TAR Roma, sez. I, sentenza 2014-06-03, n. 201405861
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N. 05861/2014 REG.PROV.COLL.
N. 09846/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9846 del 2013, proposto da:
Banca Nazionale del Lavoro Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. prof. F M, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;
contro
- Istituto per il Credito Sportivo, in persona dei Commissari Straordinari p.t., rappresentato e difeso dagli avv.ti prof. R C e G F, con domicilio eletto presso lo studio Bonura Fonderico in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 173;
- Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport, Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali, Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, 12;
- Banca d'Italia;
per l'accertamento della nullità e/o l’annullamento
1) della delibera n. 424 dei Commissari Straordinari dell’Istituto per il Credito Sportivo del 13 settembre 2013, avente ad oggetto “Annullamento delle delibere dell’Istituto per il Credito Sportivo (ICS) di distribuzione degli utili, ai sensi dell’articolo 31 del reviviscente Statuto 2002 e imputazione delle maggiori somme rivenienti nell’apposita ‘Riserva Ordinaria di ripetizione degli utili 2005/2010 distribuiti ex Statuto 2005”;
2) e, per quanto occorre possa, del decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri congiuntamente firmato dal Ministro per gli affari regionali, il turismo e lo sport e il Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con il Ministro dell’economia e finanze 6.03.2013 avente per oggetto l’annullamento ex art. 21 nonies L. 241/90 della “Direttiva emanata in data 14 dicembre 2004 dal Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con il Ministro dell’economia e finanze, e del decreto di approvazione dello Statuto dell’Istituto per il credito sportivo emanato in data 04 agosto 2005 dal Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con il Ministro dell’economia e finanze” in quanto atto presupposto, nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente o comunque connesso, ancorchè non conosciuto, e con riserva di motivi aggiunti;
3) nonché per il risarcimento dei danni patiti e patiendi provocati dall’ICS alla ricorrente a causa dell’illecito comportamento dei suoi Commissari dopo che il decreto interministeriale del 6.03.2013, ritualmente impugnato dall’attuale ricorrente con ricorso n. 4030/2013 pendente dinanzi alla sez. I di codesto on.le Tribunale, ha annullato d’ufficio la “Direttiva emanata in data 14 dicembre 2004 dal Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con il Ministro dell’economia e finanze, e del decreto di approvazione dello Statuto dell’Istituto per il credito sportivo emanato in data 04 agosto 2005 dal Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con il Ministro dell’economia e finanze”.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Istituto per il Credito Sportivo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport, del Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali e del Ministero dell'Economia e delle Finanze di Ministero, con le relative documentazioni;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 26 marzo 2014 il dott. I C e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, la società ricorrente chiedeva l’annullamento dei provvedimenti in epigrafe, di cui uno, il decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 6 marzo 2013 congiuntamente firmato dal Ministro per gli affari regionali, il turismo e lo sport e il Ministro per i beni e le attività culturali di concerto con il Ministro dell’economia e finanze, in qualità di atto presupposto peraltro già impugnato in via principale con distinto ricorso n.r.g. 4030/2013 pendente presso questa Sezione e in trattazione alla medesima data di quello di cui alla presente sentenza.
In sintesi, richiamando il contenuto dell’atto impugnato in questa sede in via principale, relativo all’annullamento, ex art. 21-nonies l. n. 241/90 delle ivi indicate delibere del Consiglio di Amministrazione di cui alle specifiche sedute dei mesi di aprile 2006-07-08-09-10-11 riguardanti l’approvazione del bilancio di ciascun anno di riferimento, limitatamente alla ripartizione degli utili, rideterminati, ora per allora, in attuazione dei criteri fissati dall’art. 31 dello Statuto del 2002 con conseguente imputazione e attribuzione in conseguenza dell’adozione del su ricordato decreto del 6 marzo 2013 che aveva disposto a sua volta l’annullamento dello Statuto dell’Istituto per il credito sportivo (I.C.S.) adottato nel 2005, la ricorrente evidenziava in primo luogo vizi propri del provvedimento in questione e, in secondo luogo, vizi di illegittimità derivata dal provvedimento di annullamento d’ufficio dello statuto dell’Istituto per il Credito Sportivo (I.C.S.), sopra ricordato e impugnato con ricorso autonomo di cui riportava le relative censure.
