimento del rimborso nel tempo, senza che sia inciso sul quantum del credito (art. 10 del Regolamento UE\241\2014, paragrafo 2).

Non emerge neppure la manifesta fondatezza della questione legata all’art. 117 comma 1 Cost. in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU.

Se, infatti, si può convenire con i ricorrenti rispetto alla assai lata concezione di “bene” per la detta Convenzione (che vi include tutto ciò che abbia un valore economicamente valutabile ), rimangono ferme, anche in questa ottica, le considerazioni su esposte, per le quali, più che della “privazione” del “bene”, si deve qui parlare di una limitata possibilità del suo esercizio, o, in alcuni casi, di mero differimento dello stesso.

Ad ogni modo, risalta qui con evidenza la sussistenza del requisito dell’interesse generale cui l’art. 1 citato subordina la possibilità dello Stato aderente di disciplinare l’uso dei beni: ed al riguardo è sufficiente, per brevità, rimandare alle precedenti considerazioni in tema di necessità di assicurare la stabilità del sistema delle banche popolari (ovvero di quelle di maggiori dimensioni) mediante il ricorso, prioritario rispetto ad altre misure, al patrimonio della banca medesima, e, dunque, indirettamente, anche dei soci;
e non attraverso, ad esempio, la copertura delle perdite da parte dello stato, e dunque della collettività.

E’ un sistema che, come pure si è visto, deriva direttamente dal regolamento UE\241\2014 della Commissione, che integra il regolamento UE\575\2013 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.

Quest’ultima circostanza induce a dichiarare manifestamente infondata la questione anche sotto questo profilo, in quanto il legislatore nazionale risulta avere rispettato, e non violato, il precetto costituzionale di cui all’art. 117 comma 1, avendo legiferato nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

6.8. – L’ultima censura contenuta nel motivo in esame afferma che l’imposizione della soglia di otto miliardi di euro di attivo, oltre la quale la banca popolare deve essere trasformata in s.p.a. a tenore del nuovo art. 29 comma 2-ter del T.U.B., violerebbe il Trattato istitutivo della Unione Europea sotto i profili della libertà di impresa, anche in forma cooperativa (art. 54), del diritto di stabilimento (art. 49), della libera prestazione dei servizi (art. 56) e della libera circolazione dei capitali.

La manifesta infondatezza della doglianza discende, oltre che dalla non perfetta perspicuità del riferimento al diritto di stabilimento ed alla libera circolazione dei servizi, anche e soprattutto dalla considerazioni svolte in precedenza a proposito della derivazione della normativa in questione dal diritto comunitario, alle quali qui si può fare rinvio nel rispetto del principio di sinteticità degli atti (art. 3 c.p.a.).

Parimenti, si deve fare riferimento a quanto detto a proposito del positivo parere espresso dalla Banca Centrale Europea il 25 marzo 2015 (anche) sulla fissazione della soglia a otto miliardi di euro (“La soglia fissata per l’obbligo di trasformazione appare pertanto appropriata al raggiungimento degli obiettivi del decreto-legge per una parte significativa del segmento delle popolari nel settore bancario italiano”).

Il quarto motivo, in conclusione, deve trovare reiezione.

7. – Con il quinto ed ultimo motivo i ricorrenti lamentano che la Banca d’Italia, con il 9° Aggiornamento alla circolare n. 285 del 2013, anziché dettare i criteri per limitare il rimborso delle azioni nei casi in cui ciò è necessario, abbia delegato tale potestà regolamentare agli organi di gestione delle banche interessate.

Anche tale motivo è infondato.

7.1 - Tale atto, nella Sezione III (Rimborso degli strumenti di capitale), paragrafo 1 (Limiti al rimborso degli strumenti di capitale), afferma che la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni o degli altri strumenti di capitale al socio uscente, è attribuito dallo statuto della banca popolare all’organo con funzione di supervisione strategica, su proposta dell’organo di gestione, sentito l’organo di controllo.

In particolare, l’organo con funzione di supervisione strategica assume le proprie determinazioni sull’estensione del rinvio e sulla misura della limitazione al rimborso tenendo conto della situazione prudenziale della banca, valutando la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità nonché l’importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale totale, secondo i parametri previsti dalla normativa comunitaria (art. 92 del CRR).

