TAR Roma, sez. 5B, sentenza 2022-11-21, n. 202215408

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 5B, sentenza 2022-11-21, n. 202215408
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 202215408
Data del deposito : 21 novembre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 21/11/2022

N. 15408/2022 REG.PROV.COLL.

N. 01147/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Quinta Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1147 del 2018, proposto da-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato G V, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. V G in Roma, via Ugo De Carolis, successivamente rappresentato e difeso dagli avvocati S N, E B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. A S in Roma, viale Carso 23;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento del decreto del Ministero dell'interno di rigetto dell’istanza avente ad oggetto la concessione della cittadinanza italiana


Visti il ricorso e i relativi allegati.

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno.

Visti tutti gli atti della causa.

Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm..

Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 24 ottobre 2022 la dott.ssa Ida Tascone e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con ricorso notificato il 9 gennaio 2018 e depositato il 31 gennaio 2018 il ricorrente, cittadino albanese, ha impugnato il decreto n.-OMISSIS- del 12 ottobre 2017, notificato in data 11 novembre 2017, con il quale il Ministero dell’Interno ha respinto l’istanza presentata il giorno 8 maggio 2014, volta alla concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9 comma 1 lett. f) della L. n. 91 del 05 febbraio 1992.

Per quanto di interesse ai fini del presente giudizio, nell’ambito dell’istruttoria prodromica alla definizione del richiesto provvedimento concessorio, il Ministero ha rilevato che il ricorrente era stato coinvolto in una complessa vicenda penale sottoposta al vaglio del Tribunale di -OMISSIS- che lo aveva visto imputato:

a. dei reati di cui agli artt. 605, 61 n. 2, 110 c.p. (sequestro di persona aggravata in concorso);

b. dei reati di cui agli artt. art. 589 c.p. (omicidio colposo), art. 3 n. 8 e art. 4 n. 1 L. 75/1958 (sfruttamento aggravato della prostituzione), art. 609 bis c.p. (violenza sessuale), art. 3 n. 5 e art. 4 n. 1 L. 75/1958 (induzione aggravata alla prostituzione);

per condotte perfezionatesi nell’anno 1998.

In particolare, l’autorità procedente ha constatato che

- che il pregiudizio sub a si era concluso con una pronuncia pre-dibattimentale di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, disposto dal Giudice dell’udienza preliminare con sentenza del 17 marzo 2009;

- che il pregiudizio sub b si era concluso con una pronuncia dibattimentale di non doversi proecedere, sempre per intervenuta prescrizione sancito dal Tribunale di -OMISSIS- con sentenza del 11 marzo 2015;

ma, nondimeno, ha ravvisato nelle evidenze fattuali ivi desumibili elementi necessari e sufficienti per fondare un giudizio di “non coincidenza” tra l’interesse del ricorrente al conseguimento della cittadinanza e quello dell’ordinamento al suo stabile e definitivo inserimento nella comunità nazionale.

Sulla base di tali presupposti, l’autorità procedente ha denegato il richiesto provvedimento concessorio anche all’esito di rituale sub-procedimento ai sensi dell’ art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, nell’ambito del quale il ricorrente ha eccepito che le evidenze processuali sottostanti ai menzionati provvedimenti giurisdizionali ne avrebbero comunque dimostrato la estraneità quantomeno con riferimento alla vicenda definita con la sentenza del GUP del Tribunale di -OMISSIS- del 17 marzo 2009.

Avverso il sunnominato diniego è quindi insorto il ricorrente, articolando un unico mezzo di gravame con il quale ha contestato gli atti impugnati per violazione e falsa applicazione dell'art. 9 comma 1 della legge 5 maggio 1992 n. 91 nonché eccesso di potere per difetto di motivazione, istruttoria, contraddittorietà irrazionalità e ingiustizia in quanto, a suo dire, l’autorità procedente non avrebbe tenuto conto della risalenza dei fatti contestati dall’autorità inquirente – verificatisi nel 1998 – e, in ogni caso, della circostanza che essi comunque non sono mai oggetto di un definitivo accertamento giurisdizionale, in forza della loro sopravvenuta prescrizione così come sancita dal Tribunale di -OMISSIS-.

Il ricorrente altresì lamenta la mancata valutazione da parte dell’autorità della propria complessiva situazione personale, contraddistinta da una posizione lavorativa stabile tale da assicurare un reddito sufficiente ad una esistenza dignitosa per sé e il proprio nucleo familiare.

