TAR Roma, sez. III, sentenza 2016-06-07, n. 201606548

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. III, sentenza 2016-06-07, n. 201606548
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201606548
Data del deposito : 7 giugno 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10717/2015 REG.RIC.

N. 06548/2016 REG.PROV.COLL.

N. 10717/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10717 del 2015, proposto da:
V, A A, A R, D P, P A, S G, D P, F R, C E L, L P S, P A, P C, rappresentati e difesi dagli avvocati F C, U C e F S M, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, Via dei Monti Parioli, 48, come da procure in calce al ricorso;

contro

Banca D'Italia in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati M O P, D L L e MicheleCossa, con domicilio eletto presso l’Avvocatura della Banca d’Italia in Roma, Via Nazionale, 91, come da procura in atti;
Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso cui domicilia in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare di Milano, Veneto Banca, Banco Popolare, Ubi Banca in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituite in giudizio;

e con l'intervento di

Adadiuvandum:
Codacons in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gino Giuliano e Carlo Rienzi, con domicilio eletto presso il primo in Roma, viale G. Mazzini, 73, come da procura in atti;

per l'annullamento:

- del 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”);

- delle “Disposizioni di vigilanza – Banche popolari” del 9 aprile 2015, in punto di modalità di calcolo della soglia “sensibile” pari a 8 miliardi di euro di capitale sociale, da computare secondo le segnalazioni di vigilanza individuali o consolidate e di rimborso degli strumenti di capitale al socio che ha esercitato il recesso dalla società dopo la trasformazione della Popolare in s.p.a.;

- del resoconto della consultazione, pubblicato in data 11 giugno 2015;

- del documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 febbraio 2016 il consigliere A S e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

1. – Con ricorso spedito per notifica il 7 settembre 2015, notificato il successivo giorno 9 e depositato il 16 settembre 2015, i nominati in epigrafe, che documentano di essere soci di varie banche popolari (UBI Banca, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Banco Popolare) hanno impugnato, chiedendone l’annullamento previa sospensione cautelare, gli atti emessi dalla Banca d’Italia a seguito delle modificazioni apportate all’art. 29 del Testo Unico Bancario (TUB, d.lgs. n. 385 del 1993) dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, convertito con modificazioni nella legge n. 33 del 2015.

Si tratta, in particolare:

- del 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”);

- delle “Disposizioni di vigilanza – Banche popolari” del 9 aprile 2015, che disciplinano:

a) le modalità di calcolo della soglia “sensibile” pari a 8 miliardi di euro di capitale sociale, da computare secondo le segnalazioni di vigilanza individuali o consolidate;

b) il rimborso degli strumenti di capitale al socio che ha esercitato il recesso dalla società dopo la trasformazione della Popolare in s.p.a., che può essere limitato “anche in deroga a disposizioni di legge”, affermando che detta facoltà deve essere contemplata nello statuto della banca ed è attribuita all’organo di gestione, fermi i poteri autorizzativi dell’autorità di vigilanza rispetto al rimborso di fondi propri ai sensi dell’art. 77 CRR (ossia del Regolamento UE/575/2013 del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il Regolamento UE/648/2012);

- del resoconto della consultazione, pubblicato in data 11 giugno 2015;

- del documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.

I ricorrenti affermano che il nuovo comma 2-ter dell’art. 29 del T.U.B., introdotto dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, avrebbe stravolto le caratteristiche peculiari delle banche popolari, costituite dalla variabilità del capitale sociale mediante il c.d. principio della porta aperta, il voto capitario (e non pesato in misura delle azioni possedute), il limite al possesso azionario e la previsione di un numero minimo di soci;
in una parola, il carattere democratico delle Banche popolari, strettamene connesso alla loro natura di cooperative.

2. - I passi salienti della riforma delle Banche popolari introdotta dall’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015, per quanto qui interessa, sono costituiti dalle disposizioni di seguito riportate:

“1. Al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 28, dopo il comma 2-bis, è aggiunto il seguente:

«2-ter. Nelle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d'Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d'Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.»;

b) all'articolo 29:

1) dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti:

«2-bis. L'attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro. Se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato.

2-ter. In caso di superamento del limite di cui al comma 2-bis, l'organo di amministrazione convoca l'assemblea per le determinazioni del caso. Se entro un anno dal superamento del limite l'attivo non è stato ridotto al di sotto della soglia né è stata deliberata la trasformazione in società per azioni ai sensi dell'articolo 31 o la liquidazione, la Banca d'Italia, tenuto conto delle circostanze e dell'entità del superamento, può adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni ai sensi dell'articolo 78, o i provvedimenti previsti nel titolo IV, capo I, sezione I, o proporre alla Banca centrale europea la revoca dell'autorizzazione all'attività bancaria e al Ministro dell'economia e delle finanze la liquidazione coatta amministrativa. Restano fermi i poteri di intervento e sanzionatori attribuiti alla Banca d'Italia dal presente decreto legislativo.

2-quater. La Banca d'Italia detta disposizioni di attuazione del presente articolo.»

(Omissis)

2. In sede di prima applicazione del presente decreto, le banche popolari autorizzate al momento della relativa entrata in vigore si adeguano a quanto stabilito ai sensi dell'articolo 29, commi 2-bis e 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, introdotti dal presente articolo, entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d'Italia ai sensi del medesimo articolo 29. (Omissis).

Gli atti impugnati derivano dall’esercizio del potere attuativo attribuito alla Banca d’Italia dal comma 2-quater del nuovo art. 29 del T.U.B.

3. – I ricorrenti assumono che gli atti impugnati sarebbero affetti da illegittimità derivata a causa dell’illegittimità costituzionale della normativa primaria su richiamata, ed a questo fine li impugnano declinando i vizi di costituzionalità in cui a loro giudizio<
incorrerebbe, sotto più profili, l’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015.

Il medesimo articolo, come documentano i ricorrenti medesimi, risulta già sottoposto allo scrutinio della Corte Costituzionale dalla Regione Lombardia con ricorso depositato il 29 maggio 2015.

Il ricorso si articola sui seguenti motivi.

1) “Illegittimità derivata degli atti impugnati in relazione all’incostituzionalità della norma presupposta, di cui all’art. 1 del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito in legge 24 marzo 2015, n. 33, per violazione degli articoli 3, 23, 41, 42, 45, 47, 77 e 117, comma 1, della Costituzione”.

Con il motivo in questione i ricorrenti chiedono che questo TAR sollevi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015.

In punto di rilevanza, gli interessati si affermano che i provvedimenti impugnati si basano sulla norma sospettata di incostituzionalità, sicché, ove quest’ultima venisse dichiarata incostituzionale, i primi dovrebbero essere ritenuti illegittimi, e quindi annullati.

In punto di non manifesta infondatezza, i ricorrenti appuntano numerose censure sulla previsione del nuovo comma 2-ter dell’articolo 28 del T.U.B., secondo il quale ”Nelle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d'Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d'Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi”.

Le censure sono le seguenti.

I. Violazione dell’art. 77 Cost. per carenza dei presupposti di necessità ed urgenza del decreto legge, che sarebbe palesata dalla natura di riforma ordinamentale e di sistema della nuova normativa, nonché dal fatto che, contrariamente a quanto prescritto dall’art. 15 comma III L. n. 400 del 1988, la norma non conterrebbe disposizioni di immediata applicazione, prevedendo, invece, che la disciplina di dettaglio sia fissata da provvedimenti della Banca d’Italia. Inoltre, le disposizioni in parola si inscrivono in un decreto legge che regola materie eterogenee tra di loro, non riconducibili, in tesi, a matrice razionalmente unitaria.

II. Violazione degli articoli 70, 76 e 77 primo comma Cost. per violazione del principio di gerarchia delle fonti, con specifico riferimento all’art. 1 comma I lettera a) del decreto legge, che ha introdotto nell’art. 28 TUB il nuovo comma 2-ter, in forza del quale la Banca d’Italia assumerebbe un “potere in bianco” di adottare norme regolamentari derogative della legge senza che sia stato predeterminato il novero delle disposizioni legislative suscettibili di deroga, specie in relazione al potere di rimborso limitato al socio recedente. Il vizio sussisterebbe anche ove si considerasse attuata una delegificazione, non essendo individuate le norme primarie abrogande.

