TAR Torino, sez. II, sentenza 2022-12-21, n. 202201173
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Pubblicato il 21/12/2022
N. 01173/2022 REG.PROV.COLL.
N. 00245/2022 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 245 del 2022, proposto dalla Societa' Idrablu S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato A L, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Provincia del Verbano Cusio Ossola, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato R B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per l'annullamento
- della determinazione n. 2256 del 22.12.2021, con oggetto “autorizzazione ex art. 208 del D.Lgs 152 /2006 e s.m.i di un nuovo impianto di smaltimento D8 di rifiuti liquidi non pericolosi, ubicato il Regione B a Domodossola (VB), in capo alla società Idrablu S.p.A.” e della proposta di conclusione del procedimento n. 2566 del 22.12.202, con riferimento al punto 14) dell'allegato alla determinazione conclusiva del procedimento, nella parte in cui prevede che “i fanghi generati a valle del processo di smaltimento rifiuti dovranno essere classificati con codice EER 19.08.12 “fanghi prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 19.08.13”;
nonché per l'accertamento e la condanna
della Provincia VCO – ove ritenuta competente - alla classificazione dei fanghi generati a valle del procedimento di smaltimento rifiuti con il codice CER 19.08.05 (fanghi prodotti dal trattamento delle acque reflue urbane) in luogo del codice EER 19.08.12 “fanghi prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 19.08.13” e, ove realizzato, al risarcimento del danno – da quantificare in corso di causa anche a seguito di apposito accertamento tecnico - derivante dall'errata classificazione del rifiuto con il codice CER 19.08.12 e in ogni caso, ad adottare tutte le misure idonee a tutelare la posizione soggettiva dedotta in giudizio e, per quanto occorra, con le necessarie misure attuative del giudicato, ivi inclusa la nomina di un Commissario ad acta nell'ipotesi di inerzia.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia del Verbano Cusio Ossola;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 novembre 2022 il dott. Marcello Faviere e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La IDRABLU S.p.A. gestisce un impianto di depurazione residui reflui nel comune di Domodossola, loc. B.
Con nota del 02.10.2020 (rettificata il 7.10.2020) la Società presentava istanza, ai sensi dell’art. 208 del D.Lgs. n. 251/2006, per la realizzazione di un impianto di smaltimento D8 di rifiuti liquidi non pericolosi.
Dagli atti emerge che l’istanza era volta, nel dettaglio, all’ampliamento (mediante utilizzo di capacità residua ai sensi dell’art. 110 del D.Lgs. n. 152/2006) delle tipologie di residui reflui trattati, introducendo lo smaltimento delle “Soluzioni acquose di scarto diverse da quelle di cui alla voce 16.10.01” (codice CER 16.10.202) e del “Percolato di discarica, diverso da quello di cui alla voce 19.07.02” (codice CER 19.07.03).
Dopo rituale procedimento amministrativo, con relativo svolgimento della conferenza dei servizi ai sensi dell’art. 14-bis della L. n. 241/1990, la Provincia VCO, con DD n. 2256 del 22.12.2021, ha accolto l’istanza di cui sopra autorizzando, con prescrizioni, l’esercizio dell’impianto.
Tra le prescrizioni inserite nell’allegato alla determinazione è previsto, al punto 14, che “ i fanghi generati a valle del processo di smaltimento rifiuti dovranno essere classificati con codice EER 19.08.12 “fanghi prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 19.08.13” (descrizione che dopo le modifiche introdotte dall’allegato III del DL n. 77/2021, conv. con L. n. 108/2021, in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato, corrisponde a “fanghi prodotti dal trattamento biologico delle acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 19 08 11 ”, cui le parti peraltro fanno riferimento nelle proprie memorie).
2. La Società, ritenendosi lesa da tale previsione ha notificato ricorso (il 21.02.2022), depositandolo avanti questo Tribunale, lamentando in tre motivi violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili ed instando altresì per l’accertamento e la condanna dell’amministrazione al mantenimento del CER 19.08.05 nonché al risarcimento del danno per equivalente.
Per resistere al gravame si è costituita la Provincia VCO (il 18.03.2022). Ha fatto seguito il deposito di memora della ricorrente (il 20.10.2022).
Con ordinanza n. 458/2022 questo Tribunale respingeva l’istanza cautelare per assenza di danno grave ed irreparabile.
All’udienza pubblica del 22.11.2022 la causa è stata trattenuta in decisione.
