TAR Lecce, sez. III, sentenza 2018-09-03, n. 201801315

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Lecce, sez. III, sentenza 2018-09-03, n. 201801315
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Lecce
Numero : 201801315
Data del deposito : 3 settembre 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 03/09/2018

N. 01315/2018 REG.PROV.COLL.

N. 01274/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Terza

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1274 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
-OMISSIS- -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli Avvocati M S e A F T, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. M S in Lecce, via Zanardelli, n. 66;

contro

Ministero della Difesa e Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata ex lege in Lecce, via F. Rubichi, n. 23;

per l'annullamento:

- del decreto n. 248/3-9/2010 in data 8 giugno 2010, notificato il 23 giugno 2010, del Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale Militare;

- di tutti gli atti relativi al procedimento disciplinare di stato avviato nei confronti del ricorrente, ivi compresi: l’atto di contestazione degli addebiti, la nomina dell’Ufficiale inquirente, il deferimento del ricorrente dinanzi alla Commissione di disciplina, la nomina della Commissione di disciplina, la relazione dell’Ufficiale inquirente, il verdetto di non meritevolezza a conservare il grado reso dalla Commissione di disciplina nei confronti del ricorrente, il foglio del 7 dicembre 2009, il foglio del 17 marzo 2010 e di ogni altro atto relativo al procedimento disciplinare.


Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 maggio 2018 la dott.ssa M L R e uditi per le parti l’Avvocato M. Spata e l'Avvocato dello Stato S. Colangelo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il ricorrente - già -OMISSIS- dell’Esercito Italiano, in forza potenziale alla Scuola di Cavalleria in Lecce - ha impugnato, domandandone l’annullamento:

- il decreto n. 248/3-9/2010 dell’8 giugno 2010, notificato in data 23 giugno 2010, con il quale il Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale Militare, in persona del Direttore Generale, ha disposto nei suoi confronti, a decorrere dal 18 febbraio 2004 (data di irrogazione della sospensione precauzionale obbligatoria dall’impiego, ai sensi dell’articolo 20, comma 2, della Legge del 31 luglio 1954, n. 599), l’esecuzione della “pena accessoria militare della rimozione”, applicata dalla Corte di Appello di Lecce - Prima Sezione Penale, in relazione alla sentenza n. 456/2007 del 15 marzo 2007 emessa dalla stessa Corte di Appello di Lecce (divenuta irrevocabile, in seguito alla sentenza del 22 gennaio 2009 della Suprema Corte di Cassazione), e, per l’effetto, la cessazione del sottufficiale dal servizio permanente e la collocazione in congedo come soldato, precisando, altresì, che “il procedimento disciplinare di stato citato nel preambolo è sospeso dal 13 maggio 2010, giorno in cui è stata acquisita l’ordinanza della Corte d’Appello di Lecce che ha applicato la pena accessoria militare” predetta;

- tutti gli atti relativi al procedimento disciplinare di stato avviato nei suoi confronti, ivi compresi: l’atto di contestazione degli addebiti, la nomina dell’Ufficiale inquirente, il deferimento del ricorrente dinanzi alla Commissione di disciplina, la nomina della Commissione di disciplina, la relazione dell’Ufficiale inquirente, il verdetto di non meritevolezza a conservare il grado reso dalla Commissione di disciplina, il foglio del 7 dicembre 2009, il foglio del 17 marzo 2010 e ogni altro atto relativo al procedimento disciplinare.

Ha chiesto, altresì, “in via istruttoria: disporre l’acquisizione di ogni documento e/o elemento utile ai fini della decisione della presente controversia”.

A sostegno dell’impugnazione interposta ha formulato le seguenti censure:

1) illegittimità per violazione dell’art. 9, comma 1, della Legge n. 19/1990, eccesso di potere per carenza e/o errore sui presupposti, illegittimità per violazione e/o erronea interpretazione dell’art. 2 del D.P.R. 22 dicembre 1990 n. 394;

2) illegittimità per violazione dell’art. 29 c.m.p.m., illegittimità per violazione dell’art. 2 del Decreto Legislativo n. 196/1995, illegittimità per violazione dell’art. 9, primo comma della Legge 7 gennaio 1990, n. 19, eccesso di potere per illogicità manifesta, arbitrarietà ed errore sui presupposti.

Si sono costituiti in giudizio, per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale Erariale, il Ministero della Difesa e lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, contestando in toto le avverse pretese e chiedendo la reiezione del gravame.