III. Violazione degli articoli 3, 41, 42 e 45 e 117 Cost. in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU sulla protezione della proprietà ed agli articoli 16 e 17 della Carta fondamentale della UE con riguardo alla tutela della proprietà ed alla libertà di iniziativa economica e del legittimo affidamento, sotto i profili che possono essere riassunti come segue:

a) apposizione di un limite dimensionale (capitale sociale inferiore a 8 miliardi di euro) per l’esercizio dell’attività bancaria in forma cooperativa di “banca popolare” e limiti al rimborso della quota a seguito di recesso in caso di trasformazione in s.p.a., che costituirebbero una forma di espropriazione dei beni dei soci recedenti (nella nozione intesa dalla Corte EDU, che comprende anche i crediti);

b) violazione del principio di legalità, inteso, come fa la CEDU, nel senso dell’esistenza di una norma di legge sufficientemente accessibile, precisa e prevedibile alla base dell’intervento, che avrebbe natura sostanzialmente espropriativa;

c) insussistenza di una causa di pubblica utilità dell’intervento espropriativo, prevista dall’art. 1 del I Protocollo addizionale CEDU, anche perché sarebbe infondato, e comunque contestato in dottrina, il noto assunto –da cui muove la riforma – secondo cui oggi le banche popolari non avrebbero più sostanza di cooperative, conservandone solo la forma societaria, e che le banche a voto capitario si produrrebbero in performances peggiori di quelle organizzate secondo lo schema ordinario di società per azioni. Violazione del principio di proporzionalità e quello di sussidiarietà orizzontale ex art. 118 Cost., con il connesso diritto di auto-organizzazione dei singoli, anche in forma cooperativa (art. 45 Cost.). Indeterminatezza della delega conferita alla Banca d’Italia e della limitazione del diritto al rimborso per i recedenti, con conseguente sproporzione e mancanza di equilibrio tra pubblico interesse ed esigenze del singolo;

f) incompatibilità con gli articoli 16 e 17 della Carta dei Diritti fondamentali della UE (Carta di Nizza), ancora con riferimento ai limiti (o all’esclusione) sine die del rimborso delle quote in caso di recesso, senza che ve ne sia ragione di pubblico interesse;

g) lesione dell’art. 41 Cost. e della libertà di iniziativa economica, sempre in relazione alla indeterminatezza dei poteri regolamentari della Banca d’Italia in materia;

h) ancora violazione della libertà imprenditoriale, ma per effetto della modifica dell’art. 31 del TUB, che, adesso, invece di demandare agli statuti il quorum deliberativo per le trasformazioni da banca in forma cooperativa a società per azioni o per le relative fusioni, detta, esso stesso, le maggioranze necessarie, molto ridotte rispetto a quanto l’art. 2545-decies c.c. dispone per le s.p.a. ordinarie, con conseguente spoliazione dei soci della potestà di auto-organizzarsi sotto questo profilo;

IV. Violazione degli articoli 3, 41, 45 Cost. sub specie di irragionevolezza della soglia individuata dal legislatore per imporre la trasformazione in s.p.a., pari a 8 miliardi di euro;

V. Violazione degli articoli 3 e 41 Cost. per disparità di trattamento tra le banche popolari cooperative e tutte le altre cooperative, le quali ultime non incorrono in limiti di contenimento dell’attivo, ed inoltre:

a) tra soci di banche popolari “sopra soglia” e soci di banche popolari “sotto soglia” (i quali subirebbero un “annacquamento” della propria partecipazione e l’azzeramento del relativo valore);

b) tra soci di banche popolari che dovranno trasformarsi in s.p.a. e soci di altre s.p.a. (i quali possono deliberare quorum più elevati in caso di trasformazione, salvo l’integrale rimborso della quota al socio recedente);

c) tra soci di banche popolari che dovranno trasformarsi e soci di altre cooperative non a mutualità prevalente (che possono deliberare la trasformazione solo con i più elevati quorum di cui all’art. 2545-decies c.c.).

VI. Violazione dell’art. 3 della Costituzione per violazione del principio di eguaglianza e della riserva di legge, in relazione alla limitazione del diritto di rimborso in caso di recesso, in cui incorrerebbe il nuovo articolo 28 comma 2-ter del TUB, anche nella parte in cui non differenza la posizione assunta dal socio che recede a seguito di trasformazione rispetto a quella del socio che si avvale del diritto di ordinario recesso, non connesso all’ipotesi di trasformazione da banca popolare a s.p.a. bancaria;

VII. Violazione dell’art. 23 Cost., sempre in relazione alla limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso, che costituirebbe una prestazione patrimoniale imposta, e che, come tale, soggiacerebbe a riserva di legge relativa, e che dunque non sopporterebbe un potere di fissazione “in bianco”;

VIII. Violazione dell’art. 117, comma II, lettere d) e l) e comma III, e del principio di leale collaborazione di cui agli articoli 5 e 120 Cost., in quanto la riforma in questione non involgerebbe soltanto la materia di potestà legislativa statale in materia di ordinamento civile e tutela del risparmio, bensì anche quella, di legislazione concorrente, delle casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, che ricorre in caso di ubicazione territoriale specifica e degli interessi locali perseguiti;

IX. Violazione dell’art. 118 comma IV Cost. in combinato disposto con gli articoli 2, 18, 41, 45 e 47 Cost., violazione del principio di sussidiarietà orizzontale, in quanto sia la comparazione che il risparmio sono riconosciuti e tutelati dalla Repubblica nel suo insieme (e dunque anche da Regioni, Province, Comuni), e non solo dallo Stato;
inoltre, sarebbero valori che, per regolare fenomeni connotati da spontaneismo sociale, intersecherebbero altre libertà costituzionali, quali quella di associazione e di iniziativa economica, e, in definitiva, di auto-organizzazione.

2) Il secondo motivo di ricorso, invece, denunzia gli atti impugnati per “Violazione di legge: violazione dell’art. 1 del d.l. 24 gennaio 2015 n. 3, convertito in L. 24 marzo 2015 n. 33. Violazione dell’art. 97 Cost., eccesso di potere sub specie di manifesta irragionevolezza, arbitrarietà, difetto assoluto di istruttoria, difetto di proporzionalità. Violazione degli articoli 23 e 41 Cost. e disparità di trattamento”.

Esso assume che la Banca d’Italia avrebbe abdicato dal compito affidatole dal nuovo comma 2-ter dell’art. 29 TUB, che prevede, circa i limiti del diritto al rimborso per recesso, che essi siano stabiliti unicamente dall’Autorità di vigilanza, e solo “laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca”.

Invece, l’aggiornamento n. 9 alla circolare n. 285 del 2013 dell’Autorità di vigilanza prevede che tale potere sia deferito ai singoli istituti bancari, il che comporterebbe:

a) la violazione della norma primaria in rubrica;

b) l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, esponendo i soci all’arbitrio, non regolamentato, dei singoli Istituti;

c) la violazione dei principi costituzionali in materia di prestazioni patrimoniali imposte.

Tale abdicazione si renderebbe palese anche per avere la Banca d’Italia ritenuto quelle relative alle limitazioni ai rimborsi come disposizioni “di mero adeguamento a norme inderogabili”, così facendo intendere che la nuova normativa avrebbe sostanzialmente natura autoapplicativa ed in sé compiuta.

Inoltre, sussisterebbe disparità di trattamento là dove gli atti impugnati omettono di distinguere il caso del recesso ordinario di un socio di banca popolare dal recesso dovuto a trasformazione in s.p.a.

4. – I ricorrenti hanno chiesto la sospensione cautelare degli atti impugnati, cui hanno, peraltro, rinunziato in prossimità della relativa camera di consiglio, fissata per il 7 ottobre 2015.

5. – Si sono costituite in giudizio, per resistere al ricorso, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Banca d’Italia.

6. - Con atto spedito per notifica il 29 dicembre 2015 e depositato il giorno successivo ha proposto intervento ad adiuvandum il CODACONS – Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso introduttivo.

7. - Con atto notificato il 15 gennaio 2016 e depositato il successivo giorno 20 ha formulato rinunzia al ricorso introduttivo e a tutti gli altri atti del giudizio, limitatamente alla propria posizione, il ricorrente sig. P S L.

8. – In vista della pubblica udienza del ricorso nel merito le parti hanno depositato le memorie di rito.

La difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sia nella memoria ex art. 73 c.p.a. che in quella depositata in vista della camera di consiglio fissata per la discussione dell’istanza cautelare, ha eccepito l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum del Codacons (in quanto la riforma, fortificando il sistema bancario italiano, apporterebbe vantaggi, e non pregiudizi, ai consumatori) e l’irrilevanza delle questioni di costituzionalità che i ricorrenti chiedono di sollevare, perché legate –secondo il dettato legislativo- a eventi non ancora verificatisi e solo eventuali;
nel merito ha poi contrastato le questioni proposte di ricorrenti, affermando che la riforma sarebbe stata resa necessaria ed urgente, nella attuale temperie economica, dalla peculiare situazione “ibrida” in cui versavano le banche popolari e dai connessi profili di rigidità in punto di accesso alla compagine sociale, di contendibilità sul mercato, di ricambio della “governance”.

La Banca d’Italia ha eccepito, sia in vista della udienza cautelare che di quella di merito, l’inammissibilità del ricorso per mancanza di immediata lesività dei provvedimenti impugnati in assenza di atti applicativi –di competenza degli istituti di credito interessati – anche perché detta lesività potrebbe scaturire, in tesi, dalla norma primaria applicata;
ha contestato la legittimazione del Codacons all’intervento ad adiuvandum proposto;
nel merito ha illustrato le ragioni legate alla scelta di limitare il rimborso delle azioni in caso di recesso derivante da trasformazione in s.p.a. e all’urgenza di porre ed attuare la normativa di riforma, legate essenzialmente alla necessità di rispettare la normativa comunitaria in materia di tutela del capitale di vigilanza di qualità primaria delle banche, che, per le sue caratteristiche di stabilità, flessibilità e pronta disponibilità, costituirebbe un essenziale strumento atto a fronteggiare le perdite;
ha altresì evidenziato l’incompatibilità delle caratteristiche proprie delle banche popolari rispetto alla contendibilità dei rispettivi assetti proprietari sul mercato;
ha contestato, infine, i singoli capi di cui si compone la questione di costituzionalità adombrata dai ricorrenti.

Questi ultimi hanno depositato una memoria illustrativa dei motivi di gravame, nella quale hanno contrastato le eccezioni di rito delle resistenti ed hanno insistito per l’accoglimento del ricorso, mediato dalla questione di legittimità costituzionale, come articolata nell’atto introduttivo.

I ricorrenti e la Banca d’Italia parti hanno replicato con memoria alle avverse difese.

In occasione della pubblica udienza del 10 febbraio 2016 il ricorso è stato posto in decisione.

DIRITTO

1. – E’ oggi all’esame del Collegio il ricorso proposto da alcuni soci di talune banche popolari interessate dalla riforma di settore posta dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015, convertito in legge n. 33 del 2015, che ha modificato la disciplina recata in materia dal Testo Unico Bancario (decreto legislativo n. 358 del 1993).

