TAR L'Aquila, sez. I, sentenza 2013-01-10, n. 201300015
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N. 00015/2013 REG.PROV.COLL.
N. 00471/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 471 del 2011, proposto da:
M R Z, rappresentata e difesa dall'avv. M R, con domicilio eletto presso avv. F C in L'Aquila, via Garibaldi, 62;
contro
Comune di Silvi, rappresentato e difeso dall'avv. C S, con domicilio eletto presso avv. E G in L'Aquila, via Marsicana,53 - Civita di Bagno;
per la condanna
del Comune di Silvi al risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente a causa della delibera di Giunta municipale n.433 del 10/06/1993 di inidoneità allo svolgimento delle mansioni di commesso di farmacia, già dichiarata illegittima.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Silvi;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 novembre 2012 il dott. Maria Abbruzzese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in epigrafe, notificato e depositato rispettivamente in date 1 e 14 luglio 2011, la signora M R Z ha chiesto la condanna del Comune di Silvi al risarcimento del danno derivante dall’illegittima declaratoria di inidoneità allo svolgimento delle mansioni di commesso di farmacia, già accertata tale con sentenza del Consiglio di Stato, sez.V, n.1419 dell’11 marzo 2010.
La ricorrente espone che il Comune di Silvi, con delibera di Giunta n.822 del 15.12.1992, decideva di coprire n.1 posto di commesso di farmacia (4° qualifica funzionale) con riserva alla categoria degli invalidi civili;essa ricorrente, iscritta all’elenco degli invalidi civili aspiranti al collocamento obbligatorio di cui alla legge 482/1968, veniva indicata dall’U.P.L.M.O. di Teramo quale avente diritto al posto di commesso di farmacia e sottoposta a prova pratica, come indicato nel bando, che tuttavia non specificava il contenuto né le modalità di svolgimento della prova;nel corso dell’espletamento della stessa, veniva evidenziato dalla Commissione l’errore in cui incorreva la ricorrente, che aveva riposto sugli scaffali una confezioni di medicinale scaduto, pur non essendo prevista tra le competenze del commesso di farmacia la verifica della scadenza dei medicinali né essendo stato richiesto alla candidata di verificare la scadenza dei farmaci;inoltre veniva segnalato lo stato di gravidanza della candidata e il conseguente gonfiore alle caviglie, sicché veniva proposto di acquisire un certificato medico attestante l’idoneità fisica a svolgere le mansioni richieste;in sostanza, la Zippilli veniva sottoposta ad una vera e propria prova selettiva, pur avendo diritto all’assunzione quale invalido civile;in ogni caso, veniva espresso giudizio di inidoneità a svolgere le mansioni richieste;con successiva delibera di Giunta municipale si prendeva atto dell’inidoneità della candidata, come comunicato in data 21.10.1993;la Zippilli proponeva dunque ricorso al TAR, respinto con sentenza n.236/1995;in sede di appello, il Consiglio di Stato, con decisione n.1419 dell’11 marzo 2010, accoglieva invece il ricorso annullando gli atti impugnati e condannando il Comune di Silvi al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio liquidate in Euro 4.000,00;in data 15.6.2010 veniva sollecitata l’esecuzione della sentenza con assunzione della Zippilli e richiesto il risarcimento dei danni e il pagamento delle spese di giudizio;stante l’inerzia, la sentenza veniva notificata con pedissequo atto di significazione e diffida per l’esecuzione nel termine di trenta giorni;l’Amministrazione convocava la Zippilli per lo svolgimento della prova pratica, che veniva, stavolta, superata, e disponeva l’assunzione a tempo indeterminato della ricorrente con qualifica di “esecutore amministrativo”, categoria B1, con decorrenza dall’1.12.2010;con successiva nota del 19.1.2011, veniva ancora richiesto il risarcimento dei danni derivati dagli atti comunali annullati dal Consiglio di Stato, nella misura dell’importo delle differenze retributive tra ciò che la ricorrente avrebbe percepito se non fossero stati adottati gli atti illegittimi e quanto effettivamente guadagnato con lo svolgimento di altri lavori.