Con ordinanza 30 settembre 2010, n. 745, questo Tribunale ha respinto l’istanza cautelare incidentalmente formulata dal ricorrente, << Considerato che l’indulto di cui alla legge 241 del 2006- applicabile per tutti i reati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006- non prevede l’estinzione delle pene accessorie sicchè trova applicazione l’art 174 c.p. secondo il quale “ l’indulto non estingue le pene accessorie se il decreto di applicazione non lo prevede espressamente” ;

considerato che la pena accessoria militare della rimozione , applicata ai sensi dell’art 33, n. 3 c.p.m.p., secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale (Cds 31 agosto 2010 n.6437) comporta la retrocessione al livello più basso della gerarchia militare, con la conservazione dello status di militare , soltanto in tempo di guerra al fine di non depauperare la consistenza della truppa;

considerato che pertanto la previsione della retrocessione con la conservazione dello status di militare non trova applicazione nella specie, per la non attribuibilità del grado di soldato ai militari di un esercito professionale che prevede, come grado iniziale, quello di primo caporal maggiore >>.

Con ordinanza 1° dicembre 2010, n. 5487, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha respinto l’appello cautelare, “ Considerato che l’Ordinanza appellata è sostenuta da puntuale e condivisibile motivazione ”.

Con motivi aggiunti depositati il 13 ottobre 2010, il ricorrente ha, altresì, dedotto:

1) incompetenza del Direttore Generale per il personale militare del Ministero della Difesa ad emettere il decreto n. 248/3-9/2010 datato 8 giugno 2010, illegittimità per violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165: carenza del presupposto legittimante per assenza di delega;

2) illegittimità per violazione dell’art. 9, comma 1, della Legge n. 19/1990, eccesso di potere per carenza e/o errore sui presupposti, illegittimità per violazione e/o erronea interpretazione dell’art. 2 del D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394;

3) illegittimità per violazione dell’art. 29 c.m.p.m., illegittimità per violazione dell’art. 2 del Decreto Legislativo n. 196/1995, illegittimità per violazione dell’art. 9, primo comma della Legge 7 gennaio 1990, n. 19, eccesso di potere per illogicità manifesta, arbitrarietà ed errore sui presupposti.

Ha chiesto, inoltre, in via pregiudiziale, “ritenere ammissibile e rilevante la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto tra l’art. 26 lettera g) e l’art. 60 n. 7 lettera a) della L. n. 599/1954” (si veda precisamente infra, punto n. 1 della parte “Diritto” ).

All’udienza pubblica del 16 maggio 2018, su istanza di parte, la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

1. - In limine , la questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente si appalesa manifestamente infondata, alla luce delle considerazioni che saranno esposte nel prosieguo, dato l’intrinseco collegamento della questione medesima con le articolate censure di merito prospettate e con l’esame delle norme de quibus .

2. - Il ricorso, come integrato dai motivi aggiunti proposti in corso di causa, è infondato e va respinto (non necessitando dei richiesti accertamenti istruttori).

3. - Giova, innanzitutto, premettere, al fine di delimitare esattamente l’oggetto del contendere, che l’impugnato provvedimento, testualmente:

- viste, in particolare:

<<la sentenza del 22 gennaio 2009 emessa dalla suprema Corte di cassazione che, rigettando il ricorso del -OMISSIS- dell’Esercito ..., ha confermato la sentenza n. 456/07 del 15 marzo 2007 della Corte d’appello di Lecce che lo aveva condannato alla pena di anni 5 (cinque) di reclusione ed all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di “associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope” e concorso in “spaccio di sostanze stupefacenti o psicotrope”;

l’ordinanza della Corte d’appello di Lecce, prima sezione penale, del 7 maggio 2010>>, con la quale “è stata disposta, nei confronti del prefato sottufficiale, l’applicazione della pena accessoria militare della rimozione in relazione alla sentenza n. 456/07 emessa dalla stessa Corte il 15 marzo 2007 e divenuta irrevocabile in seguito alla sentenza del 22 gennaio 2009 emessa dalla suprema Corte di cassazione;

… il parere della Sezione terza del Consiglio di Stato (prot. 128/2007) emesso nell’adunanza del 27 febbraio 2007;

…. il decreto dirigenziale n. 49/3-7/2004 del 24 febbraio 2004 con cui è stata disposta nei riguardi del sottufficiale in argomento, a decorrere dal 18 febbraio 2004, la sospensione precauzionale obbligatoria dall’impiego ai sensi dell’articolo 20, comma 2° della legge del 31 luglio 1954, n. 599;

… il decreto dirigenziale n. 44/3-9/2007 del 24 gennaio 2007, con cui è stata disposta nei riguardi del sottufficiale in argomento, a decorrere dal 23 agosto 2006, la sospensione precauzionale dall’impiego ai sensi dell’articolo 20, comma 1° della legge del 31 luglio 1954, n. 599;

… la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo la quale l’amministrazione, nel caso in cui sia stata precedentemente disposta una sospensione cautelare dal servizio per fatti che determinano successivamente la destituzione del pubblico dipendente, deve disporre che quest’ultima abbia inizio dal giorno in cui è cominciata la sospensione cautelare >>;

- ha decretato che, <<
nei confronti del -OMISSIS- dell’Esercito -OMISSIS- -OMISSIS-…. in forza potenziale alla Scuola di cavalleria in Lecce, a decorrere dal 18 febbraio 2004, è disposta l’esecuzione della pena accessoria militare della rimozione applicata in relazione alla sentenza n. 456/07 del 15 marzo 2007 della Corte d’appello di Lecce e per l’effetto il sottufficiale cessa dal servizio permanente e viene collocato in congedo come soldato. Tale decreto comporta le prescritte variazioni matricolari ed amministrative.