I ricorrenti impugnano i provvedimenti attuativi emessi dalla Banca d’Italia in applicazione del comma 2-ter del nuovo art. 29 del T.U.B., assumendone l’illegittimità derivata peri numerosi vizi di legittimità costituzionale che affliggerebbero le norme in cui si concreta la riforma;
chiedono, pertanto che questo TAR sollevi alcune questioni di legittimità costituzionale, che essi sostanziano in numerose censure.

Si tratta del 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 apportato alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (“Disposizioni di vigilanza per le banche”);
delle“Disposizioni di vigilanza – Banche popolari” del 9 aprile 2015, che disciplinano le modalità di calcolo della soglia “sensibile” pari a 8 miliardi di euro di capitale sociale, da computare secondo le segnalazioni di vigilanza individuali o consolidate;
ed il rimborso degli strumenti di capitale al socio che ha esercitato il recesso dalla società dopo la trasformazione della Popolare in s.p.a., che può essere limitato “anche in deroga a disposizioni di legge;
del resoconto della consultazione, pubblicato in data 11 giugno 2015;
e del documento “Analisi impatto della regolamentazione” dell’11 giugno 2015.

2. – E’ necessario premettere che la riforma della disciplina delle banche popolari da cui muovono i provvedimenti impugnati prende, per larga parte, il posto di una normativa che –per quanto qui interessa – disegnava, schematicamente, il quadro di seguito illustrato.

2.1 - A tenore del previgente art. 28 comma 1 del T.U.B., l'esercizio dell'attività bancaria da parte di società cooperative era riservato alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo.

La prima delle due categorie di istituti di credito appena citati doveva essere costituita, a tenore dell’art. 29 comma 1, in forma di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata, con valore nominale di ciascuna azione non superiore a due euro.

Regola qualificante del tipo societario in questione era data dal voto capitario (ossia secondo il principio “una testa un voto”, art. 30 comma 1), ma nessuno dei soci poteva detenere, direttamente o indirettamente, in base all'art. 30 comma 2, una quantità di azioni eccedente l'1% del capitale sociale;
peraltro, a quest’ultimo limite erano sottratti alcuni investitori istituzionali, quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (art. 30 comma 3).

Altra regola qualificante era data dal c.d. principio della “porta aperta”, secondo il quale l'ingresso nella compagine sociale non comportava particolari qualifiche nell’aspirante socio, e, soprattutto, non comportava modifiche dell'atto costitutivo.

A tale principio si correlava il “principio del gradimento” degli amministratori rispetto agli aspiranti soci (art. 30 comma 5);
ma coloro, ai quali detto gradimento fosse stato negato, potevano comunque acquisire lo status di semplice azionista, ossia di titolare dei soli diritti patrimoniali;
una posizione che, pertanto, si contrapponeva allo status di socio, ovvero di titolare sia dei diritti c.d. amministrativi che di quelli patrimoniali.

Ai sensi dell’art. 32 TUB, poi, solo il 10% degli utili netti annuali doveva necessariamente essere destinato a riserva, sicchè il restante 90% poteva costituire dividendo da distribuire ai soci.

D’altra parte, il TUB non conteneva disposizioni che imponessero alle banche in questione di operare esclusivamente o prevalentemente con i soci.

2.2 - La dottrina in materia ha più volte sottolineato come i tratti caratteristici delle banche popolari su richiamati abbiano comportato l’allontanamento dallo schema mutualistico, portando ad affermare che le banche popolari, come configurate dalla previgente versione del TUB, avevano la forma, ma non la sostanza, di cooperative.

In particolare, poi, la possibilità che investitori istituzionali (quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari) non fossero soggetti al limite di detenzione di azioni che colpiva gli altri soci, delineava chiaramente un modello di cooperativa nella quale si assisteva –specie per le grandi banche popolari, quotate in borsa – ad un sensibile indebolimento dello scopo mutualistico;
poiché è del tutto evidente che un soggetto interessato ad effettuare nella banca popolare un investimento di capitale non è, di regola, invece interessato a che i soci ricevano i vantaggi mutualistici, che deriverebbero loro dalla partecipazione al capitale sociale.

2.3 – Inoltre le caratteristiche delle società in questione, come sopra delineate, comportavano determinanti influenze sui meccanismi di formazione della compagine degli amministratori: tramite il sistema del voto capitario, infatti, a determinare la volontà sociale in sede di elezione dei medesimi è il numero dei soci, e non la consistenza della quota di capitale da essi detenuta: ragione per cui gli amministratori possono non essere espressione dei soggetti titolari della parte più consistente del capitale, ossia degli investitori istituzionali.

Gli amministratori d’altra parte, come già detto, possedevano il potere di veto nei confronti dell’ammissione alla qualità di socio, ovvero, in definitiva, il potere di scegliere i propri elettori e così –come osservato in dottrina – il potere di autoperpetuarsi nella carica.

2.4. – In relazione al fine ultimo della partecipazione al capitale sociale, quindi, la dottrina in materia ha addirittura enucleato quattro categorie di soci delle banche popolari, ciascuna connotata da un interesse differente da quello proprio delle altre categorie, ovvero: soci – clienti, che ambiscono ad ottenere condizioni più vantaggiose nella fruizione dei servizi bancari;
soci – investitori, che, invece, sono interessati alla sola percezione del dividendo ed a realizzare il c.d. capital gain;
soci – amministratori, interessati alla rielezione nella carica;
soci – dipendenti, che, invece, sono gli unici ad essere interessati a spuntare condizioni salariali e lavorative sempre migliori.

3. – Tanto premesso in via generale, deve essere dichiarata, innanzitutto, l’inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum spiegato dal CODACONS – Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori.

3.1 – Tale associazione, infatti, afferma di perseguire, per statuto, la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori ed utenti nei confronti dei soggetti pubblici e privati produttori e\o erogatori di beni e servizi, e di essere tra le associazioni di consumatori ed utenti rappresentative a livello nazionale, contemplate dall’art. 137 del decreto legislativo n. 206 del 2005 (Codice del consumo).

Aggiunge di essere legittimata ad intervenire in giudizio in forza dell’art. 2 del detto Codice del consumo, al fine di tutelare il diritto alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, “nonché un più generale diritto di eguaglianza”.

3.2 – Il difetto di legittimazione del Codacons emerge sotto due distinti profili.

3.2.1. – Sotto un primo e più immediato profilo di diritto positivo, è sufficiente rilevare come la circostanza che l’unico interesse in comune tra le su enumerate e differenti categorie di soci delle banche popolari “ante-riforma” (che è lo status quo ante al cui ripristino mira, in ultima analisi, l’impugnazione in esame) sia quello alla percezione dell’utile sotto forma di dividendo, vale, da solo, a privare della titolarità all’impugnazione gli enti esponenziali delle categorie di consumatori ed utenti.

Ed invero, posto che la percezione dell’utile in questione costituisce il frutto di una attività imprenditoriale –quale quella delle banche popolari, nelle quali lo scopo mutualistico ha oramai assunto solo un valore formale – , osta alla legittimazione delle relative associazioni l’art. 3 comma 1 del Codice del consumo, che definisce come consumatore o utente proprio “la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale”.

Avuto riguardo alla corrente definizione dottrinale del vantaggio mutualistico, ossia la messa a disposizione dei soci di occasioni di lavoro o di possibilità di acquisto o di utilizzazione di beni o di servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle praticate sul mercato, emerge chiaramente il contrasto di tale scopo con le su richiamate disposizioni ante riforma del T.U.B. (prima fra tutte la possibilità che determinati soci non soffrano dei medesimi limiti di altri alla detenzione di quote del capitale sociale, e alla possibilità che le banche popolari siano quotate in borsa) che marcano nettamente il profilo di tali imprese come lucrative (nella sostanza), in contrasto con la forma di cooperative.

E’ stato affermato, infatti, che la partecipazione al capitale delle banche popolari veniva considerata dal legislatore “ante-riforma” come un vero e proprio investimento capitalistico, seppure nell’ambito di un'organizzazione democratica: il che comporta che tutti i soci –e non solo gli investitori istituzionali – potevano essere considerati meri investitori di capitali, vale a dire autori di una forma di investimento della ricchezza tesa ad ottenere un lucro, e non già al perseguimento del fine mutualistico.

Lo conferma l’art. 30 del TUB, che conferisce la possibilità a coloro che hanno subito il veto degli amministratori al loro ingresso nella compagine sociale la possibilità di esercitare i soli diritti patrimoniali incorporati nelle azioni acquistate e detenute.

3.2.2.- Peraltro, anche volendo riconoscere la qualifica di “consumatori” a taluni dei soci delle banche popolari interessate dalla riforma, si dovrebbe necessariamente concludere per l’assenza dell’imprescindibile requisito, costantemente affermato dalla giurisprudenza del Giudice d’appello, per cui l'interesse collettivo degli Enti esponenziali deve identificarsi nell'interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non negli interessi di singoli associati o gruppi di associati;
e ciò anche nel caso in cui un provvedimento porti vantaggi ad alcuni e asseriti pregiudizi ad altri (Consiglio di Stato, sez. III, 23 giugno 2014, n. 3164;
sez. V, 7 dicembre 2015 n. 5560).

Si è visto in precedenza come, nella congerie dei soci delle banche popolari, siano enucleabili almeno quattro categorie di soci (soci clienti, soci dipendenti, soci amministratori e soci investitori), a ciascuna delle quali è riferibile un ben definito interesse, sostanzialmente confliggente con quello delle altre categorie.

L’unico interesse comune a tutte e quattro le categorie, come ripetuto, è (solo) quello alla percezione di un utile attraverso i dividendi.