Stante l’inerzia dell’Amministrazione, veniva proposto il presente ricorso con il quale, sul presupposto della lesione patrimoniale subita come derivante dalla mancata assunzione fin dal 1993, veniva richiesta la condanna del Comune al risarcimento dei danni, quantificati in complessivi euro 208.472,05 (di cui Euro 183.256,51 per differenze retributive e Euro 25.215,54 per trattamento di fine rapporto)i;la ricorrente ribadiva la già accertata illegittimità degli atti che avevano impedito l’assunzione e la evidente sussistenza di un nesso causale tra gli atti illegittimi, determinanti la mancata instaurazione del rapporto, e il danno;risultava altresì integrato l’elemento psicologico della fattispecie risarcitoria, stante la palese illegittimità degli atti impugnati per effetto dei quali la deducente era stata sottoposta ad un vero e proprio esame escluso dalla tipologia del rapporto ad instaurarsi e dalla qualifica a ricoprirsi;la ricorrente, inoltre, aveva diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti, stanti le conseguenze di natura psicologica (in ragione della ritardata assunzione per ben 18 anni);i danni in questione, peraltro, erano cessati solo con l’avvenuta assunzione in data 1.12.2010;l’azione era infine da ritenersi tempestiva in ragione del termine prescrizionale pendente al momento della proposizione della domanda, senza possibilità di applicazione dell’art. 30, comma 3 del nuovo codice del processo amministrativo, che introduce un (nuovo) termine decadenziale, non applicabile ai termini in corso alla data di entrata in vigore del codice.
Concludeva per l’accoglimento del ricorso.
Si costituiva il Comune di Silvi che eccepiva la inammissibilità della domanda per l’intervenuta decorrenza del termine decadenziale di 120 giorni come previsto dall’art. 30 del c.p.a., che nella specie doveva farsi decorrere dall’entrata in vigore del codice, senza che rilevi la circostanza che la sentenza di annullamento sia temporalmente precedente tale data;la disposizione transitoria di cui all’art. 2 dell’all. 3 del c.p.a. non sarebbe applicabile alla fattispecie in esame, posto che l’art. 30 disciplina ex novo l’azione risarcitoria, per la quale nessun termine di decadenza era in precedenza previsto, e stante la pacifica natura “processuale” del termine de quo;in ogni caso la domanda sarebbe infondata giacché il diritto al risarcimento del danno per mancata percezione delle retribuzioni derivante da tardiva assunzione in servizio presupporrebbe che il provvedimento di nomina rivestisse carattere retroattivo, mentre, nella specie, la sentenza del Consiglio di Stato ha solo imposto la reiterazione della prova selettiva;non si tratterebbe dunque di “ritardata assunzione”;comunque i danni non potrebbero farsi risalire al 1993 stante l’inesistenza, a tale data, di un diritto all’assunzione;il danno rivendicato potrebbe in ipotesi fondarsi per il periodo successivo alla pubblicazione della sentenza del giudice di appello sul rilievo che il Comune abbia ritardato la riattivazione della procedura provocando la lesione della sfera giuridica della stessa ricorrente, ma, in concreto, non sussiste in ragione del tempestivo esperimento, da parte del Comune di Silvi, delle operazioni necessarie alla conformazione al giudicato (riconvocazione della Commissione, espletamento della prova, effettiva assunzione);del tutto inaccettabile sarebbe infine la quantificazione operata, stante l’inconfigurabilità della liquidazione di un danno parametrato all’ammontare degli stipendi astrattamente percettibili in difetto di retroattività dell’assunzione;d’altra parte, la lesione dell’integrità psicofisica sarebbe risarcibile laddove discenda direttamente dal comportamento ritenuto illegittimo mentre, nel caso in esame, il Consiglio di Stato ha disposto la mera riedizione della prova e dunque il danno non è conseguenza immediata e diretta del provvedimento di inidoneità al posto;i conteggi proposti sarebbero, infine, del tutto inattendibili.
Concludeva per la declaratoria di inammissibilità ovvero per il rigetto del ricorso.
Le parti depositavano memorie illustrative.
All’esito della pubblica udienza del 21 novembre 2012, il Collegio riservava la decisione in camera di consiglio.
DIRITTO
I. Il ricorso in esame è inteso alla condanna al risarcimento del danno conseguente all’illegittimità (già conclamata con sentenza passata in giudicato) degli atti con i quali il Comune di Silvi ha determinato la inidoneità all’assunzione della ricorrente, così cagionando la mancata assunzione “illo tempore” della stessa e i pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali da mancata tempestiva assunzione.
II. Il Collegio deve preliminarmente farsi carico della eccezione di tardività del ricorso, come ritualmente sollevata dalla difesa del Comune di Silvi.