Per quel che riguardava i vizi “propri” del primo provvedimento impugnato, la ricorrente lamentava quanto segue.
“ 1. Nullità del provvedimento per carenza degli elementi essenziali ex art. 21 septies l. n. 241. Domanda di conseguente sentenza di accertamento della nullità dell’atto ex art. 31, c.4, c.p.a.”.
Il provvedimento in questione – con cui erano annullati i bilanci di sei esercizi passati e ripartiti gli utili in base alle disposizione del “reviviscente” Statuto del 2002 dopo l’annullamento di quello del 2005 – incideva non su atti amministrativi ma su negozi di diritto privato - e quindi da definire “nulli” in quanto non fondati sull’esercizio di un potere amministrativo “tipicizzato” da una norma – sia perché l’I.C.S., pur ente pubblico creditizio, svolge integrale attività di impresa sottoposta “in toto” al diritto privato, sia perché non risultano norme vigenti che regolano poteri amministrativi inerenti tale attività creditizia sia perché, pur ritenendo la delibera di approvazione del bilancio come atto di organizzazione, la relativa distribuzione degli utili esulava dai poteri “organizzativi” interni di tale ente pubblico economico. Ciò era anche attestato dal promovimento, avanti all’a.g.o., da parte dell’I.C.S. di un’azione tesa al recupero del “differenziale” degli utili già distribuiti.
“ 2. Illegittimità procedurale del provvedimento impugnato nel ‘quando’ per mancata sospensione del procedimento. Violazione di legge ed eccesso di potere per violazione del principio ‘non venire contra factum proprium’ per quanto attiene alla parte decisoria dell’atto ”.
Pur inquadrando il provvedimento impugnato quale atto amministrativo, emergevano comunque illegittimità, tra cui quella procedurale, relativa alla mancata considerazione che il legale della ricorrente e l’Avvocato dello Stato, dopo aver concordemente rinviato al merito la richiesta di “sospensiva” presentata nel su ricordato ricorso avverso il decreto del 6 marzo 2013, avevano nel frattempo firmato un’istanza congiunta di prelievo per la celere trattazione che avrebbe imposto di non dare luogo ad ulteriori provvedimenti.
“ 3. Violazione di legge ed eccesso di potere per violazione dell’art. 21 nonies l. n. 241 e degli artt. 2423, 2423 bis e ter e 2433 cod. civ. eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti”.
Gli effetti degli atti che si volevano annullare erano da tempo esauriti, configurandosi l’approvazione del bilancio come atto corrispondente ad un esercizio annuale dell’impresa, distribuzione degli utili compresi, in particolar modo se riscossi in buona fede ex art. 2433 c.c.
“ 4. Illegittimità del provvedimento per intervenuta prescrizione totale o parziale delle obbligazioni richiamate nel provvedimento impugnato. Violazione degli art. 2948 e 2949 cod. civ. eccesso di potere per difetto di motivazione. Violazione di legge per violazione dell’art. 10 l. n. 241 ”.
La ripetibilità degli utili in ogni tempo, sottesa al provvedimento impugnato, non considerava l’istituto della prescrizione, per cui non poteva operare come relativo atto interruttivo l’atto inviato ai partecipanti al “fondo di dotazione” in seguito a specifica delibera della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 20 aprile 2012 n. 57. Infatti, operandosi il termine di prescrizione quinquennale, certamente non poteva richiedersi alcunché per gli anni 2005 e 2006.
Per la ricorrente, doveva pervenirsi ad analoga conclusione anche per il 2007 in considerazione della genericità dell’atto di interruzione della prescrizione sopra richiamato, riferito oltre tutto a somme diverse.
Infine, la ricorrente evidenziava la carenza di motivazione sul punto, perché l’eccezione di prescrizione era stata comunque evidenziata dalla ricorrente durante il contraddittorio procedimentale.