Ed anche volendo escludere dal novero delle possibile categorie rappresentate dalle due associazioni ricorrenti quelle dei soci-amministratori e dei soci-investitori (cosa che, di per sé, già comporterebbe l’assenza del requisito in parola), non sarebbe ancora possibile trovare comunanza di interessi neppure tra le due categorie di soci che più potrebbero, in astratto, avvicinarsi alla prospettazione di Codacons, che afferma di tutelare gli utenti dei servizi bancari: perché, come detto, mentre i soci-clienti mirano ad una maggiore convenienza e fruibilità dei servizi bancari, invece i soci-dipendenti puntano a migliorare le proprie condizioni di lavoro e retributive all’interno delle società bancarie in questione.

Tale conflitto, per di più, emergerebbe con particolare chiarezza proprio in corrispondenza dell’unica posizione soggettiva riconosciuta dall’art. 2 del Codice del consumo in astratto riferibile al caso di specie, ossia nell’ambito dell’ “erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”, che costituisce evidente terreno di potenziale scontro tra dipendenti delle banche e fruitori dei relativi servizi.

4. – Il Collegio ritiene comunque di poter prescindere dalle residue eccezioni di rito, in quanto il ricorso è infondato, e deve essere respinto.

4.1 - La censura di apertura del primo motivo postula la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015 per assenza dei presupposti di necessità ed urgenza che, a tenore dell’art. 77 Cost., giustificano la decretazione d’urgenza;
presupposti che, qui, mancherebbero, sia per la natura strutturale della riforma operata, che per la presenza di una norma del decreto (l’art. 1 comma 2) che impone l’adeguamento alle relative disposizioni entro 18 mesi dalla emanazione delle disposizioni di attuazione da parte della banca d’Italia, e non immediatamente.

4.1.2 - La valutazione cui è chiamato questo TAR, circa la sussistenza della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata passa necessariamente per una valutazione di evidenza (o di non evidenza) dei presupposti di necessità ed urgenza di cui all’art. 77 comma II Cost. nell’art. 1 del decreto legge n. 3 del 2015.

4.1.3. – Osserva il Collegio che, quando è stata chiamata a scrutinare la compatibilità di una riforma ordinamentale (quella della disciplina delle Province: sentenza n. 220/2013), la Corte Costituzionale ha affermato che essa non poteva essere interamente condizionata dalla contingenza, “sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza»”.

La decretazione di urgenza potrebbe quindi, secondo la medesima Corte, essere legittimamente adottata solo per incidere su singoli aspetti della normativa di settore (in quel caso, degli enti locali), secondo valutazioni di opportunità politica del Governo, sottoposte al vaglio successivo del Parlamento.

Nel caso della radicale trasformazione delle Province, in particolare, la Corte ha ritenuto impossibile la modifica per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale, poiché la relativa esigenza non era nata nella sua interezza e complessità (già da tempo dibattute), da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza».

4.1.4 – Dette affermazioni devono, tuttavia, essere temperate con riferimento ad altre numerose pronunzie, in cui la Corte Costituzionale ha ritenuto che il sindacato sull'esistenza dei presupposti della necessità e dell'urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato solo nel caso in cui la mancanza di tali presupposti sia “evidente” (sentenze n. 6 e n. 285 del 2004, n. 16 del 2002, n. 398 del 1998, n. 330 del 1996, n. 29 del 1995, n. 171 del 2007, n. 83 del 2010).

In particolare, nella sentenza n. 171 del 2007, il Giudice delle Leggi ha precisato la ragione per cui l’assenza dei presupposti atti a legittimare la decretazione d’urgenza debba risultare evidente, affermando che “L'espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare, dall'altro, però, comporta l'inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”.

In definitiva, secondo la citata –e cospicua – giurisprudenza costituzionale, la verifica del rispetto delle condizioni fissate dall’art. 77 comma II della Costituzione non presuppone (come vorrebbero i ricorrenti) una valutazione in astratto, a tenore della quale il fatto stesso che il Governo abbia posto mano alla riforma della disciplina di un dato settore comporterebbe, solo per questo, la violazione del parametro costituzionale.

Per la Corte, invece, questa verifica deve essere effettuata in concreto: ossia in ragione della singolarità del caso regolato alla luce di “una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi”.

4.1.5 - Al riguardo occorre, allora, fare innanzitutto riferimento all’epigrafe del decreto legge n. 3 del 2015, che, per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza nella materia in questione, richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di avviare il processo di adeguamento al sistema bancario agli indirizzi europei per renderlo competitivo ed elevare il livello di tutela dei consumatori e di favorire lo sviluppo dell'economia del Paese, promuovendo una maggiore patrimonializzazione delle imprese italiane ed il concorso delle piccole e medie imprese nei processi di innovazione del sistema produttivo”, nonché “la straordinaria necessità ed urgenza di adottare disposizioni volte a favorire l'incremento degli investimenti, l'attrazione dei capitali e degli investitori istituzionali esteri, nonché favorire lo sviluppo del credito per l'export”.

Dunque, secondo il Governo della Repubblica, la necessità di ricorrere alla decretazione d’urgenza era correlata all’esigenza di promuovere adeguare il sistema bancario italiano “agli indirizzi europei” e a quella di favorire gli investimenti nel capitale delle banche popolari mediante l’attrazione di investitori istituzionali e dei relativi capitali anche dall’estero.

Questi fenomeni, anche secondo le prospettazioni difensive delle resistenti, erano ostacolati dalla particolare configurazione delle banche popolari italiane (di cui si è detto in precedenza), oramai aventi solo la forma, ma non la sostanza, di cooperative (alcune delle quali addirittura quotate in borsa), e però caratterizzate da istituti (quali, soprattutto, il voto capitario, il gradimento all’ingresso di nuovi soci ed il limite all’assunzione di deleghe assembleari) idonei a limitare la contendibilità sul mercato degli assetti proprietari, ad influenzare fortemente la elezione degli amministratori e, di conseguenza, ad orientare in senso conservativo le scelte di competenza di questi ultimi.

4.1.6 - Si può rilevare che, in linea astratta, le esigenze richiamate dall’epigrafe del decreto legge si palesano, in sé, neutre sotto il profilo della straordinaria necessità ed urgenza della loro soddisfazione, atteso che esse non sono accompagnate dall’esplicazione delle ragioni per cui il processo in questione si imporrebbe come urgente.

4.1.7. - Più compiutamente, tuttavia, le ragioni d’urgenza emergono –secondo una valutazione del caso concreto, postulata dalle su richiamate pronunzie della Corte Costituzionale – dalla Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 3 del 2015 presentato alla Camera dei Deputati, prodotta in giudizio dall’Istituto al n. 1 del deposito datato 5 ottobre 2015.

La relazione in questione richiama, innanzitutto, la necessità di adeguare il sistema italiano al nuovo Meccanismo unico di vigilanza degli Istituti di credito continentali, istituito dal Regolamento UE n. 1024/2013, nato per fronteggiare la crisi finanziaria che ha interessato gli intermediari europei negli ultimi anni, strumento che ha la Banca Centrale Europea al vertice della catena di controllo, cui partecipano anche le Autorità di vigilanza nazionali, e che si dirige su determinati istituti di credito ritenuti “significativi” per le dimensioni dell’attivo.

Essa afferma che requisiti fondamentali per il funzionamento dei nuovi strumenti di vigilanza sono proprio una efficace forma di governo delle banche in questione e una elevata capacità di finanziamento delle medesime: evenienze ostacolate, come affermato comunemente in dottrina, dalle caratteristiche delle banche popolari “pre-riforma”, e che, in base ad analisi condotte dal Fondo Monetario Internazionale, “la solidità delle banche dipende ampiamente dalla qualità del governo societario”.

Questa trasformazione –ancora a tenore della citata Relazione – presuppone, poi, che alle società sia lasciato un congruo periodo di tempo per la valutazione delle opzioni rese possibili dalla riforma.

4.1.8 - Ritiene il Collegio che le ragioni di urgenza enunciate nella citata Relazione di illustrativa del decreto-legge al Parlamento per la sua conversione in legge siano sufficienti a determinare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che i ricorrenti chiedono di sollevare in relazione all’art. 77 comma II Cost.

L’atto in questione ha preso in considerazione una necessità di cui può, non irragionevolmente, postularsi l’urgenza: ossia l’esigenza di adeguare l’ordinamento italiano ad una nuova strutturazione dell’attività di vigilanza che interessa i maggiori intermediari di questa categoria, concepita su scala europea dal diritto dell’Unione.

Il riferimento è –come meglio esplicitato nelle difese delle Amministrazioni resistenti- alla nuova disciplina comunitaria in materia di vigilanza bancaria e, in particolare, al Regolamento UE/575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, che agli articoli 28 e 29 impone –per quanto qui interessa- la presenza di “Strumenti del capitale primario di classe 1” .

Si tratta del “patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca” cui fa riferimento il nuovo comma 2-ter dell’art. 28 T.U.B., che pone limiti al rimborso della partecipazione azionaria del socio in caso di recesso, ove ciò sia necessario al fine di computare in tale parte del patrimonio le azioni non rimborsate, secondo il principio c.d. del bail-in, per cui la solidità della banca deve essere assicurata, innanzitutto, dal proprio patrimonio.

Ebbene, la su citata fonte comunitaria impone che, tra gli altri requisiti, gli strumenti di capitale atti a garantire tale computo siano –secondo la dizione del Regolamento- “perpetui”, ossia sempre disponibili dalla banca.