L’autorità di vigilanza (Banca d’Italia o, per le banche popolari “significative”, Banca Centrale Europea) ha il potere di autorizzare il rimborso di fondi propri.

Queste modalità procedurali, secondo i ricorrenti, violerebbero il comma 2-ter dell’art. 28 T.U.B., che prevede che “il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d'Italia”.

Osserva il Collegio che le modalità operative descritte dal 9° aggiornamento alla Circolare n. 285\2013 risultano diretta applicazione dell’art. 10 del Regolamento UE\241\2014, che demanda alla banca interessata l'entità dei limiti al rimborso previsti dalle disposizioni che regolano gli strumenti, sulla base della sua situazione prudenziale, in qualsiasi momento.

Pertanto, la Circolare della Banca d’Italia risulta conforme al parametro di raffronto comunitario, che è dotato, come tale, di primazia sul diritto interno, posta l’efficacia diretta che la fonte regolamentare spiega all’interno dell’ordinamento italiano.

Pertanto, l’intervento normativo del legislatore interno –nella specie, il comma 2-ter dell’art. 28 T.U.B.-, per non essere disapplicato, deve essere interpretato, ove possibile, in armonia con la fonte comunitaria.

Ciò che il nuovo art. 28, comma 2-ter del T.U.B. rimette alle determinazioni della Banca d’Italia è unicamente la modalità della limitazione del rimborso di capitale, ove di essa ricorrano i presupposti.

Questa affermazione, ovviamente, deve tenere conto del fatto che anche tali modalità –come pure si è detto –, nella loro concreta entità, sono in tutto conformate dal diritto comunitario, e, in particolare, dall’art. 10 del Regolamento UE\241\2014 e dall’art. 25 del Regolamento UE\575\2013.

Pertanto, la norma interna bene può essere letta proprio nel senso affermato dall’Autorità di vigilanza nel 9° aggiornamento, per il quale il ruolo dell’Istituto nella determinazione delle modalità di rimborso è esercitato nell’ambito del potere autorizzatorio dell’operazione disposta dagli organi dell’intermediario interessato.

7.2 – Con la seconda censura del motivo si assume che sarebbe illegittima la disposizione della Circolare per cui le banche popolari dovrebbero eliminare dai propri statuti la clausola che prescrive che la maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori o tra coloro da questi indicati.

Tale previsione sarebbe “ultronea” rispetto al fatto che, per effetto dell’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015, come convertito in legge n. 33 del 2015, adesso l’art. 31 del T.U.B. dispone che anche alle banche popolari si applichi l’art. 150 bis del medesimo testo, il quale prevede la disapplicazione di alcune disposizioni relative alle società cooperative contenute nel codice civile.

Tra queste, l’art. 2542 comma 2, che, per l’appunto, circoscrive la possibilità di scelta degli amministratori tra i soci cooperatori o tra le persone indicate dai soci persone giuridiche.

Anche tale censura è infondata.

In primo luogo, osserva il Collegio che l’Aggiornamento n. 9 alla Circolare n. 285\2013, quale pubblicato nella G.U.R.I. n. 149 del 30 giugno 2015, e prodotto in giudizio dagli stessi ricorrenti, non reca alcuna previsione al riguardo.

In ogni caso, non si vede la ragione per cui sarebbe “ultronea”, rispetto ad un atto applicativo, la indicazione dell’obbligo di procedere alla medesima modifica degli statuti che è prevista dalla legge, e non, invece, la prescrizione della mera “disapplicazione” dell’art. 2542 comma 2 c.c..

E’ infatti del tutto evidente che la disapplicazione di tale norma codicistica altro non può comportare che la necessaria modifica degli statuti della banche popolari che ad essa si ispirano.

7.3. – Infine, l’ultima doglianza del mezzo in esame assume che vi sarebbe disparità fra il trattamento riservato alle banche popolari, per le quali la riforma ha rilevato l’incompatibilità del modello con un attivo superiore agli otto miliardi di euro, e quello mantenuto per le altre banche in forma cooperativa, ossia le banche di credito cooperativo.

Anche tale censura sottende la violazione di una parametro costituzionale –quello dell’art.

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