TAR Roma, sez. 2Q, sentenza 2015-04-21, n. 201505778

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 2Q, sentenza 2015-04-21, n. 201505778
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201505778
Data del deposito : 21 aprile 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05482/2011 REG.RIC.

N. 05778/2015 REG.PROV.COLL.

N. 05482/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5482 del 2011, proposto da:
B C, rappresentato e difeso dall'avv. E D L R, con domicilio eletto presso E D L R in Roma, Via Aurelia, 714;

contro

Ministero dei i beni e delle attivita' culturali e del turismo , rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
Comune di Pomezia, rappresentato e difeso dagli avv. C A M e G P, con domicilio eletto presso C A M in Roma, Via Francesco Denza, 27;

per l'annullamento

del parere ex art. 146 co. 5 d.lgs. 42/04 relativo alla domanda di condono presentata ai sensi del legge n. 326 del 2003

e per il risarcimento danni


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero e del Comune di Pomezia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 febbraio 2015 la dott.ssa Cecilia Altavista e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Il 10 dicembre 2004 è stata presentata al Comune di Pomezia domanda di condono, ai sensi della legge n. 326 del 2003, dal marito della odierna ricorrente, Antonio Cianci, quale comproprietario dell’immobile sito in via Tagliamento 14 int. 7, in relazione ad un ampliamento realizzato senza titolo, di una superficie di circa 16 metri quadri, per la chiusura a veranda di un balcone, realizzato entro il 31 marzo 2003.

Nel 2005 il Comune di Pomezia richiedeva documentazione integrativa, inviata dal comproprietario, e successivamente nel 2010, richiedeva ulteriore documentazione ai fini dell’autorizzazione ex art 146 del d.lgs. 42 del 2004, con ciò evidentemente ritenendo l’area sottoposta a vincolo paesaggistico.

La ricorrente, essendo nel frattempo divenuta proprietaria esclusiva dell’immobile, presentava la relazione paesaggistica e segnalava, con nota del 23-3-2011, inviata successivamente, al Comune che l’immobile non era sottoposto a vincolo al momento di realizzazione dell’abuso, nel 2003, in quanto escluso dal D.M. del 15-10-1985, di rettifica del d.m. 22-5-1985, che aveva posto il vincolo paesaggistico, ampliando quello del 1954, poichè rientrante nel centro urbano.

Con atto notificato il 25 marzo 2011, veniva comunicato alla ricorrente il parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici reso ai sensi dell’art 146 comma 5 del d.lgs. n. 42 del 2004 in relazione alla natura dell’intervento ( ampliamento) e all’esistenza del vincolo apposto con D.M. 21-10-1954.

Avverso tale parere è stato proposto il presente ricorso per i seguenti motivi:

violazione degli articoli 142 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004;
carenza di istruttoria;
eccesso di potere;

erroneità dei presupposti in fatto;
travisamento dei fatti;
contraddittorietà ed illogicità della motivazione;
violazione della legge n. 326 del 2003;
violazione del principio di trasparenza e dello Statuto del Comune di Pomezia. E’ stata altresì formulata domanda di risarcimento danni.

Si sono costituite l’Avvocatura dello Stato con atto di forma e depositando documentazione e il Comune di Pomezia contestando la fondatezza del ricorso.

Alla camera di consiglio del 14 giugno 2012 è stata respinta la domanda cautelare di sospensione del provvedimento impugnato, mancando il presupposto del danno grave ed irreparabile.

Successivamente all’udienza del 16 ottobre 2014 il Tribunale disponeva una verificazione in relazione alla effettiva vigenza del vincolo del 1954.

All’udienza pubblica del 26 febbraio 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il d.l. n. 269 del 30.9.2003 convertito nella legge n. 326 del 24 novembre 2003, che ha previsto un condono edilizio per le opere ultimate entro il 31 marzo 2003, diversamente dalle discipline della legge n. 47 del 1985 e della legge n. 724 del 1994, ha specificamente individuato le tipologie di opere condonabili ed ha limitato le possibilità di sanatoria in presenza di vincoli.

Infatti ,l’art 32, comma 26, lettera a) della legge n. 326 del 2003, che ha previsto una sanatoria per le opere ultimate entro il 31 marzo 2003, ha distinto le tipologie di illecito di cui all'allegato 1, numeri da 1 a 3 ( opere realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo), per cui è possibile la sanatoria in tutto il territorio nazionale, mentre nelle aree sottoposte a vincolo ha ammesso la sanatoria solo per le “le tipologie di illecito di cui all'allegato 1 numeri 4, 5 e 6”, opere di restauro e risanamento conservativo (tipologia 4 e 5), opere di manutenzione straordinaria, opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o di volume (tipologia 6).

Non sono invece suscettibili di sanatoria, ai sensi del comma 27 , tra le altre ipotesi, le opere che siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (lettera d).