“ 5. Violazione di legge ed eccesso di potere per violazione dell’art. 21 nonies L. 241 sia sotto il profilo del ‘termine ragionevole’ per esercitare l’autotutela, sia sotto il profilo dell’erronea ponderazione degli interessi delle parti contrapposte. Eccesso di potere per falsa ed apodittica motivazione ”.
Non risultava comunque rispettato il termine “ragionevole” previsto dalla norma in rubrica per disporre un annullamento di ufficio, per tutte le delibere approvative del bilancio e della ripartizione degli utili, in relazione ad un rapporto di partecipazione di durata pluriennale né era stato correttamente dato luogo alla ponderazione degli interessi contrapposti pure prevista dalla norma in questione.
“ 6. Violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento alla pretesa esistenza di aiuti di Stato, vietati dalla normativa dell’Unione europea. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e falsa ricostruzione dei presupposti di diritto ”.
La motivazione finale del provvedimento, che si riferiva alla configurabilità di aiuti di Stato, non era condivisibile perché l’I.C.S. è un ente pubblico economico che non amministra denaro pubblico ed esercita attività di impresa in regime di diritto privato, distribuendo utili a mero titolo partecipativo, fermo restando che sport e cultura sono esclusi dallo spazio economico concorrenziale per i quali è configurata la disciplina europea inerente agli “aiuti di Stato”, che prevede comunque l’instaurarsi di uno specifico procedimento comunitario e non può essere unilateralmente individuata dall’I.C.S.
In relazione al su ricordato decreto del 6 marzo 2013, quale atto presupposto i cui vizi, per la ricorrente, si riflettevano anche su quello conseguente finora censurato, erano riportate le censure già illustrate nel distinto ricorso sopra richiamato e consistenti in: “ 1. Violazione di legge per violazione del principio del contraddittorio ex lege 1990 n. 241”;“2. Violazione di legge ed eccesso di potere per violazione dell’art. 21 nonies della L. 24171990”;“3. Violazione di legge per violazione dell’art. 18 L. 356790 ed eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria”;“4. Violazione di legge ed eccesso di potere per travisamento dei fatti ed errore nell’interpretazione degli stessi e inesistenza dei presupposti per la violazione delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato”, “ Violazione di legge ed eccesso di potere dell’atto presupposto per comprovata erroneità ed incongruità della motivazione da parte del provvedimento ICS che ha preteso darne esecuzione”.
La ricorrente concludeva la sua esposizione proponendo anche domanda di risarcimento danni, sia in relazione alle spese per dare luogo al presente contenzioso sia per gli effetti sull’immagine professionale anche alla luce delle notizie di stampa conseguenti all’adozione dei provvedimenti impugnati.
Si costituivano in giudizio l’I.C.S. e le Amministrazioni in epigrafe. Queste ultime illustravano le proprie tesi con memoria unica per tutti i giudizi pendenti e in decisione alla medesima data dell’udienza pubblica, promossi da altri Istituti interessati anche avverso il decreto del 6 marzo 2013 più volte ricordato nonché avverso una ulteriore conseguente direttiva emanata con d.p.c.m. dell’8 agosto 2013 la cui impugnativa era pure in decisione nel merito.
Deducendo avverso le censure rivolte all’annullamento di tale provvedimento “presupposto”, le amministrazioni costituite, in relazione ai motivi di ricorso avverso l’atto “conseguente” impugnato in principalità nella presente sede, evidenziavano in sostanza che esso era inerente alla tutela di diritti e che comunque le tesi di parte ricorrente erano comunque infondate.
Anche l’I.C.S., nella sua memoria di replica, evidenziava l’infondatezza e inammissibilità nonché tardività delle specifiche censure dedotte da parte ricorrente.
Quest’ultima, dal canto suo, depositava rituali memorie “uniche”, anche di replica, su tutto il contenzioso e la presente causa, unitamente alle altre collegate, era trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 26 marzo 2014.
DIRITTO
Il Collegio ritiene di invertire l’ordine dei motivi proposto dalla ricorrente, prendendo in considerazione in primo luogo quelli avverso l’atto presupposto consistente nel d.m. 6 marzo 2013 di cui in epigrafe.