Questa caratteristica è garantita dalla facoltà che la banca, a determinate condizioni, neghi il rimborso di una parte dell’investimento di capitale al socio che intenda uscire dalla compagine societaria: facoltà che il diritto interno non riconosceva, e che è stata introdotta nell’ordinamento italiano, per la prima volta, proprio dall’art. 1 del decreto-legge n. 3 del 2015 mediante l’inserimento del comma 2-ter nell’art. 28 del T.U.B. in materia di banche popolari (e che è poi è stata estesa a tutte le aziende di credito dal decreto legislativo n. 180 del 2016).

Sotto questo profilo, quindi, il decreto-legge attua l’adeguamento a quanto dispone l’art. 29 comma 2 del Regolamento del parlamento Europeo e del Consiglio n. 575\13, che tra i requisiti di tali strumenti di capitale prevede anche: “Per quanto riguarda il rimborso degli strumenti di capitale sono soddisfatte le seguenti condizioni:

a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l'ente può rifiutare il rimborso degli strumenti;

b) se la normativa nazionale applicabile vieta all'ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti consentono all'ente di limitare il rimborso;

c) il rifiuto di rimborsare gli strumenti o, se del caso, la limitazione del rimborso degli strumenti non possono costituire un caso di default da parte dell'ente.”

In particolare, la norma interna ha scelto di adottare la ipotesi sub b), ovvero quella di non precludere per intero il rimborso;
e ha altresì scelto che tale limitazione sia solo eventuale (ipotesi sub c).

Tanto basta a dimostrare che, nell’occasione, il ricorso alla decretazione di urgenza, pur attuato in presenza di una riforma strutturale di un dato settore dell’ordinamento giuridico, è stato condotto (come consentito dalla giurisprudenza del Giudice delle leggi citata in precedenza), alla luce della valutazione di circostanze concrete e contingenti, che ragionevolmente potevano indurre all’utilizzo del decreto-legge.

4.1.9 - A questa constatazione deve arrestarsi la delibazione di manifesta infondatezza attribuita al giudice a quo;
il quale non può addentrarsi a sindacare né l’effettiva sussistenza di una tale urgenza, né, tanto meno, a valutare la congruità delle misure in concreto adottate per fronteggiarla.

Si tratta, infatti, di aspetti che involgono l’insindacabile campo della discrezionalità sotto il profilo, proprio delle questioni di legittimità costituzionale -ancorchè nei sommari limiti riservati alla delibazione del giudice a quo- per cui le scelte legislative sono sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (C. Cost., sentenza 79/2016).

4.1.10 - Ritiene poi il Collegio che, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, la violazione dell’art. 77 comma II Cost. non emerga neppure dal fatto che l’art. 1 comma 2 del decreto legge preveda che, in sede di prima applicazione del decreto, le banche popolari si adeguino a quanto stabilito dai nuovi commi 2-bis e 2-ter del nuovo articolo 29 del TUB entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d'Italia.

I detti commi 2 bis e 2 ter dell’art. 29 prevedono, come detto, che, in caso di superamento di un limite dell’attivo pari a otto miliardi di euro, l'organo di amministrazione deve convocare l'assemblea per deliberare, entro un anno, la riduzione dell’attivo al di sotto della soglia, oppure la trasformazione della banca in società per azioni, oppure la liquidazione.

E’ del tutto evidente che la disposizione dell’art. 1 comma 2 non prevede una entrata in vigore differita dell’obbligo di adeguamento, che risulta immediato, ma attuabile nel termine di diciotto mesi.

La norma, quindi, del tutto ragionevolmente, prevede un adeguato lasso di tempo dall’entrata in vigore dopo che la Banca d’Italia abbia dettato le relative disposizioni di attuazione (come pure previsto nell’art. 29 al nuovo comma 2-quater), in quanto concede agli istituti di credito interessati un congruo termine per operare le scelte e le conseguenti misure alternative –ma obbligatorie- di riforma strutturale connesse al superamento del limite di otto miliardi di euro di attivo.

In questa ottica emerge che risulta rispettato il principio secondo il quale i decreti-legge “sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità” (ancora Corte Cost. n. 220\2013), come postulato dall’art. 15 comma 3 della legge n. 400 del 1988, il quale prevede che essi debbano contenere misure di immediata applicazione.

4.2 – Parimenti infondata è la questione di legittimità costituzionale adombrata nella seconda censura, per la quale l’art. 1 comma 1 lettera a), che introduce il comma 2-ter nell’art. 28 T.U.B., conterebbe una delega “in bianco” alla Banca d’Italia di adottare norme regolamentari anche in deroga alla legge, senza predeterminazione dei criteri;
facoltà di deroga all’ordinario assetto dei poteri legislativo ed esecutivo che l’art. 70 Cost. concede solo al Parlamento, e solo nei confronti del Governo.

4.2.1. – La questione è, innanzitutto, mal posta.

I ricorrenti assumono, infatti, che la disposizione del comma 2-ter su richiamato violerebbe gli articoli 70, 76 e 77 Cost., che, rispettivamente, attribuiscono la funzione legislativa collettivamente alle due camere (art. 70), ne ammettono la delegazione al Governo solo con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti (art. 76), e, infine, regolano le condizioni per la decretazione d’urgenza (art. 77).

In realtà, la disposizione in esame non riguarda affatto la delega della funzione normativa dal Parlamento ad altro soggetto.

La norma censurata non è frutto del potere legislativo affidato, in via ordinaria, alle due Camere, bensì proviene proprio da un decreto-legge assunto in base all’art. 77 Cost. (che, come si è visto in precedenza, non risulta violato sotto l’aspetto dei presupposti necessari alla sua applicazione).

4.2.2. – A parere del Collegio il punto è, invece, se nella circostanza sia stata rispettata la riserva di legge relativa, di cui tratta l’art. 23 della Costituzione, il quale afferma che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge: nel caso in esame, infatti, si è al cospetto di una disposizione che comporta, in caso di recesso o esclusione del socio, una possibile limitazione del diritto al rimborso della quota di capitale sottoscritta.

Anche in questa chiave, peraltro, la questione è manifestamente infondata.

Come noto, la riserva di legge relativa di cui all'art. 23 della Costituzione lascia all'autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, sempre che non si tratti di un “mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell'azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini” (Corte Cost., sentenze n. 115 del 2011 e n. 83 del 2015).

In particolare, secondo il Giudice delle leggi, “per rispettare la riserva relativa di cui all'art. 23 Cost., è quanto meno necessaria la preventiva determinazione di «sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (sentenze n. 350 del 2007 e n. 105 del 2003), richiedendo che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l'attività dell'amministrazione»” (sentenze n. 190 del 2007, n. 115 del 2011 e n. 83 del 2015).

4.2.3. - Nel caso del nuovo comma 2-ter dell’art. 28 TUB questi requisiti sono presenti, seppure con le precisazioni che seguono.

Il comma 2-ter, innanzitutto, prevede espressamente la limitazione al rimborso.

Esso, poi, considera detta limitazione solo come eventuale, e non come automatica conseguenza del recesso o dell’esclusione del socio e della trasformazione della società.

Tale eventualità è, parimenti, specificata nel medesimo comma 2-ter: si tratta del caso in cui “ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca”.

I presupposti della limitazione al rimborso, quindi, sono previsti dalla norma di rango primario.

4.2.4. – Occorre ricordare nuovamente che limitazione del rimborso di capitale in caso di recesso rappresenta un requisito prudenziale per fronteggiare eventuali perdite della azienda di credito, e risponde al principio secondo il quale la stabilità di una banca, in caso di crisi, va preservata innanzitutto attraverso un salvataggio interno, ossia mediante le risorse patrimoniali della banca medesima;
e dunque, indirettamente, mediante l’apporto del patrimonio dei soci (c.d principio del bail-in).

La facoltà di limitare il diritto al rimborso azionario comporta la possibilità, per la banca, di computare nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria anche dei titoli rappresentativi del capitale sociale.

Per completezza, occorre rilevare che il medesimo principio –denominato, in quella sede, proprio bail-in – è stato successivamente esteso a tutte le aziende di credito dagli articoli 48 e seguenti del D.Lgs. 16/11/2015, n. 180 (in materia di attuazione della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento), e prevede che esso è disposto per ripristinare il patrimonio degli istituti sottoposti a procedura di ”risoluzione”, nella misura necessaria al rispetto dei requisiti prudenziali e idonea a ristabilire la fiducia del mercato.

4.2.5. - Ciò che il nuovo art. 28, comma 2-ter del T.U.B. rimette alle determinazioni della Banca d’Italia è unicamente la modalità della limitazione del rimborso di capitale, ove di essa ricorrano i presupposti.

Tali modalità, tuttavia, come evidenziato nelle difese dell’Autorità di vigilanza, non vengono lasciate alle libere determinazioni di quest’ultima, ma rispondono a specifici parametri desumibili dal diritto comunitario.

L’Avvocatura della Banca d’Italia fa condivisibile riferimento, a questo fine, al regolamento UE\241\2014 della Commissione, che integra il regolamento UE\575\2013 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.

L’art. 10 del Regolamento UE\241\2014, al paragrafo 2, prevede, innanzitutto, le modalità con cui la detta limitazione può essere operata, disponendo che “La capacità dell'ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all'articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all'articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l'importo rimborsabile. L'ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l'importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3”.

Il paragrafo 3 della medesima norma fornisce i criteri di computo della parte non rimborsabile:

“3. L'entità dei limiti al rimborso previsti dalle disposizioni che regolano gli strumenti è determinata dall'ente sulla base della sua situazione prudenziale in qualsiasi momento, considerando in particolare, ma non esclusivamente, i seguenti elementi:

a) la situazione complessiva dell'ente in termini finanziari, di liquidità e di solvibilità;

b) l'importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale totale rispetto all'importo complessivo dell'esposizione al rischio calcolato conformemente ai requisiti fissati all'articolo 92, paragrafo 1, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013, agli specifici requisiti di fondi propri di cui all'articolo 104, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2013/36/UE, e al requisito combinato di riserva di capitale ai sensi dell'articolo 128, punto 6, della stessa direttiva”.