E’, quindi, evidente che nella disciplina del condono del 2003, di cui si è chiesta la applicazione con la domanda per cui è causa, in nessun caso nelle aree sottoposte a vincolo preesistente all’opera possa essere concessa la sanatoria per le opere, come quelle di specie, per cui non è contestato che comportino un aumento di volumetria.

Solo nel caso di vincolo sopravvenuto si applica la disciplina dell’art 32 della legge n. 47 del 1985, con necessità, quindi di valutazione di compatibilità dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.

La limitazione del condono del 2003 in aree vincolate è stata anche più volte affermata nella giurisprudenza amministrativa. La disciplina del condono 2003 è applicabile quando si tratti opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del d. l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie o di volume (Consiglio di Stato n. 1200 del 2010;
Tar Campania n. 1612 del 2012;
Tar Lazio II n. 3755 del 2014).

Si deve, altresì, ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n. 225 del 2012 (che ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge regionale della Liguria n. 5 del 2004, che aveva esteso le fattispecie condonabili in aree sottoposte a vincolo, in contrasto con i limiti fissati dalla normativa statale di principio, costituita dal comma 26), che ha affermato che tale norma “individua tassativamente le fattispecie sanabili sulla base della nuova legge sul condono”, mentre il comma 27 lettera d) dell’art 32, vieta espressamente (lettera d) la sanatoria di abusi realizzati su aree di tale natura, “vincolate antecedentemente all’esecuzione delle opere, in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio o dalle norme e prescrizioni in materia urbanistica”.

Nel caso di specie, appare quindi determinante, ai fini della valutazione della legittimità del parere impugnato, l’esame della questione relativa alla sussistenza sulla area in questione del vincolo.

A tale fine il Tribunale ha disposto verificazione, a seguito della quale è emerso che l’area non è compresa nel vincolo imposto con d.m. del 1954;
ciò in quanto tale vincolo esteso con d.m. del 22-5-1985, ai sensi del successivo d.m. del 15-10-1985 prevedeva la espressa esclusione dei centri abitati delimitati dagli strumenti urbanistici vigenti oppure ai sensi dell’art 41 quinquies della legge n. 1150 del 1942.

Si deve evidenziare che l’area in cui ricade l’immobile è interessata sia dal vincolo imposto in via legislativa a partire dalla legge n. 431 del 1985, poi con il d.lgs. 490 del 1999 e attualmente dalla previsione dell’art 142 del d.lgs. 42 del 2004, per cui sono aree paesaggistiche tutelate per legge i territori costieri nei limiti di trecento metri dalla battigia ( lettera a). Tale norma, al secondo comma, esclude espressamente le aree che, alla data del 6 settembre 1985, erano delimitate negli strumenti urbanistici , ai sensi del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 , come zone territoriali omogenee A e B . Anche la legge regionale n. 24 del 1998 all’ art 4 comma 1 bis prevede tale esclusione.

Il vincolo imposto con d.m. del 1954, invece, rientra in quello di cui all’attuale disciplina dell’art 136 d.lgs. n. 42 del 2004 (prima dall’ 139 del d.lgs. 490 del 1999, e inizialmente della legge n. 1497 del 1939).

La sezione ha già affermato, nella sentenza n. 10096 del 2013, dalla quale il Collegio non ritiene vi siano elementi per potersi discostare nel caso di specie, relativa alla medesima zona di Campo Ascolano, con riguardo al vincolo posto dal d.m. del 21.10.1954, che assegna all’area caratteristico valore estetico e culturale ( bellezza d’insieme) che la soggezione a tale vincolo non riguarda le cc.dd. “aree tutelate per legge” (oggi indicate nell’art.142 del d.lgs. n. 42 del 2004), le quali sono state assoggettate a disciplina di rigore in virtù delle loro caratteristiche morfologiche ed ubicazionali e non in adesione a canoni di valore estetico e tradizionale. Ne consegue che le aree vincolate in quanto bellezza d’insieme non fruiscono delle esenzioni previste dal sopracitato art.4 comma 1 bis della legge regionale del 1998.

Ritiene il Collegio, secondo quanto già affermato dalla sezione nella sentenza citata, che, nel caso di specie, la sottrazione del terreno della ricorrente al regime vincolistico conseguente al varo del d.m. 21.01.1954, rinvenga le sue fondamenta nello stesso d.m. del 1954, per come, prima integrato nel suo dispositivo, dal d.m.22.5.1985 e poi rettificato ad opera del d.m.15.10.1985. Il dispositivo del d.m. 21 ottobre 1954, di cui si tratta, è stato, infatti, integrato con la seguente dicitura: “con eccezione dei centri abitati delimitati dagli strumenti urbanistici vigenti oppure ai sensi dell’art.41 quinquies della legge 17 agosto 1942, nel testo modificato dall’art.17 della legge 6 agosto 1967, n.765”.

Dunque “la sottrazione delle aree ricadenti in zona delimitate come A o B negli strumenti urbanistici vigenti al regime vincolistico introdotto col d.m. 21.10.1954 è prevista dallo stesso d.m. come successivamente modificato e rettificato”( Tar Lazio II quater n. 10096 del 2013).