Ebbene, i medesimi motivi, come anticipato in narrativa, sono stati proposti con autonomo ricorso della medesima ricorrente unitamente ad altri, iscritto al r.g. n. 4030/2013.
In merito questa Sezione si è pronunciata con la sentenza 16 maggio 2014, n. 5204 che ha disposto il rigetto del relativo gravame.
Si riporta, quindi, la relativa parte in diritto al fine di evidenziare, anche nella presente sede, l’infondatezza dei motivi riproposti.
I. La Sezione ha infatti precisato quanto segue:
“1. Per quanto riguarda il primo motivo di ricorso, secondo le parti ricorrenti mancherebbe la corrispondenza tra le contestazioni mosse dall’amministrazione con la comunicazione di avvio del procedimento e il provvedimento finale assunto dalla stessa;non sarebbero state adeguatamente considerate, inoltre, le osservazioni presentate dalle parti private nel corso del procedimento.
Al riguardo, il Collegio osserva che, secondo la documentazione acquisita in atti, l’Amministrazione ha provveduto ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento e le parti ricorrenti hanno avuto la possibilità di porre osservazioni e manifestare le proprie ragioni, che la resistente ha adeguatamente valutato, dandone conto nella motivazione del provvedimento impugnato.
In secondo luogo, è vero che l’oggetto della contestazione iniziale, relativo a specifiche previsioni della normativa, risulta essere diverso da quello del provvedimento conclusivo, riguardante l’intera Direttiva e l’atto di approvazione dello Statuto del 2005, tuttavia ciò non appare intaccare il fisiologico svolgimento del procedimento, poiché la non corrispondenza fra la contestazione e il provvedimento finale è da addebitare all’essenzialità delle clausole illegittime, inizialmente contestate, la cui caducazione ha comportato quella dei provvedimenti in toto.
Risulta, pertanto, non esserci stata alcuna lesione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, e non risulta quindi fondata la censura lamentata nel primo motivo di gravame.
2. Prendendo in considerazione il secondo motivo di gravame, le ricorrenti lamentano l’irragionevole ed eccessivo il lasso di tempo intercorso tra l’emanazione del provvedimento amministrativo e il suo annullamento.
Al riguardo, ricorda il Collegio che il provvedimento di annullamento in autotutela, secondo quanto stabilito dall’art. 21 nonies L. 241/1990, è esercitabile in presenza delle seguenti condizioni:
-sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
-esercizio del potere entro un termine ragionevole;
-comparazione con gli interessi dei destinatari del provvedimento e degli eventuali contro interessati.
In particolare, così come dedotto dalle ricorrenti, l’illegittimità, pur rappresentando il presupposto necessario dell’annullamento d’ufficio, non può da sola giustificare la decisione di rimuovere il provvedimento invalido, essendo necessaria la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale da curare con l’atto di annullamento, ed a tale valutazione non resta estraneo il tempo trascorso.
Tuttavia, nella specifica fattispecie in esame la documentazione versata in atti consente di ritenere che la Direttiva del 14 dicembre 2004 e il decreto di approvazione dello Statuto del 04 agosto 2005 hanno generato un significativo squilibrio tra le posizioni dei soggetti pubblici e quelle dei privati operanti nell’ambito dell’Istituto e hanno comportato una deminutio patrimonii a carico dello Stato, con conseguente aggravio per la finanza pubblica. Infatti, i dati economici relativi ai flussi patrimoniali e agli utili distribuiti ai partecipanti al “capitale” dell’Istituto dimostrano una situazione di ipotizzabile squilibrio a favore dei soggetti privati e a danno dello Stato.
In particolare, l’articolo 31 dello Statuto prevede un riparto degli utili che premia in modo non proporzionato gli apporti patrimoniali dei partecipanti privati, e l’articolo 34 regola la liquidazione delle quote di partecipazione in modo tale da includervi anche la quota parte delle riserve. Il danno sofferto dalla parte pubblica risulta, pertanto, attuale e concreto, e prevalente nella comparazione con gli interessi privati. Secondo la giurisprudenza, poi, evitare l’illegittimo esborso di danaro pubblico costituisce sempre un interesse pubblico attuale e concreto idoneo a giustificare l’autotutela, indipendentemente dal tempo trascorso.