Il procedimento disciplinare di stato citato nel preambolo è sospeso dal 13 maggio 2010, giorno in cui è stata acquisita l’ordinanza della Corte d’appello di Lecce che ha applicato la pena accessoria militare>>.

3.1 - E’ opportuno, altresì, precisare che:

- la Corte di Appello di Lecce, con la sentenza n. 456/2007, divenuta irrevocabile il 22 gennaio 2009, statuiva la condanna del militare ricorrente alla pena principale di anni cinque di reclusione per i reati di cui innanzi (cfr. punto n. 3), nonché alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici;

- successivamente, la Corte di Appello di Lecce, con provvedimento del 4 dicembre 2009, provvedeva alla rettifica della citata sentenza di condanna, dichiarando “applicabile ed eseguibile nei riguardi di -OMISSIS- -OMISSIS-, la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per anni cinque e non, come erroneamente disposto, quella dell’interdizione perpetua”;

- con ulteriore provvedimento in data 7 - 10 maggio 2010, la Corte di Appello di Lecce, visto il provvedimento emesso dal Procuratore Generale in data 11 marzo 2010 (con il quale, acclarato che il -OMISSIS- era militare in servizio, veniva disposta la sostituzione della pena detentiva originariamente inflitta con quella della reclusione militare), disponeva (“ritenuto di conseguenza che la condanna inflitta comporta l’applicazione della pena accessoria militare della rimozione, giusta il disposto dell’art. 33 n. 3” del Codice Penale Militare di Pace) l’applicazione al sottufficiale, “in riferimento alla condanna di cui alla premessa, della pena accessoria militare della rimozione”;

- la Corte di Appello di Lecce, con provvedimento del 1° aprile 2009, visti gli artt. 1 e ss. della Legge n. 241 del 31 luglio 2006, ha dichiarato estinta per indulto la residua pena di anni due, mesi cinque e giorni venticinque di reclusione sulla maggior pena inflitta a -OMISSIS- -OMISSIS-, dichiarandone cessata l’esecuzione.

4. - Orbene, il ricorrente - dopo avere illustrato “la complessa vicenda” de qua e, essenzialmente, sostenuto e argomentato la propria “estraneità” ai fatti contestati in sede penale, sfociati nella citata sentenza di condanna (come pure dedotto nella memoria difensiva prodotta nel corso del procedimento disciplinare) - deduce (prima censura dell’atto introduttivo del giudizio, ribadita con i motivi aggiunti) che “Erroneamente l’Amministrazione nell’impugnato decreto n. 248/3-9/2010 continua a far riferimento alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, omettendo di considerare che tale misura accessoria erroneamente irrogata, è stata rettificata … con l’interdizione per anni cinque dai pubblici uffici, ed ancora che tale misura è stata sostituita con quella militare della rimozione” e che il provvedimento impugnato, “oltre che erroneo e/o carente sui presupposti, illogico ed arbitrario”, sarebbe stato adottato “in aperta violazione dell’art. 9, comma 1, della L. n. 19/1990 che fa divieto all’Amministrazione di adottare provvedimenti di destituzione di diritto. Difatti nei confronti del ricorrente è stato applicato l’indulto con conseguente venir meno sia della pena principale che di quella accessoria (interdizione temporanea dai pubblici uffici, sostituita, anche se con notevole ritardo e con funzione meramente ricognitiva stante il già concesso indulto, con la rimozione a seguito della sostituzione della pena detentiva con la detenzione militare)”.

Sostiene che “L’art. 2 del DPR 22.12.1990 n. 394 (completamente disatteso e/o ignorato dall’Amministrazione negli atti impugnati) prevede infatti che l’indulto è concesso per intero per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato anche solo in parte, l’indulto” e che <<Laddove la pena accessoria venga meno (per riabilitazione, ovvero a seguito di indulto come nella presente fattispecie dove il ricorrente è stato anche riabilitato) rivive il potere disciplinare, e i termini di cui al citato art. 9 cominciano a decorrere dalla data in cui l’Amministrazione viene a conoscenza del provvedimento giudiziale che fa venir meno la destituzione “ ex lege ”>>. Nel caso di specie, invece, l’Amministrazione avrebbe “erroneamente sospeso il procedimento disciplinare ritenendo di poter comunque disporre la cessazione dal servizio permanente del ricorrente ed il suo collocamento in congedo. Il venir meno della misura accessoria, nel caso di specie, è difatti condizione già presente e conosciuta dall’Amministrazione (Vedasi atto datato 7.12.09 con il quale il Comandante delle Forze Operative Terrestri dispone che il -OMISSIS-. …. sia sottoposto ad inchiesta formale disciplinare, in cui si dà atto che le Corte d’appello di Lecce, su istanza dell’interessato, ha dichiarata estinta per indulto la pena residua)”. Inoltre, l’atto di sospensione del procedimento disciplinare sarebbe “anch’esso erroneo sui presupposti ed illegittimo per quanto innanzi esposto e di certo non idoneo a far interrompere i termini del procedimento disciplinare. L’atto di interruzione del procedimento disciplinare interviene inoltre quando l’azione disciplinare è già abbondantemente perenta”.