La definizione di capitale primario di classe 1 e di capitale di classe 1, cui fa riferimento il paragrafo 3 appena riportato, è data dall’ art. 25 del Regolamento 575\2013, per cui:

“1. Gli elementi del capitale primario di classe 1 degli enti sono i seguenti:

a) strumenti di capitale, purché siano soddisfatte le condizioni di cui all'articolo 28 o, ove applicabile, all'articolo 29;

b) sovrapprezzi di emissione relativi agli strumenti di cui alla lettera a);

c) utili non distribuiti;

d) altre componenti di conto economico complessivo accumulate;

e) altre riserve;

f) fondi per rischi bancari generali.

Gli elementi di cui alle lettere da c) a f) sono riconosciuti come capitale primario di classe 1 soltanto se possono essere utilizzati senza restrizioni e senza indugi dall'ente per la copertura dei rischi o delle perdite nel momento in cui tali rischi o perdite si verificano”.

La non breve disamina normativa che precede attesta che, in definitiva, anche l’attività di determinazione del quantum di capitale eventualmente non rimborsabile in caso di recesso è, alla luce del diritto interno e di quello comunitario, interamente conformata e suscettibile di determinazione, nei singoli casi, attraverso i parametri normativi su riportati.

4.3. – Anche la censura di violazione degli articoli 3, 41, 42 e 45 Cost. e 117 Cost. in relazione all’art. 1 del 1° Protocollo addizionale CEDU è manifestamente infondata.

4.3.1. - Un primo ordine di censure di illegittimità costituzionale investe, in particolare, il nuovo comma 2 ter introdotto dal citato articolo 1 nell’art. 29 del T.U.B., che prevede:

2-ter. In caso di superamento del limite di cui al comma 2-bis, l'organo di amministrazione convoca l'assemblea per le determinazioni del caso. Se entro un anno dal superamento del limite l'attivo non è stato ridotto al di sotto della soglia né è stata deliberata la trasformazione in società per azioni ai sensi dell'articolo 31 o la liquidazione, la Banca d'Italia, tenuto conto delle circostanze e dell'entità del superamento, può adottare il divieto di intraprendere nuove operazioni ai sensi dell'articolo 78, o i provvedimenti previsti nel titolo IV, capo I, sezione I, o proporre alla Banca centrale europea la revoca dell'autorizzazione all'attività bancaria e al Ministro dell'economia e delle finanze la liquidazione coatta amministrativa. Restano fermi i poteri di intervento e sanzionatori attribuiti alla Banca d'Italia dal presente decreto legislativo. ”

La disposizione è dal leggere in stretta connessione con il precedente (nuovo) comma 2-bis, per il quale:

“2-bis. L'attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro. Se la banca è capogruppo di un gruppo bancario, il limite è determinato a livello consolidato.

I ricorrenti assumono che le disposizioni appena trascritte, imponendo una data soglia dimensionale all’attività bancaria in forma cooperativa di banca popolare, contrasterebbero con gli articoli 41 (che tutela la libertà di iniziativa economica privata, cui sarebbe così posto un indebito limite) e 45 (che afferma la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata) della Costituzione.

Al riguardo occorre ricordare nuovamente che i tratti caratteristici delle banche popolari su richiamati hanno comportato l’allontanamento dallo schema mutualistico, portando ad affermare che le banche popolari, come configurate dalla previgente versione del TUB, avevano la forma, ma non la sostanza, di cooperative.

In particolare, poi, la possibilità che investitori istituzionali quali gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari non fossero soggetti al limite alla detenzione di azioni che colpiva gli altri soci, delineava chiaramente un modello di cooperativa nella quale si assisteva –specie per le grandi banche popolari quotate in borsa- ad un sensibile indebolimento dello scopo mutualistico.

L’interesse degli investitori istituzionali, infatti, nulla ha a che vedere con il godimento del vantaggio mutualistico, ma si dirige esclusivamente alla migliore remunerazione possibile del proprio investimento di capitale.

Ma tanto deve dirsi anche per i soci diversi dagli investitori istituzionali: ciò in quanto il limite alla sottoscrizione ad essi applicato non è stato previsto in un importo fisso, bensì nella misura variabile dell’1% del capitale, il che –come osservato in dottrina- vale a testimoniare la natura di investimento della relativa sottoscrizione.

Pertanto, non è prima facie irragionevole (e tanto basta, per il giudice a quo, a ritenere manifestamente infondata la questione di costituzionalità sottesa alle censure in esame) una misura normativa che, impone la trasformazione in s.p.a. ordinaria della società bancaria avente oramai solo la veste della cooperativa (ma non la sostanza).

4.3.2. - Questa impostazione, inoltre, risulta logica soprattutto se applicata alle banche popolari di maggiori dimensioni, e non a quelle –pure presenti nello scenario italiano – che ancora si rivolgono quasi esclusivamente al territorio di riferimento.

Da ciò si deduce la ragionevolezza della fissazione di una data soglia al disopra della quale l’attivo della banca popolare deve comportare la sua trasformazione in s.p.a.

4.3.3. – Inoltre, perfettamente ragionevole appare il limite dimensionale di otto miliardi di attivo posto dal comma 2-bis.

La misura così fissata, invero, è stata positivamente apprezzata dalla Banca Centrale Europea nel parere reso il 25 marzo 2015 ai sensi degli articoli 127 par. 4 e 282 par. 5 del TFUE, nonché della Decisione 98\415\CE.

In particolare, il citato art. 127 del Trattato prevede, per quanto qui interessa, che la Banca Centrale Europea è consultata dalle autorità nazionali, sui progetti di disposizioni legislative che rientrino nelle sue competenze, ma entro i limiti e alle condizioni stabiliti dal Consiglio.

L’art. 282 ribadisce che nei settori che rientrano nelle sue attribuzioni, la Banca centrale europea è consultata su ogni progetto di atto dell'Unione e su ogni progetto di atto normativo a livello nazionale.

Le materie nelle quali si deve seguire tale procedimento consultivo sono quelle elencate nell’art. 2 della decisione del Consiglio 98\418\ CE, ossia:

- le questioni monetarie,

- i mezzi di pagamento,

- le banche centrali nazionali,

- la raccolta, la compilazione e la distribuzione delle statistiche monetarie, finanziarie, bancarie e sulla bilancia dei pagamenti,

- i sistemi di pagamento e di regolamento,

- le norme applicabili agli istituti finanziari nella misura in cui esse influenzano la stabilità di tali istituti e dei mercati finanziari.

4.3.4. - Detto parere, nel caso in esame, è stato reso nel senso della completa condivisione della riforma contenuta nel decreto-legge n. 3 del 2015 da parte della Banca centrale Europea.

In questo senso è sufficiente rilevare che il paragrafo 3.1. del parere in questione afferma, al principio della trattazione di merito, che “La BCE accoglie favorevolmente la proposta di riforma delle banche popolari, tappa fondamentale per affrontare le criticità relative al loro sistema di governo, e sostiene le autorità italiane nell’immediato riconoscimento a tale forma di una stabile efficacia”.

Al riguardo si può osservare che la collocazione della norma attributiva del potere consultivo alla Banca Centrale Europea nell’art. 127 del TFUE induce a ritenere che l’espressione consultiva in questione sia tesa a verificare, essenzialmente, se una data misura è conforme alle politiche economiche generali dell’Unione, al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui fa menzione l’incipit dell’articolo;
ossia di contribuire alle politiche che devono essere sostenute dal Sistema europeo di banche centrali, costituito proprio dalla Banca Centrale Europea e dalle singole Banche Centrali Nazionali (art. 282 TFUE).

E, nel parere citato, la istituzione creditizia comunitaria ha affermato che “le banche popolari con attivo superiore agli otto miliardi di euro rappresentano una quota significativa del segmento delle popolari in termini di credito erogato, numero di sportelli e personale impiegato. La soglia fissata per l’obbligo di trasformazione appare pertanto appropriata al raggiungimento degli obiettivi del decreto-legge per una parte significativa del segmento delle popolari nel settore bancario italiano. La BCE ha presente che il criterio dimensionale dell’attivo è coerente con l’attuale distinzione tra banche popolari con un’ampia portata territoriale e operativa, che presentano un modello di business simile a quello adottato dalle banche commerciali, e banche popolari ispirare ad un modello bancario cooperativo e mutualistico. Alla luce di tale considerazione, la BCE accoglie favorevolmente il decreto-legge, che riallinea la struttura societaria e di governo delle banche popolari più grandi a quella delle banche commerciali di pari dimensioni, senza pregiudicare la capacità delle popolari di finanziare l’economia locale e regionale”.

Questa integralmente positiva valutazione dell’organo, deputato ad esprimersi sulla coerenza delle misure normative degli Stati membri con le politiche economiche generali vale, a parere del Collegio, a privare di fondamento la questione prospettata.

4.3.5. – Quanto appena detto deve condurre anche alla declaratoria di manifesta infondatezza della questione di costituzionalità prospettata rispetto all’art. 45 Cost., perché, in realtà, la attività cooperativa non risulta compressa, ma –al contrario – circoscritta entro i limiti che le sono propri, ossia quelli del mantenimento del vantaggio mutualistico negli ambiti in cui i soci siano ancora a ciò realmente interessati: ovvero le banche popolari di minori dimensioni.