La legge sul procedimento non pone limiti temporali all’esercizio del potere di ritiro. Il decorso del tempo impone all’Amministrazione solo una valutazione comparativa più robusta degli interessi in gioco e il rispetto del termine ragionevole. D’altronde, l’art. 21 nonies nel prevedere il limite temporale del termine ragionevole ha fatto riferimento ad un parametro indeterminato ed elastico, lasciando all’interprete il compito di individuarlo in concreto, considerando il grado di complessità degli interessi coinvolti e del relativo consolidamento, secondo il parametro costituzionale di ragionevolezza. Pertanto, tale disposizione, per come innovata dall’articolo 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15, non reca un termine espresso ed esclude che il decorso di un apprezzabile tratto di tempo possa costituire di suo un limite all’esercizio dell’autotutela. Nel caso di specie, il lasso di tempo intercorso tra l’emanazione del provvedimento amministrativo e il suo annullamento, pur essendo significativo, non risulta irragionevole ai fini dell’esercizio dell’autotutela, considerata l’importanza preminente dell’interesse tutelato. Né il tempo trascorso avrebbe affievolito la concretezza e attualità dell’interesse pubblico, considerato che questo risulta concreto ed attuale anche in relazione agli “indebiti esborsi futuri, con conseguente aggravio rilevante per la finanza pubblica”, come riporta il testo del provvedimento impugnato.
L’aspetto temporale è strettamente collegato all’affidamento. In base a tale principio, di chiara origine comunitaria (“Il principio in questione –quello del legittimo affidamento- fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario e la sua inosservanza costituirebbe … una violazione del Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione”, C – 12/77, 3/5/1978), il soggetto pubblico nell’esercizio dei suoi poteri deve tenere nel giusto conto l’interesse alla conservazione di un vantaggio conseguito in buona fede dal privato, a maggior ragione se detto vantaggio si sia consolidato per il decorso di un significativo lasso di tempo. L’affidamento del privato non costituisce un fattore ostativo all’esercizio dei poteri pubblici, come in passato, al contrario, si riteneva;l’Amministrazione, in tali casi, deve procedere ad una comparazione fra l’interesse pubblico all’annullamento dell’atto e l’esigenza a non turbare posizioni giuridiche consolidate ed ormai definitive. Recentemente, peraltro, la giurisprudenza comunitaria non solo facultizza l’autotutela in presenza di affidamento dei privati, ma addirittura la impone, nonostante l’affidamento, ove si tratti di recuperare aiuti di Stato (di cui l’Amministrazione sostiene l’esistenza nel caso di specie) concessi illegittimamente dallo Stato membro (tale orientamento è stato recepito anche dalla giurisprudenza amministrativa nazionale, TAR, Roma (Lazio), sezione III, 14/01/2012, n.353: “In materia di aiuti di Stato in situazioni in cui difettino i richiesti presupposti di legge, l'autotutela della p.a. è indefettibile e pertanto l'affidamento del privato diviene recessivo”).
Infine la natura dei ricorrenti, di soggetto professionale abilitato a svolgere le attività imprenditoriali in esame, impedisce poi di poter plausibilmente ritenere che, in presenza della situazione di squilibrio finanziario sopra indicato, il decorso del tempo abbia potuto ingenerare un qualunque affidamento di buona fede circa la prosecuzione a tempo indefinito del descritto assetto di interessi.
Dalle precedenti considerazioni emerge come anche il secondo motivo di ricorso appaia infondato
3. Con il terzo motivo di ricorso le Società ricorrenti ritengono che nel provvedimento impugnato non siano state qualificate correttamente le singole componenti del patrimonio dell’Istituto e siano state mal interpretate la natura del Fondo “ex lege 50/83” e la sua titolarità.