In definitiva, nei confronti del ricorrente non avrebbe potuto “darsi luogo all’esecuzione della misura penale accessoria, estinta unitamente alla pena principale ( accessorium sequitur principali ) per effetto dell’indulto, bensì al solo procedimento disciplinare che di fatto è stato avviato ma non concluso nei termini perentori di cui agli artt. 9 e 10 della L. n. 19/1990”.

Sostiene, inoltre (secondo motivo del ricorso introduttivo, ribadito con i motivi aggiunti) che nei suoi confronti “è stata determinata anziché la rimozione dal grado con conseguente declassamento del militare all’ultimo grado dei militari in servizio permanente dell’Esercito Italiano, la perdita del grado con conseguente declassamento a soldato semplice e proscioglimento dal Corpo con conseguente estinzione del rapporto di impiego” e che, così facendo, l’Amministrazione avrebbe “palesemente violato l’istituto di cui all’art. 29 c.p.m.p.” e sarebbe “incorsa in una palese violazione del divieto di destituzione di diritto di cui all’art. 9, comma 1, della Legge 07.01.1990 nr. 19”. Cita a supporto la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quarta, n. 3661/2006 (che “ha precisato che alla Rimozione non consegue la cancellazione dai ruoli dell’Amministrazione di appartenenza bensì, in ossequio a quanto disposto dall’art. 29 c.p.m.p., il declassamento del militare al grado più basso della scala gerarchica di militare in servizio permanente”), nonché la sentenza della Corte Costituzionale n. 393 - rectius , n. 363 - del 1996. Sicchè, sostanzialmente, “il ricorrente non avrebbe dovuto essere declassato a soldato semplice e quindi collocato in congedo per cessazione dal servizio permanente, poiché la norma applicata non consente il congedamento del militare bensì l’assegnazione dello stesso all’ultimo grado della carriera che presti servizio in s.p.e., nella specie l° Caporal Maggiore (Vedasi articolo 2 del D.Lgs. n. 196/1995) cioè al grado più basso dei militari dell’Esercito Italiano in servizio permanente”, contravvenendo anche “all’inderogabile principio imposto dal Legislatore, che ha formato oggetto di pronuncia della Corte Costituzionale che con la già richiamata sentenza nr. 393/1996 ha espressamente escluso che la rimozione comporti la risoluzione di un rapporto di impiego professionale dichiarando tra l’altro incostituzionali l’art. 12, lett. f) e l’art. 34, n.7 della 1.1168/1961 nella parte in cui non prevedono l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione del servizio per perdita del grado conseguente all’applicazione della pena accessoria della rimozione, ribadendo ancora l’illegittimità di ogni ipotesi di destituzione di diritto e la necessità che la destituzione, quale sanzione più grave, consegua eventualmente ad un procedimento disciplinare autonomo”.

Con i motivi aggiunti depositati il 13 ottobre 2010, oltre a ribadire le doglianze già formulate con l’atto introduttivo del giudizio e a dedurre l’asserito vizio di incompetenza relativa (sul quale si veda infra , punto n. 5), il ricorrente (premesso che con la sentenza n. 363/1996, la Corte Costituzionale “ha espressamente escluso che la rimozione comporti la risoluzione di un rapporto di impiego professionale dichiarando tra l’altro incostituzionali l’art. 12, lett. f) e l’art. 34, n. 7 della l. 1168/1961 nella parte in cui non prevedono l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione del servizio per perdita del grado conseguente all’applicazione della pena accessoria della rimozione, ribadendo ancora l’illegittimità di ogni ipotesi di destituzione di diritto e la necessità che la destituzione, quale sanzione più grave, consegua eventualmente ad un procedimento disciplinare autonomo”) ha prospettato la seguente questione di legittimità costituzionale:

“stante quanto già disposto dalla Corte Costituzionale con riferimento ai graduati di truppa ed i Brigadieri dell’Arma dei Carabinieri con sentenza n. 393/1996” ( rectius , n. 363), “secondo cui alla pena accessoria della rimozione non può seguire la destituzione di diritto del militare”, “ritenere ammissibile e rilevante la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto tra l’art. 26 lettera g) e l’art. 60 n. 7 lettera a) della L. n. 599/1954 nella parte in cui dispone che il sottufficiale dell’Esercito viene congedato nel caso di perdita del grado conseguente a condanna che importa la pena accessoria della rimozione per evidente disparità di trattamento con i graduati di truppa ed i sovrintendenti dell’Arma dei Carabinieri violazione degli artt. 3 e 97 Cost. (canone di razionalità normativa e buon andamento dell’Amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali, oltre che del principio di uguaglianza)”.