3. Il ricorso è fondato.
4. Con il primo ed il secondo motivo di ricorso, trattati congiuntamente per ragioni di connessione oggettiva, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della L. n. 241/1990, eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza di attività istruttoria;violazione degli artt. 127, 183 e 184, comma 5 del d.lgs. 152/06, degli artt. art.2 e 3 del d.lgs.99/1992;difetto di competenza.
La ricorrente lamenta, nel primo motivo, la carenza motivazionale del provvedimento nella parte in cui prescrive di classificare i fanghi generati dal processo di depurazione con il codice CER 19.08.12 invece che con il codice 19.08.05 (fanghi prodotti dal trattamento delle acque reflue urbane), già attribuito all’attività precedentemente scolta nell’impianto (giusta AUA 19738/2020, sostituita comunque dall’autorizzazione unica rilasciata con il provvedimento impugnato).
Nel secondo motivo la ricorrente sostiene che l’ente procedente non avrebbe competenza ad attribuire in concreto i codici rifiuto ai prodotti derivanti dal trattamento effettuato nell’impianto, giacché tale facoltà, ai sensi dell’art. 184 del D.Lgs. n. 152/2006, è riconosciuta al produttore.
L’amministrazione replica:
- alla prima censura sostenendo la natura vincolata del provvedimento adottato (evidenziando sul piano tecnico che la mera presenza di acque reflue industriali renderebbe obbligata l’attribuzione del codice indicato), ed evidenziando il valore novativo dell’autorizzazione rilasciata (anche in termini di scarichi consentiti), l’approfondita istruttoria procedimentale (si evidenziano i confronti verbali tra il responsabile del procedimento ed il direttore tecnico dell’impresa), la presenza di un precedente (cfr. doc. n. 3 di parte resistente) ed infine la circostanza che tale prescrizione fosse nota alla ricorrente sin dalle prime riunioni della conferenza di servizi (essendo emersa nel corso della seconda seduta della conferenza di servizi, a seguito dell’esame del parere del 10.06.2021 dell’Ufficio Rifiuti della Provincia, cfr. doc. n. 21 e n. 12 di parte resistente);
- alla seconda censura sostenendo che la facoltà di imporre prescrizioni all’autorizzazione rientri nei poteri di controllo sul rispetto del contenuto sostanziale del provvedimento autorizzativo.
Le doglianze sono fondate.
L’amministrazione sostiene che l’individuazione del codice rifiuto sopra indicato tra le prescrizioni dell’autorizzazione unica, rilasciata ai sensi dell’art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006, sarebbe un atto vincolato e che la stessa non sarebbe potuta arrivare a diversa conclusione per il solo fatto che tra i reflui trattati vi sono acque industriali (quindi rifiuti;aggiunge che si tratterebbe di un trattamento di tipo biologico (come emergerebbe de plano dalla autorizzazione per un trattamento di categoria D8, definita, dall’allegato B alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006, come “ Trattamento biologico non specificato altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli che vengono eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12 ”).
Orbene tale automatismo e conseguenzialità necessaria tra la presenza delle acque industriali (in particolare delle sostanze di scarto autorizzate con il provvedimento impugnato) e l’attribuzione di un determinato CER non è dimostrata.
Le parti nelle proprie difese argomentano la legittimità della scelta del codice rifiuto con riferimento all’origine delle acque trattate (richiamando le definizioni di cui all’art. 74 del D.Lgs. n. 82/2006) e soffermandosi su ciò che caratterizzerebbe i rifiuti classificati (ai sensi dell’allegato D alla Parte Quarta del D.Lgs. n. 152/2006, come modificato dal DL n. 77/2021, conv. con L. n. 108/2021), al CER 19.08.05 ed al CER 19.08.2012.
Il codice 19.08.05 contiene i fanghi prodotti dalle acque urbane (vale a dire, stando alla definizione dell’art. 74 del Codice, “ acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato” ) così come il codice 19.08.11, il 19.08.12 ed i successivi 19.08.13 e 19.08.14. Ciò che caratterizza il codice 19.0.05 risulta essere non tanto la provenienza originaria (domestica o industriale, poiché vi rientrano entrambe) delle acque quanto il loro convogliamento in reti fognarie (anche separate). Il codice 19.08.12, invece, si caratterizza per la presenza di un trattamento biologico delle acque reflue industriali e per la assenza di sostanze pericolose.