In particolare, l’Amministrazione ha annullato d'ufficio la Direttiva del 2004 e l'atto di approvazione dello Statuto del 2005 per violazione di legge ed eccesso di potere, in quanto tali atti avrebbero modificato la composizione del “Patrimonio” ed estromesso lo stesso dai “Fondi apportati” di nuova creazione in assenza di qualsiasi previsione in tal senso nella legge 24 dicembre 2003, n. 350, che, invece, indicava la necessità di adeguamento dello Statuto per altre finalità specifiche;inoltre secondo l’Amministrazione le modifiche statuarie apportate sarebbero risultate illogiche e irrazionali, in quanto non in linea con le finalità che l’Istituto per il Credito Sportivo è chiamato a perseguire, e produttive di una notevole deminutio patrimonii a carico del soggetto pubblico, oltre che di una non comprensibile disparità di trattamento rispetto agli altri partecipanti.
Peraltro le parti ricorrenti censurano i profili di violazione di legge indicati nel provvedimento impugnato, ma non forniscono argomenti, né tanto meno elementi fattuali in grado di vincere il vizio di eccesso di potere.
Per ritenere sussistente l'interesse a ricorrere devesi necessariamente dimostrare l'utilità che il ricorrente trarrebbe nell’ipotesi di una decisione del giudice di annullamento e, quindi, di esito favorevole del giudizio (principio della c.d. prova di resistenza). Nel caso in oggetto, pur volendo in ipotesi considerare fondate le censure fatte dai soggetti privati contro i profili di violazione di legge indicati nel decreto impugnato, quest'ultimo troverebbe comunque giustificazione nell’illegittimità per i profili di eccesso di potere, non contestati dalle Società ricorrenti. Mancando l’interesse ad agire di quest’ultime, è da ritenere inammissibile il terzo motivo di gravame.
4. Passando ad analizzare il quarto motivo di ricorso, le ricorrenti contestano l’affermata violazione della normativa europea sul divieto di aiuti di Stato, non essendovi in realtà stata alcune sovvenzione in loro favore a carico del pubblico erario.
Peraltro, osserva il Collegio, nella Comunicazione della Commissione relativa all'applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato da parte dei giudici nazionali (2009/C 85/01) si afferma che: “La nozione di aiuto di Stato non si limita alle sovvenzioni. Essa comprende, tra l'altro, le concessioni fiscali e gli investimenti di fondi pubblici effettuati in circostanze in cui un investitore privato non avrebbe apportato il suo sostegno. A questo riguardo è irrilevante se l'aiuto sia stato concesso direttamente dallo Stato o da enti pubblici o privati che lo Stato istituisca o designi per amministrare l'aiuto stesso. Inoltre, affinché un sostegno pubblico sia classificato aiuto di Stato è necessario che l'aiuto favorisca talune imprese oppure la produzione di determinati beni («selettività»), contrariamente alle misure generali, cui non si applica l'articolo 87, paragrafo 1, del trattato CE. Inoltre l'aiuto deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza e incidere sugli scambi tra Stati membri” (art. 2.1.1., punto 11).
L’approccio della Commissione europea, soggetto competente a pronunciarsi sulla compatibilità con il mercato comune di un aiuto di Stato, è nettamente sostanzialistico, lontano dal dare alcuna rilevanza alla veste giuridico formale dell’intervento statale.
Nel caso di specie, come già illustrato, le modifiche del 2005 allo Statuto dell’I.C.S. hanno prodotto notevoli benefici economici ai partecipanti privati al “Fondo di dotazione”, in via diretta – distribuzione degli utili – e in via indiretta – valorizzazione delle quote di partecipazione inglobando anche la quota delle riserve patrimoniali –, in modo del tutto sproporzionato rispetto agli apporti patrimoniali conferiti da questi all’Istituto.
E’ evidente, allora, in linea con l’interpretazione della Commissione, l’emersione di profili di aiuti di Stato e l’infondatezza delle affermazioni dei ricorrenti secondo cui gli unici a giovarsi dei benefici derivanti dal “fondo patrimoniale” sarebbero stati gli operatori sportivi (e culturali dopo il 2005) per i quali, in quanto soggetti non imprenditoriali, non si pone il problema della violazione della normativa comunitaria.