Unitamente al gravame il ricorrente ha formulato rituale istanza cautelare e in vista della celebrazione dell’udienza camerale di discussione (fissata al 27 febbraio 2018), si è pure costituita in giudizio l’amministrazione procedente, per il tramite dell’avvocatura erariale.

Con ordinanza del 28 febbraio 2018 n. 1117, questo Tribunale ha però denegato la richiesta tutela interinale rappresentando che il ricorso “ ad un sommario esame proprio della sede cautelare, non appare assistito dai prescritti requisiti per la concessione della richiesta misura cautelare, poiché, dagli elementi di valutazione acquisiti in corso di causa, non emergono profili che inducono ad una ragionevole previsione sull’esito favorevole del ricorso, in quanto il provvedimento di rigetto appare correttamente e congruamente motivato con il richiamo ai precedenti penali del ricorrente ”.

Nelle more della celebrazione dell’udienza di merito, la controversia ha registrato la rinuncia al mandato dell’originario difensore del ricorrente e la conseguente costituzione in giudizio di nuovi procuratori, i quali hanno anche depositato rituale memoria ai sensi dell’art. 73 del codice del processo amministrativo nell’ambito della quale, oltre a riportarsi alle censure articolate nel ricorso introduttivo, hanno eccepito l’inammissibilità della relazione istruttoria medio tempore depositata in giudizio dall’avvocatura erariale.

All’udienza pubblica del 24 ottobre 2022 – celebratasi secondo le speciali modalità previste dall’art. 17, comma 6, del D.L. n. 80 del 09 giugno 2021 - la causa è stata introitata per la decisione.

In primo luogo va respinta, siccome manifestamente infondata, la eccezione formulata dal ricorrente in sede di memoria conclusionale ove è stato chiesto a questo Collegio di dichiarare inammissibile la relazione istruttoria depositata dall’amministrazione intimata in data 22 luglio 2022 perché – a suo dire – redatta da un soggetto privo dello jus postulandi .

All’uopo il Collegio osserva che nell’ambito del presente giudizio l’amministrazione intimata risulta rappresentata e difesa dall’avvocatura erariale, ritualmente costituitasi con memoria depositata in data 8 febbraio 2018;
la contestata relazione, pertanto, non costituisce atto processuale (né, del resto, pretende di esserlo) ma, appunto, mera allegazione documentale che la parte pubblica ha scelto sottoporre al vaglio del Tribunale Amministrativo in quanto ritenuta rilevante ai fini del decidere.

In tal senso, pertanto, l’unica preclusione processuale astrattamente eccepibile nei confronti del sunnominato documento è quella della violazione dei termini perentori di cui all’art. 73 del codice del processo amministrativo i quali, però, al momento del relativo deposito non risultavano ancora spirati.

Venendo al merito, il ricorso è infondato e va respinto.

Al riguardo, il Collegio deve ripercorrere gli approdi della giurisprudenza amministrativa in materia, la quale è granitica nell’affermare:

- che l’amplissima discrezionalità dell’amministrazione nel procedimento di concessione della cittadinanza italiana si esplica in un potere valutativo che “ si traduce in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta ” (Cons. Stato, Sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913;
Cons. Stato, Sez. VI, n. 52 del 10 gennaio 2011;
Cons. Stato, Sez. VI, n. 282 del 26 gennaio 2010;
Tar Lazio, Sez. Seconda - quater n. 3547 del 18 aprile 2012);

- che “ l'interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, impone, infatti, che si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante ” (Tar Lazio, Sez. Seconda - quater n. 5565 del 4 giugno 2013);

- che “ trattandosi di esercizio di potere discrezionale da parte dell’amministrazione, il sindacato sulla valutazione compiuta dall'Amministrazione, non può che essere di natura estrinseca e formale;
non può spingersi, quindi, al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole
” (Consiglio di Stato Sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913;
Tar Lazio, Sez. Seconda - quater n. 5665 del 19 giugno 2012).

In particolare, il Collegio osserva quanto segue in merito alla natura del provvedimento di concessione della cittadinanza alla luce della giurisprudenza recentemente sintetizzata dalla Sezione (TAR Lazio, sez. V bis, n. 2943, 2944, 2947, 3018, 3471, 5130 del 2022).

Invero, l'acquisizione dello status di cittadino italiano per naturalizzazione è oggetto di un provvedimento di concessione, che presuppone un'amplissima discrezionalità in capo all'amministrazione, come si ricava dalla norma, attributiva del relativo potere, contenuta nell’art. 9, comma 1, della legge 5 maggio 1992 n. 91, ai sensi del quale la cittadinanza “può” essere concessa.