4.1 - Innanzitutto, inconferenti, ai fini del presente giudizio, risultano le argomentazioni addotte, volte a rilevare l’estraneità del ricorrente ai fatti contestati (e definitivamente accertati) in sede penale.

4.2 - Ciò posto, evidenzia, in primo luogo, il Collegio (come già ritenuto in sede cautelare) che l’indulto di cui alla Legge 31 luglio 2006, n. 241 non si estende alle pene accessorie (e, quindi, alla rimozione comminata nel caso di specie).

Ed invero, l’art. 174 del Codice Penale (“ Indulto e grazia ”) prevede che:

L’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna ”.

Come efficacemente e condivisibilmente evidenziato dalla P.A. resistente (cfr. la Relazione depositata agli atti del giudizio il 27 settembre 2010) e già osservato in sede cautelare da questo T.A.R. (con argomentazioni condivise dal Consiglio di Stato - si veda la citata ordinanza 1° dicembre 2010, n. 5487), l’indulto è, quindi, una causa di clemenza di carattere generale, che opera esclusivamente sulla pena principale, e non già sulle pene accessorie, salva diversa specifica disposizione.

4.2.1 - Orbene:

- per un verso, l’invocato indulto di cui al D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394 “ ha efficacia” (art. 5) “per i reati commessi fino a tutto il giorno 24 ottobre 1989 ” (e, peraltro, “ È concesso, per intero, per le ” - sole - “ pene accessorie temporanee ”, cfr. art. 2);
pertanto, non risulta applicabile alla fattispecie in esame, inerente a reato “accertato dal novembre 2000 fino all’aprile 2002” (come espressamente risultante dalla sentenza della Corte di Appello Penale di Lecce n. 456/2007), in relazione al quale è stata (infine) applicata la pena accessoria (militare) della rimozione (perpetua, e non già temporanea);

- per altro verso, l’indulto di cui alla Legge 31 luglio 2006, n. 241 - applicabile (art. 1) “ per tutti i reati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006” - quindi, anche ai reati de quibus - “nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie sole o congiunte a pene detentive ” - non prevede (comunque) l’estinzione delle pene accessorie, sicchè trova applicazione il citato art 174 del Codice Penale, con la conseguenza infondatezza della doglianza in esame.

4.3 - Anche le ulteriori illustrate censure vanno disattese.

4.3.1 - Giova, innanzitutto, rammentare che:

- l’art. 26 del Capo IV (“ Cessazione dal servizio permanente ”) della Legge 31 luglio 1954, n. 599 (“ Stato dei sottufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica ”), vigente ratione temporis (in quanto abrogata - solo - dall’art. 2268, comma 1, n. 400 del Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 e ss.mm.ii., entrato in vigore, ai sensi del successivo art. 2272 , “ cinque mesi dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del codice ”, cioè dal 9 ottobre 2010) dispone che:

Il sottufficiale cessa dal servizio permanente per una delle seguenti cause:

a) età;

b) infermità;

c) non idoneità alle attribuzioni del grado o scarso rendimento;

d) domanda;

e) inosservanza delle disposizioni sul matrimonio dei sottufficiali;

f) nomina all’impiego civile;

g) perdita del grado ”;

- l’art. 60 del Titolo VII (“ Perdita del grado ”) della citata Legge 31 luglio 1954, n. 599 stabilisce, per quanto di rilievo, che:

Il grado si perde per una delle seguenti cause:

…7) condanna:

a) nei casi in cui, ai sensi della legge penale militare, importi la pena accessoria della rimozione ”;

- l’art. 28 (“ Degradazione ”) del Capo III (“ Delle pene militari accessorie, in particolare ”) del Codice Penale Militare di Pace, approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303 (di seguito, anche solo c.p.m.p.), prevede che:

La degradazione si applica a tutti i militari, è perpetua e priva il condannato:

1. della qualità di militare e, salvo che la legge disponga altrimenti, della capacità di prestare qualunque servizio, incarico od opera per le forze armate dello Stato;

2. delle decorazioni, delle pensioni e del diritto alle medesime per il servizio anteriormente prestato.

…La condanna all’ergastolo, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni e la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, pronunciate contro militari in servizio alle armi o in congedo, per reati militari, importano la degradazione… ”;

- l’art. 29 (“ Rimozione ”, pena militare accessoria applicata nella fattispecie concreta in esame) del Codice Penale Militare di Pace statuisce che:

La rimozione si applica a tutti i militari rivestiti di un grado o appartenenti a una classe superiore all’ultima;
è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe.