Se la scelta tra tali due codici può essere guidata da criteri oggettivamente riscontrabili, ciò non è sufficiente a superare le censure connesse al difetto di motivazione lamentato nel ricorso.
Il provvedimento autorizza la ricorrente all'esercizio dell’impianto di smaltimento D8 di rifiuti liquidi non pericolosi, con specifica previsione per lo smaltimento di prodotti diversi dai fanghi derivanti dal trattamento delle acque (“Soluzioni acquose di scarto diverse da quelle di cui alla voce 16.10.01”, con codice CER 16.10.02, e “Percolato di discarica, diverso da quello di cui alla voce 19.07.02”, con codice CER 19.07.03, come risulta dalla prescrizione n. 4 allegata alla determina impugnata).
Il provvedimento omette del tutto di esplicitare i passaggi tecnici, logici e giuridici che conducono da tale presupposto di fatto alla decisione di prescrivere un determinato codice CER (il 19.08.12) al prodotto ottenuto dal trattamento dei fanghi nell’impianto autorizzato. Tali passaggi non risultano supportati dalle argomentazioni e dai documenti prodotti in giudizio.
Il Collegio ritiene che anche a voler condividere la ricostruzione di parte resistente circa la natura vincolata della decisione assunta (e del potere esercitato), l’assenza della motivazione rilevata non risulterebbe sanabile mediante una ricostruzione postuma delle ragioni che hanno condotto a tale scelta.
Per giurisprudenza costante, infatti, anche in presenza di attività vincolata l’amministrazione non può esimersi dal motivare le proprie scelte. “ La motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti, non potendo perciò il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma. La motivazione del provvedimento costituisce infatti l'essenza e il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e non può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc dall'Amministrazione resistente nel corso del giudizio” (T.A.R. Sicilia Catania Sez. II, 11/03/2022, n. 723, conforme ex multis Cons. Stato Sez. VI, 04/04/2022, n. 2441).
Come noto, peraltro, nel processo amministrativo l'integrazione in sede giudiziale della motivazione dell'atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento, nella misura in cui i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta. È inammissibile (anche in ipotesi di attività vincolata) un'integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi (cfr. ex multis Cons. Stato Sez. VI, 06/09/2021, n. 6219, Cons. Stato Sez. VI, 10/05/2021, n. 3666).
Nel caso di specie, come sopra evidenziato, l’amministrazione non ha fornito la dimostrazione che dal complesso dei documenti procedimentali si possano ricostruire le ragioni della scelta effettuata per l’attribuzione del codice CER attribuito, a partire dai presupposti di fatto contenuti nel provvedimento (nuove sostanze trattabili e caratteristiche dei fanghi prodotti, di cui al punto 13 delle prescrizioni allegate). L’amministrazione, nei propri scritti difensivi, si limita ad evidenziate come la presenza di acque reflue industriali nei processi di smaltimento inducano a prediligere il codice CER 19.08.12 in luogo del 19.08.05, ma non le ragioni che inducono necessariamente a tale scelta sulla base delle risultanze di fatto dell’istruttoria.
A tale mancanza peraltro non si può sopperire, come sostiene parte resistente, con la considerazione che l’informazione sulla nuova classificazione del prodotto finale era nota alla ricorrente sin dalla seconda seduta della conferenza dei servizi, quando è stato esaminato il parere dell’Ufficio Rifiuti rilasciato il 10.06.2021 (cfr. doc. n. 12 e 21 di parte resistente). La conoscenza, da parte dell’interessato, di un dato di fatto rilevante ai fini procedimentali ed in grado di anticipare in parte il contenuto del provvedimento finale, infatti, non esime l’amministrazione dall’onere di fornire una motivazione adeguata e congrua delle proprie scelte. Solo con l’esplicitazione delle ragioni di fatto e di diritto che l’hanno determinata, infatti, l’interessato acquisisce consapevolezza della piena portata della decisione amministrativa nonché della sua effettiva eventuale lesività.
Non è del pari sufficiente all’amministrazione dimostrare che in casi analoghi altri gestori hanno accettato tale nuova classificazione (come nel caso della discarica gestita dalla Acque Nord s.r.l., cfr. doc. n. 3 di parte resistente) giacché tale elemento rileva in punto di mero fatto o, al più, quale indizio di assenza di irragionevolezza e disparità di trattamento, che integrano ipotesi vizianti (quali figure sintomatiche di eccesso di potere) diverse da quella in esame.