Peraltro, anche in questo caso le ricorrenti si sono limitate a contestare i profili di violazione di legge addotti dalla Amministrazione, tacendo del tutto sui profili di eccesso di potere Anche il quarto motivo di gravame va, pertanto, dichiarato inammissibile per carenza di interesse, oltreché non fondato.”
II. Passando all’esame della prima parte del gravame, fondato sulla rilevanza di vizi definiti “propri” della delibera n. 424 impugnata in principalità, il Collegio rileva che il relativo contenuto è esplicitamente descritto dagli stessi Commissari firmatari quale derivante dalle illegittimità accertate nel decreto interministeriale del 6 marzo 2013 e che la stessa Presidenza del Consiglio dei ministri, con nota del successivo 7 marzo 2013, aveva invitato l’I.C.S. a intraprendere con sollecitudine le azioni giudiziarie necessarie per interrompere la prescrizione e porre in essere tutte le ulteriori conseguenti attività ritenute necessarie ovvero opportune al fine della ripetizione degli utili corrisposti ai partecipanti al capitale, in eccesso rispetto a quanto previsto dallo Statuto vigente al 3 agosto 2005.
La delibera in questione si configura, quindi, come un mero atto applicativo di precedente determinazione di annullamento del decreto di approvazione di tale Statuto e non evidenzia margini di discrezionalità che hanno contraddistinto l’iniziativa cui i Commissari hanno dato luogo nel caso concreto.
La stessa delibera, infatti, provvede ad “annullare” le precedenti delibere del Consiglio di Amministrazione ma con l’esplicita indicazione che la relativa determinazione, per ciascun esercizio dal 2005 al 2011, è adottata “limitatamente alla ripartizione degli utili” dando luogo alla relativa rideterminazione, ora per allora, in attuazione dei criteri fissati dall’art. 31 dello Statuto del 2002 di nuovo vigente e dalla prassi consolidata.
Se così è, al Collegio appare evidente che nel caso di specie le posizioni giuridiche azionate nella presente sede sono inerenti a diritti soggettivi “pieni” delle ricorrenti, dato che vengono fatte oggetto di “ripetizione” somme già entrate (e facenti parte del) nel patrimonio delle società ricorrenti.
Non risultano infatti annullati(e) (le delibere di approvazione de)i bilanci dei sei esercizi in questione – mediante nuovi atti organizzativi aventi natura pubblicistica – ma solo, con indicazione di specifiche otto voci di un prospetto allegato), la conseguente ripartizione degli utili, con imputazione (a Riserva ordinaria) di specifica somma “differenziale” degli importi (già) erogati a titolo di dividendo e mantenendo per le restanti voci di distribuzione degli utili la medesima attribuzione di quella al tempo operata ai sensi dello Statuto 2005.
Nel caso di specie, quindi, ai fini dello specifico contenuto contestato dalla ricorrente, non si prospetta alcuna posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo di quest’ultima ma una posizione di diritto soggettivo la cui concreta valutazione esula dalla giurisdizione di questo Tribunale, come evidenziato anche dalle Amministrazioni costituite che nelle proprie difese hanno fatto riferimento alla tutela di “diritti” azionata nella presente sede nonché dalla ricorrente stessa che, nel primo motivo di ricorso, evidenzia che l’atto amministrativo in esame si configura alla stregua di negozio giuridico di diritto privato.
Né può valere in senso contrario il richiamo alla ritenuta applicabilità dell’art. 21 septies l. n. 241/90 in quanto la giurisprudenza ha evidenziato – con tesi che il Collegio condivide e che riporta – come “…l'art. 21-septies, l. n. 241/1990, pur individuando i casi di nullità del provvedimento amministrativo, non indica se sulla nullità abbia giurisdizione il giudice ordinario o quello amministrativo, salvo quanto alla nullità per violazione o elusione del giudicato, che viene espressamente intestata al giudice amministrativo” (Cons. Stato, Sez. VI, 3.3.10, n. 1247).