Le argomentazioni svolte, al contrario, spogliano da ogni equivoco lo scopo sociale degli istituti di maggiori dimensioni, oramai proiettati verso ambiti di mercato che, per loro natura, tendono alla soddisfazione di investimenti capitalistici;
i quali, con il vantaggio mutualistico dedicato ai soci, più nulla hanno a che fare.

4.4. – Non è possibile, inoltre, ravvisare un intervento espropriativo nella previsione di un limite, in caso di esodo dalla compagine sociale, al rimborso di una data quota del capitale investito dal socio uscente, che, come tale, lederebbe gli articoli 41 e 42 Cost. e l’art. 1 del 1° protocollo addizionale della CEDU, oltre che gli articoli 16 e 17 della carta dei diritti fondamentali di Nizza, che pure dettano guarentigie a tutela della libertà d’impresa e della proprietà privata, di cui alle doglianze rubricate, nel ricorso, ai numeri 2, 3, 4 e 5.

4.4.1. - Al riguardo il Collegio ritiene sufficiente osservare che, innanzitutto, il principio costituzionale di cui all’art. 42 invocato riguarda la tutela del diritto reale di proprietà e le possibilità di sua ablazione da parte della mano pubblica.

Mentre nel caso in esame si controverte dei possibili limiti apposti alla soddisfazione di un diritto di credito (quale è quello del socio recedente rispetto al rimborso della quota di capitale sottoscritta) verso un soggetto privato (la banca);
ragione per cui non è possibile parlare di “privazione (o limitazione) della proprietà”, posto che qui non tanto è in discussione l’eventuale rapporto “cartolare” del socio con il titolo in cui il diritto di credito è incorporato, quanto, piuttosto, il rapporto giuridico (di credito) che ne è alla base.

Rispetto a tale rapporto giuridico è più corretto esprimersi in termini di possibilità, o impossibilità, o di minore possibilità, del relativo esercizio verso la banca debitrice.

Peraltro la soddisfazione del credito, a tenore dell’art. 28 comma 2-ter, al ricorrere dei relativi presupposti, non deve necessariamente essere limitata nel senso che una parte del capitale a suo tempo sottoscritto non viene rimborsata;
ma, come si è visto, è possibile anche disporre il differimento del rimborso nel tempo, senza che sia inciso sul quantum del credito (art. 10 del Regolamento UE\241\2014, paragrafo 2).

4.4.2. - Non emerge neppure la manifesta fondatezza della questione legata all’art. 117 comma 1 Cost. in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU.

Se, infatti, si può convenire con i ricorrenti rispetto alla assai lata concezione di “bene” per la detta Convenzione (che vi include tutto ciò che abbia un valore economicamente valutabile), rimangono d’altronde ferme, anche in questa ottica, le considerazioni su esposte, per le quali, più che della “privazione” del “bene”, si deve qui parlare di una limitata possibilità del suo esercizio (in quanto si tratta di un diritto di credito), o, in alcuni casi, di mero differimento dell’esercizio stesso.

Ad ogni modo, risalta qui con evidenza la sussistenza del requisito dell’interesse generale cui l’art. 1 citato subordina la possibilità dello Stato aderente di disciplinare l’uso dei beni: ed al riguardo è sufficiente, per brevità, rimandare alle precedenti considerazioni in tema di necessità di assicurare la stabilità del sistema delle banche popolari (ovvero di quelle di maggiori dimensioni) mediante il ricorso, prioritario rispetto ad altre misure, al patrimonio della banca medesima, e, dunque, indirettamente, anche dei soci;
e non attraverso, ad esempio, la copertura delle perdite da parte dello stato, e dunque della collettività.

E’ un sistema che, come pure si è visto, deriva direttamente dal regolamento UE\241\2014 della Commissione, che integra il regolamento UE\575\2013 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.

Quest’ultima circostanza induce a dichiarare manifestamente infondata la questione anche sotto questo profilo, in quanto il legislatore nazionale risulta avere rispettato, e non violato, il precetto costituzionale di cui all’art. 117 comma 1, avendo legiferato nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

4.4.3. – L’ultimo profilo di doglianza, rubricato, in ricorso, al n. 6 della censura (pag. 30), assume la violazione dell’art. 41 della Costituzione (che tutela la libertà imprenditoriale) anche da parte del nuovo art. 31 del T.U.B., introdotto dall’art. 1 comma i lettera c) del decreto-legge n. 3 del 2015, il quale modifica in senso riduttivo, rispetto al passato, le maggioranze assembleari per la trasformazione delle banche popolari da società cooperative per azioni a s.p.a. ordinarie.

Anche tale questione è manifestamente infondata.

E lo è per le medesime ragioni che hanno condotto alla riforma in esame, quali delineate nelle considerazioni già svolte nella presente motivazione (cui si rinvia per dovere di sinteticità), che poggiano, essenzialmente, sulla necessità di rispettare la normativa comunitaria in tema di capitale di vigilanza degli istituti bancari;
soprattutto con riguardo ad istituti bancari il cui attivo si attesti al disopra della soglia indicata come ragionevole dalla Banca Centrale Europea (otto miliardi di euro).

Tali ragioni comportano la non irragionevole conseguenza normativa per cui il percorso assembleare che deve condurre la banche popolari con attivo superiore agli 8 miliardi di euro ad assumere le determinazioni di cui all’art. 28 comma 2-ter del T.U.B. sia agevolato rispetto al passato mediante quorum di più facile raggiungimento.

4.5. – La successiva censura contesta la legittimità costituzionale della soglia di otto miliardi di euro di attivo individuata dall’art. 28 comma 2-ter del T.U.B. quale limite oltre il quale la banca popolare costituita in forma di società cooperativa per azioni deve subire le trasformazioni ivi previste.

Al riguardo è sufficiente rimandare al superiore paragrafo 4.3.3., nel quale si è osservato che la misura così fissata è stata positivamente apprezzata dalla Banca Centrale Europea nel parere reso il 25 marzo 2015, ai sensi degli articoli 127 par. 4 e 282 par. 5 del TFUE, nonché della Decisione 98\415\CE.

Il che rende non irragionevole la scelta normativa contestata dai ricorrenti, con la conseguente declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata sul punto.

4.6 – Con la successiva doglianza i ricorrenti chiedono di sollevare la questione di costituzionalità dell’intera disciplina di riforma delle banche popolari per disparità di trattamento (e conseguente lesione degli articoli 3 e 41 Cost.) sotto quattro distinte coppie di termini di raffronto:

1) fra banche popolari cooperative e tutte le altre società cooperative, per le quali non è richiesto alcun “contenimento dell’attivo” per continuare ad operare “secondo la propria vocazione cooperativa”;

2) fra soci di banche popolari sotto la soglia di otto miliardi di euro di attivo e soci di banche popolari che si collocano sopra la detta soglia;

3) fra soci di banche popolari adesso tenute alla trasformazione in s.p.a. e soci di s.p.a. non bancarie, in relazione ai differenti quorum assembleari previsti per deliberare le operazioni conseguenti al superamento della detta soglia;

4) fra soci di banche popolari tenute alla trasformazione e soci di società cooperative a mutualità non prevalente, sempre in relazione ai quorum assembleari previsti per la trasformazione.

Nessuno degli appena prospettati profili di sospetta incostituzionalità è meritevole di positiva delibazione.

4.6.1. – Non è fondato il primo di essi, perché risulta errato e contraddittorio proprio l’assunto di partenza, per cui la banche popolari (e soprattutto quelle con attivo superiore ad otto miliardi di euro) opererebbero, oggi, ancora secondo una “vocazione mutualistica”.

Al riguardo è sufficiente fare integrale rinvio al superiore capo 2 della presente motivazione, nel quale si è messo in luce quali siano le reali caratteristiche delle dette cooperative, che sono oramai tali solo nella forma, ma non più nella sostanza.

Ed è altresì sufficiente ribadire come esse non si rispecchino in alcun modo con la corrente definizione dottrinale del vantaggio mutualistico, consistente nella messa a disposizione dei soci di occasioni di lavoro o di possibilità di acquisto o di utilizzazione di beni o di servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle praticate sul mercato, posto che la partecipazione al capitale delle banche popolari veniva considerata dal legislatore “ante-riforma” come un vero e proprio investimento capitalistico.

A ciò occorre aggiungere che non risultano comparabili, ictu oculi, la situazione di una società cooperativa che eserciti attività bancaria (per le implicazioni –anche- macroeconomiche che tale esercizio comporta e per le connesse esigenze di vigilanza) e quella di altra società cooperativa che abbia oggetto sociale del tutto diverso (quali le cooperative di produzione e lavoro).

4.6.2. – Neppure il secondo profilo di adombrata incostituzionalità è convincente, in quanto la situazione di necessaria differenza di trattamento fra soci di banche popolari con attivo superiore a otto miliardi di euro e soci delle altre banche popolari riporta alla congruità della citata soglia, come certificata dalla Banca Centrale Europea nell’esercizio della sua funzione consultiva, più volte richiamata in precedenza.

4.6.3. – Non risulta comparabile, già in linea generale, nemmeno la situazione dei soci di banche popolari trasformate in s.p.a. e soci di s.p.a. non bancarie: perché, anche in questo caso, l’esercizio di attività bancaria, per le sue peculiarità, rende non irragionevole la differenza di trattamento con i soci di tutte le altre s.p.a., che possono avere l’oggetto sociale più svariato e distante da quello delle aziende di credito.