L’onere motivazione che grava sull’amministrazione, peraltro, risulta ulteriormente rinforzato dal fatto che la classificazione, attribuita mediante l’apposizione di una prescrizione d’obbligo per l’esercizio dell’attività autorizzata, esplicita in maniera chiara ed inequivocabile un condizionamento inderogabile poiché le successive attività di vigilanza e controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate non potranno prescindere da tale indicazione.
L’art. 184, comma 13, del D.Lgs. n. 152/2006, infatti prevede che l’inosservanza delle prescrizioni comporti la possibilità di un intervento in autotutela che può portare alla sospensione o alla revoca del titolo autorizzativo.
Il Collegio, oltre a quanto sin ora argomentato, evidenzia che colgono nel segno le censure di cui al secondo motivo, nei sensi appresso specificati.
In forza dell’art. 184, comma 5 del D.Lgs. n. 152/2006, “la corretta attribuzione dei Codici dei rifiuti e delle caratteristiche di pericolo dei rifiuti è effettuata dal produttore”.
È pur vero che l’art. 208 del medesimo decreto, nel disciplinare la possibilità di apporre prescrizioni, attribuisce all’amministrazione un potere discrezionale ampio nella formulazione di tali precetti d’obbligo. L’elencazione di cui al comma 11, che individua il contenuto minimo e non tassativo della parte prescrittiva del provvedimento, non pone limiti a tale potere, limitandosi a funzionalizzarlo al rispetto dei principi di cui all’art. 178 del Codice dell’Ambiente.
Orbene, una lettura combinata di tali disposizioni non può che portare a ritenere che l’ente autorizzante ben può prevedere e prescrivere l’attribuzione di un codice rifiuto al produttore, ma in modo indicativo e non vincolante, così da non stravolgere l’ordine delle competenze fissato dalla norma.
L’art. 184, comma 5, infatti, nel riconoscere al produttore l’onere di attribuire in concreto i codici CER, non conferisce a quest’ultimo un potere assoluto, non controllabile e privo di vincoli.
Non a caso tale attività obbligatoria risulta proceduralizzata in quanto deve seguire le Linee guida dal Sistema nazionale per la protezione e la ricerca ambientale (oggi contenute nel DM 9 agosto 2021, n. 47, in vigore al momento di emanazione del provvedimento).
Tali linee guida fissano una metodologia stringente relativa ai passaggi procedurali necessari per la classificazione di un rifiuto e l’attribuzione della tipologia di codice (pericoloso, non pericoloso o “voce specchio”), disciplinando le fasi per una corretta valutazione di caratteristiche e provenienza delle sostanze (soprattutto se pericolose), evidentemente a garanzia della correttezza tecnica delle operazioni di classificazione ed allo scopo di ridurre i rischi di errori o frodi che potrebbero generare eventi dannosi per l’ambiente.
La norma ha pertanto fissato l’obbligatorietà di una procedura di autovalutazione da parte del soggetto produttore. L’ente autorizzante non ha titolarità per sostituirsi ed intervenire in tale processo di classificazione soprattutto con prescrizioni vincolanti e classificazioni autonome.
A ciò si aggiunga che il difetto di motivazione sopra riscontrato è ulteriormente aggravato dal fatto che non emergono dagli atti, né le parti vi fanno cenno, indicazioni sulla metodologia utilizzata dalla Provincia per l’attribuzione del codice rifiuto e sulle procedure seguite.
Ciò non significa che il codice attribuito dall’amministrazione sia errato in sé, ma che l’ente ha sostituito ad una valutazione tecnico-professionale necessariamente proceduralizzata (a presidio dell’affidabilità e controllabilità della stessa) una valutazione autonoma senza evidenziare, tra i presupposti di fatto e diritto a sostegno della decisione, l’adozione delle garanzie richieste dalla norma.
Tale profilo di illegittimità non viene mitigato dal fatto che le sostanze trattate nell’impianto siano tutte classificate come sostanze non pericolose (in linea con il codice EER attribuito dall’amministrazione nelle prescrizioni dell’atto impugnato) e che, stando alle indicazioni delle citate linee guida, le relative valutazioni si fermano alle fasi iniziali della relativa procedura. Ciò che rileva, nella materia ambientale, infatti, non è solo la valutazione a valle degli effetti di misure prudenzialmente adottate ma la corretta gestione dei rischi che logicamente precedono l’adozione delle misure di sicurezza.