Nel caso di specie, non lamentando alcuna violazione o elusione di un giudicato, si ribadisce quanto ulteriormente illustrato in tale pronuncia, secondo cui: “Si applicano, pertanto, gli ordinari criteri di riparto di giurisdizione, per cui: a) in caso di giurisdizione generale di legittimità, il giudice amministrativo conosce solo dell'illegittimità del provvedimento, mentre la nullità è attribuita al giudice ordinario secondo il consueto criterio carenza di potere – nullità - giudice ordinario, cattivo uso del potere – annullabilità - giudice amministrativo;b) in caso di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, questo conosce sia dell'illegittimità che della nullità del provvedimento”.
Mentre nel caso di specie era subentrata un’ipotesi di giurisdizione esclusiva di cui si era nel prosieguo occupata la sentenza in questione, nella presente sede non risulta alcuna giurisdizione esclusiva del g.a., per cui, in presenza di (ritenuta) violazione di posizione di diritto soggettivo la giurisdizione sulla sola ripartizione degli utili nel senso contestato dalla ricorrente spetta, nel caso concreto, al giudice ordinario.
Se la stessa ricorrente afferma che, per dare luogo a tale rideterminazione/imputazione degli utili di esercizi passati, l’I.C.S. - anche quale “ente pubblico creditizio residuo non ancora trasformato in s.p.a.” - non ha esercitato un potere amministrativo “tipicizzato” da una norma, si è quindi al cospetto di un difetto assoluto di attribuzione che può individuare una causa di “nullità” (a differenza dell’ipotesi di “annullabilità”in cui l’Amministrazione è resa dalla legge effettiva titolare del potere ma lo esercita in assenza di concreti presupposti, v. Cons. Stato, Sez. VI, 27.1.12, n. 372) ma che è sottoposta, come sopra evidenziato, agli ordinari criteri di riparto di giurisdizione ai fine della sua rilevabilità in sede giudiziale.
Non a caso, infatti, lo stesso I.C.S. ha avviato un’azione specifica avanti al giudice ordinario per ottenere il recupero del “differenziale” in questione.
Sarà quindi quella la sede in cui, con gli strumenti previsti dall’ordinamento anche a tutela della parte convenuta, la ricorrente potrà opporre le censure oggi invece portate, con i motivi avverso la delibera n. 424 impugnata, all’attenzione di questo Tribunale.
Né la circostanza per la quale l’I.C.S. abbia dato luogo alle forme tipiche di un procedimento amministrativo di cui alla l.n. 241/90 e abbia fatto richiamo all’”annullamento” delle delibere del Consiglio di Amministrazione “in parte qua” può incidere sul riparto di giurisdizione, non rilevando a tal fine il “nomen iuris” usato dalla parte, sia nel procedimento in sede amministrativa sia in sede giudiziale, secondo la conclusione della giurisprudenza per la quale l'esatta qualificazione di un provvedimento deve effettuarsi in relazione al suo effettivo contenuto e alla sua causa reale, anche a prescindere dal “nomen juris” formalmente attribuito dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto (Cons. Stato, Sez. IV, 18.9.12, n. 4942).
In definitiva, non dandosi luogo nel caso di specie ad una nuova approvazione del bilancio ma ad una diversa (vincolata) ripartizione di utili, non si è al cospetto di un atto organizzativo avente natura pubblicistica, con la conseguenza che l’incisione nel patrimonio della ricorrente del provvedimento impugnato può essere vagliata dal giudice naturale dei diritti soggettivi che è il giudice ordinario.
Alla luce di quanto dedotto, quindi, il ricorso deve essere dichiarato in parte infondato, per quel che riguarda l’impugnazione dell’atto presupposto di cui decreto interministeriale 6 marzo 2013, ed in parte inammissibile per difetto di giurisdizione, per quel che riguarda l’impugnazione della delibera commissariale n. 424 del 13 settembre 2013, con salvezza ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a.
Di conseguenza, la domanda risarcitoria, comunque generica, deve essere rigettata.
Le spese di lite possono comunque eccezionalmente compensarsi integralmente tra le parti, attesa la novità e peculiarità della fattispecie.