II.1) Va precisato in fatto che la sentenza che ha accertato l’illegittimità degli atti dichiarativi dell’inidoneità della ricorrente è la decisione Cons. di Stato, Sez.V, n.1419/2010;per effetto della stessa, la prova idoneativa è stata ripetuta con esito positivo per la ricorrente, che è stata infine assunta in data 1.12.2010.
La ricorrente ha dunque ottenuto tutela specifica mediante rimozione dell’atto illegittimo, ripetizione della procedura ed emanazione di atti satisfattivi della pretesa.
Tale tutela specifica tuttavia non risulterebbe integrale, residuando un pregiudizio connesso alle more di tale soddisfazione, per la quale la ricorrente ha atteso circa diciassette anni (dal 10.6.1993, data della prima prova idoneativa, all’1.12.2010, data dell’assunzione).
Tali “ulteriori” danni, non coperti dalla reintegrazione in forma specifica, sono appunto azionati con il presente ricorso.
II.2) Osserva il Collegio che l’art. 30 c.p.a. ha introdotto in forma positiva nell’ordinamento l’azione per il risarcimento del danno ingiusto da illegittimo esercizio dell’attività amministrativa (2° comma), prevedendo, per quanto qui rileva, che l’azione stessa debba proporsi entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato quella illegittimità.
Sia l’azione che il pertinente termine, decadenziale, sono stati introdotti ex novo dal Codice del processo amministrativo.
Ne consegue che la presente domanda trova ragione esclusivamente nel Codice, ancorché il giudicato che ha riconosciuto l’illegittimità del provvedimento impugnato sia antecedente all’entrata in vigore del Codice stesso, sicché l’azione è integralmente disciplinata da quest’ultimo, ivi comprese le disposizioni relative al termine di decadenza.
II.3) In proposito, il Collegio, pur non ignorando il dibattito per l’effetto risultante con riferimento alla legittimità complessiva della previsione di decadenza (incluso il dubbio di legittimità costituzionale già sollevato da alcuni TAR), ritiene che, in generale, detta previsione non sia ex se irragionevole, ove (e nei limiti in cui) si rifletta sulla inerenza della stessa alla tutela di interessi legittimi (sottoposti alla regola dell’azionabilità nel termine decadenziale breve) e in particolare sulla natura della detta tutela per equivalente come “alternativa”, ovvero, come nel caso, “sussidiaria”, rispetto alla tutela in forma specifica peculiarmente applicata nella trattazione della situazione giuridica soggettiva dell’“interesse legittimo”.
Il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dei provvedimenti amministrativi integra dunque, nel sistema delle tutele disegnato dalla Carta costituzionale e dall’attuale configurazione del processo amministrativo, misura tendenzialmente residuale rispetto alla tutela specifica costituita e garantita dall’annullamento dell’atto e dalla successiva attività di conformazione al giudicato di annullamento.
II.4) Invero, in disparte l’ipotesi dell’esercizio autonoma dell’azione risarcitoria (che qui non rileva), solo ove la tutela specifica non sia (o non sia più) possibile, il danneggiato dall’attività amministrativa accertata come illegittima potrà avere utile accesso alla tutela per equivalente.
In tale ottica, non sembra contrario o eccessivamente gravoso per l’interessato che l’accesso a tale tutela (ripetesi, eventuale o residuale) sia temporalmente sottoposto a termini processuali compatibili con il previo esercizio della tutela specifica, contestualmente ad essa ovvero all’esito dell’esperimento della stessa (passaggio in giudicato della sentenza di annullamento), una volta verificata appunto l’insufficienza, ovvero la impossibilità, della riconosciuta tutela specifica.
II.5) In sostanza, il necessario bilanciamento tra la pretesa degli interessati a sollecitare un sindacato giurisdizionale sull’atto (e sulle sue conseguenza) e l’interesse a definire sollecitamente l’intera vicenda in modo da non esporre ad un arco temporale eccessivamente lungo la sorte della fonte di un rapporto giuridico rilevante per una collettività di soggetti, consente di individuare nella previsione di un termine di impugnazione a pena di decadenza, purché il relativo termine sia ragionevole e non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto, il soddisfacente punto di equilibrio del sistema.