L’area in questione, secondo quanto emerso dalla verificazione, in base al p.r.g. del 1974, era inserita in zona B di completamento. Si tratta dunque di una area esclusa, allo stato, per legge dal vincolo ex art 142 d.lgs. n. 42 del 2004 e, in base alla espressa previsione della rettifica operata con il d.m. del 15-10-1985, da quello del 1954, ora rientrante nella disciplina di cui all’art 136 del medesimo decreto legislativo.

Dalla corretta lettura del d.m. del 15-10-1985, per come tale decreto ha integrato il testo di quello del 1954, emerge il travisamento dei fatti ed il difetto di motivazione, in cui è incorsa la Soprintendenza, facendo riferimento al vincolo imposto nel 1954, come ostativo al condono, nel caso di specie.

Sotto tali profili il ricorso è fondato e deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato.

Quanto alla domanda di risarcimento danni, si deve considerare che tale domanda è stata formulata nel ricorso introduttivo in modo generico e senza alcuna specificazione né delle voci di danno eventualmente spettanti né del titolo della responsabilità o del comportamento illecito delle amministrazioni resistenti.

La domanda è stata solo in parte precisata, nella memoria presentata per l’udienza pubblica, solo con riferimento al comportamento del Comune, sostanzialmente per l’aggravamento del procedimento con la richiesta di autorizzazione paesaggistica da parte dell’Amministrazione comunale.

Nei confronti del Ministero la domanda è rimasta del tutto generica per come formulata nelle conclusioni del ricorso, senza, quindi, alcuna deduzione né allegazione né in fatto né in diritto, relativamente agli elementi costitutivi dell’illecito.

Ritiene il Collegio che, rispetto alla domanda formulata nei confronti dell’Amministrazione comunale, si può prescindere dall’esame della questione relativa all’ammissibilità di una tale precisazione della domanda in sede di memoria non notificata alla controparte, in relazione alla evidente infondatezza della stessa .

Il risarcimento del danno, infatti, non è una conseguenza diretta e costante dell'annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, anche del nesso causale tra l'illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del dolo dell'amministrazione. La illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l'ambito più o meno ampio della discrezionalità dell'amministrazione ( Consiglio di Stato n. 4318 del 2014) .

Nel caso di specie, è evidente la difficoltà in cui si è mossa l’Amministrazione comunale rispetto alla zona di Campo Ascolano, nella quale si sono succeduti più vincoli, di cui uno risalente al 1954 successivamente rettificato nel 1985. Inoltre, dagli stessi atti depositati in giudizio dalla difesa ricorrente emerge una nota della Regione Lazio del 5 luglio 2007 inviata ai Comuni interessati che richiede la autorizzazione paesaggistica. L’incertezza nella quale si è mosso il Comune di Pomezia non può condurre ad una affermazione di colpa di tale amministrazione che ha proceduto a richiedere l’autorizzazione paesaggistica al Ministero .

Inoltre, la giurisprudenza amministrativa ritiene applicabile in materia di risarcimento del danno l’onere della prova e che tale prova debba riguardare tutti gli elementi del danno.

All'azione di risarcimento danni proposta dinanzi al giudice amministrativo si applica, ai sensi dell'art. 64 comma 1, c.p.a., il principio dell'onere della prova previsto nell'art. 2697 c.c., in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento danni non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta (C.d.S., III, n. 6342 del 2011;
n. 4293 del 2014).

Nel caso di specie non è stata data alcuna prova del danno effettivamente subito, facendo riferimento, anche solo nella memoria presentata per l’udienza pubblica, alla liquidazione in via equitativa in considerazione delle spese sostenute per la richiesta di integrazione documentale da parte del Comune e per la predisposizione della relazione paesaggistica senza alcun riferimento a quanto effettivamente speso, nonché alle spese sostenute per il contenzioso in esame .

L'onere probatorio non risulta soddisfatto dalla mera allegazione della tipologia di danni che si assume di aver subito, essendo, invece, necessario provare la determinazione del loro ammontare. Ai fini della ammissibilità e della fondatezza della domanda risarcitoria davanti al giudice amministrativo è, infatti, necessario che la stessa venga formulata, fin dal ricorso di primo grado, in termini tali da consentire al giudice di formulare i propri apprezzamenti in una direzione sufficientemente determinata, e quindi assistita da sufficienti principi di prova e dalla quantificazione del danno che si assume subito (Consiglio di Stato n. 148 del 2009). Il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c. c., è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità, o di estrema difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno ( Consiglio di Stato n. 4248 del 2014).

La domanda di risarcimento danni deve essere quindi respinta

In considerazione della particolarità della questione, che ha reso necessario anche il ricorso alla verificazione, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali, comprese quelle del compenso al verificatore che si liquida in complessive mille euro (1000).

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