La materia ambientale, come noto, è retta da principi come quello di prevenzione e prima ancora da quello di precauzione, che postulano non solo l’obbligo di ridurre la probabilità di eventi dannosi ma anche la mera possibilità che i relativi rischi si manifestino. A tale scopo, pertanto, sono elaborate le citate Linee Guida, quali strumenti di controllo concomitante e collaborativo per ridurre possibilità ed incidenza dei rischi ambientali.
Pertanto, la mancata indicazione delle ragioni che chiariscano sul piano procedurale, tecnico e giuridico l’adozione di una prescrizione riguardante l’attribuzione del CER 19.08.12 ai fanghi generati a valle del processo di smaltimento rifiuti svolto nell’impianto autorizzato con il provvedimento impugnato, rende illegittimo (limitatamente a tale parte) il provvedimento.
L’illegittimità è rafforzata dal carattere vincolante che tale prescrizione assume nell’economia complessiva del procedimento, in violazione dell’art. 184, comma 5 del D.Lgs. n. 152/2006.
La Provincia, laddove ritenga necessario confermare la prescrizione di cui si controverte, ha l’onere di riesaminare e intervenire motivatamente, anche in autotutela, per sanare il sopra evidenziato difetto di motivazione e conferire a tale indicazione il corretto valore giuridico, nei sensi e limiti sopra indicati dal Collegio.
Per quanto precede il primo ed il secondo motivo di ricorso sono fondati.
6. Con il terzo motivo si lamenta violazione degli artt. 74, 110, 184, 208 del d.lgs. 152/06, dell’allegato D alla parte IV del Codice dell’Ambiente.
In sostanza la ricorrente censura nel merito la classificazione al CER 19.08.12 dei prodotti derivanti dal trattamento effettuato nel proprio impianto, rivendicando la legittimità del mantenimento del codice 19.08.05 sulla base di quattro ordini di considerazioni:
- l’autorizzazione è stata concessa sulla base dell’art. 110, oltre che 208, del D.Lgs. n. 152/2006, in quanto richiesta per sfruttare una capacità di trattamento “residua” presente nell’impianto esistente;l’art. 110 citato consente, in deroga al generalizzato divieto di smaltimento rifiuti negli impianti di trattamento di acque reflue, nei limiti della capacità residua di trattamento, di autorizzare “il gestore del servizio idrico integrato a smaltire nell'impianto di trattamento di acque reflue urbane rifiuti liquidi, limitatamente alle tipologie compatibili con il processo di depurazione”. Tale obbligo di “compatibilità” renderebbe illegittima giuridicamente e tecnicamente l’attribuzione di un diverso codice CER per i fanghi prodotti dal trattamento;
- la stessa è titolare di A.U.A. allo scarico in acque superficiali (in quanto depuratore di reflui urbani (prot. n. 19738 del 20.11.2020, cfr. doc. n. 3 di parte ricorrente);la nuova autorizzazione dovrebbe risultare compatibile con tale caratteristica del processo di depurazione;
- l’autorizzazione di cui al provvedimento impugnato prescrive il trattamento delle nuove sostanze rifiuto nel limite di 10 tonnellate/anno;a fronte dell’ordinario trattamento di circa 6.500 tn/anno di reflui urbani provenienti dal settore fognario la immissione delle nuove sostanze nel processo di depurazione impatta per circa lo 0,38%. Dovendo ragionare in termini di bilancio di massa, in cui le quantità miscelate risultano fondamentali e determinanti per la valutazione della composizione del fango, non sarebbe legittima l’argomentazione provinciale secondo cui la mera presenza, nel processo di depurazione, di rifiuti legittimerebbe precauzionalmente (con argomentazioni che apprezzano squisitamente i profili qualitativi delle sostanze presenti nel processo) l’attribuzione di un codice CER più severo;
- il CER 19.08.12 (nella versione attuale ed in vigore al momento della emanazione del provvedimento, anche se lo stesso riporta la precedente dicitura) prevede un trattamento “biologico” dei rifiuti e ciò non corrisponderebbe a quello praticato nell’impianto di cui si controverte.
Il motivo di ricorso si presenta funzionale alla domanda di annullamento del provvedimento, a ulteriore comprova della sua illegittimità. Lo stesso si presenta altresì strumentale alla domanda di accertamento e condanna formulata nel ricorso, per il riconoscimento giudiziale dell’attribuzione del codice CER 19.08.05.