L’ampia discrezionalità in questo procedimento si esplica, in particolare, in un potere valutativo in ordine al definitivo inserimento dell'istante all'interno della comunità nazionale, in quanto al conferimento dello status civitatis è collegata una capacità giuridica speciale, propria del cittadino, che comporta non solo diritti – consistenti, sostanzialmente, nei “diritti politici” di elettorato attivo e passivo (che consente, mediante l’espressione del voto alle elezioni politiche, la partecipazione all’autodeterminazione della vita del Paese di cui si chiede di entrare a far parte), e nella possibilità di assunzione di cariche pubbliche – ma anche doveri nei confronti dello Stato-comunità, con implicazioni d’ordine politico-amministrativo;
si tratta infatti di determinazioni che rappresentano un'esplicazione del potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini (cfr. Consiglio di Stato, AG, n. 9/1999 del 10.6.1999;
sez. IV n. 798/1999;
n. 4460/2000;
n. 195/2005;
sez, I, 3.12.2008 n. 1796/08;
sez. VI, n. 3006/2011;
Sez. III, n. 6374/2018;
n. 1390/2019, n. 4121/2021;
TAR Lazio, Sez. II quater, n. 10588 e 10590 del 2012;
n. 3920/2013;
4199/2013).

Pertanto, l'interesse dell'istante a ottenere la cittadinanza deve necessariamente coniugarsi con l'interesse pubblico a inserire lo stesso a pieno titolo nella comunità nazionale.

E se si considera il particolare atteggiarsi di siffatto interesse pubblico, avente natura “composita”, in quanto teso alla tutela della sicurezza, della stabilità economico-sociale, del rispetto dell’identità nazionale, è facile comprendere il significativo condizionamento che ne deriva sul piano dell’agire del soggetto (il Ministero dell’Interno) alla cui cura lo stesso è affidato.

In questo quadro, pertanto, l’amministrazione procedente ha il compito di verificare che il soggetto istante sia in possesso delle qualità ritenute necessarie per ottenere la cittadinanza, quali l’assenza di precedenti penali, la sussistenza di redditi sufficienti a sostenersi, una condotta di vita che esprima integrazione sociale e rispetto dei valori di convivenza civile.

La concessione della cittadinanza deve rappresentare il suggello, sul piano giuridico, di un processo di integrazione che nei fatti sia già stato portato a compimento, la formalizzazione di una preesistente situazione di “cittadinanza sostanziale” che giustifica l’attribuzione dello status giuridico.

In tal modo, l'inserimento dello straniero nella comunità nazionale può avvenire (solo) quando l'amministrazione ritenga che quest'ultimo possieda ogni requisito atto a dimostrare la sua capacità di inserirsi in modo duraturo nella comunità, mediante un giudizio prognostico che escluda che il richiedente possa successivamente creare problemi all’ordine e alla sicurezza nazionale, disattendere le regole di civile convivenza ovvero violare i valori identitari dello Stato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. I ter, n. 3227/2021;
n. 12006/2021 e Sez. II quater, n. 12568/2009;
Cons. St., sez. III, n. 4121/2021;
n. 8233/2020;
n. 7122/2019;
n. 7036/2020;
n. 2131/2019;
n. 1930/2019;
n. 657/2017;
n. 2601/2015;
Sez. VI, n. 3103/2006;
n.798/1999).

Tanto chiarito sulla natura discrezionale del potere de quo, ne deriva che il sindacato giurisdizionale sulla valutazione compiuta dall'amministrazione – circa il completo inserimento o meno dello straniero nella comunità nazionale – non può spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole.

Ciò perché la giurisprudenza, dalla quale non vi è motivo per discostarsi, ha costantemente chiarito che, al cospetto dell’esercizio di un potere altamente discrezionale, come quello in esame, il sindacato del giudice amministrativo si esaurisce nel controllo del vizio di eccesso di potere, nelle particolari figure sintomatiche dell’inadeguatezza del procedimento istruttorio, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà, irragionevolezza della scelta adottata o difetto di motivazione, e non può estendersi all’autonoma valutazione delle circostanze di fatto e di diritto su cui fondare il giudizio di idoneità richiesto per l’acquisizione dello status di cittadino;
il vaglio giurisdizionale non può sconfinare, quindi, nell’esame del merito della scelta adottata, riservata all’autonoma valutazione discrezionale dell’amministrazione (ex multis, Cons. St., Sez. IV n. 6473/2021;
Sez. VI, n. 5913/2011;
n. 4862/2010;
n. 3456/2006;
TAR Lazio, Sez. I ter, n. 3226/2021, Sez. II quater, n. 5665/2012, Sez. V bis n. 6254/2022).