La condanna alla reclusione militare, salvo che la legge disponga altrimenti, importa la rimozione:

1. per gli ufficiali e sottufficiali, quando è inflitta per durata superiore a tre anni;

2. per gli altri militari, quando è inflitta per durata superiore a un anno ”;

- l’art. 33 del c.p.m.p. (“ Pene militari accessorie conseguenti alla condanna per delitti preveduti dalla legge penale comune ”) prevede che:

La condanna pronunciata contro militari in servizio alle armi o in congedo, per alcuno dei delitti preveduti dalla legge penale comune, oltre le pene accessorie comuni, importa:

1. la degradazione, se trattasi di condanna …. alla pena dell’ergastolo, ovvero di condanna alla reclusione che, a norma della legge penale comune, importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici;

2. la rimozione, se, fuori dei casi indicati nel numero 1, trattasi di delitto non colposo contro la personalità dello Stato, o di alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 476 a 493, 530 a 537, 624, 628, 629, 630, 640, 643, 644 e 646 del codice penale, o di bancarotta fraudolenta;
ovvero se il condannato, dopo scontata la pena, deve essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva diversa dal ricovero in una casa di cura o di custodia per infermità psichica, o alla libertà vigilata;

3. la rimozione, ovvero la sospensione dall’impiego o dal grado, secondo le norme stabilite rispettivamente, dagli articoli 29, 30 e 31, in ogni altro caso di condanna alla reclusione, da sostituirsi con la reclusione militare a' termini degli articoli 63 e 64 ”;

- l’art. 63 del c.p.m.p. (“ Esecuzione delle pene comuni inflitte ai militari in servizio permanente ”), per quanto di rilievo, dispone che:

Nella esecuzione delle pene inflitte ai militari in servizio permanente alle armi, per reati preveduti dalla legge penale comune, si osservano le norme seguenti: …

2. la pena dell’ergastolo e quella della reclusione, se la condanna importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici, sono eseguite nei modi comuni, con degradazione del condannato secondo le norme stabilite dalla legge e dai regolamenti militari;

3. alla pena della reclusione, se la condanna non importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici, è sostituita la reclusione militare per eguale durata, ancorché la reclusione sia inferiore a un mese …”;

- l’art. 9 della Legge 7 febbraio 1990, n. 19 (“ Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici Dipendenti ”) dispone, poi, che:

1. Il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. È abrogata ogni contraria disposizione di legge.

2. La destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni. Quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore ad anni cinque. Decorso tale termine la sospensione cautelare è revocata di diritto ”.

4.3.2 - E’ stato in subiecta materia condivisibilmente affermato che << gli artt. 28 e 29 c.p.m.p. contemplano due diverse pene militari accessorie, conseguenti a determinate condanne nei confronti dei militari, la degradazione e la rimozione dal grado;
la degradazione opera ex tunc e priva il militare ab origine dello status di militare.

La rimozione dal grado opera invece ex nunc, e non priva il soggetto dello status di militare, ma lo colloca al livello più basso della gerarchia militare, quello di soldato semplice;
il grado di “soldato semplice” riguarda solo i soggetti astretti dalla leva obbligatoria, mentre non riguarda i volontari in servizio permanente effettivo, per i quali il primo gradino della carriera militare è il grado di primo caporal maggiore (v. artt. 1 e 2 d.lgs. 12 maggio 1995 n. 196;
art. 11 l. 10 maggio 1983 n. 212;
allegato A) al d.P.R. n. 545 del 1986);

2.1. Giova osservare che il Cod. pen. mil. di pace è stato varato durante la seconda guerra mondiale, vale a dire in un’epoca in cui operava la leva obbligatoria, indispensabile per le esigenze belliche, e in cui il riferimento al “semplice soldato” era appunto fatto al soldato in servizio di leva obbligatoria >>
(Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza 31 agosto 2010, n. 6437).

Pertanto (cfr. il parere della Terza Sezione del Consiglio di Stato prot. n. 128/2007, citato nell’impugnato provvedimento, nonchè richiamato nella relazione dell’Amministrazione depositata agli atti del giudizio):

- la degradazione di cui all’art. 28 c.p.m.p. produce un effetto interdittivo immediato e perpetuo dallo stato di militare, ed espulsivo dal servizio;

- scopo dell’art. 29 c.p.m.p. era, invece, pragmaticamente, quello di produrre un effetto espulsivo dal servizio non immediato, ma “differito” alla data di cessazione dell’obbligo di leva, con conservazione (temporanea, fino alla cessazione della leva obbligatoria) dello status di militare, ma al gradino più basso, in funzione (in tempo di guerra) delle esigenze di un contingente di forze armate il più numeroso possibile: ciò spiega perché l’art. 29 c.p.m.p. non contempla la possibilità di retrocedere i militari di carriera (già all’epoca esistenti) al gradino più basso del servizio professionale, che è quello di volontario di truppa in servizio permanente effettivo con il grado di primo caporal maggiore, e non già di soldato semplice (qualifica, quest’ultima, non prevista per i volontari di truppa in servizio permanente effettivo).

Ne consegue che, laddove si applichi la pena militare accessoria della rimozione, il militare, retrocesso a soldato semplice, dovrà necessariamente essere collocato in congedo, avendo già assolto l’obbligo di leva, ovvero perché (allo stato) gli obblighi di leva sono sospesi (cfr. Consiglio di Stato, cit., parere prot. n. 128/2007).