Tale domanda è presentata dalla ricorrente in subordine alla sussistenza della piena competenza della Provincia alla emanazione di prescrizioni vincolanti sulla attribuzione dei codici CER che invece, nell’accogliere il secondo motivo di ricorso, questo Collegio non ha riconosciuto.
Il terzo motivo, salvo quanto successivamente statuito, può ritenersi assorbito in ragione della fondatezza dei primi due motivi, non residuando ulteriore interesse alla sua trattazione.
7. La ricorrente formula altresì domanda di risarcimento del danno basando la propria richiesta sul presupposto che la prescrizione obbligatoria del CER 19.08.12 (in luogo del CER 19.08.05) genererebbe maggiori costi e, nell’ulteriore coltivazione della domanda (di cui alla memoria del 20.10.2022), inibirebbe l’ampliamento delle attività autorizzate nell’impianto stante la loro antieconomicità.
La ricorrente deduce di non aver potuto avviare a trattamento (stante l’incertezza dei possibili conferimenti del materiale trattato) 3.600 tn/anno di materiale;applicando a tale quantitativo il prezzo (desunto da alcuni documenti relativi a gare per lo smaltimento dei rifiuti, cfr. doc. n. 17-25 di parte ricorrente) praticato per il percolato (quantificato in euro 34,50 a tn) l’impresa stima il proprio danno in euro 10.250,25 per ogni mese di inattività (ottenuto sottraendo al danno complessivo annuo, pari a euro 124.200,00 euro, i costi di trattamento, quantificati in euro 1.197,00, e dividendo per 12 mesi).
La domanda non può essere accolta.
Al di là dei dubbi sul metodo di quantificazione proposto, il Collegio rileva che la ricorrente non ha fornito la prova della spettanza del bene della vita richiesto.
Perché sia configurabile la responsabilità della Pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo, infatti, sono necessari: l'elemento oggettivo, l'elemento soggettivo, il nesso di causalità materiale o strutturale e il danno ingiusto, inteso come lesione della posizione di interesse legittimo correlata ad un bene della vita, che in caso di interesse pretensivo presuppone un giudizio prognostico favorevole sulla relativa spettanza, e, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritto soggettivo.
Come sostenuto da consolidato orientamento giurisprudenziale, “ il diritto al risarcimento del danno non consegue automaticamente all'annullamento giurisdizionale degli atti illegittimi, essendo subordinato il suo riconoscimento alla prova rigorosa dell'esistenza degli elementi costitutivi, sia sul piano oggettivo ed eziologico sia su quello soggettivo, quantomeno della colpa dell'Amministrazione, nonché alla dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, in ordine alla spettanza del bene della vita collegato all'interesse azionato dal ricorrente ” (Cons. Stato Sez. V, 11/04/2022, n. 2638). “ Il risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest'ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo e colpevole dell'Amministrazione” (Cons. Stato Sez. IV, 27/04/2021, n. 3398).
Orbene, nel caso di specie il bene della vita vantato è rinvenibile nell’interesse pretensivo al mantenimento del codice CER 19.08.05 già per le attività svolte dalla ricorrente nel proprio impianto.
Le argomentazioni utilizzate dalla Società per fondare tale pretesa sono articolate nel terzo motivo di ricorso, come sopra riportato. A tale scopo la ricorrente sostiene (sulla base dell’art. 110, comma 2, del D.Lgs. n. 152/2006) la necessaria compatibilità dei processi di depurazione già in corso presso il proprio impianto con il nuovo smaltimento autorizzato;ciò in continuità e coerenza con il contenuto della AUA prot. n. 19738/2020. La stessa, inoltre, sostiene che l’incidenza dei nuovi materiali ammessi con il provvedimento impugnato sarebbe talmente irrilevante (pari allo 0.38%) da non giustificare l’imposizione di un codice CER più severo e che il CER 19.08.12 sarebbe incompatibile con il proprio impianto in cui non si svolge un trattamento interamente biologico.
Ciò, ai fini della domanda risarcitoria, non è sufficiente a dimostrare la spettanza del bene vantato.
A prescindere da quanto evidenziato nella trattazione del secondo motivo in ordine alla competenza dell’amministrazione procedente ed al valore giuridico della prescrizione di cui si controverte, il Collegio rileva che:
- dal provvedimento impugnato nonché dagli atti istruttori (in particolare dai verbali della conferenza di servizi e dai pareri depositati, cfr. doc. n.