Con riferimento al caso di specie, il Collegio ritiene che l’amministrazione abbia valutato in maniera procedimentalmente corretta e non manifestamente illogica la complessiva situazione del ricorrente, attribuendo valenza ostativa alla presenza di condotte a lui ascrivibili che, ancorché lontane nel tempo e pure non consacrate da un definitivo accertamento giurisdizionale, sono di assoluto allarme sociale oltre che connotate da particolare efferatezza.

Invero, dette condotte senz’altro rilevano quale fatto storico di cui l’autorità procedente deve necessariamente tenere conto nell’ambito della particolare valutazione che connota l’esercizio del potere oggetto del presente giudizio, il quale non solo consta della verifica del pieno inserimento del richiedente nel tessuto sociale nazionale, ma contiene pure una valutazione prognostica basata su un giudizio di probabilità circa la stabile permanenza di siffatta condizione anche in futuro

Si tratta, all’evidenza, di una operazione complessa che si pone su un piano logico e giuridico distinto da quello squisitamente giudiziario le cui risultanze, quindi, incidono sulla valutazione della vicenda storica del richiedente in misura e con una pregnanza diversa a seconda non solo della tipologia di decisum adottato dall’autorità giurisdizionale (sentenza di non luogo a procedere, proscioglimento o condanna), ma anche delle ragioni che hanno determinato, in concreto, la singola decisione (es. originaria e/o sopravvenuta causa estintiva del reato;
venir meno di una condizione di procedibilità;
non imputabilità e/o non punibilità del reo;
ecc.).

Orbene, nella specie, a fronte di due pronunce di mero rito (non luogo a procedere e non doversi procedere), entrambe basate su una causa estintiva sopravvenuta quale la prescrizione del reato contestato, cui il ricorrente non ha neppure rinunciato, la valutazione dell’autorità procedente non poteva fare altro che concentrarsi sul fatto storico formalmente contestato dall’autorità inquirente, la cui particolare gravità ed efferatezza (sequestro di persona aggravata in concorso;
omicidio colposo;
sfruttamento aggravato della prostituzione;
violenza sessuale;
induzione aggravata alla prostituzione) imponeva un doveroso approfondimento istruttorio, a nulla rilevando la relativa risalenza nel tempo (1998).

In tal senso, correttamente l’autorità procedente ha avviato il sub-procedimento disciplinato dall’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, invitando il ricorrente a fornire memorie e documenti utili ai fini dell’adozione del provvedimento finale.

A parere del Collegio, è proprio nell’ambito di tale segmento procedimentale che sul ricorrente incombeva il potere-dovere di allegare tutto quanto necessario per consentire all’amministrazione una valutazione del fatto storico differente rispetto a quella preannunciata, a sua volta fondata sulle prospettazioni formulate nei propri confronti dall’autorità inquirente.

Dall’analisi della documentazione versata in atti, però, il Collegio osserva che in tale sede il ricorrente si è senz’altro sottratto a tale onere, insistendo sulla ritenuta rilevanza assorbente delle intervenute pronunce di estinzione del reato per prescrizione e limitandosi a riferire – peraltro de relato e senza alcun supporto documentale – il contenuto di una testimonianza registrata nel corso di uno solo dei due pregiudizi che lo avevano visto coinvolto (“ entrambi i procedimenti si sono conclusi per intervenuta prescrizione. In particolare in merito al procedimento conclusosi con sentenza n. 196/2009 per i retati di cui agli articoli 110, 605, 61 n. 2 c.p. la stessa persona offesa, in sede di escussione, rammostratole la fotografia, dichiarava di non conoscere il sig. K, escludendo in toto una responsabilità dello stesso. Inoltre, per entrambi i procedimenti, non è stata ravvista alcuna necessità, da parte del G.I.P. di concedere misure cautelari” ).

Tanto basta per rendere immune da censure l’operato dell’amministrazione procedente da parte di questo Collegio, specie ove si tenga conto dei limiti che connotano il relativo sindacato in subiecta materia.

Il provvedimento impugnato, infatti, risulta adottato nel rispetto delle prerogative procedimentali del ricorrente e non risulta affetto dalle figure sintomatiche dell’eccesso di potere concretamente riconducibili entro il perimetro del cd. “sindacato debole” del giudice amministrativo.

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