II.6) Né può sostenersi l’estraneità dell’azione risarcitoria (conseguente all’annullamento di atti illegittimi) a tale complessiva ricostruzione giacché il piano della reintegrazione patrimoniale e del conseguente spostamento di ricchezza conseguente all’illecito incide certamente sulla finanza pubblica (e sulla complessiva certezza dei rapporti, anche economici, di sistema) e si connette indissolubilmente alla previa attività amministrativa appunto come sua conseguenza.
II.7) E non è neppure irragionevole aver disancorato (per effetto dell’intervenuta abrogazione del comma 4 dell’art. 112 c.p.a.) la suddetta azione risarcitoria dall’ottemperanza, giacché ne è diverso l’ambito di applicazione, nel senso che il risarcimento, come nel caso, opera laddove l’ottemperanza è inefficace, e tale valutazione consegue al contenuto della sentenza di merito che abbia annullato l’atto e disegnato il perimetro conformativo della successiva attività amministrativa.
Questo spiega perché l’azione risarcitoria, che ben può proporsi contestualmente all’azione di annullamento, possa proporsi utilmente anche all’esito di questa, ben vero in un termine non irragionevole di spatium deliberandi (che il legislatore ha individuato in centoventi giorni), idoneo ad effettuare la necessaria valutazione di totale satisfattibilità mediante la conformazione al giudicato.
II.8) In tale prospettiva non sembra dunque irragionevole né contrario al complessivo sistema di tutele la previsione di un termine “decadenziale” per l’esercizio della tutela per equivalente dell’interesse legittimo leso, che non è tutela di diritti (cfr. Corte Cost. n.204/2004) e che, proprio per questo, rifluisce nella giurisdizione del G.A.
III. Nel caso di specie, l’applicabilità di detto termine decadenziale, per come sopra detto, ex se non irragionevole, è messa in dubbio dalla difesa della ricorrente che ne deduce la natura sostanziale con riferimento alla previgente disciplina (con previsione dei generali termini prescrizionali) e alla circostanza che la sentenza che ha accertato l’illegittimità dell’atto amministrativo è addirittura antecedente alla stessa esistenza dell’azione nell’ordinamento.
III.1) Il Collegio non può accogliere tale prospettazione.
III.2) Il termine in questione importa, come detto, una “decadenza” con riferimento alla facoltà del soggetto di proporre un’azione in giudizio;decadenza, giova precisare, che si collega alla medesima ratio a sostegno del termine di decadenza riferito all’impugnabilità degli atti amministrativi e che consiste nell’esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, connessa al rilievo che l’atto (così come il suo annullamento) pone un assetto di interessi rilevante sul piano superindividuale;si tratta, dunque, indubitabilmente, di un termine “processuale”, come tale immediatamente applicabile dall’entrata in vigore del codice.
III.3) L’anteriorità della sentenza di annullamento alla vigenza della previsione non comporta la sua inapplicabilità, come dedotto da parte ricorrente, ma la sua decorrenza appunto dall’entrata in vigore del codice, e ciò anche per impedire irragionevoli disparità di trattamento con fattispecie analoghe successivamente “maturate” senza privare la parte della stessa tutela per quelle riconosciuta.
III.4) La cennata natura processuale osta anche all’applicazione dell’art. 2, all. 3, Disp. Trans. c.p.a.. (rubricato “Ultrattività delle disciplina previgente”), invocato dall’attenta difesa ricorrente (già in ricorso).
Detta norma, infatti, prevede che per i “termini in corso” alla data di entrata in vigore del codice continuino a trovare applicazione le norme previgenti.
Senonché, come sopra detto, l’azione ora proposta non esisteva nella sua definitiva (e positiva) configurazione nell’ordinamento prima dell’avvento del c.p.a., onde non può predicarsi la pendenza di alcun termine processuale.
III.5) Tale non era, peraltro, il generale termine di prescrizione che opera per i “diritti”, come causa di estinzione degli stessi, su eccezione di parte, in un ambito applicativo, dunque, totalmente diverso da quello in esame che importa non già estinzione ma impedimento all’esercizio di facoltà connesse ad una situazione soggettiva di vantaggio.
IV. Il ricorso è, per le considerazioni che precedono, inammissibile.
V. Stante la novità (e opinabilità) della questione (che ha trovato finora diverse e opposte soluzioni;cfr., in senso conforme, TAR Umbria, n.214/2012;contra, TAR Basilicata, nn.153 e 155 del 2012;in senso ancora diverso TAR Sicilia, Palermo, Ord n.1628/2011) , le spese possono compensarsi, con espressa declaratoria di irripetibilità del contributo versato.