Peraltro non risulta logico, per marcata disomogeneità fra i due termini di raffronto, comparare le maggioranze assembleari, necessarie alla trasformazione di una s.p.a. ordinariache abbia qualsiasi (altro) oggetto in altro tipo sociale (operazione normalmente dettata da esigenze particolari e contingenti dei soci, o di alcuni di essi, al fine di attuare una data operazione economica secondo profili discrezionali di specifica convenienza) con maggioranze dettate in relazione a società per azioni di forma cooperativa per una trasformazione da tale tipo sociale in s.p.a. ordinaria;
specie se detta trasformazione sia stata imposta dalla normativa comunitaria e nazionale per esigenze di carattere economico generale, che, come detto in precedenza (paragrafo 4.4.3), palesano come ragionevole l’adozione di un “percorso agevolato”.

4.6.4. – Per le medesime ragioni appena esposte non è comparabile neppure la situazione dei soci di banche popolari votate alla trasformazione in s.p.a. ordinaria e soci di altre società cooperative a mutualità non prevalente, le quali non esercitano attività bancaria.

4.7. – Altra censura di disparità di trattamento, in relazione al parametro costituzionale dell’art. 3, viene sollevata dai ricorrenti a proposito dell’art. 1 comma 1 lettera a) del decreto legge n. 3 del 2015, nella parte in cui l’art. 28 del T.U.B. risulta modificato conferendo, adesso, alla Banca d’Italia il potere di regolamentare il diritto del socio al rimborso della sua partecipazione azionaria in caso di recesso, sia nei casi in cui detto recesso sia “imposto” dalla “necessaria” trasformazione in s.p.a., che nei casi di recesso esercitato in altre occasioni.

Anche tale questione è manifestamente infondata.

Alla luce di quanto esposto in precedenza, infatti, il presupposto della limitazione al rimborso di capitale in caso di recesso non è, direttamente, la trasformazione in società per azioni della banca popolare nei casi imposti dall’ordinamento.

Il presupposto è, invece, la necessità di conservare una determinata quota di capitale ai fini prudenziali imposti (anche) dal diritto comunitario, di cui si è ampiamente detto sopra;
e di farlo secondo il principio comunitario –ormai recepito anche nel diritto interno – per cui le perdite sono sostenute, in primo luogo, dal patrimonio della banca, e, quindi, anche dagli azionisti.

4.8 – Altrettanto infondata è la doglianza per cui le disposizioni di limitazione del rimborso in caso di recesso contrasterebbero con l’art. 23 Cost. per violazione della riserva di legge relativa che deve assistere le previsioni di prestazioni patrimoniali imposte.

Ci si deve qui limitare, sempre per rispetto del principio di sinteticità, al richiamo di quanto affermato in precedenza, dal paragrafo 4.2.2 al paragrafo 4.2.5 della presente motivazione, a proposito della piena copertura normativa della limitazione all’esercizio del diritto di credito in parola.

4.9 – La successiva censura del motivo afferma l’incostituzionalità del decreto legge n. 3 del 2015 in relazione all’art. 117 Cost, comma 3, perché la disciplina della materia avrebbe invaso una serie di ambiti di legislazione concorrente delle Regioni, ossia quelli inerenti “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”;
carattere, quest’ultimo, che, secondo la giurisprudenza della Consulta deriverebbe dall’’elemento dell’ubicazione territoriale e da quello degli interessi perseguiti.

E, continuano i ricorrenti, se il primo dei due elementi è oramai divenuto del tutto recessivo, non lo sarebbe, invece, il secondo, poiché gli Enti bancari considerati svolgerebbero la propria attività creditizia principalmente verso una data comunità territoriale regionale, contribuendo allo sviluppo dell’economia locale.

Ne seguirebbe che lo Stato, nel disciplinare la materia, avrebbe dovuto attenersi ai principi di proporzionalità e ragionevolezza, e, inoltre, interloquire con le Regioni.

La manifesta infondatezza della questione deriva, a sommesso parere del Collegio (ed in attesa della pronunzia della Corte Costituzionale, investita della questione il 29 maggio 2015 dalla Regione Lombardia, come documentato a corredo del ricorso), dalla piana circostanza per cui le dimensioni strutturali e dell’attivo degli istituti di credito coinvolti nella riforma (per quanto detto in precedenza) travalicano abbondantemente la misura dell’interesse di determinate comunità locali di riferimento.

Ci limita, sul punto, a ricordare la sottoposizione di tali istituti al sistema di vigilanza bancaria comunitario basato sui già richiamati regolamenti UE\241\2014 della Commissione e UE\575\2013 del Parlamento europeo e del Consiglio.

Il parere della Banca Centrale Europea del 25 marzo 2015, sul punto, afferma espressamente che “… il criterio dimensionale dell’attivo è coerente con l’attuale distinzione tra banche popolari con un’ampia portata territoriale e operativa, che presentano un modello di business simile a quello adottato dalle banche commerciali, e banche popolari ispirare ad un modello bancario cooperativo e mutualistico”.

4.10 – Manifestamente infondato è anche il successivo profilo di incostituzionalità sollevato dai ricorrenti, questa volta, in relazione al principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 comma 4 Cost., norma violata perché, in tesi, per incidere su materie garantite dall’art. 45 Cost. (la cooperazione) e l’art. 47 Cost. (il risparmio) sarebbe stato necessario coinvolgere tutti gli elementi territoriali costitutivi della Repubblica, ossia non soltanto lo Stato, bensì anche Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane.

Al riguardo, sempre tenendo presente che anche di tale questione è stato investito il Giudice delle leggi con il ricorso della Regione Lombardia, è sufficiente ribadire quanto appena sopra affermato a proposito delle dimensioni non più locali degli interessi e della struttura stessa delle banche popolari coinvolte dalla riforma.

5. – In conclusione, tutte le questioni di legittimità costituzionale adombrate con il primo motivo devono essere dichiarate manifestamente infondate, ed il motivo va respinto.

6.- Il secondo motivo di ricorso assume che la Banca d’Italia, con i provvedimenti impugnati, avrebbe illegittimamente abdicato dal compito di stabilire i limiti al diritto al recesso affidatole dal nuovo comma 2-ter dell’art. 29 TUB, perché l’aggiornamento n. 9 alla circolare n. 285 del 2013 dell’Autorità di vigilanza prevede, invece, che tale potere sia deferito ai singoli istituti bancari.

Anche il secondo motivo merita reiezione.

6.1 - Osserva il Collegio che le modalità operative descritte dal 9° aggiornamento alla Circolare n. 285\2013 risultano diretta applicazione dell’art. 10 del Regolamento UE\241\2014, il quale demanda alla banca interessata l'entità dei limiti al rimborso previsti dalle disposizioni che regolano gli strumenti, sulla base della sua situazione prudenziale, in qualsiasi momento.

Pertanto, la Circolare della Banca d’Italia risulta conforme al parametro di raffronto comunitario, che è dotato, come tale, di primazia sul diritto interno, posta l’efficacia diretta che la fonte regolamentare spiega all’interno dell’ordinamento italiano.

Ne segue che l’intervento normativo del legislatore interno –nella specie, il comma 2-ter dell’art. 28 T.U.B. – , per non essere disapplicato, deve essere interpretato, ove possibile, in armonia con la fonte comunitaria.

Al riguardo si deve osservare che ciò che il nuovo art. 28, comma 2-ter del T.U.B. rimette alle determinazioni della Banca d’Italia è unicamente la modalità della limitazione del rimborso di capitale, ove di essa ricorrano i presupposti.

Questa affermazione, ovviamente, deve tenere conto del fatto che anche tali modalità – come pure si è detto –, nella loro concreta entità, sono in tutto conformate dal diritto comunitario, e, in particolare, dall’art. 10 del Regolamento UE\241\2014 e dall’art. 25 del Regolamento UE\575\2013.

Pertanto, la norma interna bene può essere letta proprio nel senso affermato dall’Autorità di vigilanza nel 9° aggiornamento, per il quale il ruolo dell’Istituto nella determinazione delle modalità di rimborso è esercitato nell’ambito del potere autorizzatorio dell’operazione disposta dagli organi dell’intermediario interessato.

6.2 – Quanto appena affermato in punto di piena conformzione dell’attività in questione da parte del diritto comunitario vale anche per il rigetto delle doglianze che si appellano alla lesione del principio di riserva di legge relativa per le prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 Cost.) e di quello di libertà dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.), che i ricorrenti evocano in relazione all’asserito eccessivo margine di discrezionalità lasciato ai singoli istituti.

6.3. – Infine, l’ultima doglianza del mezzo in esame assume che sarebbe irragionevole sottoporre al medesimo trattamento fra il diritto al rimborso in caso di recesso da una banca popolare il cui attivo si pone al disotto della soglia di otto miliardi di euro ed il recesso da una banca popolare il cui attivo sia, invece, superiore a tale importo.

A questo riguardo il Collegio non può che rimarcare nuovamente che la fissazione di una soglia di discrimine tra le due diverse categorie di banche popolari risponde ad esigenze positivamente riscontrate dalla Banca Centrale Europea nel parere del 25 marzo 2015, di cui si è detto ampiamente, che proprio sotto il profilo della fissata soglia dimensionale dell’attivo ha sottolineato l’opportunità di differenziare gli effetti della nuova normativa proprio alla luce del discrimen costituito dalla ripetuta soglia di otto miliardi, che permette di distinguere le banche popolari con un’ampia portata territoriale ed operativa dalle banche popolari (minori) ancora ispirate ad un modello bancario cooperativo e mutualistico.

Queste affermazioni valgono, da sole, a smentire l’assunto di fondo della censura, per cui situazioni eguali sarebbero state trattate in modo differente.

6.4 - Il motivo, in definitiva, è infondato.

7. - Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto.

8. – La complessità e la novità delle questioni trattate inducono all’integrale compensazione delle spese di lite tra tutte le parti.

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