Ed invero (Consiglio di Stato, Sezione Quarta, cit., n. 6437/2010), “ la risoluzione del rapporto di impiego è solo un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo, e non una sanzione disciplinare inflitta senza procedimento;
pertanto, legittimamente, l’amministrazione, a fronte di una sentenza penale di condanna con inflizione di pena accessoria interdittiva o espulsiva, non può che disporre la cessazione dal servizio, con un provvedimento che non ha portata disciplinare e che costituisce atto dovuto, vincolato, dichiarativo di uno status conseguente alla condanna penale del dipendente
”;
il ragionamento valevole per l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, di cui all’art. 29 c.p., va esteso alla degradazione e alla rimozione, di cui agli artt. 28 e 29 c.p.m.p.”.

In definitiva, a fronte di sanzioni penali accessorie che comportano un effetto interdittivo dallo stato di militare ovvero espulsivo dal servizio militare, immediato (degradazione, ex art. 28 c.p.m.p.) o differito (rimozione, ai sensi dell’art. 29 del c.p.m.p.), l’Amministrazione militare non deve attivare alcun procedimento disciplinare, ma adottare un provvedimento dichiarativo che dia atto degli effetti della pena accessoria sullo stato e/o sul servizio: sicchè, “ a fronte della sanzione penale accessoria della rimozione dal grado, di cui all’art. 29 c.p.m.p., che comporta un effetto espulsivo dal servizio militare, differito alla cessazione della leva obbligatoria, l’amministrazione militare non deve attivare un procedimento disciplinare, ma adottare un provvedimento di collocamento del militare in congedo, con il grado di soldato semplice;
la lettera e la ratio dell’art. 29 c.p.m.p. non ne consentono una diversa interpretazione e, segnatamente, non consentono di collocare il militare destinatario della rimozione al primo grado dei volontari di truppa in servizio permanente effettivo”
(Consiglio di Stato, Sezione Terza, parere cit., prot. n. 128/2007).

Del resto, << a fronte di una determinazione giudiziale che recide in modo radicale il rapporto di servizio, non è coerente che all’Amministrazione venga dato il potere di adottare una autonoma misura disciplinare che, se non coincidente con la destituzione, sarebbe “inutiliter data” …., atteso che non è data all’Amministrazione alcuna possibilità di contrapporre una propria diversa valutazione all’esito della vicenda penale >>” (T.A.R. Toscana, Firenze, Sezione Prima, 27 dicembre 2017, n. 1683).

Il Collegio ritiene di precisare, per completezza espositiva, che (come pure condivisibilmente affermato dal Consiglio di Stato, cit., sentenza n. 6437/2010), “ l’isolato precedente contrario della IV sezione >>
(cioè la sentenza, citata dal ricorrente, del Consiglio di Stato, Sezione Quarta, n. 3661/2006, a mente della quale l’art. 29 del c.p.m.p. deve essere inteso e applicato, “ in coerenza con la sua ratio, nel senso che la perdita del grado comporta l’assegnazione al militare colpito dalla rimozione dell’ultimo grado della carriera che presti servizio in s.p.e. ”) “ muove dalla non condivisibile premessa che l’art. 29 c.p.m.p., a differenza del precedente art. 28, vorrebbe conservare il posto di lavoro ai militari;
tale premessa é erronea, … perché l’art. 29 cit. non fu dettato nell’interesse del militare, ma nell’interesse delle esigenze belliche;
pertanto la ratio legis non fu quella di conservare il posto di lavoro al militare a tempo indeterminato, ma più pragmaticamente quella di trattenere il militare in servizio temporaneamente, fino alla cessazione della leva obbligatoria, vale a dire, in tempo di guerra, in funzione delle esigenze di un contingente di forze armate il più numeroso possibile
”.

4.3.3 - - Le superiori considerazioni inducono anche a ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con i motivi aggiunti depositati il 13 ottobre 2010.

Ed invero, proprio la sentenza della Corte Costituzionale 30 ottobre 1996, n. 363 (invocata dal ricorrente) ha - pure - espressamente (e chiaramente) sancito che “ la nuova disciplina sulla destituzione dei pubblici dipendenti, di cui all’art. 9 della legge n. 19 del 1990, è estranea all'applicazione delle pene accessorie, anche di carattere interdittivo (ord. n. 201 del 1994 e ord. n. 137 del 1994, e sent. n. 197 del 1993, di cui v., in particolare, il n. 4 del Considerato in diritto) ”.

Ed ancora, con la sentenza 11 dicembre 1997, n. 383, il Giudice delle Leggi ha affermato che:

<<È infondata la questione di legittimità costituzionale che concerne l’art. 29 c.p.m.p. e l’art. 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, con riguardo all’automatica applicazione della rimozione. Non è corretto il richiamo alla giurisprudenza sulla “destituzione di diritto”, avendo questa Corte già messo in luce la distinzione fra tale tematica e quella delle pene accessorie (sent. n. 363 del 1996;
ord. n. 201 del 19974 e ord. n. 137 del 1994, sent. n. 197 del 1993, di cui v. in particolare il n. 4 del Considerato in diritto). Mentre nella sede disciplinare è possibile commisurare la sanzione all’entità del fatto, nell’applicazione delle pene accessorie non è dato analogo apprezzamento;
ad esse è estranea, dunque, la statuizione contenuta nell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 .
…”.

È, quindi, “ del tutto palmare come non sia possibile omologare le diverse situazioni qui in discorso, ponendo in ombra la chiara distinzione che la Corte, anche nella sentenza n. 363 del 1996, ha delineato fra la destituzione automatica quale sanzione disciplinare e la destituzione automatica quale conseguenza di una pena accessoria, distinzione del tutto palese dalla mera lettura del dispositivo della sentenza da ultimo evocata. E in questo senso si è orientata già la giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 30 giugno 2010 n. 41668) che civile (Cassazione civile, sez. lav., 17 febbraio 2010 n. 3698) ” (Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 14 maggio 2014, n. 2480).

Deve, quindi concludersi, anche sulla scorta delle riportate indicazioni ermeneutiche del Giudice delle Leggi, che “ quel principio di garanzia di necessaria attivazione del procedimento disciplinare per risolvere il rapporto di pubblico impiego non è né assoluto, né incondizionato, ponendosi in linea recessiva quando le ragioni della disciplina, dell’onore e del buon andamento risultino irrimediabilmente e drasticamente compromesse dalla commissioni di reati particolarmente odiosi e devastanti per la finanza pubblica e per la tenuta del tessuto sociale, per i quali il legislatore abbia, perciò ” (congruamente e ragionevolmente) , previsto direttamente la sanzione penale accessoria di carattere espulsivo, rispetto alla quale la successiva attività amministrativa si pone in rapporto di doverosa strumentalità e complementarietà, dovendo essa solo formalizzare, precisare e completare, sul piano appunto amministrativo (ad esempio a fini giuridici ed economici), gli effetti della pena accessoria irrogata dal Giudice ” (T.A.R. Toscana, Firenze, Sezione Prima, 27 dicembre 2017, n. 1683) .

Nè a diverse conclusioni, ad avviso del Collegio, può giungersi sulla scorta dell’invocata sentenza (si veda la memoria difensiva del 6 aprile 2018) della Corte Costituzionale 15 dicembre 2016, n. 268: la suddetta pronuncia ha dichiarato “ l’illegittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del D. Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici ”, e, quindi, non rileva nel presente contenzioso, il quale riguarda la (differente e più grave) pena militare accessoria della rimozione (che comporta, ex se , la cessazione - perpetua - del militare dal servizio permanente).

4.3.4 - In conclusione, nella fattispecie concreta in esame, la P.A. ha doverosamente disposto (non già nell’esercizio del potere disciplinare - sicchè, comunque, irrilevanti risultano le censure inerenti al mancato rispetto dei termini del procedimento disciplinare pure inizialmente attivato -, bensì in - vincolata, non residuando, in subiecta materia , alcun margine di discrezionalità in capo alla P.A. - attuazione delle statuizioni definitive del Giudice Penale) “l’esecuzione della pena accessoria militare della rimozione applicata in relazione alla sentenza n. 456/07 del 15 marzo 2007 della Corte d’appello di Lecce”.

5. - Va disattesa, poi, la censura di incompetenza (relativa) sollevata con i motivi aggiunti depositati il 13 ottobre 2010, a mente della quale, essenzialmente, <<Il provvedimento adottato nei confronti del ricorrente oggetto del presente ricorso costituisce senza alcun dubbio un “atto di gestione del personale” per cui andava disposto dal Ministro della Difesa non risultando che quest’ultimo abbia all’uopo delegato il Direttore Generale per il personale militare>>.

In proposito è dirimente (e sufficiente) osservare che l’art. 16 del Decreto del Ministro della Difesa 1° febbraio 2010 (richiamato nel provvedimento impugnato e vigente ratione temporis , in quanto abrogato - solo - dall’art. 42, comma 1 del D.M. 22 giugno 2011) indica tra le competenze della Direzione Generale - espressamente - le “ attività connesse con i procedimenti penali e disciplinari a carico del personale militare ”.

6. - Quanto alle recenti riabilitazioni penali, ordinaria e militare, sopravvenute (rispettivamente, in data 3 marzo 2015 e 25 maggio 2016) all’adozione del gravato provvedimento, basta rilevare che le stesse (in virtù del principio “ tempus regit actum ”) non hanno rilevanza nel presente giudizio.

7. - Per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso, come integrato dai motivi aggiunti proposti in corso di causa, è infondato nel merito e deve essere respinto.

8. - Sussistono i presupposti di legge (la complessità e taluni aspetti di assoluta novità della vicenda in esame) per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

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